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Anni ’70. Sulla sconfitta della lotta armata.


Il problema della violenza nella storia (irrisolto? irrisolvibile in termini assoluti?) si ripropose nell’Italia degli anni ’70 del Novecento in termini di “falsa guerra civile” (Fortini)? Il principio pacifista avrebbe potuto suggerire pratiche che avrebbero evitato morti, sofferenze e  il “tramonto della politica” (Tronti)?  In “Aperte lettere” (2023) di Rossana Rossanda, di cui pubblicherò uno stralcio nei commenti, si legge una recensione ad “Extrema ratio”, libro di Fortini pubblicato nel 1990, dove la questione  dei “giovani delle lotte armate italiane” degli anni ’70, di cui torniamo a discutere  in Poliscritture, è posta nei termini in cui io pure credo di averla posta. E che Lorenzo Galbiati  non condivide e contesta. Forse nelle mie e nelle sue parole  – lui nato nel 1970,  io che sono del 1941 – ricompare uno scarto di cultura politica generazionale sul quale è bene riflettere. [E. A.]

di Lorenzo Galbiati

Raccolgo qui, schematicamente, alcuni pensieri spero ben ordinati che mi sono sorti leggendo l’articolo “Anni’70. Sconfitti sì, pentiti no.” (qui) e la lunga risposta a punti, sempre di Ennio Abate (qui), a un mio primo, improvvisato e soggettivo commento (qui). Continua la lettura di Anni ’70. Sulla sconfitta della lotta armata.

Anni ’70. Sconfitti sì, pentiti no.

di Ennio Abate

Ho letto negli ultimi giorni varie reazioni alla presa di posizione della filosofa Donatella Di Cesare in occasione della morte di Barbara Balzerani. i E mi sono chiesto perché noi ex della nuova sinistra torniamo sull’argomento del lottarmatismo degli anni ’70, anche quando siamo fuori gioco rispetto all’attuale svolgimento della lotta politica.
E mi chiedo anche perché i commenti su quelle vicende non riescono ad andare, ancora oggi, oltre la demonizzazione dei brigatisti e l’assoluzione dei governanti d’allora.  Mi ha colpito anche che quanti hanno difeso almeno il diritto d’opinione della Di Cesare  diano per scontato il giudizio negativo sul lottarmatismo (o terrorismo) ma tacciano su come lo Stato lo abbia vinto e abbia  vinto anche le formazioni politiche della nuova sinistra (Avanguardia Operaia, Lotta Continua, Pdup, MLS) che il lottarmartismo criticarono. E, cioè, non accennino più ai danni subiti dalla democrazia italiana proprio da quella vittoria dello Stato..ii Ancora nel 2024, dunque, il dibattito non può uscire dall’oscillazione: compagni criminali o compagni che sbagliarono. (E a sbagliare oggi sarebbe la Donatella Di Cesare) . Continua la lettura di Anni ’70. Sconfitti sì, pentiti no.

Il nodo storico degli anni Settanta


Su IL SECOLO BREVE DI TONI NEGRI di Roberto Ciccarelli

di Ennio Abate

Stralcio  dall’intervista:
L’arresto avvenuto il 7 aprile 1979, primo momento della repressione del movimento dell’autonomia operaia, è stato uno spartiacque. Per ragioni diverse, a mio avviso, lo è stato anche per la storia del «manifesto» grazie a una vibrante campagna garantista durata anni, un caso giornalistico unico condotto con i militanti dei movimenti, un gruppo di coraggiosi intellettuali, il partito radicale. Otto anni dopo, il 9 giugno 1987, quando fu demolito il castello di accuse cangianti, e infondate, Rossana Rossanda scrisse che fu una «tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile». Cosa significa oggi per te tutto questo?
È stato innanzitutto il segno di un’amicizia mai smentita. Rossana per noi è stata una persona di una generosità incredibile. Anche se, a un certo punto, si è fermata anche lei: non riusciva a imputare al Pci quello che il Pci era diventato.

 

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Riordinadiario 1997 (5)

di Ennio Abate

11 novembre

Crisi con  gli  amici  di Ipsilon Fatico a sbrogliare i miei umori viscerali da quelli più politici.  Invidia o difficoltà di affrontare le nostre reali differenze politiche?  Io parlo di una piega “salottiera” di Ipsilon ma in fondo a dividerci è l’atteggiamento verso l’attuale centro sinistra locale. Poi ci saranno anche risentimenti  e delusioni più personali per piccoli sgarbi o  disattenzioni o diffidenze nei miei confronti. Mentre io gli faccio spazio nelle iniziative a cui vengo chiamato a collaborare, essi non fanno lo stesso con me e mantengono ( o sono costretti a mantenere?) separate altre loro attività  da questa di Ipsilon, che facciamo insieme. Oscillo  tra confronto,  mediazione e  voglia di staccarmi per riprendere  più apertamente la mia funzione di dissidente samizdat. Continua la lettura di Riordinadiario 1997 (5)

Fortini, la guerra, la pace

di Ennio Abate

Chi sta in alto dice: pace e guerra

sono di essenza diversa.
La loro pace e la loro guerra
sono come il vento e la tempesta.

La guerra cresce dalla loro pace
come il figlio dalla madre.
Ha in faccia
i suoi lineamenti orridi.

La loro guerra uccide
quel che alla loro pace
è sopravvissuto.

(Bertolt Brecht, Poesie di Svendborg)


La Seconda guerra mondiale e Foglio di via La guerra entrò nella vita di Fortini  con il suo richiamo alle armi nel luglio 1941. Nei mesi seguenti egli riuscì ancora ad alternare servizio militare e studi universitari, ma lo sfascio dell’esercito italiano (8 settembre 1943) lo spinse a raggiungere con altri dispersi la Svizzera. Internato nel cantone di Zurigo con centinaia di fuggiaschi italiani ed europei, vi conobbe esponenti dell’immigrazione antifascista, lesse per la prima volta alcuni scritti di  Lenin, aderì al Partito socialista e incontrò Ruth Leiser, che diventò la donna della sua vita. Partecipò anche alla repubblica partigiana formatasi in Valdossola, che però era già in fase di ripiegamento.

I versi di Foglio di via, scelti tra i moltissimi scritti degli anni  ’40-‘44, sono il primo risultato poetico di Fortini giovane. Ricevettero poche recensioni (di Calvino e Ragionieri in particolare), ma scarsa attenzione da parte dei suoi amici letterati fiorentini.

Anni dopo, nella Prefazione del 1967 alla nuova edizione di Foglio di via e in alcune interviste, Fortini sottolineò quale forte cesura la Seconda guerra mondiale aveva segnato nella sua esistenza, sebbene gli eventi più tragici del conflitto mondiale l’avessero soltanto sfiorato e giudicasse ora (un po’ mortificandosi, come nel suo stile) quella sua esperienza “assolutamente trascurabile” se paragonata alle sofferenze di tanti coetanei deportati in Germania, in Africa o in India.

Lo stacco fra  il prima (adolescenza all’insegna dell’elegia, passione per l’arte e la letteratura, partecipazione sia pur diffidente e scalpitante ai Littoriali del regime fascista) e il dopo (servizio militare, sbando, internamento in Svizzera) fu netto e duro. I rapporti che stabilì, da isolato, con militanti politici antifascisti e formazioni partigiane non furono privi di esitazioni e il contatto con soldati e civili nelle caserme o per le vie delle città bombardate gli svelò l’insufficienza della sua cultura “piccolo borghese”. «Che cosa gli poteva servire aver letto Proust, Joyce, Rilke o Gide?», scriverà nella Prefazione del 1967; e in un’intervista aggiungerà poi: “È solo con l’esperienza del servizio militare, l’incontro con i contadini italiani vestiti da soldati, da fanti, che ho cominciato a capire qualcosa” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, p.511).

Nella crisi, quel “qualcosa” affiorava a fatica dal populismo tipico dell’epoca. Era sì sufficiente a staccarlo definitivamente dall’ambiente letterario fiorentino in cui s’era formato e ad unirsi a Elio Vittorini, che stava per fondare Il Politecnico, ma tenui sono le tracce  di una visione politica di classe del fascismo e della guerra. Essa maturerà negli anni successivi e, del resto, era quasi assente allora; e non solo fra i suoi coetanei intellettuali. Se rileggiamo, infatti, Agli italiani (8 febbraio 1944), una conferenza tenuta in Svizzera ai connazionali internati come lui in “quarantena” nel campo di Adliswill (cantone di Zurigo), notiamo che la denuncia dell’avventura fascista e la volontà di reagire si appellano soprattutto  ai valori della  patria distrutta.

Nella presentazione alla recente pubblicazione dei Saggi ed epigrammi di Fortini, Rossana Rossanda ha ricordato  i tanti tratti culturali che il giovane Fortini aveva in comune con tutta la generazione degli anni Venti: “stesse letture, stessi interrogativi, stesse frequentazioni, stesso fastidio per il fascismo, stesse incertezze a impegnarsi fino all’occupazione tedesca”. E Fortini, quasi a conferma, così aveva da parte sua rievocato quel clima culturale:

“L’antipatia nei confronti del regime fascista era strettamente collegata con gli atteggiamenti  intellettuali ed estetici di un giovane che allora si interessava soprattutto di arte e di letteratura. Ma questa non era soltanto la mia posizione. Era quella di tanti giovani di estrazione piccolo borghese o borghese che nella Firenze di allora amoreggiavano con la cultura d’avanguardia e con la poesia, amavano il cinema populista francese [...] e trovavano il fascismo soprattutto maleducato e volgare, banale e culturalmente rozzo. [...] L’antifascismo nostro di allora era un antifascismo che potremmo oggi chiamare di destra, cioè un antifascismo  che trovava ridicolo ed insopportabile il fascismo per i suoi atteggiamenti plebei”. (Fortini, Un dialogo ininterrotto, p. 609)

La guerra gli si presenta, dunque, innanzitutto come viva esperienza del mondo dolente e confuso dei rifugiati conosciuti a Zurigo. Di questa realtà insospettata parla come di una “rivelazione”, sottolineando – e qui ha un peso coglie l’impronta fortemente letteraria della sua formazione – che quel periodo fu l’unico della sua vita in cui non avvertì più “nessuna differenza fra la parola stampata e quella detta”. Gli parve che una fluidità sorprendente si stabilisse fra la parola meditata  nell’assenza fisica di interlocutori, propria della poesia e della letteratura, e la parola più immediata e corporea della comunicazione orale con gente in situazioni materiali durissime o sfuggite allo sterminio nazista allora quasi inimmaginabile, come quel gruppo di ebrei dell’Europa orientale che in una cantina recitava preghiere “intollerabili come urla di gente che fosse tormentata e battuta”.

Fra 1944 e ’45, sempre a Zurigo, lesse anche alcuni testi dalla Resistenza francese, ricevendone un ulteriore incoraggiamento a compiere scelte radicali, come affermò nell’intervista del 1993 a Jachia (Fortini,  Leggere, scrivere).

Berardinelli, in uno dei primi studi sistematici dell’opera fortiniana (Berardinelli, Fortini), ha visto in quegli anni un passaggio del giovane scrittore da un “antifascismo dell’anima” ad un “antifascismo politico”, che riguardò le scelte morali e politiche, ma anche lo stile della sua scrittura; ed in   Foglio di via ne abbiamo la prima registrazione.

Nella raccolta, infatti, troviamo da una parte poesie dai toni duri e realistici e un linguaggio che mira all’oggettività e alla coralità e, dall’altra, la persistenza del clima assorto dell’educazione ermetica fiorentina.

 Sul piano letterario il realismo delle scelte linguistiche e stilistiche, spia di una forte tensione verso  l’impegno politico e storico,  è  tipico di quegli anni di guerra, alla cui durezza il giovane scrittore s’impone ora di non sfuggire più nemmeno in poesia, ma l’impronta della precedente educazione, classica ed etico-religiosa, s’interseca ora con i motivi resistenziali e non come elemento inerte; e si presenta – come ha visto acutamente Lenzini – sia come «momento ‘nichilistico’,  di deiezione e angoscia» sia – dialetticamente – come attesa e  speranza.

Fortini non passa, cioè, dalla precedente formazione al neorealismo che dominerà in vari modi dal ’45 fino agli inizi degli anni Cinquanta. Resta più isolato. E basti confrontare il populismo di  tanta letteratura della Resistenza (Pratolini, Viganò, ecc.)  con la ritrosia pensosa (non ostile) verso il “popolo”, evidente nel suo romanzo, Giovanni e le mani, pubblicato nel ’48.

Foglio di via  e Giovanni e le mani  passarono presto sotto silenzio. Non rientravano soprattutto nella retorica tutta «patriottica» della Resistenza, che, surrogando  presto la sconfitta reale dei partigiani, la presentò come lotta di tutto un popolo contro un’invasione straniera, cancellandone  gli aspetti più controversi di lotta di classe e di “guerra civile”, messi poi problematicamente in luce dallo storico Claudio Pavone. E il mutamento del clima politico negli anni Cinquanta portò in letteratura ad una svolta formalistica (la parabola di Vittorini  e il successivo neoavanguardismo  sono in proposito illuminanti), che svalutò la direzione di ricerca imboccata da Fortini, lontana dall’oleografia neorealistica e nazional-popolare eppure in contrasto con l’”americanizzazione” che poi ha trionfato in Italia e in Europa. Fortini dovrà proseguire sulla sua strada in un relativo isolamento e guardando altrove (verso Francia e Germania prima e poi verso la Cina).

L’esperienza della guerra e della Resistenza restano per lui fondamentali sul piano politico, etico ed estetico. Su di esse il suo marxismo si consolidò restando “critico” e il rapporto scoccato in quegli anni fra letteratura e storia non fu mai più sciolto.  Lo testimoniano tutte le sue opere successive e la prontezza con cui reagì alle prime avvisaglie del “revisionismo storico”. Ancora nel 1993, in alcuni incontri organizzati all’università Statale di Milano, Fortini, relazionando su Letteratura e Resistenza, nel suggerire ai giovani le prove letterarie più alte di quegli anni, ricordò ancora con nostalgia l’attenzione dei letterati a quella sorta di “letteratura orale” che nasceva sui treni, allora tanto lenti da facilitare i racconti delle proprie vicissitudini da parte di ogni viaggiatore ad altri sconosciuti.

Primo intervallo: sulla “compresenza conflittuale di storia e trascendenza” in Fortini  Già  in Foglio di via emerge una feconda contraddizione, che agirà in tutta la laboriosa carriera dello scrittore e che maturerà attraverso scelte politiche e di studio.  Berardinelli ha parlato in proposito di “compresenza conflittuale di storia e trascendenza”. È una formula che mette in luce l’inquietudine mai placata della ricerca di Fortini fra le polarità della cultura occidentale cristiano-borghese (materialismo/idealismo, mondanità/religiosità).

Questa sua inquietudine è stata spesso ricondotta al facile luogo comune di un Fortini tormentato, oscuro, intollerante e ha legittimato riserve o giudizi contrastanti su di lui anche da parte di amici e studiosi importanti. Timpanaro, ad esempio, lo considerò solo “un religioso sia pure tormentato”(Luperini, Ricordando Timpanaro, in L’ospite ingrato 2001-2002) e mai un pensatore veramente materialista, mentre Ranchetti ha visto invece in lui “un’etica… non religiosa ma ricca di affetto struggente per le cose reali” (L’ultimo saluto, in Testimonianze 372 febbraio 1995).

La stessa Rossanda scorge nel suo “essere stato mezzo ebreo, mezzo protestante, mezzo antifascista, mezzo resistente” la probabile origine di un’intolleranza verso se stesso e gli altri  più che la molla di un suo orientamento comunista radicale, fertile specie nel panorama della cultura italiana ed europea del secondo Novecento, prima irrigidite dalle contrapposizioni della Guerra fredda e poi acquietatesi nei compromessi della “coesistenza pacifica”.

Isolato da tanti suoi coetanei, più tranquillamente calatisi negli schemi atei, illuministi, marxisti e cattolici (o in soluzioni eclettiche), che la storia dal ’45 in poi ha istituzionalmente offerto, è stato lo stesso Fortini ad esasperare spesso un suo sentimento di esclusione in modi quasi disarmati, come quando in un’intervista per Il messaggero del 7 gennaio 1984, confidò a Renato Minore:

“Pochi giorni fa mi sono trovato di fronte due persone della mia stessa età, fiorentine: una è stata medaglia d’oro della Resistenza; l’altro un vero fascista, molto importante. Queste persone erano cambiate come cambiano tutti negli anni. E io mi sono trovato nello stesso stato d’animo che avevo tra il ’38 e il ’41. Ho avuto un attacco d’angoscia, ero uno che si sente ancora escluso...” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, pag 344).

Ma, evitando sintesi e sublimazioni, Fortini ha avuto il merito di affermare verità lucide e radicali su questioni (le sue “questioni di frontiera”!)  cruciali ma di solito ipocritamente stemperate dell’ebraismo, del protestantesimo, dell’antifascismo, della resistenza. E la sua verifica dei poteri è stata continua e rigorosa negli anni (non solo il titolo di un suo libro del 1965). Poche “trascendenze”, insomma, appaiono, come la sua, tanto calate  nella materialità degli eventi storici e capaci di non appiattirla positivisticamente.

