Nikolaj Leskov,”Il viaggiatore incantato”

Biblioteca Marsilio Ficino, Figline Valdarno , venerdì 28 febbraio 2020

conversazione di Angelo Australi, Giuseppe Baldassare, Teresa Paladin

In apertura lettura del capitolo II.

ANGELO AUSTRALI

Ecco, questo è il nostro viaggiatore incantato: Ivan Sever’janic Fljagin. Detto Testone.

Un monaco novizio di 50 anni, che viaggia, imbarcato in un battello, sul lago Ladoga, insieme ad un filosofo e un mercante, ai quali, per far passare il tempo, inizia a raccontare la storia della sua vita.

Come è stato appena letto, il monaco ucciso per sbaglio ricomparirà in sogno rivelandogli la promessa della madre e dicendogli che finché non si farà frate, passerà molte sciagure e soffrirà le pene dell’inferno, ma non morirà.

La particolarità della prosa di Leskov sta senza dubbio nell’uso dei dialoghi che seguono la tecnica del discorso diretto, estemporaneo, arricchito di volute trascuratezze e contaminato da un linguaggio intriso di magia, pieno di una paradossale e dissacrante ironia popolare. Un linguaggio che nasce dal basso, per dare intensità all’immediatezza narrativa.

Leskov fa nascere le proprie opere direttamente dalla tradizione orale, cercando di tenere vivo l’interesse dei lettori con continui scambi di battute in prima persona.

Questa impostazione del parlato e le descrizioni dei personaggi o del paesaggio, vivono e si formano solo perché ce li presenta nella loro spontanea visione del mondo, sembra senza un piano prestabilito, e senza un’eccessiva preoccupazione di quale sarà lo sviluppo del racconto stesso.

È uno scrittore che si rifà all’antica epicità della tradizione orale. E Ivan Sever’janic Fljagin un è narratore puro, che non smette mai di parlare, che ad ogni arresto dei suoi uditori per dei chiarimenti, anziché concludere si intruppa in nuove disavventure finendo per dilatare il tempo della narrazione e della vita.

Sembra lo stesso meccanismo utilizzato nelle Mille e una notte,dove il principeShahriyār costringe la principessa Shahrazād a raccontare ogni notte una favola pur di aver salva la vita. Ma anche quello utilizzato dal Boiardo nell’Orlando innamorato, del quale abbiamo parlato nel precedente incontro legato al nostro progetto, che si è svolto a gennaio.

Una tecnica antica di narrazione basata principalmente sulla capacità di convogliare all’interno di una trama usata come pretesto, tutta la tradizione di una cultura popolare che vive nelle sue tradizioni, usi e costumi.

In questo senso è illuminante il saggio di Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, scritto nel 1936, nell’individuare le diverse caratteristiche che esistono tra il narratore proveniente dalla tradizione orale e lo scrittore onnisciente, colui che scrive romanzi.

Nikolaj Leskov nasce a Gorochovo nel distretto di Orel il 4 febbraio del 1831 e muore a San Pietroburgo il 21 febbraio del 1895. Il viaggiatore incantato è stato scritto nel 1873.

L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i narratori. E fra quelli che hanno messo per iscritto le loro storie, i più grandi sono proprio quelli la cui scrittura si distingue meno dalla voce degli infiniti narratori anonimi”.

Per Benjamin con Leskov sembra terminare quest’antica tradizione del narratore epico sviluppatasi in Europa per oltre un millennio sulla memoria dei poemi omerici, a mio parere se ne ha però un segnale di continuazione oltre oceano, per esempio con Mark Twain ed il suo Tom Sawyer (1876), e soprattutto con Le avventure di Hucleberry Finn (1884). Anche là, oltre oceano, c’è un mondo di frontiera, lontano dall’Europa, tutto da scoprire, tutto da reinventare sui bisogni di una giovane nazione composta da gente di ogni razza. È quasi un nuovo Medioevo da cui ripartire, immaginando una tradizione espressa in un vissuto pratico, reale, noioso, ripetitivo fino all’assurdo, ma condiviso in ogni sua più piccola invenzione.

L’opera di Nikolaj Leskov, che ha iniziato a scrivere solo molto tardi (29 anni), da autodidatta, si può dividere in due fasi:

la prima più legata a temi religiosi, con i libri Senza vie d’uscita (1864), Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk (1865), Gli isolani (1865), La donna bellicosa (1866);

La seconda più legata ai temi della tradizione contadina, con i libri Gente di chiesa (1872), L’angelo sigillato (1872), Il viaggiatore incantato (1873), Il maestro del Toupet (1883).

Per gli interessi di orientamento religioso Leskov sembra avere delle affinità con Dostoevskij, mentre per quelli legati alla cultura contadina con Tolstoj.

TERESA PALADIN

Il viaggiatore incantato di Leskov: un romanzo che solo apparentemente è di genere avventuroso, costruito a scene concatenate che effettivamente creano una piacevole dipendenza del lettore, sempre teso a conoscere la nuova avventura o disavventura del protagonista, che racconta di sé con un tono incantato che incanta anche noi.

