Riordinadiario. Su Rossanda

di Ennio Abate

Ho letto poche ore fa la notizia: “È morta, la notte scorsa, Rossana Rossanda. Giornalista, scrittrice, cofondatrice de Il Manifesto, ha attraversato da protagonista la vita della sinistra e dell’intero paese da Dopoguerra in poi. Aveva 96 anni”. (Gli Stati generali su Facebook). Nei prossimi giorni leggerò altri ricordi e giudizi su di lei e li mediterò. Per me resta l’amica/sorella antagonista di Fortini e considero gli scritti di entrambi indispensabili per indagare l’enigma tragico del comunismo. Qui sotto alcuni appunti del mio diario in cui ricorre il suo nome.[E. A.]



5 gennaio 1979

A Milano: convegno sulle società postrivoluzionarie

Una relazione angosciata e classica nel suo illuminismo di Rossanda. Mia sensazione che le cose siano andate ancora peggio e in modi più brutali di quanto lei dica.

4 novembre 1989

IL CONGRESSO DELLA LEGA AMBIENTE NAVIGA TRA POLITICA E INDUSTRIA

mirano alI’ecosviluppo possibile
amano-odiano un ministro/ il potere
lasciano dimettere la nonnina scienziata/[1]
che li ha allevati/ e che vorrebbe/ ancora!/ farli studiare/
hanno imparato la loro verità/
che senza contributi economici dei privati/ non si arriva sui giornali/
 
l'umiltà la chiedono alla Rossanda/
che li critica
non agli industriali/ che li coccolano/

[1] Laura Conti

26 dicembre 2004

Leggendo «Non c’è più religione» di Michele Ranchetti

Il pubblico  che incontra è di gente   che spera ancora di trovare nella Chiesa «un’alleanza e una guida» (5). Ranchetti è sgomento: anche i suoi volenterosi interlocutori hanno dimenticato gli «elementi fondamentali della religione cristiana come l’incarnazione e l’eucaristia, diseducati da tutto il processo storico che ha portato, attraverso il magistero della chiesa, a ridurre la religione cristiana a «norma di comportamento borghese», e cioè ad una progressiva riduzione del «sacro» o del «soprannaturale» a favore della prassi (o dell’etica). Cosa per lui inconcepibile, perché non esiste «un’etica religiosa, un’etica che tragga dall’esistenza di Dio una legge di comportamento «religioso» (9).

La sua presa di posizione  contro la Chiesa cattolica mi fa pensare alla polemica col Partito in area comunista. «Non c’è più religione» richiederebbe un equivalente «Non c’è più rivoluzione». Che però non è stato ancora scritto. Nel pezzo intitolato «In margine a Rossanda», pag. 239 di «Scritti diversi II», Ranchetti sottolinea l’importanza che ha avuto per Rossana Rossanda  il PCI e parla «della sua difficile fedeltà ad esso, nella persuasione che è solo col partito e almeno in riferimento alla sua necessità di esistenza che si comprende la storia del nostro tempo» (242). C’è forse una relazione  fra crisi del marxismo e crisi della religione, crisi del cristianesimo divenuto istituzione e crisi del comunismo disfattosi in burocrazia?  Se sì, conviene confrontare i due processi.

20 dicembre  2055

Leggendo Una ragazza del secolo scorso  di Rossanda

Stralcio:

Alla fine della lettura resta in bocca tutto l’amaro che Rossanda ha depositato in questo libro. Avvincente e conciso nel raccontare, elegante nella scrittura, controllato  nella nostalgia, fitto di grandi nomi della politica e della cultura italiana ed europea del Novecento conosciuti da vicino, secco nei giudizi, pieno di interrogativi sulle proprie e altrui scelte. Certo.