La formula della “compresenza conflittuale di storia e trascendenza” se non resta un’astrazione, ma aiuta ad  indagare le prese di posizione concrete, sempre chiarificatrici, di Fortini di fronte agli eventi quotidiani e storici e, nel nostro caso, di fronte alla guerra e alla pace, può, dunque, essere accettata. Fortini non ha mai smesso, infatti, di misurare il proprio sentire, la sua fede cristiana e la sua borghese “coscienza infelice” con il dramma storico e materiale, senza farne un alibi.

E perciò non “ha elevato in tutta la sua opera un altare di lugubre e tormentosa devozione barocca alle idee di guerra, guerra di classe, antagonismo, conflitto, contraddizione”  come scrisse Berardinelli, in Stili dell’estremismo (Diario 10 1993), iniziando, con un infelice autodafé, una revisione riduttiva non solo della figura di Fortini, ma della stessa formula di cui stiamo parlando, coniata tra l’altro dallo stesso Berardinelli. Quel suo saggio affronta temi psiconalitici interessanti da indagare (come aveva già fatto Remo Pagnanelli in Fortini), ma scolla completamente il fondamento psichico  della biografia e dell’immaginario di Fortini  dalla  storia sociale e politica del Novecento.

Eppure il costante ripudio della guerra (altro che “devozione barocca” ad essa!) da parte di Fortini non pare affatto originato da voglia di un interiore quieto vivere né da pulsioni inconsce di cui sia impossibile cogliere le radici storiche. L’inconscio di Fortini, per dirla con Jameson, è politico e   le metafore, che il poeta vi attinge e che Berardinelli giudica “ossessive”, si precisano meglio proprio alla luce di fatti reali e storici.

Una tale rimozione della realtà della violenza nella storia, ridotta da Berardinelli ad immaginario quasi privato poteva aver breve credito, assieme alle teorie della “società trasparente” e di un nuovo ordine imperiale pacificato e quasi augusteo, soltanto all’indomani della caduta del Muro di Berlino del 1989 e dell’implosione dell’ex Unione sovietica.

Ma tutto il “secolo breve” e il ritorno, nel suo scorcio, della guerra come mezzo normale di soluzione dei conflitti internazionali o come risposta ottusa ad oscuri terrorismi, smentiscono l’ottimismo frettoloso di una variegata generazione, comprendente sia Berardinelli  sia il Revelli di Oltre il Novecento e, per certa fiducia in una postmodernità imperiale dai tratti esageratamente progressisti, anche Negri e Hardt.

 Il vecchio Fortini, con la sua  inquietudine mai conciliata e la sua attenzione alla storia e per la volontà di tenere assieme le radicalità di due tradizioni (la cristiana e la marxiana), non ha sottovalutato l’aspetto tragico presente anche nella possibile (“il socialismo non è inevitabile”!) rivoluzione  socialista.

La guerra nel tempo della pace: Fortini e il Vietnam Il tema della guerra ritorna incessantemente in numerose poesie scritte da Fortini negli anni successivi alla Liberazione, quelli “di pace”, del “boom economico” e della falsa “coesistenza pacifica”.

Provando a scegliere dall’indice di Una volta per sempre (ediz. 1978, che raccoglie le poesie di Fortini fino al 1973) solo i componimenti in cui il tema della guerra è più esplicitamente trattato, troviamo l’attenzione al nemico che muore nel pieno della liberazione di Parigi (Quel giovane tedesco, pag. 75), alle stragi (Sono morti ormai,  pag. 126),  alle “notizie divine della guerra” (Science  fiction,  pag. 139), alla confusione e all’ansia dell’8 settembre del ‘43 (Una sera di settembre), alla tragedia  del corpo di spedizione italiano in Russia (Ai nostri caduti in Russia, pag 150).

Col tempo nelle poesie le tracce della guerra  sembrano diradarsi (Dalla mia finestra  pag. 215). Ma essa non è scomparsa, avviene  lontano ed è comunque spiata dalla gabbia della routine quotidiana occidentale (Primo riassunto, pag. 226) o attraverso  notizie filtrate da una sensibilità solitaria, che interiorizza senza false mediazioni partitiche  lo scontro politico altrove ancora armato (4 novembre 1956, pag 230).

La guerra è sottofondo che persiste,  ora in sordina ora minaccioso. Anche in un presente che concede  al poeta la confidenza amorosa e nostalgica (1944-1947 pag. 241) o  in qualche fugace immagine  di gioia, non casualmente legata alla figura femminile (Alla stazione di Minsk,  pag. 245). Per tornare ad essere rivissuta come incubo gelido e mortuario (La linea del fuoco,  pag. 275), attraverso la lettura delle pagine di scrittori amati (Dopo una strage da Lu Hsun, pag 285) o in incontri quasi onirici con una sorta di alter ego fantasmatico (Ricordo di Borsieri, pag 310).

Negli anni Sessanta, dunque, la guerra è in Italia e in Europa un ricordo sempre più rimosso. Si è trasferita nei paesi del Terzo Mondo. Là solo è tragedia quotidiana. Qui è oggetto di controversie politiche o  notizia da manipolare. Essa ridiventa però un punto di alto di contesa politica internazionale con l’aggressione americana al Vietnam.

       Fortini, intervenendo ad una manifestazione per la libertà del Vietnam, tenuta in Piazza Strozzi a Firenze il 23 aprile 1967, prova a scalfire la rimozione collettiva. Il marxismo gli mostra che la vicenda del Vietnam è “una metafora dei conflitti di classe nazionali” e  che un filo stringe quella  guerra lontana alla pace opulenta e falsa dell’Occidente: una medesima violenza di classe si esercita in Vietnam  nella forma della guerra e in Occidente nelle forme dello sfruttamento capitalistico del lavoro.

            Con un breve comizio in dodici punti ribalta l’opinione, prevalente  anche nella Sinistra, che i Vietnamiti  fossero delle vittime e che la “coesistenza” inaugurata dal rapporto di Kruscev fosse davvero “pacifica”. Paradossalmente a trovarsi in una situazione migliore sono proprio i vietnamiti, che almeno lottano apertamente, rischiando la morte, contro l’aggressione americana, e non gli italiani che hanno  accettato la servitù dagli Usa.

     I punti sono trattati con un massimo di assertività;  e più tardi, ritornando anche sugli aspetti formali del comizio, dirà che aveva voluto costruire l’intervento “in forma modulare con variazioni su di un numero definito e ricorrente di frasi” (in forma ampia il ricordo del 1971 è trattato in Memorie per dopo domani, Quaderni di Barbablù Siena 1984).

Quel comizio è rievocato anche nei suoi risvolti politici in un’intervista a “La stampa” del 13 sett. 91:

“Una piazza di Firenze nell’aprile del ’67, dove si tiene una manifestazione per il Vietnam, con Lelio Basso e Giorgio La Pira tornati dall’Asia. C’era un’aria di melassa, con tutti gli interventi ufficiali. Ma era avvenuto il colpo di Stato dei colonnelli greci e a Berlino uno studente era stato ferito dalla polizia. I gruppi maoisti cominciarono a contestare. Io ho letto il mio testo, concepito come testo letterario, ma che ha avuto un effetto opposto. Voglio rileggerne qualche passo. “Sul Vietnam non ci si unisce. Sul Vietnam ci si divide”. “Tra Usa e Vietnam non è solo un film dell’orrore: è un conflitto fra due classi di uomini”. “Non basta dire americani a casa: perché gli Usa se ne vadano dall’Asia devono sapere di avere popoli nemici in Europa”. Claudio Petruccioli, su  Rinascita parlò delle mie “locuzioni deliranti”. In perfetta continuità con la vera tradizione stalinista del Pci, che era l’opposizione a qualunque forma di sovversione marxista, o non, che non passasse per i corpi istituzionali”

Nell’intervista non sfugge alla domanda provocatoria del giornalista, che gli chiede se quel discorso lo riscriverebbe tale e quale dopo i massacri di Pol Pot in Cambogia. Fortini chiarisce che no, non riscriverebbe negli stessi termini quel discorso:

“Certo che no. Assolutamente oggi non lo riscriverei così. Tuttavia, attenzione, non per Pol Pot, per la Cambogia, per le altre cose tremende che sappiamo. Neppure perché è venuto meno il comunismo sovietico. Ma perché è caduta l’altra grande ipotesi antimperialista: quella di un accerchiamento delle città da parte delle campagne, dei paesi sviluppati da parte dei sottosviluppati. È venuto meno, cioè, il mito della Cina. I sottosviluppati si sono trasformati anch’essi in consumatori. Il grado di unificazione del mercato mondiale è incomparabilmente superiore a quello che prevedevamo” ( Fortini, Un dialogo ininterrotto, p.622).

Non dobbiamo ridurci, sembra dire implicitamente, a ragionieri dell’orrore, né a scegliere il regime  in cui l’orrore è minore o meno appariscente (l’orrore americano al posto di quello vietnamita o sovietico o cinese?). Dobbiamo scegliere ipotesi politiche che mirano alla libertà e a conflitti più alti fra gli uomini contro ipotesi politiche che vogliono conservare privilegi antichi e moderni e abolire ogni conflitto. Questo è il senso della sua risposta, in aperto contrasto con l’”aritmetica dell’orrore” che purtroppo, sulla scia del revisionismo storico, si è imposta in questi nostri anni recenti (e di cui il “Libro nero del comunismo” è un esempio).

Secondo intervallo: il professore marxista e i “nipoti felici di verità tranquille” degli anni Sessanta Fortini cala spesso in poesia gli eventi storici da lui vissuti. In una poesia intitolata Vietnam, italiano e storia. 1966 (in  L’ospite ingrato primo e secondo, pag. 126) il presente – che vede la resistenza del Vietnam, il poeta che la segue attraverso le immagini televisive, facendo l’insegnante e chiedendo “un filo di consenso alle orde/ dei nipoti felici di verità tranquille” – è raccordato al passato: “Ricorda il Trentacinque le rose del liceo/ il professor Ugolini che non aveva la tessera.”

Il professore Ugolini di questa poesia sembra un autoritratto per interposta persona o comunque un’immagine di fermezza morale paterna e solitaria. E può  far riflettere un riscontro empirico, raccolto a distanza di tempo, all’indomani della morte dello scrittore. Esso chiarisce a sufficienza quanto fosse arduo recepire la sua pedagogia non neutra, da professore di lettere marxista, da parte di studenti degli anni Sessanta, che pur si risvegliarono nel ’68 dal loro torpore.

Trascrivo perciò alcuni brani della testimonianza-ricordo di un ex studente di  Fortini, Franco Romanò. Essa combacia quasi perfettamente con la situazione delineata nella poesia Vietnam, italiano e storia. 1966 e ci dà,  per così dire, il punto di vista dei «nipoti felici» di quegli anni:

“Conobbi Franco Fortini nel lontano 1965. Ero iscritto all’ultimo anno di ragioneria al Mosè Bianchi di Monza e lui era il nostro professore di lettere. Quando entrò in classe il primo giorno, lo sguardo era serio e severo; aveva una brutta borsa di pelle, identica a quella che gli avrei visto portare venti anni dopo. La mise sulla cattedra e poi, invece di sedersi, scese dal predellino e stando in piedi davanti a noi, ci guardò un po’ e poi iniziò un discorso che per quegli anni si può senz’altro definire memorabile:

“Mi chiamo Franco Lattes, sono di origine ebraica, durante la guerra fui costretto a riparare in Svizzera, tornai a Firenze con la liberazione. Poiché io voglio che ci si conosca bene senza sotterfugi vi dirò che sono marxista, sono stato iscritto al Partito socialista ma oggi non lo sono più, sono un poeta e uno scrittore, mi occupo di letteratura ma conosco anche l’industria. Ho stimato molto un grande industriale italiano, Adriano Olivetti, ho lavorato in quell’azienda, fui io a dare il nome alla prima macchina da scrivere, la lettera elle: il nome lexicon lo suggerii io.”

Dopo aver detto questo si sedette tranquillamente in cattedra. Tutti noi eravamo allibiti, ci lanciavamo occhiate perplesse, interrogative [....]

Altre volte si sedeva in cattedra e non parlava, se ne stava cupo e raccolto in sé; sapevamo, allora, che era successo qualcosa di grave nel mondo, da qualche parte. Fu così, per esempio, quando fu giustiziato da Franco l’anarchico Grimau; a Milano il giorno prima c’era stata una manifestazione credo anche con scontri, lui vi aveva partecipato. In questi casi al silenzio di una  decina di minuti seguiva una rapida spiegazione dei motivi della sua indignazione, poi la lezione cominciava” (in Testimonianze per Franco Fortini, Cologno Monzese 1966)


La contraddizione nelle proprie radici: Fortini e la guerra dei Sei giorni (1967)  Nel giugno 1967 le truppe israeliane e quelle egiziane si scontrarono nel deserto del Sinai; e in Italia e in altri paesi occidentali l’opinione pubblica si schierò subito con Israele, accettando la versione  che la guerra era stata una  risposta ad un’aggressione araba.

Fortini scrisse in quell’occasione I cani del Sinai. Il titolo  del libro derivava da un inesistente proverbio arabo: “Fare i cani del Sinai”, un’espressione che significa “correre in aiuto al vincitore”, “stare dalla parte dei padroni”, “esibire nobili sentimenti”.

Si tratta di un saggio composto di note politiche a caldo sugli eventi di quell’anno in aperta polemica verso i simpatizzanti dello Stato d’Israele, e di un austero resoconto autobiografico sulle proprie ascendenze di ebreo italiano, nel quale si sofferma su vicende di parenti e sulla sua stessa storia familiare e personale (i rapporti con i valdesi, la sua conversione).

 I cani del Sinai sottolinea che, con quella guerra contro gli arabi, “ebraismo, antifascismo, resistenza e socialismo”, fino ad allora pensabili come  “realtà contigue”, non lo sono più.  La guerra ancora una volta ha stravolto l’identità culturale del paese che la fa. Israele  è diventata altro da quello in cui si era sperato al momento della sua fondazione. È ora complice e punta avanzata in Medio Oriente dell’imperialismo statunintense.   E, quando la guerra dei  Sei giorni è diventata notizia, la sua manipolazione e  la sua sterilizzazione a chiacchiera da salotto è talmente imponente che gli stessi amici ebrei di Fortini,socialisti e comunisti, si mostrano sconcertati, indulgenti verso Israele e restii a prendere atto del cambiamento avvenuto. Solo lui insiste, isolato e malvisto, a trovare intollerabili le accuse rivolte agli arabi con argomentazioni – scrive – che trent’anni prima  erano state  usate dai nazisti contro gli ebrei. E mostrerà anche in seguito amicizia e solidarietà attiva verso i palestinesi, come provano le sue accorate riflessioni di un viaggio in Israele del 1989, raccolte in Un luogo sacro di Extrema ratio.

In un’intervista di Gad Lerner  del 1982 a Radio popolare (L’ospite ingrato, 2, 2003), che aveva come sfondo le stragi  israeliane in Libano di quell’anno (Sabra e Chatila, operazione “Pace in Galilea”), ritornano, filtrati dalla memoria e dalla meditazione su tante altre sconfitte, i temi politici de I cani del Sinai: la critica all’opinione democratica e colta, schierata comunque con Israele (“si pensa che gli israeliani esagerano; ma in sostanza, nel profondo, si pensa che sia meglio, possibilmente, cancellare i palestinesi”), quella alla funzione de-realizzante della comunicazione massmediale (“l’occhio dei mass-media è un occhio incaricato di non far vedere, quello che fa vedere viene  nello stesso tempo assorbito e annullato”), la presa d’atto che l’immensa tradizione culturale ebraica è ormai esaurita e che la storia e le vicende dello Stato di Israele nulla hanno più a che fare con essa.

Lerner vorrebbe vedere nel conflitto in Israele una “nuova grande ondata di irrazionalismo”. Ma Fortini gli ricorda che  esistono due razionalità, una cosciente, una meno cosciente, “ma che non per questo è meno razionale, e cioè meno adeguata ai fini che si vogliono raggiungere”.

 Per lui la classe dirigente israeliana strumentalizza le minoranze religiose estremiste, abbastanza esigue in Israele su una popolazione sostanzialmente laica e spesso atea. E respinge pure la tendenza, che in quegli anni di “crisi della ragione” si faceva strada da noi, ad abbandonare ogni lettura degli eventi storici basata sulla descrizione dello stato dei rapporti socio-economici; il che – aggiunge – “costituisce la riprova di una condizione di guerra: come quando nella guerra contro l’hitlerismo e il fascismo vi fu un momento in cui l’interpretazione canonica di tipo marxista venne omessa completamente […] per sottolineare la figura del cattivo, del non-uomo, del mostro”.

Terzo intervallo: la “regola del morto-vivo” in arte Anche se non si sofferma su una propria opera, ma sulla versione cinematografica del libro,  il film Fortini/cani, girato da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet nel 1976, in cui lo scrittore  legge  brani del suo stesso libro, la Nota 1978  all’edizione in francese de I cani del Sinai torna utile per chiarire come Fortini passa dalla riflessione politico-autobiografica su un evento storico  alla sua resa artistica (o più in generale alla poesia).