L’effetto che produce la narrazione è infatti di essere catturati in questo caleidoscopio che è il viaggio, quello in battello sul lago Ladoga, che ne contiene un altro, quello che ha compiuto questo interessante Ivan, questo “semplice e buono paladino russo, ma ardito e sicuro di sé” e dalla voce gradevole: è infatti in un clima di empatia e apertura mentale che egli racconta ai suoi compagni di viaggio, e a noi, le sue avventure/disavventure.

Il romanzo inizia con alcuni viaggiatori di questo battello che parlano tra loro. Il dibattere è sul tema del suicidio, meglio ancora, sul non diritto al perdono di Dio e degli uomini, sull’impossibilità a ricevere per i suicidi preghiere che possano accelerare l’entrata nel Regno dei Cieli. Non è un inizio banale: il tema del suicidio è grave, nell’ottica cristiana che caratterizza l’autore non si può però affrontare secondo la risposta tradizionale della Chiesa, ossia terra sconsacrata e nessuna benedizione.

Dal quinto-sesto secolo infatti i suicidi si vedevano negare una sepoltura cristiana, mentre il tentato suicidio poteva giungere a ricevere la scomunica. La tematica è quella di un’autoesclusione dal contesto umano cui segue l’esclusione anche da parte del contesto sociale: un atto che pone fuori dai confini della comunità e che implica un degrado della umanità e un’offesa alla legge divina.

Nei tempi moderni tutto ciò è stato superato, ma all’epoca in cui Leskov scrive la situazione è tale. Ebbene, Ivan interviene nella discussione: lui non accetta che nell’altro mondo non esista il perdono per i suicidi!

E racconta la storia del pretino licenziato perché pregava per loro e del sogno ammonitore del beato Sergio, apparso al metropolita di Mosca che ha esonerato il giovane prete dall’incarico proprio per tale motivo. Qui vediamo l’Impostazione religiosa di Leskov, non sottoposta a schemi tradizionali ma legata invece alla religiosità e all’interiorità del soggetto. Ed è proprio questa discussione che ben apre e introduce a quel clima di intensa umanità di tutto il romanzo.

C’è un aspetto sacro della vita che non si può negare a nessuno: in questo Ivan è profondamente, potremmo dire, interculturale. Lo vediamo da tutta una serie di incontri con persone di diversa appartenenza sociale, cultura ma soprattutto etnia: caucasici, asiatici, russi di tutte le provenienze, popolazioni di tutti i tipi, strati sociali diversi, perfino principi e con tutti riesce a stabilire una comunicazione efficace, talora una collaborazione fattiva, in ogni caso sempre un contatto e un dialogo, non badando al proprio interesse, in una forma di multiculturalità che oggi piace.

Va notato che è un personaggio complesso Ivan, sicuramente aperto agli altri e molto moderno, al punto che appare quasi incredibile che possa essere stato immaginato nella seconda metà dell’Ottocento.

Dopo il racconto circa il pretino moscovita troviamo la domanda fondamentale su cui è costruita la narrazione: Ma voi quale ritenete che sia la vostra vocazione?”.

Non a caso gli viene fatto inizialmente questa domanda: sfuggire alla propria vocazione non si può e nel caso di Ivan ribellarsi ha significato andare incontro a molte sofferenze e trovarsi sempre in situazioni estreme.

Ma per rispondere a questa domanda Leskov impiega tutto il romanzo.

C’è un percorso di costruzione del personaggio mentre le sue innumerevoli avventure/disavventure scorrono nelle pagine: penso che questo viaggiare nello spazio sia anche una grande parabola della ricerca di se’, del senso e del sentimento della vita. La storia di questo personaggio letterario ci rivela infatti un processo di formazione centrato sul mondo dei sentimenti e della coscienza di sé.

La sua vocazione certa è l’essere conoscitore di cavalli; la capacità di domare cavalli è un segreto impossibile da svelare perché è un dono della natura e per due volte nel romanzo provano inutilmente a carpirgli il segreto.

Ivan lo troviamo che già a 11 anni segue il padre nel suo mestiere di cocchiere al servizio del conte ma, grazie a una sua marachella, provocherà la morte a un novizio dormiente su un carro. In questo momento è un ragazzo anaffettivo, almeno così appare: non c’è dolore per la morte del novizio e nel testo si legge che suo padre “mi picchiò con la frusta sulle brache …e con questo la faccenda fu finita”. Ma né una parola né una lacrima vengono spese. Non c’è cattiveria, si tratta di una forma di incoscienza: Ivan ha un attaccamento alla vita istintivo ed elementare, che deve ancora svilupparsi, i sentimenti individuali ancora non hanno spazio. Anche il senso di colpa per ora non c’è, emergerà dopo.

Poi il sogno rivelatore: il novizio ucciso gli svela, per volontà della madre, la sua vocazione: il giovane Ivan figlio pregato èanche figlio promesso, dovrà quindi farsi monaco e sfuggire a questa vocazione non si può, mentre ribellarsi ad essa significa soffrire: in questo caso dovrà “molte volte perire e mai accadrà”, fino alla sciagura più forte che lo farà diventare frate.