Ma alla fine uno si chiede: «la politica come educazione sentimentale» nel PCI? Ne valeva la pena?  Se lei e quelli  che poi  saranno de «il manifesto»  fossero stati convinti un po’ prima che «non occorre una tessera per essere comunisti» (conclusione di Natoli, riportata a pag. 384), se non avessero così alteramente considerata nulla ogni dissidenza dal PCI – finendo per essere messi alla porta  come dissidenti e a ricominciare «un’altra storia» (p.385), qui non  raccontata, a partire dallo stesso zero (o no?) dei dissidenti storici – non sarebbe stato meglio?

(da La ragazza del secolo scorso qui)

18 maggio 20 10

Femminismi

La tesi complottista del femminismo come “cavallo di Troia” inserito  magari dall’esterno dal “Nemico” (come la droga,  gli uomini dei servizi segreti, ecc.) neppure io la condivido. Gli intellettuali o le intellettuali che arrivano alla ribalta dei mass media e delle università, però, non pensano sulle nuvole o nel loro studiolo. Sono inseriti in istituzioni, fondazioni, centri studi che li condizionano e ricordiamoci che le strategie e gli strateghi esistono. Condizionate sono state anche certe elaborazioni femministe. E ricordo certe polemiche della Muraro con Rossanda. Certe femministe non volevano più sentir parlare di lotta di classe e assolutizzavano  la questione di genere. Ricordo le invettive della G. contro il “miserabilismo”. Forse ad indagare certi percorsi individuali o di alcune micro-lobby femministe – anche a non voler essere dogmatici e m-l – si avrebbero delle sorprese. Si tratta di capire se i “nuovi bisogn”i espressi dal femminismo, che scombinavano comunque “quel progetto di partito” individuato  agli inizi degli anni ’70  come “possibile”, potevano/dovevano sopportare la disciplina di un’”organizzazione di lotta” da gestire in comune (assieme cioè ad  altri portatori di altrettanti “veri bisogni” (chiamarli “vecchi” sarebbe  un’ingiusta svalutazione) o potevano/dovevano “separarsi” ed “espandersi”  fuori da “quel” vincolo. La risposta definitiva e argomentata io non ce l’ho. Ho il mio pezzo di verità vissuta, che mi fa propendere per la prima ipotesi. Ma non la faccio diventare la verità. E perciò resto in attesa, forse vana, dei dati mancanti per dire con più convinzione: avevo ragione oppure: avevo torto.

2 pensieri su “Riordinadiario. Su Rossanda

  1. Un bel ricordo di Rossanda di Paolo Virno. Aggiungerei: «quel bambino schiamazzante e bellicoso, presagio degli schiamazzi di ampio respiro» è il ladro di ciliegie di Brecht.

    SEGNALAZIONE
    Rossana Rossanda, una marxista che diffidava del marxismo
    DI Paolo Virno
    https://www.dinamopress.it/news/rossana-rossanda-marxista-diffidava-del-marxismo/?fbclid=IwAR0OXNRKQ2saUu2oYOLf0cKVeovHRO-lgRJ0egw95MvYQaMO2BmcKquDxRA

    Come tanti altri, sono andato a farle visita con Raissa nella sua casa romana degli ultimi anni, trovandola inabile a tutto e però irrequieta quel che basta per trafiggere uno stolto con una battuta soave.
    Mi proponevo di portare con me un bambino di quattro anni, pestifero. Rinunciai all’ultimo momento, temendo il baccano e il disordine puerili. Rossana se ne dispiacque, voleva baccano e disordine di ogni tipo, nei meandri del lavoro precario come pure nel tinello di casa sua.
    L’ho conosciuta in modi non banali durante il processo “7 aprile”, quello intentato dal Pci contro l’area dell’autonomia, nel quale ero imputato prigioniero.
    Ogni mattina, prima dell’inizio dell’udienza, un sorriso austero di Rossana davanti alla gabbia in cui eravamo rinchiusi, domande anche personali, critiche alle nostre scelte difensive e, più ancora, ai nostri spocchiosi (ma illuminanti) convincimenti teorici. Rossana prendeva abbastanza sul serio la lotta politica, da non esitare a rimproverare con foga chi se ne stava con i ferri ai polsi.