Siamo in tutt’altro clima rispetto a Foglio di via. Lì scelte linguistiche e stilistiche  tendenti al realismo. Qui, invece,  i fatti  trattati nel libro del ’67, pur giudicati indispensabili (“in loro assenza non si fa nulla”)   vengono allontanati e sono affrontati  come fossero spoglie che hanno perduto ogni passione  e immediatezza. La polemica politica ha ceduto il passo alla meditazione: “Fra qualche anno”, egli afferma, “nessuno comprenderà più che cosa sono stati la guerra in Vietnam e il conflitto arabo-israeliano”.

Gli eventi storici vengono guardati “come beni perduti per sempre e non a noi  destinati”. Ora interessano soprattutto “le lacune del reale” o “un reale senza fantasmi di consolazione”, senza lirismo e senza autobiografia.  Perciò sottolinea: quando nel film parlo di “realtà”, la mia voce si fa stridula, è “soverchiata dall’assenza” di realtà.

Solo così  le parole, dice, diventeranno “cibo di molti”.  È una visione dell’arte (e non solo del cinema, spunto della riflessione in questo caso), che Fortini deriva “da alcuni pochi e assoluti maestri” e si fonda sulla “regola del morto-vivo, dello zombie”. Un’immagine dell’artista che pare quasi modellarsi sul Cristo dell’ultima cena, la cui figura ben si concilia con le regole che qui Fortini sostiene.

Fortini e la prima Guerra del Golfo Sulla Guerra del Golfo del ’90, “operazione di polizia internazionale avallata dall’ONU” subito dopo la caduta del Muro di Berlino dell’anno prima, Fortini scrisse su il manifesto vari articoli.

Lo scritto più elaborato è Otto motivi contro la guerra (9 settembre 1990, ora in  L’ospite ingrato, 2, 2003). È un bilancio epocale dell’atteggiamento tenuto dai marxisti contro la guerra. E viene scritto in una situazione politicamente disastrosa, non dissimile da quella creatasi alla vigilia della Prima guerra mondiale: la maggioranza della Sinistra italiana – portavoce più autorevole Bobbio – è per la “guerra giusta” contro l’Irak di Saddam. L’unica debole opposizione è morale e proviene soprattutto dagli ambienti cattolici.

Il disastro è riconosciuto. A questo punto della storia del Novecento, che ha visto sconfitte le guerriglie terzomondiste e  il crollo della stessa Cina di Mao, Fortini ritiene davvero esaurite le risposte elaborate dalla tradizione socialista, che si aspettava il cambiamento dei rapporti di forza fra gli uomini dal lento evolvere dei meccanismi, e da quella comunista, per la quale la modificazione sarebbe avvenuta per via di coscienza ed organizzazione. E lo dice  nei suoi consueti modi drastici e senza rinunciare a testimoniare anche l’impotenza della sua generazione:

“Quello che è  crollato non è soltanto l’impresa comunista, l’Est, il muro: ciò che è crollato sono due secoli di cultura occidentale. Ciò che è stato demolito non è il comunismo, casomai è il comunismo come parte dell’eredità dell’illuminismo […] Al momento del “crollo” (partiti comunisti ufficiali, muro, Urss) e della “apocalisse”, ossia del discoprimento di ciò che avremmo dovuto vedere anche prima (guerra del Golfo, mutamento delle procedure internazionali) i ventenni andarono in cerca degli ultrasessanteni per farsi spiegare che cosa fosse successo. E abbastanza rapidamente, noi vecchi abbiamo esaurita la sequela delle spiegazioni e dei ricordi, perché il mondo era troppo mutato sotto i nostri medesimi occhi [...] Certo il marxismo di “Quaderni rossi” di trent’anni fa può aiutarci a capire il Giappone, la Corea, il Brasile, la ex Urss e gli stessi Usa, meglio dello pseudolaburismo [...] Ma in queste materie non basta capire [...] Bisogna avere tempo e forza di agire [...]  C’è stata una frattura, un mutamento dei codici [...] e siamo entrati in una situazione mondiale di autodistruzione, dei corpi e degli spiriti, degli equilibri fisici e mentali che unifica il pianeta” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, pp. 709-711).

 Che fare, allora, contro questa guerra? I mutamenti indotti dalla superiorità tecnologica e militare degli Stati Uniti hanno svuotato l’indicazione leniniana: trasformare la guerra imperialistica in guerra civile è possibile, sottolinea Fortini,  “solo al di sotto di un certo livello di tecnologia degli armamenti”, ampiamente superato oggi.  E, commentando  il verso di una canzone anarchica (“La pace fra gli oppressi, la guerra agli oppressori”), lo aggiorna: quella pace non è più esente da contraddizioni e conflitti fra gli stessi oppressi e “quella guerra non è necessariamente da combattersi con le armi”.

Non siamo però, come potrebbe sembrare, all’accettazione del pacifismo o della non-violenza. Da marxista, Fortini al pacifismo continua a rimproverare una disattenzione verso “gli effetti distruttivi del modo presente di produrre e consumare” e la svalutazione della “mediazione politica”.

Il pacifismo, scrive, “non mi persuadeva allora [si riferisce agli anni  ‘50] né oggi” e ripubblica come se fosse ritornata attuale una sua lettera a Capitini di quarant’anni prima (1950), alla vigilia della guerra di Corea.

Fin troppo convinto forse che, se una grande confederazione sindacale fosse stata capace di proclamare lo sciopero generale contro la guerra americana, avrebbe avuto il consenso necessario, contrappone la scelta religiosa, morale o filosofica  contro la guerra a quella pratico-politica, per lui indispensabile. Bisogna “uscire dalla morale verso la politica”, scrive, sostituire alla morale dell’intenzione una morale del risultato, scegliere di “combattere politicamente l’impero del mondo”.

 Il bene, dunque, anche in questa situazione catastrofica per la sinistra, non sta nella non-violenza, nel rivendicare una impossibile assenza di conflitto, nel chiedere solo che tacciano le armi. E persino in alcuni passi, dove sembra avvicinarsi a quanti intendono la non-violenza come lotta e non arrendevolezza, ribadisce che la non-violenza può essere presa in considerazione soltanto se è un’arma contro la guerra, magari simbolica come l’Intifada.

L’accento è posto ripetutamente sul valore fecondo del conflitto e sul legame dialettico, anziché di netta separazione, tra conflitto e pace: “senza conflitto non si dà riposo o “pace””. I “facitori di pace” non sono quelli che negano o mistificano i conflitti, ma quelli che “spostano la frontiera degli inevitabili  e fecondi conflitti”. E non smette di  ricordare, contro ogni facile illusione, che il conflitto è sempre un “male” per ottenere un “bene”, il cui raggiungimento però non è garantito.

La sua visione delle cose resta radicale anche in una situazione  in cui non s’intravvede la via d’uscita politica da lui stesso auspicata. Fortini non distoglie la mente dalla tragicità dell’esistenza umana e ripete con altre parole verità scritte già in altra occasione, nel 1985,  ben prima della guerra del Golfo del ’90:

“A me è stato insegnato, e lo insegno, che la vita di ogni uomo, di ogni essere umano è un valore infinito perché è la mia medesima vita, e perché è un progetto, un futuro, una possibilità di tutti. E, nel medesimo tempo e non in contraddizione con questo, mi è stato insegnato, e lo dirò adesso con le parole di Lenin ‘che quando decine di milioni di uomini vengono mandati ad uccidersi sui campi di battaglia per sapere se questo o quel mercato debba appartenere ad un bandito francese o ad un bandito tedesco, può essere necessario sacrificare una generazione, e prima di ogni altro se stessi, nel tentativo di fermare quei massacri e di distruggere quei banditi” ( Fortini, Non solo oggi, p.303)

L’assenza di conflitto non equivale, dunque, alla pace. La storia è conflitto. Compito politico non è sedare i conflitti, ma promuovere quei conflitti che facciano crescere gli uomini e trasformino il nemico prima in avversario e poi in collaboratore necessario e prezioso. E il nemico  che va trasformato oggi è quello “che propone false mete, false coscienze, false solidarietà, false paci”. Questo nemico era nel ’90, più che in passato, rappresentato per lui dagli Stati Uniti (Egli, in altra occasione, li definì un “regime abietto…da quarant’anni nemico del genere umano”).

 La sua critica coinvolge ora anche le posizioni di sinistra che considerano azione politica valida solo quella che si svolga nella metropoli, al “massimo livello di sviluppo produttivo”; e quindi dove la “realtà tecnologica del capitale internazionale che si esprime essenzialmente nella forma che noi chiamiamo americana” si è già affermata.

 Queste posizioni, secondo Fortini, accolgono senza andare per il sottile il “progresso tecnologico con tutte le sue conseguenze anche quelle che si possono prevedere aberranti o pericolosissime”, perché condividono con il nemico una morale “da signori”, basata sull’accettazione della “virile durezza della realtà” e, come i signori, disprezzano quanti nel mondo “non tengono il passo”, rimangono indietro, sono schiacciati dalla macchina” (vivono nella morale “del servo”).

Egli fa i nomi di Tronti, Asor Rosa, Negri e Cacciari e collega questa tendenza al trotzkismo.  Contro di essa scrive un articolo fortemente  polemico (Filoamericani di sinistra: colonizzati  e contentiil manifesto 3 mag. ‘91) respingendo l’illusione di una “superiorità della cultura e della tradizione occidentale”, dannosa e  facilmente, come possiamo vedere, preludio a soluzioni belliche.

Altri interessanti spunti sono sparsi in due recensioni: una a Türke, Nel sottoscala del diritto, la violenza della ragion di stato (il manifesto 21. giu. ‘91), la cui meditazione sulla violenza affrontava la “verità insostenibile del fondamento violento di ogni ordinamento civile”, compreso quello democratico; ed una ad un libro di sociologia delle comunicazioni (Rossella Savarese, Guerre intelligenti) dove  veniva denunciata la complicità inconfessata fra i consumatori e i produttori di informazioni e l’apoteosi del processo di de-realizzazione, che nella guerra del Golfo del ‘90 aveva raggiunto una “limpidezza iperrealista  o postmoderna”.

Ma ci sono anche altri interventi chiarificatori. In particolare ne La guerra in Europa (1993), pubblicato postumo in Jugoslavia perché, Gamberetti, Roma, 1995, ora in L’ospite ingrato, 2, 2003, Fortini  riassume e sembra condividere una serie di tesi  in circolazione  a partire dalla guerra del Golfo: fine delle guerre fra stati sostituite da operazioni di polizia, nascita di un “Impero unico e onnipotente”, svuotamento degli organismi internazionali divenuti agenti dell’unica potenza statunitense, rischi di distruzione fisica ed economica di una “parte anche grande del genere umano”, gestione dei mezzi d’informazione in modo da persuadere “una buona parte del mondo che una guerra del Golfo non c’era mai stata”. Ed arriva ad affermare “la fine tendenziale della nozione di imperialismo” e la costruzione di un potere distruttivo e coercitivo che “non si era mai dato nella storia del genere umano”.

Quarto intervallo: l’”ironia lacrimante” delle Sette canzonette del Golfo      Anche in occasione della prima guerra del Golfo, la riflessione di Fortini sugli avvenimenti è passata in poesia. Ne sono nate Sette canzonette del Golfo, una sezione di Composita solvantur, ultima raccolta edita dal poeta in vita, nel 1994, anno della sua morte. Ne vorrei parlare confrontandole con  la sua prima raccolta, Foglio di via, per cogliere il contrasto fra gli inizi e la conclusione della sua produzione poetica.

Si nota subito che gli elementi elegiaci di Foglio di via, come abbiamo visto, erano immersi in un contesto tragico ma carico di speranze collettive e fraterne, mentre quelli delle Sette canzonette del Golfo trovano intorno una situazione di solitudine e  di  sgomento e Fortini deve affidare all’ironia la sua non rassegnazione e la sua più solitaria speranza.

    Ne Il poeta di nome Fortini, Lenzini ha messo in vista tale contrasto. Una “situazione d’attesa”,  la tendenza alla “coralità”, la presenza esemplare dell’immagine femminile – si tratta di una donna proletaria (A un’operaia milanese), una sorta di “angelo–nunzio della prossima liberazione”, accostabile anche al fanciullesco ladro di ciliegie  di Brecht e alla quale viene attribuita una funzione catartica e salvifica – caratterizzano Foglio di via: “un’umanità nuova” sembra annunciarsi.  Temperie storica e prospettiva “trascendente” si compenetrano. Brecht e Noventa, due degli autori di riferimento di Fortini,  si danno la mano. Tutta al singolare invece, calata in un privato di solitudine carico di sarcasmo, è la vena poetica delle Sette canzonette del Golfo. Assente ogni figura femminile, qui si ironizza amaramente sulla pace del vecchietto, una pace tra l’altro non conquistata, ma concessa dagli dei e che può  allietare solo chi si contenta di poco.

Questa falsa pace, contro la quale il Fortini “terzomondista” mosse tante volte le sue critiche, si consuma mentre “lontano lontano si fanno la guerra» e il «sangue degli altri  si sparge per terra”. Ma ora  questa lontananza sembra insuperabile dagli apatici occidentali: allarmati, essi si succhiano il dito che si sono punti durante qualche faccenduola casalinga, concedendo un pensierino alla guerra che li coinvolge quanto una storia a fumetti.

Una sproporzione abissale si è imposta fra fatti quotidiani e fatti storici. La “derealizzazione” è compiuta. Quel filo rosso che legava negli anni Sessanta la lotta del Vietnam alla possibile lotta di classe in Occidente si è spezzato. Fra socialismo e barbarie sembra abbia vinto proprio quest’ultima.

E la poesia? Essa non soltanto ha perso la benefica figura proletaria dell’operaia di Foglio di via, rimpiazzata dalle immagini scostanti di adolescenti ben nutriti e gaudenti di Aprile torna (“Godono pepsi cola ignude gole”), ma anche il ritmo percussivo e corale della prima raccolta.  Quello qui dominante sembra farsi “ninna-nanna per l’addormentamento, narcosi e ebetudine procurata” (Lenzini).

Come può un poeta ormai isolato, che vive in Occidente, indirettamente complice e beneficiario della “vittoria democratica” armata conquistata in Irak, piangere i morti arabi fatti da Usa e alleati occidentali, se nel suo paese contro le “guerre umanitarie” è venuta meno un’opposizione politica e la maggioranza dei suoi concittadini è favorevole alla “guerra giusta”? La sua poesia ormai non serve neppure come guanciale per i morti (“Potrei sotto il capo dei corpi riversi / posare un mio fitto volume di versi?”).

Vale la pena di notare, per contrasto, che di fronte alla prima guerra del Golfo uno scrittore arabo, sia pur molto “occidentalizzato”, come Ben Jalloun riconosceva ancora un alto valore civile alla poesia. Nel presentare un suo poemetto proprio su quella guerra del ‘90, Dalle ceneri, egli scrisse infatti: “La poesia s’intestardisce a dire. Il poeta grida o sussurra: sa che tacere potrebbe sembrare un delitto, un crimine”. Per Ben Jalloun la poesia, prendendo la parola “per gli insepolti, gli scorticati, gli impiccati, quelli gettati nelle fosse comuni”, ancora serve.

Il confronto non suoni irriverente verso Fortini:  egli fissa lucidamente come si è ridotto  nella gabbia del privato l’uomo occidentale post-comunista in questo fine secolo, qui, da noi. Una poesia epica o una poesia “civile” non ha senso dove l’epos e la civiltà vengono meno. E forse, dai tempi bui che stiamo vivendo, possiamo solo guardare altrove, come  il giovane Fortini guardava a “una folla di sconosciuti fratelli maggiori” nell’Europa sconvolta dal nazismo.

     Le Canzonette del Golfo sono pienamente integrate nei componimenti di Composita solvantur? O svelano sotto la loro ”ironia lacrimante” (l’espressione è di Fortini stesso) elementi più amari e pessimistici rispetto agli Otto motivi contro la guerra visti sopra o, in generale, rispetto alla visione marxista della storia?

L’ultimo Fortini suscita ancora una volta giudizi contrastanti. Luperini, ad esempio,  ha visto nelle Canzonette del Golfo o, più in generale, nella posizione di Fortini su questa guerra un abbandono del suo ottimismo storico sociale e un suo  finale accostamento a motivi ricorrenti e addirittura portanti del discorso di Sebastiano Timpanaro (Luperini, Ricordando Timpanaro, in L’ospite ingrato 2001-2002).

Per Lenzini invece, proprio nel momento più tragico, Fortini è ancora capace  di “ricerca e slancio utopico”, perché il suo pensiero dialettico sa che all’aumento della negatività e dell’oppressione corrisponde sempre lo sviluppo di “altro”.

Edoarda Masi ha ricordato che Fortini (come Lu Xun) ha sempre ironizzato sulla poesia, anche se per lui era in realtà la cosa più importante; e ritiene che  le Canzonette non siano affatto in contraddizione con il suo “proteggete le nostre verità”.