Il giovane disinvoltamente accetta la cosa e preferisce aspettare….e cominciano le disavventure.

A 11 anni, nel ritorno da un altro viaggio, il morso si rompe e l’attacco pure, i cavalli finiscono nel precipizio, lui sulla punta del timone si blocca davanti al precipizio, poi cade sull’argilla… ”una forza invisibile ti ha salvato”. Mentre i cavalli sono morti, lui ha salvato il conte e come ricompensa chiede un’armonica, ma il tutto senza emozioni particolari, come se la vicenda fosse del tutto all’interno di una comune evenienza.

A questo giovane totalmente anaffettivo il sentimento comincia a destarsi quando, nel quarto capitolo, incontra un uomo che cerca una balia per la sua piccolina: la moglie è scappata con un ufficiale: così, con la capra per l’allattamento e la bimba, passerà le sue giornate. La bimba “era così piccola e così sudicia, miserevole” racconta: qui per la prima volta emerge la compassione.

E lui si occupa tutto il giorno di lei “. Come dirà: “la mia bambina… cresce”. E solo lui,non il padre, si accorge che le gambine sono storte; anche qui torna il sogno del monaco e si affaccia la noia, come mancanza di eventi interessanti. Una noia che si ripresenta a più riprese, soprattutto nelle steppe dei tartari (dieci anni di noia), e lo accompagna nel suo girovagare per almeno 2/3 del romanzo.

Poi incontra casualmente la madre della bimba e ascolta la sua storia mentre prova le sue prime emozioni di empatia, di compassione per un adulto ma non al punto di diventare disonesto; pur sentendo che la storia è grave e dolorosa, non si lascia comprare dai 1.00 rubli dell’ufficiale, che chiama “fogli” e non accetta infatti di consegnare la bambina perché il suo compito è quello di custodirla. Vorrebbe anche obbedire al suo padrone, che arriva in quel momento e gli chiede di trattenerli. Ma lui non sa come fare e quindi fugge lasciando al padrone la capra, i soldi e il suo passaporto. “A nessun patto ho mai potuto ingannare la persona a cui ero a servizio”.

Qui emerge una caratteristica fondante di Ivan: l’incorruttibilità.

Il tema dell’onestà lo accompagna come sentimento di rispetto nei confronti dell’impegno preso. Non esclude però la ribellione (il personaggio è un “puro”, non un allocco): quando ruba i cavalli al conte lo fa perché non vuole più stare, ingiustamente punito, carponi a spezzare pietre e ciottoli e solo per suggerimento dello zingaro col quale fugge, che però abbandona subito dopo perché lo zingaro lo deruba nella spartizione della vendita dei cavalli ed è quindi disonesto.

Nel capitolo quinto emerge non tanto la bravura di Ivan, come fino ad ora nella narrazione,ma il sentimento di stupore di fronte alla bellezza del cavallo, l’ammirazione per la statuaria bellezza del cavallo. L’unica forma di bellezza che Ivan conosca!

Ci sono scene all’interno del romanzo che sono come dei racconti spettacolari; uno è quello della giumenta bianca e del can che la possiede: la descrizione della cavalla arriva ad essere sensuale, sembra in certi tratti quella di una donna!

Quando la cavalla è venduta dopo il duello a colpi di scudiscio, Ivan sceglie di battersi per un cavallo al posto dell’ufficiale ma l’altro aspirante acquirente muore. Per i tartari non è un problema ma secondo la legge cristiana deve essere giudicato: per i russi è omicidio!

Inizia così la sua permanenza presso i tartari che sono un popolo ospitale: si curano di lui e gli danno una, poi una seconda moglie. I tartari sono giudicati come brava gente, non gli hanno riservato un trattamento indegno: lui si sdebita medicando i cavalli e aiutando le donne con erbe curative. I “miscredenti dei tartari” non li accusa nemmeno per quello che gli hanno fatto ai piedi – glieli hanno incrinati – perché loro hanno queste usanze.

Dopo molti anni fuggirà, non prima però di aver sperimentato un nuovo sentimento, il dolore che più che fisico è del cuore,

E’ struggimento e nostalgia della propria terra, è dolore della lontananza dai propri riti, dalle abitudini, culturali e religiose, dal paesaggio, dalla propria gente. Qui vive l’angoscia, al punto che neanche i figli avuti li sente suoi e la notte piange in passaggi davvero commoventi.

Mi preme sottolineare un elemento: nei confronti dei tartari, popolazione che viveva in stato seminomade sotto le tende e sicuramente arretrata rispetto alla grande Russia, non emerge un sentimento di superiorità, ma soltanto l’attaccamento alle proprie origini!

In seguito si sposta presso un altro can, un’altra tribù residente nel Caspio, dove ha altre mogli e figli, ma il tema, il sentimento dell’amore non c’è, né per le mogli né con la prole; i figli non li sente suoi perché non sono stati battezzati. La percezione che emerge nei loro confronti è invece la tenerezza e resta nel frattempo dominante il tema della forte nostalgia per la terra d’origine. Suggestivo il passaggio in cui capisce perché il suo prete pregasse per i “prigionieri”, di cui sente di far parte.