    L’analisi della controrivoluzione capitalistica (non restaurazione, ma rivoluzione al contrario), vale a dire la decifrazione di un processo produttivo ormai incardinato alla comunicazione e al sapere, era una cosa troppo seria, ai suoi e ai nostri occhi, per lasciare posto a lamentazioni umanitarie. Rossana fu solidale con i prigionieri dei processi politici perché non li trattò mai da minorati o impotenti. Le sue critiche, alle quali rispondevamo a tono e talvolta con sarcasmo, ci fecero evadere a tratti dalla gabbia da zoo, conficcata al centro dell’aula processuale. Te ne sia dato merito, Roxi cara.
    Negli anni successivi, a processo concluso, discutemmo di tutto, su tutto dividendoci. Aprimmo contese sui sentimenti prevalenti negli anni Ottanta (l’opportunismo e il cinismo, per intenderci), sulla forma che avrebbero preso le rivolte del lavoro intermittente, su Stephen King, sulla nozione di esodo contrapposta a qualsiasi gestione alternativa dello Stato.
    Al termine di ogni contesa, ci toccò constatare l’insorgere di una complicità imprevista, che ci separava dalla sinistra vecchia e nuova. L’unica complicità che vale è quella che si sarebbe voluto evitare. I riti con cui festeggiavamo questa pregevole complicità sono stati i thriller americani, visti all’ultimo spettacolo nelle prime file dei cinema.
    Rossana è stata una marxista che, diffidando del marxismo, leggeva Marx.
    Intuì che negli anni Sessanta e Settanta vi fu il primo e unico tentativo di rivoluzione comunista all’interno di un capitalismo pienamente sviluppato: quindi il primo e unico tentativo di rivoluzione propriamente marxiano. Marx senza aggettivi, non corretto da gocce edificanti di Habermas o dalla sbobba di Rawls.
    Marx non ridotto a Gramsci, per dirla tutta.
    E Rossana è stata, sia pure per vie traverse, una materialista: sapeva che cosa le stava facendo il suo corpo riottoso e svogliato, e che non c’era nulla al di qua o al di là di quel corpo.
    Sono commosso quel tanto da permettermi una battuta a effetto, per la quale domani proverò imbarazzo: amica strana e perfino tenera, mi dispiace di non aver recato con me, in visita a casa tua, quel bambino schiammazzante e bellicoso, presagio degli schiamazzi di ampio respiro che avresti amato e sui quali ci saremmo divisi, comme d’habitude.

  2. SEGNALAZIONE
    (da D. Salzarulo)

    https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=10158188451439713&id=743629712