E Composita solvantur, anche secondo il parere di Rossanda, è una  piccola summa del pensiero fortiniano: “è come se avesse voluto tenere assieme una parte delle avanguardie del passato, il meglio del ’68 e il soldato sovietico che, sotto l’avanzata tedesca, grida ai compagni: non possiamo arretrare” (Rossanda, Ospite ingrato 1, pag 169)

Anche per me le Canzonette del Golfo  non sembrano una caduta dell’ultimo Fortini e stanno sullo stesso piano di Composita solvantur . Eppure mi pare che resti il problema d’intendere meglio l’accento in qualche modo diverso non solo  delle Canzonette ma di Composita solvantur rispetto alla precedente produzione. La poesia, anche in questo caso, aggiunge o toglie qualcosa alla prosa.

Non posso che riecheggiare dubbi e impressioni non solo miei e indagare con cautela. Si tratta solo di finzione poetica che, quasi temendo di essersi lasciato troppo andare,  Fortini  in un’appendice autocritica (Considero errore) metta sotto accusa la propria “complicità con avversari e interlocutori” delle Canzonette?

E se davvero la poesia è stata per Fortini la cosa più importante, come trascurare la sua tenacia per tanti anni a «mostrare a dito i limiti della poesia» o dichiarazioni come questa:«Non posso sapere quanto l’esitazione fra i due fantasmi del sé – quello che si rappresenta nell’atto poetico e quello che si figurava in un modo di essere piuttosto che in quello dello scrivere – abbia leso uno dei due o tutti e due» (Memorie per dopo domani, pp. 27-28) ?

A me pare che la coincidenza  fra la malattia che portò alla morte lo scrittore e l’esaurimento della prospettiva comunista in cui aveva lavorato per tutta la sua vita gli imposero quasi contemporaneamente un alt. Composita solvantur mi pare che registri quest’ultima cesura individuale e collettiva assieme: il futuro per la prima volta nella vita di Fortini era da affidare completamente e soltanto ad altri. I progetti che aveva composto per una vita erano minacciati. Non una “svolta”, dunque, non un ripiegamento sul materialismo timpanariano e tantomeno un abbandono nichilistico. Ma neppure più la presenza di un’inalterata “ricerca e slancio utopico” o l’idea della trasfigurazione o della rinascita.

L’inquietudine fortiniana si arrestava. La morte imminente e personale,  sentita più che pensata, mi pare preponderante in tutta la raccolta. Essa disfa le cose composte (dal poeta, dagli uomini in lotta nel tempo storico) e questo scioglimento delle cose personali e collettive va accettato (sopportato). Ma da qui anche l’allarme, la raccomandazione data dal moribondo in punto di morte ai vivi. La sua opera personale è compiuta. Il nuovo ordine sociale è più che mai a venire. Possibile ancora? Impossibile? Non so pronunciarmi. L’appello “proteggete le nostre verità” consegna ai vivi quello che è da salvare, quello che ha contato per l’individuo e per la storia  degli uomini con cui ha vissuto, compresa la verità del comunismo. Ma solo, ancora più drammaticamente, come possibilità.

Concludendo: nella “guerra permanente” a dieci anni dalla morte di Fortini  Nel percorso che abbiamo compiuto abbiamo visto la costanza del ripudio fortiniano della guerra (inconciliabile con l’idea di rivoluzione socialista) e la varietà di toni che esso ha assunto nel tempo: speranzoso e corale nel 1946; assertivo e tendente all’estremo (dire estremista sarebbe una concessione imperdonabile agli avversari di allora e di oggi di Fortini) nel 1967  di fronte all’aggressione americana al Vietnam o a quella israeliana contro gli arabi; allarmato e sempre più amaro nel ’90 davanti alla Guerra del Golfo.

Si delinea così nelle sue opere quasi una parabola che va dalla fine della Seconda guerra mondiale all’attuale precipizio della “guerra permanente”  con in mezzo il picco alto di speranze degli anni Sessanta (Cina,’68-’69).

Dieci anni dopo la morte di Fortini, la nostra rilettura dei suoi testi viene a coincidere con l’acutizzarsi della tragedia di un Medio Oriente sempre più divorato dalle bombe. Gli Usa continuano pervicacemente ad imporre il loro monopolio militare e la guerra “è tornata al centro di uno scenario mondiale che non ha precedenti nella modernità” (Rossanda). Persino i giornalisti più filoamericani avvertono: l’incubo della terza guerra mondiale “è già in corso” (Pirani). E sempre più drammatica è diventata l’assenza di un’opposizione non puramente simbolica alla guerra, mentre  il dibattito politico si è arenato proprio su quelle posizioni  pacifiste, combattute dall’ultimo Fortini. Per lo più, infatti, viene teorizzato il “grande rifiuto della politica”: la politica è “figlia della guerra» ha sostenuto la filosofa Cavarero; è “un fallimentare rimedio al disordine del male” aggiunge Revelli.

Ora chi rileggesse il recente dibattito di LIBERAZIONE, La politica della non-violenza, dovrà ammettere onestamente che alla domanda posta da Ingrao alla sua apertura (“Come si risponde all’aggressione armata? Che cosa si fa contro la violenza armata dell’aggressore?”), le risposte, pur risalenti al ‘90 desumibili dalle posizioni di Fortini, specie dagli Otto motivi contro la guerra sono ancora oggi più lucide e meno elusive di quelle dei tanti intervenuti. (Anche se, personalmente, non mi sento di tacere dei dubbi:  ad esempio, cosa intendere in concreto per “una violenza con altri mezzi e senz’armi” o una “non-violenza eversiva”? In cosa essa si distingue dalla non-violenza attiva, di cui parla almeno una parte dei pacifisti? E ancora: d’accordo sull’”uscire dalla morale verso la politica”, ma oggi in concreto dove e come fare politica? Edoarda Masi, intervenendo su il manifesto, ha negato che la via da imboccare sia quella della politica in senso tradizionale. Bene. Ma il contributo di pensiero innovativo da lei auspicato da quali  soggetti   prevedibilmente potrebbe venire?)

Come mai, allora, tanto silenzio e disinteresse verso questi testi fortiniani e verso posizioni odierne (penso a Rossanda, alla Masi, a Tronti stesso) accostabili a quelle degli Otto motivi contro la guerra ?

 Si dirà che forse è sbagliato chiedere ai testi di Fortini del ’90 o  precedenti delle indicazioni politiche concrete e per una situazione ancora più deteriorata. O che egli non fu un politico puro.  Ma di sicuro in quei testi ci sono antidoti validi contro la cancellazione  della memoria storica di qualsiasi tradizione del comunismo, contro la sua riduzione a pura aspirazione o nostalgia o contro l’annebbiamento ideologico del capitalismo, che sarebbe diventato soltanto un «enorme guazzabuglio» e   si sarebbe «annullato diventando tutto» (Sofri). E anche contro la riduzione della politica a «militarizzazione o ceto politico autoriproducentesi»  (Rossanda).

Dobbiamo sapere che tanto silenzio non è legato a fattori contingenti. Quello calato su di lui è in buona parte lo stesso silenzio che incombe oggi sulle “rovine” del socialismo/comunismo, di cui egli chiese invano negli ultimi anni di vita un “buon uso” da parte della Sinistra italiana.

E proprio perché “lo scandaloso Fortini è così intrecciato con la storia – non solo culturale e non solo italiana – del Novecento” (Bonavita) e la storia del Novecento è stata scossa dai tentativi comunisti, a cui egli legò le sorti della sua persona e delle sue opere, dobbiamo anche sapere che quel silenzio non si romperà, se  non si riporranno in forme nuove e per il momento incognite quei problemi affrontati nelle esperienze comuniste.

Nel frattempo le nostre riletture dell’opera di Fortini dovrebbero evitare le  trappole dell’imbalsamazione o dei dissezionamenti. Non mi pare possibile ritagliare la sua figura dal difficile ripensamento della storia del comunismo.

Qualcuno, però, potrebbe obiettare col cinismo oggi di moda: “Ma dai, Fortini sarà stato comunista, ma il comunismo è morto, quindi anche una parte di Fortini è morta. Salviamo il poeta, il saggista intelligente, il polemista acuto; e lasciamo da parte il suo comunismo, il suo abbaglio, la sua fede. Viva è la sua poesia, come viva ancor oggi è la poesia di Dante.  Morta è la sua ideologia, come morto è il cattolicesimo di Dante”.

Direi  che bisognerà respingere questa semplificazione: troppo essenziale è, a mio avviso, quel legame fra Fortini e la vicenda comunista del Novecento, pur da lui declinata esistenzialmente in modi particolari. Un Fortini poeta e basta, un Fortini senza la sua volontà di essere comunista, da collocare in un contesto modernizzato e ipertecnologico  sarebbe  una decorazione, come lo è stato Dante in epoca moderna.

Meglio, allora, che resti anche lui un marziano: inattuale,  classico, ecc. piuttosto che alloggiato nei loculi predisposti per i “cattivi maestri” su Internet. Se arriveranno dei marziani comunisti, lo riconosceranno e tornerà a parlare.

Ennio Abate 6 settembre 2004

Pace e guerra dopo l’11 settembre 2001

RIORDINADIARIO 2001. Appunti per un editoriale di inoltre 4 (nov. 2001)

Questi convulsi, eccessivi e  provvisori appunti,  estratti dagli articoli che lessi nel settembre di quell’anno su “il manifesto”, li  scrissi per orientarmi di fronte ad un evento che ammutoliva. E in vista di una discussione che speravo si potesse svolgere nella redazione della rivista “Inoltre” (qui), di cui allora ero “coordinatore per il Nord.  Non se ne fece nulla a causa di dissapori e tensioni interne tra i redattori. Li  usai poi in parte  per una conferenza  in un  Centro cultural di Santa Fiora (Grosseto) invitato nel novembre 2001 dall’amico Velio Abati.  Pur datati, contengono  spunti per riflettere a ventanni di distanza e sfuggire alla retorica  dell’anniversario che oggi viene imposta al mondo intero. [E. A.]

la bomba cade l'afghano
muore 
il mercante d'armi brinda il papa prega
il terrorista si prepara il pacifista manifesta
il poeta scrive versi ispirati
alla bomba che cade
all'afghano che muore
al mercante d'armi che brinda
al papa che prega
al terrorista che si prepara
al pacifista che manifesta
contro la bomba che cade
sempre su un altro: afghano, irakeno, kosovaro, ceceno, etc.
che muore
che non brinda che non manifesta che non scrive versi
che lontano, lontano
riceve solo la bomba  della nostra intelligenza

Ennio Abate 15 ottobre 2001


Premessa. Sorpresa, sconcerto, afasia, preoccupazione

(Prima  la guerra del Golfo, poi quella in Kosovo, ora Afghanistan e poi? Siamo alla terza guerra mondiale?). Senso di impotenza…come se il mondo fosse precipitato in un mostruoso videogame, in uno stadio infantile, presimbolico, pre-linguistico. Che è lo stato paranoide per definizione. Perciò dobbiamo parlare a tutti i costi. Per non restare affascinati e paralizzati dall’icona totale, dell’immagine spettacolare delle Torri incendiate e della Guerra globale. (Carlo Galli,  manifesto 27 sett. 2001)

Anche “parlare a tutti i costi”, per ripetere «pace, pace» a chi continua  a bombardare, a tenerci all’oscuro dalle vere ragioni del conflitto (Cos’è, prego, la “lotta al terrorismo”? perché non si è fatta prima e in paesi dove i morti sono stati anche di più di quelli a New York? Perché fate improvvisamente la guerra a quelli che fino all’altro ieri erano vostri alleati: Saddam , bin Laden?), può essere solo sfogo impotente.

Dichiariamo la nostra debolezza. Non gonfiamo vanamente il petto. Non illudiamoci di poter trattenere i potenti che hanno deciso ancora di  scontrarsi. Non agitiamoci a vuoto, soprattutto. Cerchiamo di capire, prima di parlare. Sottoponiamo ad un filtro critico quello che vediamo e leggiamo. Prepariamo bene il terreno per azioni politiche veramente efficaci chissà quando contro la guerra.

(Questo è quanto ho cercato di fare in questi giorni. Qui ve ne do un resoconto, per quel che mi è possibile ragionato.)

  1. L’EVENTO: EMOZIONE, PROPAGANDA, PRIMI RAGIONAMENTI: Apocalisse o la solita guerra o un nuovo tipo di guerra?

 Un filosofo della politica – Carlo Galli, studioso di Schmitt e autore di Spazi politici. L’età moderna e l’età globale , 27 sett  –  ci ha ricordatoche tutte le  tensioni della modernità sono esplose e devono essere date per «finite» dopo l’11 settembre. E sono tante: fine della fabbrica e trionfo della rete virtuale; fine del rapporto centro periferia e nuove gerarchie tra locale e globale; fine della lotta di classe tradizionale e esplosione di conflitti etnici e culturali; fine del comando della politica sull’economia; fine dello stato-nazione ma anche del diritto internazionale (sia  nella versione jus publicum europeum sia di quella bipolare della Guerra Fredda); fine del Nemico visibile e individuabile, statuale, e inutilità della coppia amico/nemico. E ha  dichiarato: «solo la teologia ci può aiutare a vedere e a capire»; e ha invitato anche lui a «rileggere i capitoli 17 [Il castigo di Babilonia] e 18 [La caduta di Babilonia] dell’Apocalisse», perché  ci manca – egli dice – un pensiero all’altezza della crisi del sistema, e ci manca perché le condizioni di un nuovo ordine globale non ci sono. Abbiamo domande, non risposte. La tragicità della situazione sta qui.

E a  molti, infatti, è venuta in mente l’Apocalisse. Hanno parlato di scenario apocalittico (Dio si sarebbe servito di un mezzo violento per far giustizia, per punire la tracotanza degli Usa). Bush e Bin Laden  vengono presentati come due eroi apocalittici della modernità  che si rimandano a vicenda le maschere del Bene e del Male (5 ott Lea Melandri). Questa immagine biblica, ridotta a «retorica» copre i conflitti reali. E anche se, scuotendosi e ragionando si ammette che non è stata apocalisse» (Rossanda, 22 sett.), – del resto siamo ancora vivi, per il momento – si insiste: l’«apocalisse» c’entra,  perché sarebbero rientrati in gioco i sentimenti elementari di  amore e odio e si cita Freud: «quel che vi è di primitivo nella psiche è veramente imperituro».

Altri – un’antropologa come Clara Gallini  (25 sett.) –  hanno insistito sullo smarrimento della ragione e fatto rilevare una sensazione di dejà vu: l’attacco alle Torri gemelle sembra avvenuto come «da copione». La cinematografia (proprio quella americana) da tempo ha addestrato l’occhio di milioni di spettatori a scene di attacco ai valori occidentali (la famiglia, la nazione). Riemersione dell’inconscio, dunque. L’arcano XVI dei tarocchi: una torre decapitata dal fulmine, il Re e l’Architetto che precipitano, il volto di dio che appare tra le nuvole (sostituibile nel caso con quello demonizzato di Bin Laden) non combacia forse perfettamente con quanto accaduto?

Di questa riemersione brutale dell’inconscio (politico occidentale) si possono trovare  altri mille esempi sui giornali, alla radio alla Tv; in questi giorni e altri ne appariranno nei prossimi. È un problema che vale la pena di approfondire.

La psicanalisi e l’antropologia non contano barzellette e sono strumenti che  fin dall’inizio del Novecento hanno dato l’allarme: attenti  alla Ragione assoluta! Non credete all’Universalismo occidentale!

Ma la riemersione dell’inconscio è cosa diversa dall’immersione compiaciuta nell’inconscio. Quando poi il fenomeno viene ridotto a pura propaganda degli Usa e al vilipendio del mondo che subisce i danni della mondializzazione, dobbiamo stare in guardia. Basta leggere (se ci riuscite…) l’articolo repellente di Oriana Fallaci. (….)

Accanto a queste posizioni che accentuano gli aspetti di catastrofe del mondo  contemporaneo, ce ne sono altre che tenacemente non rinunciano ai ragionamenti storico-politici, malgrado  lo scombussolamento delle categorie storiche e politiche.

Appartengono sia a quanti  provengono dal di fuori del mondo occidentale sia a chi ci è cresciuto dentro. Proseguono lo sforzo critico tipico della cultura nata dall’illuminismo.

È il caso di Umberto Eco […], di Sandro Portelli, di Rossana Rossanda. Con sfumature diverse  sostengono  quantomeno l’esigenza di distinguere, confrontare, tener conto dei fatti storici e della varietà delle culture, difendendo l’ibridismo, il relativismo culturale, messo brutalmente in discussione dall’attentato dell’11 settembre e dalle successive reazioni di guerra promosse dagli Usa.

In queste posizioni c’è uno sforzo di “razionalizzazione”, un saggio sforzo di spremere fino alle ultime gocce il limone della Ragione e non buttarlo via, dandolo per marcio. (A me  queste posizioni sembrano necessarie, anche se non sufficienti…)

Vorrei citare ora le obiezioni coincidenti che fanno Nedim Gürsel, scrittore turco (20 sett) : nessuno ha avuto l’idea di dire «siamo tutti algerini» quando le vittime del Fis si contavano a migliaia. Perché dirci «siamo tutti americani » ora?