Curioso del mondo, pronto ai cambiamenti, capace di dialogare con chiunque, Ivan comprende la mentalità dei tartari, a differenza dei monaci evangelizzatori che verranno uccisi mentre lui no, anzi, riuscirà con la sua astuzia psicologica a fuggire, ma sempre perché lui i tartari li conosce.

Interessante notare, e qui emerge il pensiero di Leskov, che quelli con cui non riesce a entrare in sintonia sono proprio i monaci russi che non lo aiuteranno a fuggire, tutti presi dal loro dovere di evangelizzazione e che, per togliersi dagli impicci, affermano che “in Cristo non si danno né giudei né elleni, per noi son tutti uguali”.

Il protagonista quando ha subito una grave lesione dai tartari, come abbiamo visto, non li ha giudicati. Il giudizio contro i tartari viene fuori quando torturano e uccidono i due monaci; qui emerge in Ivan un giudizio, dirà che sono dei “briganti” e che con loro i metodi pacifici non funzionano.

Divenuto più accorto, alla fine di una serie di vicissitudini li battezza e fugge, dopo aver astutamente guarito i suoi piedi. E troveremo maggiore accortezza e prudenza anche nei futuri incontri.

Fino a quando decide di tornare dal vecchio conte dove lo attende un’altra sorpresa: non c’è posto per lui perché in confessione gli è stata comminata per tre anni l’impossibilità di comunicarsi. È quindi escluso momentaneamente (non per sempre, come per i suicidi) dalla comunione sociale, nell’ottica del conte; viene così frustrato, prende il suo passaporto e se ne va felice.

La questione del sentimento riemerge nel capitolo tredicesimoe seguentiquando è nella taverna degli zingari: appena entra la voce tenuissima e soave di una giovane lo attira e lui la descrive con parole di stupore e timore: “Non è una donna, è una serpe lucente, batte la coda e si piega tutta con la vita, e dagli occhi neri manda fuoco bruciante”. E per la prima volta pensa: “eccola dov’è la vera bellezza che è chiamata perfezione di natura: qui non è come nel cavallo, in una bestia venale!”.

In questo momento abbiamo la scoperta della bellezza femminile e lui ne sperimenta il fascino: si emoziona per la sensualità della bellezza, la scoperta della donna acquista toni allusivi all’amore sensuale, al potere attrattivo della fisicità: è un sentimento del tutto platonico, ma intensamente espresso e in questo rapimento scopre per la prima volta il sentimento dell’orgoglio maschile. Non vuole che gli altri pensino che siccome hanno più soldi, abbiano anche più sentimento di lui, non vuole coprirsi di vergogna e umiliarsi.

Pensa che fare uno scarso omaggio in denaro sia indegno di tutta quella bellezza e nel gioco della danza sperpera tutto.

Esattamente come il principe. Vi è una sorta di democrazia parallela tra i due personaggi, sottomessi allo stessa sorte e identici di fronte a questa ragazza…. Il principe però se ne è invaghito e Ivan scoprirà che ha dato 50.000 rubli per poterla avere.

Qui c’è un deciso ribaltamento di prospettiva: uno zingaro lo aiuta, lui ragazzino, a uscire dalle grinfie del conte ma in quel momento della storia Ivan afferma che gli zingari non gli piacciono e che non si fida di loro: infatti il suo aiutante si rivela un ladro e lo deruba.

Invece questa zingara gli piace, è diventata l’emblema della bellezza e della perfezione della natura: in questo passaggio Ivan supera il sentimento di ostilità e il pregiudizio precedente sugli zingari.

Con questa zingara lui sta volentieri in compagnia e quando la ritrova sconsolata nel bosco, il giorno del matrimonio del principe di cui nel frattempo, si accora e le propone di poter trascorrere il resto della sua vita con lei, da fratello e sorella, assistendosi vicendevolmente. Il tema dell’amore fraterno emerge potente, l’esigenza di uscire dalla propria e, fino ad allora accettata, solitudine esistenziale in nome di un sentimento fraterno e familiare.

Ma Grusa di nuovo riporterà la trama al tema del suicidio: non vuole uccidere per gelosia la moglie del suo amato conte e nemmeno ammazzarsi per non dannarsi l’anima, quindi chiede a Ivan di ucciderla. E lui comprende questa necessità ma lo fa senza sangue, facendola annegare. Lui quindi è affettivamente legato a lei e compie questo gesto possiamo dire per amore, anche se dalla sua bocca questa parola uscirà solo successivamente.

Alla fine di tante disavventure, quando anche l’ultimo lavoro di attore va male, si realizza l’ammonimento del monaco in sogno e giungerà in convento, ma la nuova realtà non è come effettivamente lui la pensasse in precedenza. Ivan racconta a noi viaggiatori incantati che in convento si trova bene e ama la vita monastica.