    Stralcio:
    MELANIA_di Rossana Rossanda
    il manifesto, novembre 1981
    Il terremoto, come la guerra, è violento e semplice. Colpisce i corpi, le cose, i sentimenti, lasciando vuoti brutali, bisogni elementari. Occorre sopravvivere, difendersi dal freddo, seppellire i morti, salvare qualche oggetto, impedire che un muro torni a franarti addosso. Tutta la molteplicità della vita è ristretta, mentre ancora ti romba dentro la paura, e la terra trema sotto i tuoi passi o ti fa sussultare nel sonno.
    Il dopoterremoto, come la pace, è contraddittorio e complicato. Ritornano a fluire i giorni, e le mutilazioni subite prendono la loro vera dimensione: quel tetto d’emergenza, che nelle ore feroci, parve una fortuna, si mostra per quel che è, una copertura provvisoria, spoglia di ricordi, precaria; l’esistenza si è rattrappita, per gli uomini e le cose perdute, per le difficoltà aumentate e coattive. Il “terremotato” è spinto anch’esso a impoverire dentro, a ridursi alla domanda: fatemi tornare come prima. E siccome è lento questo ritorno, e interamente non avverrà mai, a fissarsi in una figura immobile, dolente, uno che rimpiange, che protesta, che finisce con il supplicare di non essere dimenticato.
    A meno che accada quel che è accaduto in Irpinia. E cioè che una comunità disastrata (prima che dal terremoto dallo sfruttamento dei baroni locali e dallo stato democristiano) veda nel terremoto quasi il proseguimento dirompente della sua insostenibile condizione, e non lo sopporti ma lo brandisca, in mezzo al dolore e al sangue e alle macerie, come “una occasione”. L’occasione di cambiare.
    Questo in Irpinia è successo. Per molte ragioni, che concernono il momento di storia in cui il terremoto è caduto, fra gente non più sprovveduta ed emarginata, ma acculturata ed emarginata, vicina a una grande metropoli, acutamente consapevole dell’ingiustizia del suo stato; condizioni che anche solo dieci anni fa o altrove non esistevano. Certo queste popolazioni, e più quelle dell’interno – mi sembra – che non quelle di Napoli (vischiosa come tutti gli immensi funghi urbani fra sviluppo e arretratezza) si sono levate non solo nella domanda e nella protesta, ma nella decisione di riprendere in mano il proprio destino e, occasione il terremoto, cambiarlo.
    Non penso soltanto ai comitati popolari, ma a un sommovimento più vasto delle coscienze. Qualcosa di simile si era delineato, d’altronde, al di là della solidarietà, anche in quella supplenza allo stato dei molti che arrivavano dal nord; corsi al sud – non era mai successo prima – per fare, costruire. Ma non solo “aiutare”, in qualche modo “essere” una Italia diversa. Di questa ondata, cosa è rimasto? Non è vero che non è rimasto nulla, è rimasto un ricordo di impotenza e di collera.
    Dieci giorni fa, una domenica nevosa, li vedevo attorno a me, che non so nulla e venivo soltanto a domandare, in un cinema glaciale di Bisaccia. Sapete dov’è Bisaccia? All’estremo confine delle terre del terremoto, inerpicata su una collina così battuta dal vento, che le strade si erano gelate e qualche macchina uscì fuori strada per arrivarci. Ma la gente voleva ritrovarsi a Bisaccia, perché è un luogo storico della sinistra di quelle contrade.
    La macchina rovesciata era guidata da due donne, una delle quali, Melania, avrebbe dovuto introdurre la riunione. Ma Melania non arrivava e dalla porta, assieme alle folate di freddo e neve, venivano delle voci. “S’è rovesciata, si sono fatte male”. Cominciammo lo stesso, e dopo un poco Melania scivolava piano nella sala, bagnata fradicia, i capelli neri incollati attorno al viso, tutta stretta in se stessa per il freddo, lo choc o forse per scomparire (il giorno prima mi avevano detto, ad Avellino, “Non hai visto Melania? C’era, ma si nascondeva, è bravissima Melania, ma è timida, Melania”). E mentre questa gente non piegata parlava, Melania senza far parola tentava a stento di asciugarsi su un fantasma di stufetta. Ma quando una giovane ragazza di Sant’Andrea, ancora con la voce squillante del “noi facciamo, noi ricostruiamo noi siamo in piedi, noi siamo ben gemellati”, volle rassicurare se stessa rilanciando un’idea generosa ma semplicistica della milizia, Melania ha chiesto d’improvviso la parola. Parlava seduta, con la bella testa un po’ incassata fra le spalle per il freddo, e la voce chiara e bassa, sostenuta da una logica molto simile al furore.