E Rossana Rossanda:

Perché non abbiamo parlato di apocalisse di fronte ai 150mila sgozzati in Algeria, ai 6-700mila uccisi dagli Hutu, dei 300mila ammazzati in Irak durante l’operazione Tempesta nel deserto, al mezzo milione di bambini che vi muoiono per l’embargo, ai 35mila morti in Turchia, ai 70mila in India in questo stesso 2001? E i fondamentalismi  non li ritroviamo anche nell’ebraismo e nel cristianesimo?«Sharon non è gli ebrei, Pio XII non è i cattolici, Bush non è gli americani. (22 sett Rossanda)

Tutto lo sforzo della Rossanda tende al ridimensionamento razionale degli sfoghi «torbidi» su cui  i governi occidentali vanno costruendo la loro risposta di guerra:

l’11 settembre non è stata una guerra, non è stata l’apocalisse, non è stato l’assalto dell’Islam alla cristianità [tesi di Huntington], non è stato un attacco alla democrazia (al mercato), non è stata una vendetta dei poveri («Non è dei poveri né per i poveri la dirigenza della Jihad»).

La vera domanda: perché ora?  Fino a dieci anni fa la Jihad non era così forte e finora agiva solo all’interno dell’Islam (caso dell’Algeria) senza turbare gli occidentali. Si è pensato di allevare il terrorismo e di  servirsene. (22 sett. Rossanda).

Dicendovi quali sono i commentatori che dicoo per me cose valide e quali quelli da respingere (emblema per tutti: la Fallaci), vi ho dichiarato esplicitamente che sono contro la guerra promossa dagli Usa e a cui l’Italia ha aderito. Ma cosa significa essere contro la guerra oggi?

Rispetto, ma non mi basta il rifiuto emotivo e immediato della guerra.

Ci vuole un rifiuto ragionato, che deve nascere dalla conoscenza  della realtà d’oggi, dal recupero di certe precise memorie del passato, dalla riflessione sui problemi (economici, politici, culturali, morali) aperti e irrisolti e non dalla loro semplificazione unilaterale e di comodo.

Non bisogna affrettarsi a rifiutare la guerra a parole. Spesso ci ritroviamo a sostenerla, senza neppure accorgercene: per il semplice fatto di vivere qui, in Occidente. O per il semplice fatto di avere acquisito mentalità e stili di vita forgiati di fatto dall’americanizzazione dell’Italia cominciata almeno dal 1945.  Altre volte ci siamo ritrovati ad opporci ma nei modi rituali e praticamente inefficaci del passato. (Ricordiamo che le manifestazioni contro la guerra in Kosovo accompagnarono la guerra, non  la fermarono).

E allora  consideriamo alcuni dei problemi posti da questo ritorno della guerra:

  1. sulla novità dell’evento dell’11 sett.

Chomsky (20 sett) ha sostenuto che rispetto all’evento caduta del muro di Berlino quello dell’11 sett contiene una novità assoluta. Per il suo obiettivo. È la prima volta dal 1812 (guerra angloamericana sul confine canadese) che il territorio  nazionale degli Usa viene attaccato. Egli ha respinto il paragone con Pearl Harbour (7 dic. 1941): lì furono attaccate solo le basi militari statunitensi di stanza in due colonie. Per lui, siamo di fronte a qualcosa di «radicalmente nuovo».

Altri riconoscono che la novità in assoluto svelata dall’11 sett. è la vulnerabilità degli Usa (Parlato 16 sett), ma una cesura epocale la vedono nella caduta del muro di Berlino (1989), che con il crollo poi dell’Urss ha fatto precipitare l’equilibrio bipolare Usa- Urss e ha dato luogo all’attuale fase di disordine mondiale, di cui non si vede sbocco certo (Impero? Guerra mondiale? Guerra globale interminabile?).

Accentuare o meno la novità dell’evento non è senza conseguenze.

Affermare – come fa lo storico Chesneaux (23 sett.) e alla maniera di Benjamin – che l’11 settembre è un momento singolare, un vortice che ha messo a nudo non solo la vulnerabilità degli Usa ma di tutta la società sviluppata (il cuore della mondializzazione capitalistica), per cui tutte le grandi metropoli sono minacciate dal terrorismo di distruzione di massa, anch’esso nuovo e quindi non riconducibile a quello di inizio ‘900, che colpiva al massimo un arciduca o un presidente, può voler dire che la conoscenza della storia  passata ci aiuta poco; e che dobbiamo, invece, far fronte ad una situazione in gran parte ignota.

L’eccezionalità dell’evento non significa però affermare automaticamente che il nuovo terrorismo transazionale sia davvero il pericolo principale. Può voler dire che la mondializzazione in corso non è padroneggiata neppure dagli Stati Uniti, che pur sono la potenza militare egemone; e che il terrorismo – come  dicono  molti – è in pianta stabile all’interno stesso del mondo globalizzato. E, se un evento eccezionale richiede una reazione eccezionale, non è detto che  la giusta reazione eccezionale sia la guerra.

Una «vera guerra al terrorismo», come fatto eccezionale, visto che molti terrorismi non hanno avuto nessuna risposta (Algeria, etc) o non hanno avuto una risposta di guerra (contro Saddam si parlò di «operazione di polizia internazionale»)  dovrebbe assumere forme diverse da quelle tutto sommato “tradizionali” dell’intervento in Afghanistan.

David Held Mary Kaldor (28 sett) è convinto, ad esempio, che la guerra vecchio stile fra gli stati sia diventata anacronistica e  che la vittoria militare  sia molto difficile se non impossibile. Il rischio, dunque, è di reagire all’11 sett.  come se fossimo di fronte a una «guerra vecchia», concentrando l’azione su alcuni stati (Afghanistan, Pakistan). Con il risultato di  scatenare una «nuova guerra» tra Islam e Occidente, che non sarebbe però  più tra stati ma si svolgerebbe all’interno di ogni comunità e sia in Occidente  che in Medio Oriente.

Richard Falk (23 sett ), un teorico della democrazia internazionale sostiene che quella a cui si andrà incontro sarà «una guerra senza soluzioni militari, in cui la ricerca della vittoria quasi certamente è destinata a intensificare la sfida e a diffondere la violenza» mediante un’alleanza scellerata fra governi e media: «siamo in bilico sul ciglio di una guerra globale tra civiltà senza campi di battaglia né confini», perché avviene dopo il crollo dell’ordine mondiale basato su stati sovrani.

Troppe cose, dunque, rendono sospetto questo gridare «al lupo! al lupo!»  dei governi occidentali, che hanno parlato immediatamente  di guerra e p rima evocato  e poi negato la loro volontà di andare ad  uno «scontro di civiltà» (Huntington).

Vediamole.

  1. Cause.

Almeno dal 1989 si è parlato con entusiasmo di «fine del comunismo», di «fine della storia» (Fukuyama). Nel frattempo è andata avanti una mondializzazione finanziaria e tecnologica che ha rappresentato il feticcio a cui tutto sacrificare (stato sociale dei paesi avanzati, diritti umani in decine di paesi: dalla Cina alla Turchia, all’Algeria, alla Palestina, ecc.).

Adesso siamo al baklash (Chesneaux, 23 sett.), al rinculo, all’arresto del progresso (economico, tecnologico). Abbiamo voluto il «laissez faire» economico assoluto e ci svegliamo con la rete di Bin Laden che realizza l’impensabile (Chesneaux).

Chossudovsky, economista canadse, autore di «La mondializzazione della povertà» (19 e 20 sett) ha – come molto altri – fatto rilevare che Bin Laden  e la Jihad islamica sono stati sostenuti da Usa e Arabia Saudita per combattere  contro i sovietici, invasori dell’Afghanistan, allora (1979) in mano al regime comunista di Brabak Kamal. E l’hanno fatto non in modo aperto, ma usando l’Intelligence militare pakistana (Isi), che ha un apparato di 150mila uomini,  attraverso la CIA. Ed ha anche denunciato che tutta la storia del traffico di droga nell’Asia centrale è collegata a queste operazioni coperte della Cia: nei primi due anni di guerra fra afghani e sovietici «la zona di confine Pakistan-Afghanistan divenne il principale produttore di eroina al mondo, fornendo il 60% della domanda Usa. Con la conseguenza che in Pakistan, la popolazione tossicodipendente passò da quasi zero nel 1979 a 1.200.000 persone nel 1985. La Cia controllava questo traffico di eroina. La Dea (Drug Enforcemente Agency) a Islamabad evitò di pretendere grosse confische di droga o arresti «perché la politica sui narcotici Usa in Afghanistan [era] subordinata alla guerra contro l’influenza sovietica».

Chossudovsky ha anche  scritto: «Sostenuto dall’intelligence militare pakistana (Isi), che a sua volta è controllata dalla Cia, lo stato islamico talebano è stato largamente funzionale agli interessi geopolitici americani. Il traffico del Goden Crescent [la zona di produzione e smercio dell’oppio] è stato anch’esso usato per finanziare ed equipaggiare l’esercito musulmano bosniaco (a partire dai primi anni ’90) e l’esercito di liberazione del Kosovo (Kla). Esistono prove che negli ultimi mesi i mercenari mujahideen stanno combattendo nei ranghi dei terroristi Kla-Nla in Macedonia. Questo spiega perché Washington ha chiuso gli occhi sul regno del terrore imposto dai Taleban, inclusi i plateali attacchi ai diritti delle donne, la chiusura delle scuole per le bambine, i licenziamenti femminili dagli impieghi pubblici e l’imposizione delle leggi punitive della Sharia».

 E ancora: «Dall’epoca della guerra fredda, Washington ha appoggiato consapevolmente Bin Laden, inserendolo nello stesso tempo nella lista dei «most wanted» dell’FBI come principale terrorista del mondo. (L’FBI, infatti, combatte una guerra interna contro il terrorismo per alcuni aspetti indipendentemente dalla Cia che, ha, dalla guerra in Afghanistan in poi sostenuto il terrorismo internazionale attraverso le sue operazioni segrete). Per una crudele ironia, mentre la jihad islamica viene criticata per gli attacchi terroristici sul World Trade Center e il Pentagono, queste stesse organizzazioni islamiche costituiscono uno strumento chiave delle operazioni americane militari e di intelligence nei Balcani e nelL’ex Urss (cfr. Cecenia)».

Mumia Abu-Jamal (25 sett ), poeta scrittore detenuto negli Usa, ha citato le dichiarazioni di un diplomatico americano: «Non si possono immettere miliardi di dollari in una jihad anticomunista, coinvolgere il mondo intero e poi ignorarne le conseguenze. Ma noi lo abbiamo fatto. I nostri obiettivi non erano la pace e lo sviluppo del’Afghanistan. Il nostro scopo era uccidere i comunisti e buttare fuori i russi» (un diplomatico Usa, sul Los Angeles Times 4.09.96)

Anche Johan Galtung (11 ott.), sociologo e matematico norvegese, fondatore nel 1959 del Peace Research Institute Oslo (PRIO), mette l’accento sulla situazione che ha dato esca alla scelta  della vendetta. Il sentimento di vendetta (l’odio di cui sono fatti oggetto gli americani e non solo loro) è maturato «per l’uso statunitense del potere economico contro stati e popoli poveri, del potere militare contro gente indifesa e del potere politico verso i senza potere». E ricorda «i 230 interventi militari statunitensi all’estero, il quasi sterminio dei nativi americani, lo schiavismo, la responsabilità della Cia per i 6 milioni di persone uccise tra il ’47 e l”87 (secondo fonti dei dissidenti della Cia) e i 100.000 che muoiono ogni giorno all’estremo inferiore di un sistema economico identificato da molti con il potere economico, militare e politico degli Usa».

L’Occidente impone un’enorme ingiustizia al resto del mondo in politica e in economia. Secondo l‘ultimo Pnud ( Programma di sviluppo delle Nazioni Unite) il patrimonio di 15 uomini più ricchi del mondo è pari al pil dell’Africa subsahariana (700-800 milioni di persone) (3 ott. Latouche, economista, autore di L’occidentalizzazione del mondo).

Qualcuno potrebbe giudicare fastidioso questo “rimestare” nel passato della più grande potenza mondiale. Ma  la storia, che i potenti danno per «finita» non fa che riportare continuamente alla luce i massacri su cui si edificano le civiltà.

Da dove viene, dunque, il “terrorismo”?

L’attacco alle Twin towers e al Pentagono – scrive  Burgio (27 sett)  –  non nasce in un vuoto pneumatico, ma in un preciso contesto economico e politico. C’è stata e c’è sordità delle grandi potenze nei confronti delle richieste economiche dei paesi poveri e delle istanze politiche delle popolazioni oppresse. Pochi sanno che metà del bilancio militare Usa basterebbe a eliminare la fame nel mondo. E il tragico fallimento dei sistemi di intelligence  non permette di escludere un’atroce ipotesi:  quella di una «strategia intestina, di una complicità con i commandos terroristi da parte di apparati deviati interni agli Usa o ad altri paesi occidentali. [Ecelon, preparazione durata mesi del piano, sottovalutazione di informative, rapidità successiva nell’individuare presunti complici, conoscenza dei codici cifrati  del luogo in cui si trovava il presidente].

Burgio – a differenza di molti altri che presentano la risposta di guerra  di una potenza mondiale come risposta emotiva  o giusta punizione per un massacro subito ingiustamente  e senza alcun motivo (come fa Lucia Annunziata a Radio 3) –  ricorda che la guerra  come rilancio di un’economia in recessione [un keynesismo militare» secondo Raskin] è un volano per il sistema militare-industriale Usa. [Lo ha scritto anche l’economista Graziani sul manifesto del 19 sett].

Obiettando poi a quanti insistono sulla novità eccezionale dell’evento e  vogliono iscrivere la risposta Usa all’interno di una logica imperiale[1] invece che imperialista – la prima più capace di egemonia e consenso, la seconda costruita sull’esclusivo uso della forza – sottolinea gli elementi di continuità col passato della risposta americana:  l’operazione di Bush junior  non è una nuova  guerra ma  la prosecuzione coerente della guerra del Golfo di Bush padre: «il collegamento con la presenza militare nei Balcani seguita alla guerra in Kosovo – scrive Graziani – creerebbe una cintura  completa, una nuova frontiera fra occidente e oriente», un nuovo bipolarismo, una sorta di «autodifesa preventiva» contro la Cina, che nel 2017 si prevede divenga potenza militare ed economica pari agli Usa.

Sulla sua stessa linea troviamo:

– Carla Ravaioli (25 sett), la quale fa presente che le guerre hanno risolto tutte le depressioni, tutte le crisi economiche del secolo scorso: a partire dai due conflitti mondiali, continuando con la Corea, il Vietnam, il Golfo e le mille guerriglie locali. Nel processo di accumulazione del capitalismo, fondato su una logica di crescita senza aggettivi, la produzione di armi s’inserisce bene anzi benissimo in certe circostanze.

Dinucci e Di Francesco (27 sett.), che hanno sottolineato come il centro della strategia militare degli Usa si stia spostando verso l’Asia. L’attentato di N. Y. ha solo accelerato questa prospettiva, che era già pronta. [addestramento piloti a lunghi percorsi di 50 ore dalle basi del Missori all’Asia]. La Nato prosegue la sua espansione verso l’Est contro la «nuova minaccia dall’est»: ieri Milosevic, ora bin Laden]. E che la posizione strategica del’area Afghanistan-Pakistan: vicina alle due potenze emergenti dell’India e della Cina, prossima al territorio dove si prevede la «guerra degli oleodotti» [ orridoi che portano il petrolio ai paesi consumatori].

È troppo facile liquidare questi dati come ragionamenti “economicisti”. Dopotutto le scelte politiche che contano le fanno oggi proprio élites che guidano l’economia mondiale. E la guerra non è stata mai esclusa dai calcoli dei potenti.

Non dissimili le considerazioni dello storico Hobsbawm (28 sett):

 – evitare la retorica e la propaganda americana;

– finora la conseguenze più importante degli attentati americani hanno riguardato l’economia mondiale, con l’affondamento delle piazze finanziarie;

«viviamo in un mondo globalizzato.. la circolazione di persone da un oceano all’altro è il fondamento dell’esistenza del mondo d’oggi.. bisogna viverci sforzandosi  di controllare gli aspetti insopportabili del fenomeno. Il terrorismo, le mafie, il mercato delle droghe sono «figli» della globalizzazione»;

Il capitalismo trascina il mondo verso un’implosione o un’esplosione e pone enormi problemi tra cui la crescita del fanatismo e dell’irrazionalismo. Ma il rischio di una guerra mondiale «mi sembra impossibile salvo, forse un giorno, tra Stati Uniti e Cina»;

–  c‘è una sola potenza egemonica e rispunta la questione dell’imperialismo o piuttosto del colonialismo: ci sono paesi occupati la cui politica interna è nelle mani di eserciti stranieri;

– gli Usa non sono in grado di dominare un mondo «complicato, in permanente trasformazione come il nostro». I governanti degli Usa sono troppo trionfalisti. Si sono creduti onnipotenti. I governanti inglesi nel XIX sec., quanto l’impero britannico esercitò la sua egemonia, erano più realisti: non pretendevano di controllare tutto. Dovrebbero ripensare ciò che possono fare, riconoscere i loro limiti;

– il primo problema è nelle strutture dell’economia e nella dialettica tra l’ economia e i  governi; il secondo problema sta nella «sconfitta delle antiche ideologie di mobilitazione dei popoli fondate sulle grandi rivoluzioni (americana, francese, russa). Tutta la tradizione razionalista è coinvolta e «lascia uno spazio enorme ad altre forze»;

– preoccuparsi dell’India (salita vertiginosa dell’economia e delle capacità intellettuali), della Cina (il gigante economico di questo secolo), delle «regioni tragiche» (Africa subsahariana e ex Urss (qui la crisi dell’agricoltura supera quella dei tempi della collettivizzazione), delle «regioni incerte» come l’Europa (l’antico progetto europeo è in un vicolo cieco).