Si chiude qui il processo di formazione di Ivan che finalmente sperimenta l’amore per uno stile di vita senza imprevisti e che gli permette di tornare a fare il suo mestiere, che è un dono di natura: il cocchiere! Del convento ama la tranquillità e l’organizzazione, “i superiori vigilano su di lui” e lui vive in sicurezza e nell’obbedienza dovuta ad essi.

Qui il lettore scopre incredibilmente che Ivan è molto contento della sua obbedienza che gli garantisce di vivere tranquillo. Questa docilità, questa flessibilità comportamentale del resto Ivan l’ha sempre avuta: in tutte le sue disavventure non è stato lui a scegliere, ma l’incontro con qualcuno ha sempre permesso una certa evoluzione del suo percorso di vita: tra zingari, nobili, ragazze, tartari qualcuno gli ha sempre proposto una strada e lui l’ha accettata senza obiettare.

Ma se prima le sue scelte erano seguire chi aveva incontrato e al momento propizio andare altrove o fuggire, ora Ivan è in grado di fare una scelta personale e di decidere di sé. La scelta del convento non è uguale alle precedenti: è lui che determina il suo destino.

Riaffiora così inevitabilmente il tema da cui si era partiti, con il racconto del suicidio e dell’impossibilità del perdono: aspetto che alla fine, in convento, si ripropone però in chiave quasi boccaccesca, per la credulità ingenua di questi frati che vedono la notte l’anima dell’ebreo suicida non darsi pace, mentre in realtà era la vacca del convento. E’ chiaro che con questo fatto è Leskov stavolta, non più Ivan, a dirci come la pensa. Indicativo che Leskov metta la cosa in parodia proprio perché il non perdono non è questione da porsi che comicamente.

Per Ivan, che ama la vita del convento, abbiamo trovato la risposta alla domanda iniziale su quale fosse la sua vocazione.

Ma davvero il cerchio è chiuso e smette il suo girovagare? Il problema della vocazione di Ivan, del suo destino si è esaurito? No, ci dice Leskov che ci presenta l’ultima sorpresa.

Infatti come è cominciato il romanzo? Sul lago Ladoga in un battello.

Qual è ora il destino di Ivan? Ha cominciato un nuovo girovagare in pellegrinaggio a certi luoghi santi in obbedienza ai suoi superiori. Perché nella fossa in cui è stato precedentemente collocato per punizione ha pregato per avere un nuovo spirito, una nuova “personalità” potremmo dire che ha letto le scritture, soprattutto il passo “allorché tutti diranno pace e sicurezza, inopinata cadrà su loro la rovina universale”. Da quel momento comincia a profetare e annuncia lo scoppio di una prossima guerra, un disastro che porterà lo zar di fronte a grandi nemici.

E così invita tutti i fratelli monaci a pregare per la Russia e per lo zar, che non debba soccombere.

Possiamo dunque concludere questa presentazione riflettendo sul personaggio.

Chi è Ivan per il conte? “Ivan testone”: “uomo molto sciocco ma d’oro, onesto e coscienzioso”.

Chi è Ivan per i monaci? Il medico racconta loro che non si poteva sapere se era un bravuomo o un uscito di senno, o un profeta. Occorreva buttarlo fuori dal convento a fare un giro.

Chi è Ivan per i viaggiatori’ Uno che sa che presto bisognerà fare la guerra e quando arriverà lui lascerà la tonaca per prendere le armi. E nessuno di fronte alla sua serietà lo interroga più.

Chi è Ivan per Leskov? Alla fine del romanzo si legge che “la sua anima semplice si era aperta e che le sue predizioni dimorano in Chi nasconde i propri decreti agli uomini di senno e di ragione e soltanto li svela talora agli infanti”.

Possiamo aggiungere che una grande guerra dopo qualche decennio arriverà e che per lo zar ci sarà quella fine di cui Ivan aveva profetato.

GIUSEPPE BALDASSARRE

Sensazione strana quella di un occasionale lettore italiano del Viaggiatore incantato di Nicolaj Leskov in questo 2020 da poco iniziato. Non diversa da quella di chi inciampa in un ciottolo d’oro: puro, lucente, pesante. Portato lì dalla casualità di uno smottamento, di uno scavo provocato dalle acque. Il terreno intorno pare che potrebbe sorprendere, a scavarlo, con un filone appena sotto la superficie. Ma non a mani nude; non ci sono i mezzi per portarlo allo scoperto. Almeno nell’immediato. La ricerca in biblioteca, fuor di metafora, fornisce altri piccoli gioielli di Leskov, ma un paio di volumi più ponderosi restano protetti dalla lingua originaria, lingua che, dalla traduzione di questo racconto lungo, si indovina mimetica, efficace, scoppiettante. Ma resta come in una teca di vetro, per me che non conosco il russo. A parte riuscire a decifrare l’alfabeto, il cirillico, che proviene dal greco: lingua difficile anche questa, ma che ho studiato e insegnato al liceo.

