Prof Samizdat (prova 2)

di Ennio Abate

Ah, se al Pacco Nord ci fosse stato anche l’Autonomo! Lui, sì, che non si lasciava intimorire da leggi e circolari. Sulle cose sindacali si destreggiava da dio. Ne sapeva le asperità i trucchi i trabocchetti. E dove non arrivava da solo, si consigliava con magistrati e avvocati amici suoi. Le prime volte prof Samizdat e l’Autnomo s’erano incontrati alle porte della Marelli di Sestosangiò. Volantinavano. Ciascuno per  la propria Compagnia: Aò l’uno, Ellecì l’altro, che prima ancora era stato uno dei fondatori della Cigieellescuola. Lo si era saputo dopo il suo arresto. E veniva da ridere. Perché  nei collegi rissosi di quei tempi il Flautista, che era il segretario picci-no della Cigiellescuola d’Istituto, ogni volta che l’Autonomo parlava, interveniva – palloso e pignolo – per denigrarlo e presentarlo come “il distruttore del sindacato”.
Prof Samizdat e lui avevano fatto un po’ amicizia. Anche allora non era facile capirsi. Ci provavano tutti di più però. E  – carne e ossa, saluti e battute –  spesso scendevano a patti e collaboravano. Di solito, però, stavano sempre a discutere e a litigare. Tra loro e con altri: “sinistri” e “destri”, sia studenti che insegnanti o ittippì. E sia nei corridoi che sui marciapiedi all’uscita della scuola. Continuando poi, instancabili e monotoni, all’ingresso di questa o quella fabbrichetta dell’hinterland. Dove facevano ‘sto famoso “lavoro operaio”. Distribuivano, cioè, sotto varie sigle i verbosi e male inchiostrati volantini dei loro minipartiti.  Tutti con  giri di parole pesate e ripesate e complicate per distinguersi  tra loro ma soprattutto dalla nazionalpopolare Picci-neria.  Che non li sopportava, li ostacolava in modi puliti e sporchi, li seppelliva sotto valanghe di altri volantini, manifesti, editoriali di giornalisti famosi. Tanto che, se all’inizio  qualcosa spostarono almeno nelle grandi fabbriche con quel loro “lavoro operaio”, presto i loro volantinaggi si ridussero a un complicato modo di mandare a se stessi segnali d’incoraggiamento e di sfida. Per durare, insomma. Eh, sì,  tranne  qualche decina di operai – le ricamatissime “avanguardie di fabbrica” –  che si fermavano a parlare  con loro, il flusso della folla ignota sospettosa e sfuggente – oh, sfinge impenetrabile della Classe Operaia! – come prima li scansava,  entrando  o uscendo dai cancelli di fabbrica in fretta.  Anche se prendeva tutti i volantini: di Ellecì-Aò-Pidup-Potop e della Picci-neria.

Ora però l’Autonomo era un fantasma di memoria. L’avevano di botto rinchiuso nel carcere speciale di Cun.  E loro, per fortuna ancora fuori, sempre a scrivere volantini  e documenti. Tra l’altro non più sugli aumenti salariali uguali per tutti,  la selezione di classe che spezzava le gambe ai figli degli operai, ma sul pezzo della loro storia subito deperita e in via di incarceramento o di dispersione al vento. Scrivevano: voi dovete immaginarvi cosa sono queste carceri speciali! E pensavano: non volete saperlo, eh? No, quasi nessuno, neppure i loro simpatizzanti o quelli che non rifiutavano i loro volantini, volevano saperlo. Le carceri, speciali o meno, servivano. L’avevano detto sui giornali e alla TV. C’era un’emergenza. C’era la notte della Repubblica. E bisognava  spegnere per bene i cervelli. E le bocche pure.
Tuttavia, dal carcere pur speciale l’Autonomo era riuscito subito a far avere a prof Samizdat e ai «colleghi dell’ITIS» una sua lettera. Aspra, spigolosa, urtante. Come la sua mente. La premessa era la classica analisi desiderante di una decina d’anni prima. Alla francese. (Senti che mi scrive questo! Che la scuola  è un guscio svuotato dalla polpa viva del Movimento. Che la società è una prigione dalle sbarre invisibili controllata da sorveglianti punitori). Poi, a metà lettera, s’addolciva e mandava un saluto affettuoso a un collega del serale molto malato. Ma  a tanta delicatezza d’animo in uno, che per quasi tutti ormai era un terrorista – lo martellavano i giornali e la TV – chi ci credeva più? Prof Samizdat, pignolo ma stralunato, insisteva: vedete che è presunto! Presunto non terrorista accertato? Ma figuriamoci! Badate a queste sottigliezze giuridiche? In tempi  così rabbuiati? Suvvia, non possiamo permetterci il lusso di intelligenze  alla Beccaria.