  1. Sugli effetti (politici, culturali, economici) prevedibili dell’evento

Senz’altro sono disastrosi sia per chi volesse “la pace e basta”, sia per chi vuole una pace qualificata da più giustizia sociale e l’incoraggiamento dei processi di liberazione.

L’evento rallenterà la protesta mondiale contro la globalizzazione:  le atrocità terroristiche sono un regalo a chi è favorevole alla loro repressione (20 sett Chomsky)

Assisteremo a un grande rilancio delle vendite del libro di Huntington sullo scontro delle civiltà (16 sett Parlato) e quindi ad un inquinamento propagandistico che distrarrà le menti dalla realtà dei problemi. (Chi parla più dei fatti di Genova? E chi parla  delle decine di migliaia di licenziamenti che stanno investendo tutti  i settori economici dopo l’11 sett.?)

 Nel disastro, alcuni sperano, ma sono quasi immediatamente contraddetti dai fatti:

Ciotti (22 sett)  si aspettava «un soprassalto di lucidità nei governi e nella coscienza collettiva, nella società civile globale, per interrompere finalmente la spirale dell’odio e del terrorismo.. sottraendosi al copione già scritto della rappresaglia […].

La crisi dell’11 sett potrebbe portare ad un ridimensionamento dell’ultraliberismo e ad un intervento dello stato? (Molti fanno l’esempio del risparmio sul costo del lavoro: subappalto dei controlli dei varchi negli aeroporti che ha aperto le porte alle infiltrazioni terroristiche (16 sett Parlato))

Oppure auspicano che i pacifisti più convinti dovrebbe trovarsi proprio nella comunità degli affari. Non si fondano sulla certezza delle aspettative in economia? (16 sett Parlato)

Possiamo restare appesi a queste dichiarazioni di speranza sull’America, mentre il grosso del paese e tutta la sua dirigenza politica e culturale (tranne  alcune mosche bianche: Sontag, ecc.) hanno imboccato la via del fondamentalismo proprio come dall’altra parte della galleria l’ha imboccata bin Laden?

Riporto  le riflessioni di Saskia Sassen (18 settembre):

  • i leaders statunitensi attuali non vogliono comprendere altri linguaggio che quello della guerra, si trincerano dietro il muro di prosperità e non esitano – quando intervengono all’esterno – a puntare innanzitutto sul controllo militare di un paese anche se esso non fa che aumentare la povertà della popolazione;
  • il tono dominante nei mass media è quello di chi vuole la guerra, non di chi chiede peace, not war;
  • ostilità contro il “nemico interno”: comunità musulmane e migranti in genere – razzismo rinfocolato – sicurezza:  si discute per ridare agli agenti della Cia la possibilità di eliminare fisicamente leaders e esponenti politici stranieri “nemici degli Usa”.

Mi sento più vicino a chi non crede nella capacità autoriformatrice  del capitalismo e del mondo occidentale.

 «Ci sarà più Stato» è affermazione ambigua – dice Latouche – Non è che ci sarà più Stato sociale. L’aiuto va alle imprese in difficoltà non ai «20-30 milioni di persone che negli Usa vivono sotto la soglia di povertà». Ci sarà la rinuncia al dogmatismo ideologico ma «in nome della difesa degli interessi interni degli Stati Uniti». Siamo arrivati all’ultraliberismo. Per gli Usa «la liberalizzazione va bene per gli altri… loro sono il paese più protezionista» (Cfr. negoziati Gatt e Wto)  (3 ott. Latouche, economista, autore di L’occidentalizzazione del mondo)

Né sembra che la paura del terrorismo possa avere  qualche benefico effetto, risvegliando i governi e spingendoli almeno ad un maggior controllo fiscale. Scetticismo sull’intenzione di «controllare i paradisi fiscali». È’ difficile distinguere fra un dollaro pulito e uno sporco. I paradisi fiscali servono ai terroristi ma servono anche alle multinazionali (3 ott. Latouche)

AMERICANIZZAZIONE: SIAMO TUTTI AMERICANI=SIAMO TUTTI ITALIANI  O ANTIAMERICANI  O FILOAMERICANI O IBRIDI?

Portelli, America e luoghi comuni (manif 20 ott 2001)
Lo sforzo di Portelli è quello di distinguere. «L’America è una realtà composita, complicata, pullulante» – ha scritto –  e «la vicinanza culturale, i rapporti, i contatti con gli Stati Uniti che in misura diversa tutti noi intratteniamo sono una delle ragioni per cui la strage dell’11 settembre ci ha così ferito». Una sua studentessa  gli ha confessato che«è la prima volta che un pezzo della sua memoria viene cancellato da un atto di violenza».

Pugliese 28 sett.

  • la parte più bella dell’America è che è un paese che non si è mai vergognato di definirsi paese d’immigrazione;
  • con la globalizzazione l’America è potenza militare unica, ha conquistato tutto. Tutto domina e tutto contiene in sé: i terroristi possono comprarsi un bel corso per pilota solo in America e il mestiere di terrorista l’hanno imparato dagli americani e forse in America.

 

Cartosio (20 sett) appare scisso, dilaniato  fra amore e repulsione:

  • non possiamo scagliare invettive contro gli Usa come hanno fatto la Sontag [ non è un attacco  alla civiltà, all’umanità, alla libertà, al mondo libero ma un attacco all’autoproclamata superpotenza del mondo] e Bellow [ gli Usa sono un enorme paese dei balocchi e gli americani bambini viziati che si illudono di giocare per sempre] [ma sono invettive o verità?]
  • siamo comunque più vicini alla storia degli Usa (li conosciamo, li frequentiamo, li amiamo), che ai paesi islamici o asiatici (nel nostro rapporto con questi mondi non c’è ancora nulla di intimo).

[profondità dell’americanizzazione] [ma non è una colpevole ignoranza conoscere  i luoghi degli Usa e non conoscere l’Iraq o la Palestina? Non ci dice che ci siamo spostati verso i ricchi e ci siamo allontanati dai poveri? E il giudizio politico critico verso i bombardamenti Usa, se «non smette di essere intriso dell’effetto, e quindi del risentimento», sarebbe viziato?  Dobbiamo venire a sapere dopo – quando Clinton  chiede scusa al Guatemala per i 200mila morti del golpe del 1954 – che la politica estera americana è omicida? Nei confrotni degli Usa siamo come i comunisti  del PCI rispetto ai gulag di Stalin?

Più distaccato Ceserani (20 sett):

  • reazioni della gente: tendenza puritana a chiudersi nella famiglia, a concentrarsi sul proprio lavoro e sulla propria missione al mondo [come invitano a fare Mengaldo e Ranchetti?];
  • Bush retorica rozza da sceriffo di frontiera;
  • paese ricco di capacità tecniche e intraprendenza economica, ma privo di intellettuali capaci di analisi (effetto del postmodernismo): uniche eccezioni Chomsky e la Sontag; vuoto pauroso: nessun giornale che possa assomigliare al” manifesto” o anche solo a “El pais” o al “The Guardian”; debolissime le università, poste sotto assedio da tempo dalle corporations (già “americanizzate” insomma, cioè precocemente professionalizzanti e basta);
  • si potrebbero leggere i fatti alla luce dell’immaginario sulla cospirazione (congiura di corte, società segrete d’inizio Ottocento, reti comunicative complesse e autoreferenziali  postmoderne ( es. romanzi di Philip Roth e Pendolo di Foucault di Eco)

Davvero critico  Latouche (3 ott):

la solidarietà immediatamente scattata fra tutti i paesi ricchi  che hanno fatto blocco con gli Usa (Chirac: siamo tutti americani), è la prova  che l’occidentalizzazione esiste.

L’Europa, non colpita, poteva distinguersi, ma non l’ha fatto:

– cecità americana: l’americano medio ignora il resto del mondo [Cartosio in parte…]. come possono mettersi dal punto di vista degli altri?

«Non siamo tutti americani [slogan lanciato su Corriere della sera  e Le monde] – io almeno non lo sono» .

 Siamo deboli ma possiamo dire che Bush è pazzo pericoloso, non colpirà la Jihad ma molta gente senza colpa e spingerà gli Stati Uniti a vivere assediando il mondo e ad esserne assediati.( 22 sett Rossanda)

Tonello (22 sett):

  • cosa significa essere americani è problema irrisolto: cfr Michael Walzer, Che cosa significa essere americani, Marsilio 1992
  • Hofstadter: l’incertezza ha un motivo profondo: l’America è un’ideologia, un progetto non un luogo fisico con dei confini;
  • Gleason: per essere o per diventare americano non era richiesto nessun retroterra etnico, religioso, linguistico o nazionale; l’immigrato doveva solo impegnarsi in una ideologia politica centrata sugli astratti ideali della libertà, uguaglianza e repubblicanesimo;
  • Visione autoritaria della cittadinanza: Love it, or leave it = amate l’America o andatevene [ gli indiani d’America  eliminati appunto in quanto «non americani», segregazione razziale, internamento di giapponesi e italiani durante la seconda guerra mondiale]
  • il maccartismo torna alla ribalta con il pretesto del terrorismo [etichetta appiccicata a discrezione del Dipartimento di Stato] (presentato come barbarico, privo di ragioni, irrazionale e inspiegabile [!], mentre è chiaro che si propone di punire gli Usa per il loro appoggio a Israele e ai regimi arabi «empi» come l’Arabia saudita.
  • I media dicono che si odia l’America perché ricca, tollerante e moderna. Molti invece la odiano per quel che fa in appoggio a regimi corrotti come quello saudita, per il sostegno  d’armi a Israele, per il suo disinteresse  verso chi vive nei campi profughi;
  • Fukuyama su Le monde intitolava il suo articolo l’etat uni: l’America è una sola, non più pluralista, contraddittoria, ferocemente attaccata alle libertà individuali

L’esigenza di tirarci fuori dall’americanizzazione, che danneggia gli stessi americani, è stata sottolineata da Busi 18 sett:

  • Quanto è amico Bush che ha respinto il trattato antipolluzione di Kyoto? Quant’è amica Israele che ha abbandonato la conferenza di Durban contro il razzismo?
  • Antiamericanisti sono gli americani stessi: cita Philiph Roth, La macchina umana, dove un reduce del Vietnam viene disprezzato dai suoi stessi concittadini, che non gli perdonano di essere tornato a casa, testimonianza vivente di un orrore che essi non vogliono guardare;
  • L’attentato alle Twin Towers è impensabile senza una rete di traditori in giacca e cravatta, bianchi e neri come noi, non afghani, non palestinesi, non irakeni, non coreani, non vietnamiti; una rete di connivenze che non può essere tutta e sola emanazione di Kabul e di qualche riconoscibile imam; e l’America deve interrogarsi innanzitutto sul numero di cittadini americani antiamericani;
  • Non si combatte un fondamentalismo alieno con un altro fondamentalismo;
  • L’inferno diceva Sartre sono gli altri, cioè le loro ragioni contrarie alle nostre;
  • Anche il cattolicesimo ha avuto il suo fondamentalismo e il suo bin Laden si chiamava Torquemada.
  • Il fondamentalismo islamico ha un alibi in mezzo secolo di guerre americane in Medio-oriente

FONDAMENTALISMO, TERRORISMO: fondamentalisti sono solo gli “altri”? I fondamentalisti arabi RAPPRESENTANO o NON RAPPRESENTANO I POVERI, GLI ESCLUSI? E i fondamentalisti nostrani? [pensa a Taguielff sul razzismo…]

 Gilles Kepel (autore di Jihad ascesa e declino) (2 ott):

  • Jihad significa sforzo per essere un buon musulmano (equivale al laico-borghese streben?) fino alla guerra santa contro gli empi;
  • 1. In Afghanistan la corrente salafista-jihadista nata nell’ ’80 è stata finanziata da Arabia saudita e Cia; 2. I movimenti religiosi islamici diluiscono e mascherano le conflittualità sociali  e non sono affatto omogenei («i musulmani non sono una massa di poveracci a piedi nudi; importante il peso delle classi medie: commercianti e massa di studenti; i kamikaze provengono da classi medie, hanno studiato e appartengono a buone famiglie [ dati tratti dai siti internet con le biografie dei “martiri della jihad”); 3.  La jihad  solo in particolari contesti assume la  forma di guerra santa, «provvedimento a doppio taglio che può rivoltarsi contro chi la proclama perché sospende gli obblighi che regolano la società»; 4. fortissimo per i movimenti  islamisti è il «senso di appartenenza alla modernità tecnologica» («speciale vocazione mediatica», «dimestichezza con le nuove tecnologie», molti  vengono fuori dalle facoltà di scienze applicate (ingegneria, medicina, informatica); gruppi finanziari  che usano bin Laden e sono da lui usati, database di bin Laden fin dall’88 coi dati di tutti gli jihadisti e volontari passati per i campi di addestramento); 5. I talebani si sono formati alla “scuola deobandita”, una filiazione poco nota dell’Islam e vogliono edificare una sorta di controsocietà religiosa senza stato;
  • Declino dei movimenti islamici fondamentalisti ( tesi di Kepel): l’ideale religioso è in contrasto con un progetto politico moderno. Tentativo Usa di evitare la saldatura fra talebani e masse musulmane divenute fortemente ostili agli USA per la loro politica mediorientale.

Sull’ambiguità del fondamentalismo:

  • fondamentalisti sono gli Usa (a livello di cultura popolare); e nel mondo islamico, a parte i talebani, lo è l’Arabia Saudita, stato-cliente degli Usa dalle sue origini: Negli anni 80 gli estremisti fondamentalisti islamici erano i favoriti degli Usa, perché erano i migliori killer che si potessero trovare. (Chomsky 2o sett);
  • terrorismo e guerra. Sinonimi: il terrorismo è una variante, una manifestazione della guerra (Bascetta 16 sett);
  • Parafrasando Clausewitz: il terrorismo è la continuazione della guerra con altri mezzi… (Parlato16 settembre);
  • Bidussa (28 sett): Contro Panebianco (Corriere della sera 26 settembre) che esprime «uno stato d’animo» presente anche in molti settori della sinistra, non basta l’ironia, la considerazione semiseria o la citazione giusta: accettare il relativismo culturale equivale a svendere la propria identità e non possederne una [aggiungi Galli Della Loggia: la crisi del patriottismo non va cercata nel fascismo ma nella crisi dopo l’8 settembre e quindi nell’antifascismo, (Dal Lago 29 sett)];
  • Richiama Veca (un liberale “intelligente”) che afferma «Noi siamo fatti di cose in prestito» e Ernst Gellner (Ragione e religione, Il Saggiatore che sostiene la stretta parentela fra fondamentalismo e relativismo;
  • Il fondamentalismo non è la rivincita della tradizione contro la modernità ( come parrebbe bin Laden) ma l’adesione a una forma IDEALIZZATA di civiltà. L’autoreferenzialità (narcisistica) sostiene la mentalità fondamentalista ma anche quella relativista, nominalmente disponibile e aperta al confronto: l’esempio di Robinson Crusoe, che si crede cittadino del mondo, esterofilo, attratto dall’esotico e dall'”altro”, ma la cui massima aspirazione è «invecchiare a casa propria» [cfr Umberto Eco…) Per lui l’incontro con l’altro è solo un «corpo a corpo da cui si esce o sconfitti o vincenti». La posta in gioco è l’inclusione dell’altro o l’esclusione. Non è prevista nessuna metamorfosi o trasformazione dell’identità. Una figura mista, in questa dinamica, non ha senso;
  • Chesneaux (23 sett):

Ci sono migliaia di siti internet integralisti, una prova dell’irresponsabile feticismo della mondializzazione finanziaria e tecnologica considerata come base principale della liberazione umana. L’avvenire radioso tutto tecnica e soldi, come dopo la caduta dell’Urss, la fine della storia di Fukuyama. Si è voluto il «laissez- faire economico assoluto e ci svegliamo con la rete di bin Laden che realizza l’impensabile»;

  • Huntington non ha ragione: non siamo allo scontro di civiltà. L’Islam non è unito e neppure l’occidente è unito;
  • Siamo allo scontro fra ricchi e poveri?

Islam=povertà? «L’Islam è in effetti la forma più organizzata, elaborata e dinamica del mondo della miseria. Vorrebbe rappresentare una contropartita alla mondializzazione tecnologica e finanziaria, ma non credo si possa sostenere che l’islam sia il rappresentante principale di questo mondo della miseria» È ambiguo [ ma non lo era anche il comunismo, le dirigenze leniniste erano forse operaie?]