Continuando nel paragone: Graecum est, non legitur (è greco, non si legge), troviamo scritto nei manoscritti medievali latini. Oppure, allarghiamo ancora la digressione storico-filologica: in testi latini con parole greche, tantissimi a partire dal I a. C., sappiamo che il copista del latino spesso tralasciava le parole greche e lasciava lo spazio che poi sarebbe stato riempito da altro copista esperto di greco. Se per qualche accidente questo non interveniva lo studioso trova pagine in cui resta lo spazio vuoto delle parole greche non ancora scritte.

Dante non conosceva il greco, ma conosceva gli autori greci che erano stati tradotti in latino dagli antichi. Petrarca sapeva solo decifrare l’alfabeto ma non capiva la lingua. Aveva un Omero completo e, dice lui stesso, forse con autocompiacimento intellettuale ma comunque con efficace immagine poetica, che lo stringeva al petto e piangeva.

Boccaccio ebbe modo di imparare il greco da Leonzio Pilato, uno studioso proveniente dalla Calabria. Poi nel Quattrocento a Firenze e Venezia ci furono fior di maestri, come Demetrio Calcondila e Manuele Crisolora ed altri conoscitori della lingua e della cultura letteraria greca, provenienti dall’Oriente, dove gli autori greci classici continuavano a essere studiati, nelle scuole di retorica e di filosofia e alla corte di Bisanzio, almeno fino alla caduta della città nel 1453.

La letteratura russa non ha nel processo di incivilimento dell’anima (modo di sentire e di pensare) occidentale la stessa importanza del mondo greco classico, ma anche alcuni autori russi, concentrati in poco più di un paio di recenti secoli, hanno prodotto capolavori, indispensabili alla formazione culturale di ognuno di noi. Solo un paio di titoli: Anna Karenina di Tolstoj e I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Con che passione da adolescenti li abbiamo letti e ne abbiamo parlato a lungo in conversazioni ricorrenti, mescolate al vissuto quotidiano.

Certo basterebbe questo per dedicarsi allo studio della lingua russa. Come nel mondo fanno con l’italiano per poter leggere Dante in originale. Almeno leggere e capire. Ma le cose da fare nel percorso della vita sono tante. Alcune si scelgono, molte si impongono da sé.

Tornando a Leskov: questo Viaggiatore incantato è racconto vivace, sorprendente, avvincente, nella sua molteplicità di situazioni, aspetti antropologici, vivacità linguistica.

Per questo, pur apprezzando l’ottimo lavoro di Tommaso Landolfi, traduttore in un italiano ottimo ed efficace, si sente rammarico di non poter avvicinarsi direttamente all’originale.

Pagine come quelle dell’addomesticamento di un cavallo caparbio, della sfida a frustate tra due contendenti che vogliono accaparrarsi una bellissima cavalla o della descrizione lirica della steppa e altre in cui appare tutta l’anima della sconfinata terra russa, convincono che ci troviamo di fronte a un grande narratore. ‘Non ho studiato a scuola ma nei barconi di Scott’, diceva di sé l’autore. Aveva traversato in lungo e largo la Russia quando da giovane lavorava come commesso viaggiatore per un commerciante inglese di nome Scott. E aveva avuto modo di conoscere la popolazione russa, i cui sentimenti, la cui cultura cerca di esprimere nelle sue opere, con il gusto del fabulatore, con un linguaggio vario e mimetico. Come qui, nel Viaggiatore incantato.

Si vorrebbe conoscere di più dell’autore, ma soprattutto leggere di più. Anche perché ho trovato che l’edizione in originale di tutte le opere di Leskov consiste in 36 volumi (Pietroburgo 1902-1933) o in 11 volumi (Mosca 1956-58).

Tommaso Landolfi, si legge nella nota della figlia Idolina, riportata nell’edizione Adelphi, era stato invitato da Einaudi a fare una traduzione delle opere più importanti di Leskov, ma egli non aveva grande simpatia per questo autore russo, preferendone altri. Per cui l’ottima traduzione del Viaggiatore incantato, compiuta anche in poco tempo, ci regala una perla, da cui ci facciamo un’idea di come sarebbe potuto essere una omnia leskoviana prodotta dal nostro fine scrittore-traduttore. Ci consola in parte la possibilità di poter leggere di Landolfi la raccolta di saggi critici e biografici raccolti nel volume I Russi, edito anche questo da Adelphi.

Ci sono situazioni in cui bere un sorso d’acqua buonissima dà soddisfazione immediata e intanto lascia ancora più sete di prima. Così mi pare succeda con questo Viaggiatore incantato.