La lettera, perciò, era girata con flemmatica circospezione tra i docenti democratici per un po’ di giorni. E letta, era stata letta. E pure riletta. E sottoposta al vaglio della vigilanza  della stessa Picci-neria d’Istituto. Non andava – chiarissimo – la sua  conclusione: un’artigliata dell’Autonomo contro i suoi  ex-studenti di quinta. Troppo vogliosi di diploma e di carriera, secondo lui. E mancava  un nobile für ewig alla Gramsci. Ma che si crede? Questo solo di nude cose sapeva parlare. E esprimeva una corporalità scomposta. Un linguaggio-corpo?  Eh, sì. Che male, ahi! Non toccatemi! State male anche voi, perdio! Pro/muovetevi!

Donchisciottino, angioletto di periferia con lo sguardo volto al passato sessantottino (il quadro di Klee, Benjamin, sapete, no?), ai colleghi democratici prof Samizdat ripropose, come un fesso, lo stampo etico in lui ormai indelebile: prepariamo una risposta collettiva. Ma i colleghi della Picci-neria,  che un po’ lo sopportavano, perché un po’ teneva a bada anche lui quel diavolo di Autonomo – ora che nei conciliaboli della Docenza Seria era circolato il titolo dell’infamia: «Terrorista è!» , «Di sicuro?», «Certo, lo capivi dai discorsi che faceva in  collegio» – non ne vollero sapere. Eh, sì, gli interventi dell’Autonomo  avevano  quel taglio tanto aggressivamente futurista. E non contro il chiaro di luna, ma contro la Picci-neria e il Compromesso Storto.  Dunque?  Ora te la sogni una risposta  “garantista”, mio caro prof Samizdat. Te la sogni la lettera firmata da  quindici o venti docenti democratici e garantisti. Noi restiamo coi piedi a terra e  svegli, ché siamo già dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, eh!

«Meglio che uno s’incarichi di scrivere poche cose, ufficiali, normali e poi chi vorrà firmerà» – aveva concluso in gloria il Flautista. E l’incontro, riservato a un ristrettissimo e silenzioso drappello democratico di pii e pie docenti in via di accartocciamento, che era stato convocato su uno spelacchiato giardinetto lontano da occhi indiscreti, per discutere su cosa non volevano fare, ebbe il risultato prevedibile e previsto.  Nessuno fiatò più. La faccenda dell’Autonomo per loro moriva lì. Voleva distruggerci? Tiè, lo distruggiamo  noi e lo Stato che siamo Noi!

Prof Samizdat rimase col cerino acceso della lettera in mano. Lo spense e pensò a  come rispondere lui, da solo. Che gli dico adesso a  questo pezzo di me/noi, compagno  o mezz’amico, finito in prigione, al fantasma che mi scrive, chiede, interpella, incalza? E più di prima, di quando, cioè, eravamo un po’ amici e un po’ avversari politici, un po’ in competizione e un po’ alleati nelle faccende di scuola o nei capannelli davanti alle fabbriche.  Prima che cominciassero gli spari e il sangue scorresse, non era detto che dovesse rispondere per forza all’Autonomo e alle sue provocazioni. Ma adesso si sentiva in dovere di rispondere.  Toh, adesso? Come! Proprio tu, che finora non hai avuto niente a che fare né coi lottarmatisti né coi fiancheggiatori né coi picci-ni e la loro fregola di farsi Stato? Ma indossala anche tu ‘sta casacca del sincero democratico, avanza nella carriera, fatti accogliere nella Docenza Seria, curati la famiglia, i figli,  le cene con gli amici, procurarti  un’amante. Perché ritrovarti solo come  quando  arrivasti a Mi dal Sud? Potrai contare sì e no sull’appoggio di Nuccia e Gigilà. Il resto – tutti, compagni e colleghi –  è stato lesto a distrarsi in mille cosucce ariose e per loro l’Autonomo  è fantasma assoluto, scomparso dalla vista e dai pensieri, fine!