  • C’è un Islam che non accetta di rispettare la società civile, di fare della religione un fatto privato, ha mire totalizzanti. È un problema.

[perché solo gli Usa possono essere terroristi o manovrare terroristi [George Monbiot (7 nov): Se  bisogna eliminare al-Queda come terrorista, perché non eliminare la Scuola delle Americhe, che dal 1946, a Fort Benning in Georgia, ha “laureato” terroristi, torturatori e dittatori latinoamericani?]  e altri no? È giustificata la loro pretesa di potere imperiale? Il loro monopolio della forza? ottenuto come? Cosa ha di così diverso dalla guerra il terrorismo? I  terroristi di oggi non rischiano di diventare gli statisti di domani?

Bascetta (16 sett):

–     la riscoperta del patriottismo non è una benedizione ma è devastante;

  • antiamericanismo e filoamericanismo: ottuse semplificazioni fondamentaliste;
  • liberismo dogma simile a quello coranico: Scuola di Chicago=scuola coranica;
  • movimento antiglobal l’unico antidoto efficace (?). non ha bisogno di essere né americano, né antiamericano;

Saskia Sassen,  autrice di «Global City» (18 sett.):

  • non ogni povero è potenziale terrorista; ma la scelta terrorista è parte dello scenario attuale fatto di miseria-povertà – interdipendneza economica;
  • Accelerazione verso un potere unico mondiale che fa svanire l’equilibrio conflittuale tra Usa e Europa;
  • Y. concentrato di competenze ineguagliabile; la distruzione delle Twin Towers farà abbassare i prezzi dei terreni e degli immobili, possibile una free zone per spregiudicate operazioni immobiliari.E adesso? Pace  si dice, guerra si fa

 sui risvolti filosofici (di filosofia politica) dell’evento

Tutto è simile e tutto è diverso dall’inizio della modernità, leggermente diverso, ma quanto basta perché sia completamente diverso.

Quelli erano tempi di teologia politica: bisognava creare un ordine a partire da un bisogno di secolarizzazione, facendo «come se Dio non ci fosse». Oggi è il contrario, tutti sembrano agire «come se Dio ci fosse», mentre la sovranità politica [la politica] decade irreversibilmente. .. (Carlo Galli,  manifesto 27 sett. 2001)

 Salamon: nessuna forma d’immaginazione supera negli uomini quella del male = è più facile e meno faticoso fare il male piuttosto che il bene (16 sett Parlato)

[Vedi anche Sofsky, Sulla violenza  e Revelli, Oltre il Novecento]

Siamo al grande ritorno delle religioni: non più oppio ma cocaina dei popoli (16 sett Parlato)

Anche i latini dicevano che era giusto morire per la patria e per chi ci crede la religione è più importante della patria (16 sett Parlato) [ Vedi anche Saramago]

 Viviamo in un mondo dove il rischio è ormai generalizzato:«All’uomo contemporaneo, e la cosa non è stata mai così forte nella storia come ora, può succedere o in ogni momento qualcosa di totalmente imprevisto. Abbiamo insomma tutto da perdere. E questo fa la forza del sud, dei deboli: loro non hanno nulla da perdere». (3 ott Latouche).

Johan Galtung,  Il pacifismo tra i Cruise e la Jihad, (manif. 11 ott.):

Invita a non sottostimare il grado di solidarietà nel «resto del mondo» e  la solidarietà della «classe superiore mondiale», ben evidente in questi giorni [Latouche anche]

Riconosce che «la catena della violenza e della vendetta è un fatto umano» [Sofsky]..

La prospettiva è quella pacifista: «l’uso della violenza contro la violenza è controproducente (Gandhi).

Si deve fare affidamento «sulle popolazioni e sulla società civile» non sui governi dell’Occidente o su quelli del Sud: «sono troppo legati agli Stati uniti e troppo timorosi di incorrere nell’ira americana».

Concordanza sull’analisi. Scetticismo sulle potenzialità della cosiddetta società civile. A me pare che l’attore pacifista nelle nostre società arrivi sempre troppo tardi e neppure riesca più a frenare dinamiche di conflitto che da tempo sono state predisposte per lo scontro. [Grande attenzione alle posizioni, che sarebbe ingeneroso chiamare “economiciste” di Burgio, Ravaioli, Dinucci]

Del resto il pacifismo – è bene ricordarlo – convive in una scomoda posizione coi governi di guerra qui in Occidente e all’ombra del cosiddetto “terrorismo” nei paesi arabi.

Può far poco.  L’immagine del vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro.

 L’esempio dell’impotenza dei pacifisti in Israele.

Per noi l’esser dentro la situazione materiale e culturale dell’Occidente -quindi non in una posizione di impossibile equidistanza – spinge i pacifisti nel ruolo di  consiglieri ragionevoli di governi che hanno dalla loro la ragione della forza.

 (Cosa devono fare i militanti pacifisti? «Riportare  sulle loro agende questi problemi: la povertà e la fame nei paesi poveri; il disprezzo e l’ignoranza dell’Occidente verso le culture e le religioni non cristiane come fonte di odio; una memoria storica dei conflitti, dalle  crociate alla conquista dell’America alla distruzione dell’Africa allo schiavismo, alla guerra dell’Oppio, alla conquista britannica dell’Afghanistan, ecc.»( Galtung).

Ma questi sono consigli a governi “nostri” che non li ascoltano.

Cosa sarebbero in grado di consigliare ai popoli oppressi e rassegnati o a quanti in quei popoli sono tentati di «ricorrere alla violenza»?

Di fronte alla distanza fra noi e gli oppressi, la lingua si secca…

C’è da aspettare che la guerra produca la stanchezza dei combattenti [Sergio Bologna ai tempi del Kosovo]. Allora i pacifisti potranno dire «L’avevamo detto…».

Profeti disarmati…

Shafique Keshavjee, Oltre la tragedia americana, (manif 14 ott):

Mette in risalto l’intrico di interessi economici e politici fra Stati Uniti, Arabia Saudita e Europa e cioè le «alleanze economiche e strategiche perverse che legano americani, sauditi, europei e… terroristi» [L’Europa sul piano dei bisogni dipende dai sauditi e dai paesi del Golfo per il suo approvvigionamento in energia e dalla loro partecipazione nella vita delle imprese e delle banche con centinaia di miliardi di petrodollari; il governo saudita ha bisogno della sicurezza americana e dei suoi dollari…]

E conclude: «La rivelazione è che siamo solidali non solo con le vittime americane, ma anche con un sistema di cui profittiamo ampiamente e che ha causato il loro dramma».

In questo noi siamo per forza compresi anche noi: pacifisti o esodanti.

Il problema è come scioglierci dall’abbraccio soffocante dell’Occidente, dei nostri governi, delle nostre comunità impaurite o gregarie.

Imporre combattivamente la pace anche a costo della violenza contro chi con la violenza ci impone la guerra? Una volta questo era chiaro. Sentite queste parole di Fortini:

“A me è stato insegnato, e lo insegno, che la vita di ogni uomo, di ogni essere umano è un valore infinito perché è la mia medesima vita, e perché è un progetto, un futuro, una possibilità di tutti. E, nel medesimo tempo, e non in contraddizione con questo, mi è stato insegnato, e lo dirò adesso con le parole di Lenin[2] “che quando decine di milioni di uomini vengono mandati ad uccidersi sui campi di battaglia per sapere se questo o quel mercato debba appartenere ad un bandito francese o ad un bandito tedesco, può essere necessario sacrificare una generazione, e prima di ogni altro se stessi, nel tentativo di fermare quei massacri e di distruggere quei banditi”.

Questa è la situazione tragica dell’esistenza umana: essere uomini significa questo. Chi non vuole vedere, chi vuole consolarsi credendo che il pane che mangia non è sottratto a chi muore di fame, in questo caso lo faccia pure. Nessuna violenza è giustificata, mai, ma ogni violenza può essere inevitabile; credo che quanto dico stia scritto anche nel cuore della tradizione cristiana.[…] La nostra morale non è quella di Renzo Tramaglino, nota? è quella di chi ha nelle orecchie le urla degli innocenti torturati nei processi degli untori. Dunque noi non deprechiamo i tumulti, deprechiamo i tumulti inutili; ci sono forme di disobbedienza all’ingiustizia che noi dobbiamo imparare ad usare e praticare non perché si sia, o  almeno non perché io sia un non-violento per principio metafisico o religioso, ma proprio perché non vogliamo subire la violenza che è pronta a colpirci.”

( Franco Fortini, Violenza e non violenza, in  Non solo oggi, Editori Riuniti, 1991, pp.303-)

Si dovrà formare un movimento o un partito contro la guerra,  capace di smuovere corpi e menti per imporre un progetto razionale?( Progetto che esiste o no?) [ Cfr. De Carolis]

De Carolis  (26 sett):

  • L’unica ragione che giustificherebbe un intervento sarebbe un progetto plausibile di nuovo ordine globale. Ma esiste? Esiste sul piano economico, informativo e scientifico. È il presupposto sia del terrorismo che della reazione internazionale. È fondato sul privilegio di una élite ridottissima e sull’esclusione della grande maggioranza del pianeta.
  • Le due alternative per le potenze egemoni: avviare una riforma che rimuova storture e diseguaglianze del sistema e legittimare la lotta contro il terrorismo in base a questa riforma (« e si direbbe che questa strada sia stata scartata in partenza»; «blindare la soglia fra inclusi ed esclusi, estendere all’intero pianeta il modello segregazionista del vecchio Sudafrica», accantonando ogni problema di legittimazione e manipolando la comunicazione pubblica.
  • Solo in un prossimo futuro, i movimenti ora criminalizzabili, potranno far sentire la loro voce a patto di passare dalla protesta al progetto costruttivo.

Da sempre ci sono posizioni ragionevoli, ma inascoltate…

Un esempio? Ferrajoli, Una sfera pubblica globale, manif. 14 ottobre:

Parla di un triplice vuoto di politica e di diritto pubblico internazionale:

  • «Contro la minaccia di un terrorismo fanatico e ramificato, non servono armi nucleari né scudi stellari né alleanze militari di parte come la Nato, bensì quella forza di polizia internazionale che è prevista dal capo VII, ancora inattuato, della Carta dell’Onu»;
  • «La seconda carenza è più specificamente politica. dobbiamo domandarci quanto abbia contribuito allo sviluppo del fanatismo e del terrorismo una politica dell’Occidente informata unicamente a interessi economici e geopolitici: dalla mancata soluzione della questione palestinese.. fino all’invadente presenza americana nell’area e agli ambigui rapporti intrattenuti con lo stesso fondamentalismo islamico, dapprima allevato e utilizzato in funzione antisovietica e poi rivoltatosi contro i suoi vecchi protettori»;
  • «La terza e più importante lacuna è l’assenza totale di garanzie contro i giganteschi squilibri e le tremende ingiustizie provocate da una globalizzazione senza regole. Benché non ci sia un nesso diretto tra queste ingiustizie e il terrorismo, dobbiamo ammettere che i focolai dell’odio e della violenza traggono sicuro alimento dal contrasto sempre più vistoso e visibile tra la ricchezza spensierata dell’Occidente e le condizioni disumane di miliardi di esseri umani. Dobbiamo pur chiederci se sia realistica l’aspirazione alla pace e alla sicurezza in un mondo in cui ottocento milioni di persone, cioè un sesto della popolazione, possiede l’83%, cioè i cinque sesti del reddito mondiale».

23 sett Richard Falk ( teorico della democrazia internazionale):

  • la guerra che avanza è «una guerra senza soluzioni militari, in cui la ricerca della vittoria quasi certamente è destinata a intensificare la sfida e a diffondere la violenza» mediante un’alleanza scellerata fra governi e media. «siamo in bilico sul ciglio di una guerra globale tra civiltà senza campi di battaglia né confini», che viene dopo il crollo dell’ordine mondiale basato su stati sovrani.
  • Bisogna fare qualcosa ma non c’è niente da fare. Dobbiamo presumere che la rete terroristica abbia previsto la rappresaglia già prima dell’attacco, e abbia preso ogni misura possibile per «scomparire» dal pianeta» [mia discussione con Renato Solmi]
  • I nostri  leader avranno la capacità di astenersi dall’uso della forza contro innocenti?
  • La sola sicurezza realizzabile è la «sicurezza umana». «Tuttavia la notizia non ha raggiunto Washington e le altre capitali del mondo… Mentre il sole tramonta su un mondo senza stati, il sole del militarismo appare pronto a bruciare più splendente che mai!»

È pessimismo? O realismo?

I potenti  non hanno le nostre paure (ne hanno altre), non hanno le nostre incertezze… Hanno logiche che  ci sovrastano e prevedono anche la nostra distruzione. Anch’essi sono  “pazzi razionali”… organizzano le loro emozioni secondo una logica razionale strumentale contrapposta a quella che le organizza per  la vita [biopolitica…]. Non siamo gli unici depositari della ragione. La ragione occidentale è scissa… La ragione del potere  prevede la distruzione anche della gente comune, dei  “civili”, si contrappone alla ragione della gente comune.

27 settembre Carlo Galli  (studioso di Schmitt e autore di Spazi politici. L’età moderna e l’età globale):

  • questa non è una guerra mondiale ma «globale» e non ne conosciamo il funzionamento: è tendenzialmente interminabile [lettera a Solmi];
  • ci manca un pensiero all’altezza della crisi del sistema, e ci manca perché le condizioni di un nuovo ordine globale non ci sono. Abbiamo domande, non risposte. La tragicità della situazione sta qui. [Anche queste considerazioni mostrano la debolezza  in cui si viene a trovare chi vuol lottare per la pace…]
  • La trappola è che la coppia amico/nemico venga riempita su base identitaria e diventi scontro Occidente/Islam. La coazione identitaria va combattuta.
  • L’attentato alle Twin Towers ha ucciso la «buona» globalizzazione [quel precario ma fantastico laboratorio di cosmopolitismo che è Manhattan] ma anche la «cattiva»: che bastino gli interessi del capitale e del mercato a dar ordine al mondo [lettera a Solmi]

Santomassimo (27 sett):

  • Con l’operazione «libertà duratura» gli Usa chiedono una cambiale in bianco al mondo intero.
  • Lo «scontro di civiltà» (Huntington) è in atto da secoli. Scelta: non identificare «civilizzazione» con occidentalizzazione» (Berlusconi) ma relativismo culturale: «Siamo occidentali – cos’altro dovremmo essere? – ma il nostro Occidente non è il West. È quello di Kant e di Voltaire, non quello di John Wayne» [la posizione che Marramao trovava debole e a cui contrapponeva un universalismo delle differenze o pluriversalismo]

Marramao (21 sett):

  • Il nemico assoluto non esiste, esiste un sistema di cause ed effetti, strategie e responsabilità, poteri e scelte soggettive. bin Laden è solo uno dei poli di una rete, di un network terroristico. Non si sa chi sia il soggetto di tutto ciò.
  • Novità del conflitto: non siamo più nella convenzione del conflitto fra stati-nazione ( si può pensare agli atti di pirateria, alle dinamiche della colonizzazione)
  • La Jihad è solo l’involucro, il referente simbolico del terrorismo, che ha invece origini (Voltaire: L’occidente ha introdotto in altre civiltà del mondo forme di conflitto che quelle civiltà non conoscevano»). Ha ragione Chomsky: le armi che l’Occidente ha puntato contro il mondo gli si sono rivolte contro. Le tecniche usate sono quelle della razionalità calcolante: il corpo umano diventa componente tecnologica di una bomba intelligente [la mia poesia.. colpiti dalla nostra intelligenza…]. Si ha una sintesi fra cyborg (tecnologia avanzata) e mistica del corpo della Umma (quando si tratta di compiere una missione non si è più proprietari del proprio corpo che appartiene al corpo mistico della Umma. Il paradigma utilitaristico della scelta razionale coincide con il sacrificio di sé. Non è più utilitarismo).
  • Il nemico nel mondo globale non è più politico, ma morale; ecco la differenza da Schmitt.
  • Intelligence, Cia, Fbi hanno troppe e non poche informazioni, ma non hanno la chiave per interpretarle. C’è un abbassamento del livello culturale del personale politico, diplomatico. Non ne capiscono la struttura motivazionale.
  • Declino degli stati sovrani, bisogno di governare la globalizzazione. Necessità di una visione universalistica al posto del multiculturalismo che accetta le differenze come ghetti contigui. Non basta riverniciare l’universalismo illuministico-kantiano. Bisogna cercare un nuovo universalismo in altre culture: un multiversalismo, una politica universalistica delle differenze, che contrasti tanto la politica antiuniversalistica delle differenze, quanto quella universalistica della identità.
  • Il cuore di tenebre di bin Laden appartiene a noi occidentali. La ferocia dell’Islam è nata come reazione alle crociate.
  • Il colpo al movimento antiglobal è stato micidiale: ha perso pregnanza simbolica: di fronte al crollo delle Twin Towers che peso può avere sull’immaginario un bancomat rotto o un Mac donald’s assaltato ? [ mia lettera a Solmi)

Note

[1] I discorsi sull’Impero [Negri] risultano mitologici. Lo scenario è nuovamente mutato. Invece del mitico Impero, si avrà una nuova inquietante sfida Occidente- Oriente. Su posizioni simili è anche Rossanda… L’unificazione capitalistica non  fa degli Usa un impero. Non ne hanno le capacità di assimilazione e di mediazione. «Considero che gli Stati uniti stiano facendo ancora una politica imperialista che ferisce altre popolazioni e si rivolterà contro loro stessi: sono antimperilista» [critica a Negri] 22 sett Rossanda

[2] Lenin, Nikolaj, pseudonimo di Vladimir Il’ic (1870- 1924), uomo politico e pensatore russo, guida della Rivoluzione del 1917 contro il regime degli zar.