    No, Melania – che è venuta alla politica da poco e, se ho ben capito, da sola, ma che ne ha una idea lucida – non si consolava né chiedeva. Registrava la distanza fra una realtà di gente, di uomini, di donne, che non soltanto accettano ogni volta di ridestarsi, ma ogni volta si destano più maturi, e le infinite strade in cui viene dispersa o si lascia disperdere. Parlava delle donne dell’Irpinia e ricordava, sferzante, che non era stato il terremoto a svegliarle: avevamo forse dimenticato come avevano votato sul divorzio e sull’aborto? Sì, lo avevamo dimenticato. Perché quei due voti erano stati portati a casa dai partiti, dimenticando – se pure lo avevano intuito – che tutte e due le volte non s’era soltanto detto “no” al passato, sostenuto un diritto civile “moderno”, ma era stata una rivoluzione della identità delle donne, dei loro rapporti di coppia, del loro ruolo nella famiglia e fuori – l’embrione d’un’altra società non sognata, ma già vissuta e non senza difficoltà e dolore. Perché vi stupite, diceva la voce secca di Melania, se siamo uscite per strada nel terremoto e abbiamo fatto i comitati popolari ed eravamo così diverse dalla donna con lo scialle nero sul viso di vostre fotografie del sud? Eravamo già quelle, usate e non ascoltate, di qualche anno fa.
    Anche quel voto era stato un terremoto, anche quel terremoto era stato un’occasione. Ma siamo state lasciate rifluire, perché quel che domandavamo, anzi eravamo, disturbava tradizioni, famiglie, società, ideologie, stato, partiti. Non è una “basista”, Melania, lavora per un partito. Solo lo vede per quel che è, strumento necessario, strumento debole e fiacco. E dopo, col terremoto vero – continua – quel che siamo stati era il contrario di quel che lo Stato democristiano, le regioni deboli, i comuni spesso inquinati, la Cassa, gli Enti di sviluppo, le clientele, le camorre – insomma il tessuto pubblico del mezzogiorno – poteva sopportare. Eravamo letali per questa spugna che voi dite essere il vostro avversario. Perché non ci avete aiutato? Voi dite di essere contro la Democrazia cristiana, perché non siete stati il referente, l’aggancio di questa forza che eravamo, che siamo? Che cosa vi spaventa in noi, continuava quella voce implacabile bassa e chiara, senza una virgola fuori posto, che usciva da quella creatura battuta dal freddo e dai lividi. Avete lasciato che restassimo soli, che ci disgregassimo. E quando eravamo tornati private persone, si tendesse verso ciascuno di noi la mano pubblica, perché con lei, ciascuno, isolato, andasse a trattare l’aiuto. L’assistenza, il risarcimento. In lunghe code. Mendicanti, ci avete voluto, questuanti. E le donne più mendicanti di tutti: non sono loro le più avvezze a fare le code agli uffici comunali, senza parlarsi ciascuna costretta a reimparare la difesa del gruzzoletto per sé?
    Odiava questa sua immagine avvilita, Melania. E di colpo la voce le si è incrinata: siamo stanche di essere questo, non ne possiamo più di essere ricacciate nello stesso ruolo, nella stessa impotenza. Uscire dalla quale ogni volta è più difficile, perché di nuovo le molte briglie segrete dei molti poteri, pubblici e privati, ci stringono e quando ne usciamo siamo sfinite. Così sfinite, ha terminato quasi in un sussurro, che di venire qui quasi non abbiamo più forza, e non è un caso che fosse guidata da due donne la macchina che s’era rovesciata.
    Non volava una mosca, mentre parlava. Erano tutti quella sua voce indomita così lontana dalle retoriche del lamento meridionale. Era l’Irpinia dopo il terremoto, come è stata vissuta, frustrata, non morta. Io di Melania non so nulla, non ne conosco il cognome, non mi sono fermata con lei perché è corsa verso casa subito, prima che facesse notte, verso i suoi antichi doveri. Forse non le piacerà che queste righe le siano dedicate, a lei, un frammento del dopo terremoto d’una terra colta e tesa come una corda di violino, insopportabilmente umiliata da una classe dirigente padrona e da una sinistra senza coraggio.

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