L’Autonomo l’avevano arrestato per «reati associativi». Da un giorno all’altro. Dopo la prima lettera a prof Samizdat, dove chiedeva di indirizzare la risposta ad uno fuori dal carcere, che gliel’avrebbe poi fatta avere, gliene scrisse altre. Era stato sequestrato dieci giorni in una caserma di T. Poi aveva passato 15 giorni d’isolamento nelle celle “giù” del carcere di S. E quindi “in comune”. E si doveva dare coraggio da solo. Tenace lo era. Il suo mondo non se lo faceva cancellare. Anche se sconfitto? Questo lo pensavano gli altri, non lui. Lui  contro i giudici che l’interrogavano aveva continuato a portare con foga non le sue piccole ragioni ma quelle del Gran Movimento, che continuava e che, secondo lui, i giudici  – a tentoni ma con metodo – tentavano di  incasellare nei loro ordinati schemi secolari.

Il carcere, scriveva l’Autonomo, non è la fine del mondo. Anche se tra i “politici” aveva trovato una situazione avvelenata. Delazioni e pentimenti. Qualcuno fidato però ancora c’era. Diceva. Ma lui, che era abituato a girare per Milano, a conoscere da vicino le fabbriche dove, nell’ultimo decennio, erano fermentate lotte o quasi lotte o presunte lotte, ora, come quasi tutti, aveva solo le informazioni che passavano giornali, radio e TV. Aveva perso ogni aggancio con quelli che prima frequentava. Di colpo, zac! Prof Samizdat – diceva – era il primo a cui scriveva.

Prof Samizdat ripose la lettera  nella busta, la poggiò sul suo tavolo  e andò a cercare altre notizie sull’Autonomo in carcere. Andò  dalla ex-moglie, l’unica che aveva avuto dai giudici il permesso di vederlo. Le  fece domande banali: come sta? come e cosa scrivergli? Lei gli raccontò qualcosa delle due sue prime visite. A prof Samizdat pareva impaurita reticente circospetta sospettosa. Ed era lenta nel parlare. Forse per altri  pensieri che doveva nascondere dietro le prime parole pronunciate a  voce bassa. Come se riferisse fatti delicati di  malati gravi o di pazzi o di moribondi. Eppure erano soli in casa. Una bella casa. Vicino a un grande parco. Borghese per prof Samizdat.  Sì, di quelle che lui mai aveva abitato o mai avrebbe potuto abitare. Prof Samidat niente sapeva della relazione troncata e ora ripresa tra l’Autonomo e lei. Di come s’erano conosciuti, sposati e poi separati. Di mezzo era nato  un figlio. E ‘sto figlio ora era uno dei tanti  adolescenti allo sbando. Quella donna aveva ricevuto colpi e delusioni. E non solo dall’Autonomo. Si capiva. E però, ora che lui era finito in carcere, se ne occupava. Di malavoglia. Anche questo si capiva.

Alla fine, uscendo dal palazzone, prof Samizdat si ritrovò pensieri più ingarbugliati di quando c’era entrato. Quella donna metteva, sì, da parte  il brutto della sua storia mal digerita con l’Autonomo, si costringeva ad aiutare l’ex marito, ma non si fidava di lui. Temeva di essere strumentalizzata? E forse covava pure pensieri di vendetta. Una generosità contorta e combattuta. Neppure di prof Samizdat si fidava. Anche se ebbe l’impressione che se lo studiava per capire se poteva servirsene. E per un attimo prof Samizdat  ebbe il pensiero che lui pure  non si fidava né dell’Autonomo né, ora che l’aveva vista, della sua ex moglie. E che pure lui forse temeva di essere strumentalizzato da entrambi. Che casino la vita. Queste mezze e amare conclusioni  che prof Samizdat ricavò dalla visita le mise com’erano – fredde –  accanto a quelle gelide e sotto sotto disperate della lettera di lui. Non era bella la situazione.