10 pensieri su “Nikolaj Leskov,”Il viaggiatore incantato”

  1. A me slavista lascia un po’ interdetto il fatto che (tranne Landolfi che era si un traduttore raffinato, ma non uno specialista e talvolta datato come tradurttore se paragonato a A. M. Ripellino), che nessun altro traduttore o slavista venga menzionato. Questo a mio parere è grave . Non pretendo certo un elenco di tutti gli slavisti italiani e stranieri che si interessarono di Leskov, ma almeno quelli più noti e anche valenti. Ne avrei menzionato poiché scrissero pagine importanti su Leskov il polonista Giovanni Maver, E. Lo Gatto, R. Picchio A. M. Ripellino, P. Zveteremich, Danilo Cavaion, C. De Michelis, Colucci e tante valenti slaviste, p.e. S. Vitale, A. D’Amelia, C. Graziadei , per non dire delle slaviste d’oltralpe ecc.
    Avrei menzionato alcuni formalisti e costruttivisti russi e altri studiosi stranieri di quell’epoca, in primi polacchi e cechi, ecc.
    Menzionato non tutti ovviamente ma di certo almeno qualcuno di questi, diciamo due o tre al massimo.
    Avrei, a parte Dostoevskij e Tolstoj sempre citatissimi e talvolta a vanvera, i poeti e gli scrittori minori del tempo di Leskov. Minori sempre da non sottovalutare e taluno amico di questi o mentore, memorialista.
    Certo W. Benjamin come critico non slavo, ma dello stesso valore ve ne furono tanti in Europa.
    Come dire uno slavista non si sarebbe limitato a riferire ” l’edizione in originale di tutte le opere di Leskov consiste in 36 volumi (Pietroburgo 1902-1933) o in 11 volumi (Osca 1956-58), senza riferire il resto e cioè gli studiosi che curarono queste edizioni.
    Posso dire altro sinteticamente, ma basta. E me ne scuso.
    Antonio Sagredo

  2. …qualche anno fa mi capito’ in casa un libro dello stesso autore, Nikolaj Leskov, “L’Angelo Suggellato”, un racconto tra fiaba e realtà vicino alle tradizioni popolari e contadine del popolo russo…Un racconto che, leggendo ora l’introduzione e i vari commenti su “il viaggiatore incantato”, rivela i temi ricorrenti dell”autore: i viaggiatori-viandanti di una terra sterminata, che si incontrano i una notte di bufera di neve in una locanda, già strapiena -si dorme per terra o distesi sull’enorme stufa- dove si aggiunge un misterioso viaggiatore, perso nella tormenta, che racconta, dialogando, le sue straordinarie vicende… la tradizione delle preziose icone sacre trasportate su carri come patrimonio familiare e talismatico da cui non separarsi mai…maledizioni e miracoli
    la narrazione di luoghi sempre un po’ al confine dove si ritrovano diseredati, gente senza radici, un po’ come nei racconti di Joseph Roth…Bella la scelta dell’autore, grazie

  3. (scusate se non metto gli accenti nei noni di autori russi)
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    Gentiile Anna, hai mirato con poche parole questa atmosfera, certo ricorrente in Leskov più volte, ma dietro l’autore – indietro nel tempo e già prima di Puskin e fermandomi a metà ‘700 la ritroviamo nei poeti Derzavin e Zukovskij. Puskin nobilita questa figura del viandante notturno, fuggiasco o non, tenebroso talvolta – ma gli archetipi di queso “passeggero” si perdono nelle antighe saghe popolari, non solo slave. Col poeta Lermontov questo personaggio che non ha requie e che vaga talvolta senza uma meta da raggiungere genera nella letteratura russa una “caratteristica” dell’animo russo e lo ritroviamo, quasi demoniaco, nel “Maestro e la Margherita”: è “l’inaspettato” (come in Gogol’), talvolta è un assassino o quasi in Dotoevskij, ecc.
    Quindi questo viandante non è sempre una figura, diciamo positiva. Nei poeti sombolisti russi si camuffa da apostolo, da messsaggero di una nuova epoca; e durante il periodo stalinista da agente del KGB che di notte ti visita per prelevarti.
    Insomma questo viandante cambia di vestito secondo le epoche… in Majakovskij spesso è un burlone, un clown circense che rccontava e raccontava fandonie per distogliersi dalla realtà crudele ; oppure si presentava come “uomo nero” in Esenin, ecc.
    Ma a conti fatti restiamo a Leskov, cioeè in un ambiente saturo di calore religioso, contadino ecc. ,ristretto e relativo a una circostanza specifica, prima che giungano tempi torbidi che già in parte erano presenti durante lo zarismo, e poi…
    si sono scritte migliaia di pagine, migliaia e questo errante passeggero viandante è ancora vivo… fu presente assiduo nel teatro e nella cinematografia mute e poi parlata fin negli scrittori della seconda metà del ‘900.
    I poeti russisi sono sempre identificati con questa figura e l’esempio più fulgido fu l’errabondo Chlebnikov.