Ragionamento sui nostri antenati (2)

Borso vs Cases 1954

di Ennio Abate

Con in mente le domande[1] che mi sono posto nel primo «Ragionamento sui nostri antenati» (qui) sono andato a rileggermi «Un giovane contro il Leviatano, recensione di Cesare Cases a due romanzi brevi di Arno Schmidt, Leviathan [Leviatano, 1949] e Die Umsiedler [I profughi, 1953]» uscita sul numero di ottobre 1954 de “Lo Spettatore Italiano” e ripubblicata nel sito germanistica.net nel 2013 (qui).

Ho selezionato – le sottolineature sono mie – questi brani:

1. «Arno Schmidt ci mostra che l’esistenza di un enfant terrible, animato da sentimenti eversivi contro ogni autorità e contro le forme tradizionali, eppure (incredibile a dirsi) sincero, è ancora possibile. Di questo atteggiamento egli ci dà una nuova, notevole variante che merita la nostra attenzione proprio per la sua unicità».

2. «lo sfoggio di cultura non riesce sgradevole».

3. «si finisce per preferire coloro che, come Joyce o questo Arno Schmidt, ti offrono implicitamente la loro biografia culturale, cioè la genesi della decomposizione, spesso assai più interessante della decomposizione stessa e in ogni modo presupposto indispensabile a comprenderla».

4. «Però qui [in Schmidt] la cultura ha anche una funzione positiva, che non aveva nemmeno in Joyce: non è soltanto un’eco, ma una promessa. Nella distruzione totale dei valori, in un mondo leviatanico, i libri sono un punto di riferimento, un appiglio. Poiché il nichilismo dello Schmidt non è per nulla compiaciuto e soddisfatto».

5. «Certo nei suoi lineamenti esteriori (il ripudio di ogni autorità) esso ricorda da vicino, per esempio, gli espressionisti tedeschi; e quando si sostiene la malvagia natura leviatanica del mondo con una disordinata, ma imponente girandola di immagini astronomiche, matematiche, fisico-chimiche, dietro di esse è facile intravedere il gran maestro dei poeti scienziati della decomposizione: Gottfried Benn. Ma anche qui si rivela come il mezzo migliore per trovare la propria personalità sia quello di affrontare risolutamente le letture fatte alla luce delle proprie esperienze, senza scansare né le une né le altre per cadere nell’imitazione o nell’immediatezza. Ora l’esperienza fondamentale dello Schmidt è il nazismo, per cui egli prova un orrore profondo e genuino, rarissimo, ahimè, tra i tedeschi d’oggidì»

 6. «c’è nel suo anarchismo qualche cosa di profondo e di indistruttibile: il momento dell’indignazione giovanile, della piena del cuore ferito».

 7. Diverso discorso è da fare per il primo racconto, Die Umsiedler (Gli emigranti). Si tratta di due profughi dalla Slesia, un uomo e una vedova di guerra, che traversano il Rheinland e poi trovano una residenza stabile nel paese di lei, dove conversano interminabilmente di amore ed altre cose. Qui l’anarchismo si fissa in modo accademico. «Niente più guerra, niente più miseria! Il mio voto se lo piglia il partito che è contro il riarmo e per la limitazione delle nascite!». «Dunque nessuno?» «Dunque nessuno». Puro malthusianesimo espressionista. Preferivamo lo Schmidt che voleva la città senza uomini a questo che la vuole con pochi uomini comodamente installati: ci sembra più umanista quell’altro. È ancora tanto abile da introdurre nuovi felici varianti dei vecchi spunti, per esempio del motivo antireligioso. […] Fa piacere vedere che l’anarchico irriducibile non cade in certe trappole cristiano-occidentali, ma la sua ribellione è diventata decisamente prolissa, snobistica, cinica. Ci vedi il cittadino del mondo che si fa fotografare mentre brucia il passaporto, salvo richiederne uno nuovo il giorno dopo per non aver seccature. Si è rifatto la biblioteca: «Ottanta volumi (dopo la prossima guerra saranno soltanto dieci)». Ahimè: il nichilismo erudito, per mantenersi in efficienza, ha bisogno di nuove prospettive belliche.

Questi passaggi della recensione di Cases a me – non germanista ma lettore attento – sembrano confermare  che non si possa parlare di «stroncatura», valutazione di Michele Sisto, con il quale ho trovato vari punti di concordanza (qui); e neppure di «una recensione perfidamente diffamatoria» (Borso). 

Ci sono poi i passi che Borso ha  trascritto nel suo saggio, puntualizzando o  commentando con  sue veloci battute in contrappunto a Cases. La  sue puntualizzazioni[2] si basano sicuramente su notizie più precise sullo scrittore. Borso se l’è procurate più facilmente rispetto a Cases, che ai suoi tempi, essendo  al primo approccio con questo autore, si muoveva con una scusabile (credo) approssimazione. Da cui deriva l’errore sull’età di Schmidt, per cui ne parlò e l’apprezzò in un primo momento come se fosse un giovane.

Sulle considerazioni[3] in cui Cases fa trapelare sarcasmo o incomprensione riconducibili o alla sua condizione e mentalità borghese[4] o alla sua ideologia marxista, il discorso è più complicato. Ci vorrebbero almeno accenni al contesto storico (e, dunque al nazismo, alla Guerra Fredda, alla Russia stalinista). Mi pare  insufficiente richiamare di tutto ciò solo un dato, come fa Borso (il «silenzio assoluto di Cases sui 10 milioni di profughi tedeschi sospinti verso il Reno dove oltre la metà delle cases senza esse [sic]  era stata abbattuta dai bombardamenti alleati», alludendo implicitamente ad una colpevole complicità del Cases  stalinista, senza i necessari approfondimenti).[5]

C’è un altro problema a cui ho già accennato. A uno studioso come Cases , da molti considerato tuttora un intellettuale europeo e un militante politico della sinistra marxista più critica a, possono essere mosse molte critiche. E anche quelle di Borso – l’ho detto dall’inizio di questa polmica –  sono legittime. Ma  il richiamo ai dati empirici (« solo dati e tutti dati») o alla massima di Dal Pra («prima la topica, dopo la critica») non dovrebbe essere assolutizzato rigidamente. Non ci si può fermare ai dati, come se i dati  parlassero e cantassero da soli e per tutti i lettori con una loro perfetta evidenza. Anche se dicessero che Cases era stalinista, c’è da capire che tipo di stalinista fu. Pur essendo stalinista e iscritto a lungo al PCI anche dopo il ’56 ungherese, a me non pare che Cases, come del resto il suo maestro Lukàcs, lo sia stato al 100%, come un Togliatti o un Alicata. Certo non ebbe l’indipendenza del Fortini dei «Dieci inverni» e lo vedrei più vicino alla Rossanda responsabile dopo il 1948 della Casa della Cultura di Milano. E perciò mi sento di ripetere quanto detto in un commento: ce ne fossero stati nel PCI stalinisti del genere di Cases che ebbe il coraggio e l’apertura per pubblicare, sia pur con tutto il travaglio e i compromessi che Borso evidenza ma enfatizza, il libro di uno scrittore anarchico tedesco come Schmidt. Sarebbe antistorico pretendere che Cases in quegli anni sputasse su Stalin.

Un amico esterno a Poliscritture 3 mi ha scritto: «l’approccio di Borso è legittimo, e vale ciò che vale. E’ il lettore consapevole che darà all’intervento il suo giusto peso. Chiaro: se si pensa che sia il modo migliore (o unico!) di fare critica militante o anche polemica “civile”, si sbaglia. E si finisce davvero in una specie di moralismo ingenuo e perverso alla grillina. Però non capisco perché dar l’impressione di attaccare chi scrive certe cose…se sono vere, che male c’è? Quanto alle valutazioni/opinioni che se ne traggono, chi scrive se ne prende intera la responsabilità. E’ il suo modo di mostrare ci che lacrime grondi e di che sangue l’industria culturale nazionale, anche ai più alti livelli. E allora? Io leggendo Borso so qualcosa di più circa Cases & co. Un grammo, un niente. Ma preferisco averlo saputo. Va da sé che guadagno anche nella conoscenza di Borso, e di chi ha un approccio come il suo. Insomma: non mi scandalizzerei più di tanto. E preferisco comunque interventi (certo discutibili, e che infatti vengono discussi) come questi di Borso alle “lenzuolate” celebrative».

Concordo. Per me un critico può anche porsi il compito di sgretolare l’immagine di un intellettuale influente o ritenuto un’autorità nel suo campo o, come si dice, regolare i conti con lui. E anche senza tenere conto del “contesto” o dando peso ad episodi specifici e documentati, ma io posso chiedermi anche dove va a parare la sua ricerca. E tener presentei rischi che essa confluisca e rafforzi una cultura di destra, com’è già accaduto con la Nietzsche-Renaissance alla fine degli anni Settanta, piuttosto che aprire ad un nuovo tipo di critica, che per ora appare confuso o indecifrabile. E, infine, dire che trovo inaccettabile che Borso mi attacchi gratuitamente, attribuendomi cose mai dette[6], malgrado abbia sempre mantenuto nei suoi confronti un atteggiamento  di apertura ragionevole.

Note

[1] «cosa  è mutato e sta ancora mutando nel campo della politica e della cultura?  c’è qualcosa di cui non mi sono accorto, se  ho continuato a confermare la mia fiducia in autori (Cases tra altri) che invece dovrebbero  essere non solo sputtanati  – Borso la metta pure nei termini dei giganti e dei nani – ma dimenticati e rimpiazzati da altri ben più  acuti e non ideologici? non è che mi attardo in una storia non solo finita  ma fallita e dalla quale manco alle “buone rovine” bisogna più guardare?»

[2] 1.Cases: «Leviathan è il resoconto di un viaggio in treno, sembra da Berlino poco prima della caduta, verso una destinazione ignota».

1.1. Borso: «In realtà da Lauban a Görlitz, cittadine della Slesia (ora Polonia) dove Schmidt, figlio di una casalinga e di una guardia notturna, abitò negli anni Trenta, prima di farsi cinque anni di guerra e uno di prigionia».

2.  Cases: «Nel treno ci sono varie persone tra cui, oltre al narratore, una ragazza cui lo legano imprecisi rapporti amorosi».

2.1. Borso: «In realtà suo grande amore delle 4 superiori, e un vecchio col quale fa “lunghi discorsi filosofici” dove la “cultura è usata in buona parte in funzione formalistica, estetizzante, per dare delle belle liste sonanti di nomi”».

3. Cases: I due «conversano interminabilmente di amore ed altre cose».

3.1.Borso: «Il romanzo è di 50 pp., occupate per 1/10 dalle loro conversazioni (Schmidt in proposito affermò: “Io ci metto il dado, i lettori l’acqua”».

[3] Cases:«Preferivamo lo Schmidt che voleva la città senza uomini a questo che la vuole con pochi uomini comodamente installati».

 Borso: «Così comodamente da patire freddo e fame, giusto come Arno e la moglie, che si nutrivano di erbe selvatiche)».

Cases: «La sua ribellione è diventata decisamente prolissa, snobistica, cinica. Ci vedi il cittadino del mondo che si fa fotografare mentre brucia il passaporto, salvo richiederne uno nuovo il giorno dopo per non aver seccature. Si è rifatto la biblioteca: ‘Ottanta volumi (dopo la prossima guerra saranno soltanto dieci)’».

Borso: «Ahimè: il nichilismo erudito, per mantenersi in efficienza, ha bisogno di nuove prospettive belliche’”. 80 voll. trasportati a mano dalla Slesia, abbandonando tutti gli altri. L’Ahimè è inqualificabile i. e. abietto.  Quanto al cittadino del mondo, de quo fabula narratur?».

Cases: «La stessa decadenza è nello stile, sempre abile, ma questa volta freddamente abile. C’è un richiamo ancestrale nel fatto che i due si stabiliscono a Bingen, patria di Stefan George (evocato anche dai caratteri «Sparta»)».

Borso: «Bingen è una delle tante fermate del treno che li porta a GauBickelheim, dove s’installano scomodissimamente. Lo Spartan ritorna qui come tedesco-ancestrale i. e. reazionario; in effetti i caratteri senza grazie coniati da George negli anni Dieci vennero ripresi alla fine dei Venti da Paul Renner, tipografo del Bauhaus che inventò il Futura, di cui lo Spartan è un’evoluzione (con buona pace dell’antiamericanismo)».

Cases: «Preferiamo continuare a credere che lo Schmidt abbia incarnato, almeno per un momento, la ribellione della genuina ‘gioventù del mondo’ contro la barbarie nazista”, sperando “si accorga che ci vuole un minimo di organizzazione anche per combattere il Leviatano. A meno che non si ritiri nell’egoistico menefreghismo malthusiano degli Umsiedler, il quale, come è ormai ampiamente dimostrato, è una delle più salde colonne su cui le tirannie leviataniche instaurano il loro sanguinoso terrore”».

Borso: «Organizzazione comunista, s’intende, come quella italiana cui Cases rimase iscritto fino a tutto il 1958, digerendo i fatti d’Ungheria del 1956 (carrista quindi) ed anzi soggiornando in DDR nel 1957».

[4] Accennati nella breve nota biografica: nato a Milano il 24 marzo 1920 a due passi dalla centralissima casa Manzoni, di agiata famiglia ebrea, liceo Parini fino alla promulgazione nell’autunno 1938 delle leggi razziali, per proseguire gli studi emigra in Svizzera sostenendosi con la retta passatagli fino all’autunno 1943 dai genitori, poi fino al rientro in Italia nell’autunno 1945 da un parente; nel 1946 si laurea in filosofia alla Statale di Milano, nel 1951 si iscrive al PCI, nel 1954 insegna alle superiori a Pisa, entra in casa editrice Einaudi come referente per la letteratura tedesca e scrive appunto la recensione, che qui epitomo intercalandovi in corpo minore puntualizzazioni tratte da Leviatano, Mimesis 2013, e I profughi, Quodlibet 2016 (entrambi a mia cura).

[5] Ho cercato del materiale e sono riuscito a fare solo una prima lettura di questo saggio di Michele Sisto, (PDF) Gli intellettuali italiani e la Germania socialista. Un percorso attraverso gli scritti di Cesare Cases | Michele Sisto – Academia.edu) che fa parte di un volume di cui si danno notizie qui: (Riflessioni sulla DDR | germanistica.net). Da approfondire mi pare anche la lettura di questa intervista a Cases  della fine degli anni Novanta: http://www.germanistica.net/2013/06/10/intervista-a-cesare-cases/

[6] «ora, a te va bene un’edizione che riporta solo la metà dei pareri: tu ami la censura, e pure il tuo censore, il dott. Superio. e questo ti affumica il cervello, perché pur di salvare Cases ti fa addirittura piacere scopare sotto il tavolo metà giudizi di lettura»(db 27 Luglio 2021 alle 21:20 )

Un «filo» tra Milano e Cologno Monzese

Disegni di Tabea Nineo 1978

Franco Fortini e gli “intellettuali periferici”

di Ennio Abate

quel filo che più
non brilla e che fu
tuo, mio.
Franco Fortini, Poesie inedite
 
 

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Riordinadiario. Su Rossanda

di Ennio Abate

Ho letto poche ore fa la notizia: “È morta, la notte scorsa, Rossana Rossanda. Giornalista, scrittrice, cofondatrice de Il Manifesto, ha attraversato da protagonista la vita della sinistra e dell’intero paese da Dopoguerra in poi. Aveva 96 anni”. (Gli Stati generali su Facebook). Nei prossimi giorni leggerò altri ricordi e giudizi su di lei e li mediterò. Per me resta l’amica/sorella antagonista di Fortini e considero gli scritti di entrambi indispensabili per indagare l’enigma tragico del comunismo. Qui sotto alcuni appunti del mio diario in cui ricorre il suo nome.[E. A.]

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Fortini- Rossanda: “due comunismi” (c’erano)

a cura di E. A.

Stralci:

1.

Cara Rossana, ti ho vista iersera in TV.
Che tua è la vita, dicevi, e nessuno
per te può disporne. Lucente l’errore
in fronte ti splendeva. Ero ammirato e triste.

Due comunismi ci sono. Tu l’uno l’hai vissuto, che vuole
per ognuno e per tutti coscienza di sé.
L’altro è più mio: che negli altri si crei
la nostra figura né mai se ne veda la fine.

Questa la mia religione. Che tutto sia segno
e si converta in altro. La foglia si adempia
ma sia il bosco a parlare per ognuna
se al cielo vuoto di dèi vada il vento.

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