E vabbè, assistilo tu il tuo Autonomo in carcere. Immaginati  quel che ti riesce, ma a noi la vita ci chiama e, per favore,  lasciaci vivere.  Ti freghi da solo. Resti impigliato nel sogno di una generazione che non era neppure la tua e da quel’incubo non uscirai più. L’Autonomo  dal carcere delirerà –  è pezzo di mondo diverso dal fuori il carcere! – e tu a stargli dietro delirerai con lui. Inseguirai i suoi pensieri. Che  ora saranno  ancora  più spigolosi e urtanti.  E starete in due a a confrontarvi i vostri pezzi di storia che  manco  combaciano.  Che c’entra  uno con l’impronta di Aò con lui che ha l’impronta di Ellecì? E la vostra pagina di storia  Picci-neria e Dicci-neria e Mondo  Sovrastante  non l’hanno mai neppure guardata. No, non hanno voltato pagina, l’hanno strappata! T’intestardisci a rileggerla, a rimuginarla? Ma non c’è più.

Scrutare meglio gli indizi che  la sua mente carcerata m’invia. Guaderò correnti impetuose. Muovermi nella fanghiglia politica di questi anni.  Pensare a saltellare sui sassi più matematici,  più solidi e incensurabili. Spero che non cedano all’impatto del mio  piede. Non lasciarsi fregare dal giudice che leggerà la nostra corrispondenza. Non sono  poche le insidie e le temo. Certo che rileggerò.

29 pensieri su “Prof Samizdat (prova 2)

  1. Certo che lo stesso smarrimento resta in chi legge e comunque quel periodo in modo più o meno interno lo ha traversato. La parte più allegra è la descrizione che ti fai “donchisciottino, angioletto di periferia…”.
    Dopo, mi pare tutto -ancora; però!, tempo dopo, quando hai scritto e ora che riproponi-
    fissato a quello schema: possibile rottura (rivoluzionaria? mah… cosa occorre e cosa mancava per una rivoluzione? chi fa oggi le rivoluzioni? a chi ispirarsi? cosa e come inventare?) possibile rottura dicevo, sfumata. Ritorno alla gestione dell’esistente da parte dei soliti, gestori e sovrastanti.
    Allora il femminismo fu laterale e, si’, rivoluzionario. Basta guardare film e tv prima e dopo. Anche Antonioni e le sue donne piene di paturnie. (E lascio stare qui il femminismo neoliberista cui si aggrappano i sinistri fermi ad allora e quelli che gestiscono il presente cui tutto va bene pur di non ammettere la libertà di massa, complicata senz’altro, che ormai le donne si sono conquistata.)

  2. “mi pare tutto -ancora; però!, tempo dopo, quando hai scritto e ora che riproponi-
    fissato a quello schema: possibile rottura (rivoluzionaria? mah…” (Fischer)

    No, semmai prof Samizdat non rimuove la sconfitta reale di un moto reale (che fosse rivoluzione o miraggio è secondario) e non vuole dimenticare l’azzurro di cielo intravisto. Se no, sarebbe professore in cattedra ( come Cacciari, Agamben, etc.).

    1. Mi pare troppo semplice: il “fermento” che non si stende in vie consuete, per quanto oppositive, non viaggia sull’o/o. I tempi lunghi e le nostre culture lunghissime danno un reale conto di cos’è l’umanità. Una prospettiva che ci consente di mettere in scale multiple le esperienze umane, comechessia anche in orrore e peggio, comunicanti. Esperienza e storiografia non si corrispondono. Un po’ il tuo professor Samizdat ne dà conto, nella voluta apertura -umana in primis- all’Autonomo. Ma lui era professore e l’altro limitato nella sua autonomia.
      “… e quel d’inferno
      gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?
      Tu te ne porti di costui l’etterno
      Per una lagrimetta che l mi toglie”
      A parte la ricompensa o la condanna nell’al di là, Dante (e una cultura non economicistica) spiega bene come ognuno può arrivare a sentirsi con e come gli altri tutti.
      Invece il moderno vuole sopraffare tutto quello che era prima.