  4. …grazie, Antonio Sagredo, per questa bella lezione di letteratura slava. Riguardo alla figura del viandante notturno che vaga in terre sconfinate e desolate, cercando accoglienza e protezione ( comprensione, accettazine), magari per un tempo breve -risospinto dal destino e dalla sua stessa natura di “diverso” lontano dalla sicurezza del mondo “strutturato”- mi sembra una presenza ricorrente in tutte le epoche e latitudini…Una presenza che incute generalmente paura perchè, credo, ci ricorda l'”altro” che c’è in noi e che prima o poi ci tocca”. Cosi’ quando il “mostro” arriva, vuoi pandemia o guerra, finiamo per sentirci meno “diversi” dei “diversi” …

  5. Gentile Antonio Sagredo,
    non deve scusarsi, anzi la ringrazio di questa sua nota, da un certo punto di vista ha pienamente ragione nel farci questa tirata di orecchie perché dalla nostra conversazione su Leskov non sia emerso il rapporto tra l’autore e i vari slavisti che lo hanno tradotto o se ne sono interessati. Tra l’altro, almeno per quanto mi riguarda, avendo letto altre opere di Leskov proprio nella traduzione di Ettore Lo Gatto (il racconto “Lo scacciadiavolo” e il romanzo “I preti di Storgorod”), e di Laura Brandolini (“Una lady Macbeth del distretto di Mcensk”), e conoscendo Angelo Maria Ripellino almeno per due libri: “Praga magica” e “Letteratura come itinerario nel meraviglio”, quest’ultimo composto da tutti saggi su poeti e scrittori russi, con dedica proprio a Lo Gatto. E conoscendo e apprezzando molto il lavoro di Serena Vitale.
    In realtà l’intento della nostra iniziativa è quello di rileggere oggi alcuni romanzi e/o racconti che possano avvicinarci a una tradizione di narratori che, invece di privilegiarla, utilizza la trama come un pretesto per lasciarsi conquistare dal fascino di un linguaggio che a modo suo diviene speculativo, riesce a metterci come lettori di fronte a situazioni assurde, come nel libro di Albert Cossery “I fannulloni nella valle fertile”(presentato precedentemente a “Il viaggiatore incantato”), o di confine, ma strettamente legate alla tradizione popolare come in Leskov, sempre in bilico tra magia e religiosità estrema, o di un maestro della divagazione come Sterne (purtroppo l’incontro sul suo “Tristram Shandy” in programma per il 27 marzo, a causa di questa situazione pandemica, è stato sospeso; speriamo di poterlo riprogrammare a settembre).
    Senza cercare giustificazioni quindi, perché non si tratta di convegni per addetti ai lavori – cosa che non saremmo in grado assolutamente di fare, almeno per quanto riguarda gli autori russi, o stranieri in genere – ma di brevi conversazioni di un’ora, un’ora e mezzo, fatte per un pubblico di lettori che chiede di conoscere almeno alcuni scrittori importanti di cui si parla sempre di meno, che chiede di andare più in là dei soliti contemporanei fissi in vetta alla classiche dei più venduti. E in questo senso che ci è sembrato giusto riproporre “Il viaggiatore incantato”, nella traduzione di Landolfi.

    Angelo Australi

  6. Gentile Australi,

    la mia non è stata una “tiratina d’orecchia”, ma una precisazione, anche benevola perché è sempre da lodare una iniziativa come la Vostra,che non da taluni slavisti di professione, che spesso hanno perduto l’amore e la passione iniziale verso le “cose” slave.
    Benevola perché esistono slavisti “cattivi”, quelli che io definisco presuntuosi – che credono di sapere tutto del mondo slavo – ma che poi al confronto con Ripellino e altri (i cui nomi ho citato) sono dei nani. Tra l’altro i meriti di questo (mio) maestro erano tantissimi e tutti di altissimo profilo: non era soltanto un russista, era un boemista, polonista, ecc., insomma essere slavista vuole significare sapere e benissimo tutte le altre culture europee, e non solo: anche le altre lingue.
    E di quei nani ne ho conosciuto parecchi, taluni tacitati subito da me, altri tacitati da “benevoli” colleghi, e tutto ciò durante incontri e conferenze varie. Ripellino li tacitava coi suoi splendidi saggi; p.e. Vi esorto a leggere il suo saggio introduttivo alle poesie di Chlebnikov.

    antonio sagredo

    1. Gentile Antonio Sagredo, neanche quel “tiratina d’orecchie” era in senso polemico, nel nostro piccolo cerchiamo di far circolare la letteratura, solo questo.
      Mi riprometto di leggere l’introduzione di Ripellino alle poesie di Chlebnikov.

  7. Bene, e poi mi dica cosa ne pensa – credo che debba diffondere questo saggio ai suoi amici e colleghi perché Chlebnikov è ritenuto (non amo le gerachie) il più grande del secolo trascorso, in primis da chi lo conobbe personalmente (e che io ebbi il grande onore di conoscerlo nei primi anni ’70), Roman Jakobson – come conobbi poco più tardi Viktor Sklovskij-
    buona lettura
    A.S.

  8. Per soddisfare i Vostri orizzonti (il “gruppo” Australi e altri ) di “curiosità culturali” consiglio la lettura dei poeti polacchi (sono decine e decine) e di altri autori dell’area slava (russi , cechi ecc.) nelle traduzioni dell’amico slavista Paolo Statuti – massimo polonista – —- il suo blog : “un’anima e tre ali” – … egli sarebbe ben felice che ai suoi lettori abituali aggiungeste i
    Vostri nomi…
    è intervenuto varie volte in Poliscritture coi suoi lavori

    a. s.

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