  3. Le evocazioni che mi giungono subito in mente, leggendo lo scritto e il commento di Ennio (“l’azzurro di cielo intravisto”), sono le seguenti due opere, per me molto importanti: il romanzo “L’azzurro del cielo” di Bataille e il film “San Michele aveva un gallo” dei fratelli Taviani.
    Grazie. Un caro saluto

  4. La realtà esperita (e naturalmente non basta esperirla, bisogna raccontarla) emerge con forza, assicura l’autenticità e fuga ogni ombra di velleitarismo.
    Emerge anche, francamente, l’isolamento pressoché totale di Prof Samizdat e dell’Autonomo – che politicamente non è una bella cosa. Lo dice anche Samizdat: “Non era bella la situazione”. Che era successo? Qualcuno aveva dato battaglia senza avere i numeri? E, la domanda che sta sopra tutte le altre, che senso ha un “movimento di popolo” elitario?
    Dal punto di vista narrativo: il pezzo si collega alla vicenda delle bidelle (“Ah, se al Pacco Nord ci fosse stato anche l’Autonomo!”) ed è, rispetto a quella che dovrebbe essere la (una) vicenda principale, una digressione. Ma come digressione, secondo me, è (anch’essa!) troppo autonoma, a un certo punto si direbbe che parte un’altra vicenda (quella dell’autonomo), alla quale l’autore tiene più che a quella delle bidelle. Almeno questa è la mia impressione. Aggiungo che non ho nulla contro le digressioni, anzi le amo. Ma, per quel che posso racimolare nella memoria, le digressioni sono tipiche delle narrazioni fortemente ironiche, non di quelle che hanno come tono di base il tono “serio”. Forse (ma non è un consiglio!) si potrebbe diluire maggiormente la vicenda dell’Autonomo nella narrazione del fatto principale (o magari è stato fatto e io non me ne accorgo perché non ho il testo completo – infatti queste osservazioni sono soggette a cauzione…)

  5. “ed è, rispetto a quella che dovrebbe essere la (una) vicenda principale, una digressione. Ma come digressione, secondo me, è (anch’essa!) troppo autonoma” ( Grammann)

    Ottima osservazione. E’ uno dei problemi del mio ‘narratorio’. Sto lavorando per tentare una soluzione.

  6. prima digressione:
    perche’ il poeta russo Velemir Klebnikov cita OTRANTO in un suo componimento poetico?
    ——–
    seconda digressione:
    che differenzA c’ e’ tra “l’ albero degli zoccoli” e l’albero delle zoccole” ?

    1. La realtà esperita bisogna raccontarla. Resocontarla? Perché manca l’idea stessa del confronto con la larga esperienza che la nostra cultura ci consente? I rivoluzionari americani e francesi usavano Bruto e Cassio, la chiesa cattolica (e protestante) dialoga e discute con Paolo Agostino e Tommaso (e lo pseudo Dionigi e Scoto Eriugena) come fossero contemporanei. Solo -e non completamente- il sapere scientifico taglia col passato, sorge nuovo e autocefalo. Il professor Samizdat è impaniato in quel presente, non ha passato e nel nostro presente che sarebbe stato il suo futuro ha il problema di restituire memoria, e con precisione e con senso. Una volta che la memoria sarà accertata e significata, che ne sarà? Un documento da conservare, intatto, … i cui legami con altri presenti e altri problemi saranno da costituire a posteriori, da altri.
      La mia non vuole essere una critica sminuente, affatto. Solo, probabilmente, è una fantasia di collocazioni prospettiche in differenti quadri. E probabilmente non congruenti con la investigazione di Samizdat.

  7. “la realtà esperita bisogna raccontarla”. Forse mi sono espressa male: io intendevo, nel contesto, che le cose oltre a viverle bisogna anche saperle raccontare. Perché c’è gente che magari le ha vissute e non è capace di raccontarle o non ha interesse, e c’è parecchia gente che le racconta senza averle vissute, le “romanza” – e con questo non fa un buon servizio né alla storia né al romanzo.
    Sul dialogare col passato non so, mi sembra un po’ presto (nella narrazione) per dire che Samizdat “non ha passato”; a me è sembrato che almeno il suo alter ego ci dialoghi col passato – anzi faccia di questi riferimenti un’arma contro gli scettici.

    1. Sono stata ellittica io, certo intendevo che bisogna saperla raccontare. Sul doppio (triplo ecc) narratore abbiamo già notato e in effetti sono anche parecchi. È il collegamento a certe costanti culturali di lungo periodo che aspirerei a riconoscere anche implicite. Per esempio (il solito!) l’altro versante (Mara e le altre) oppure in una altra versione: che ne era della vita privata di Samizdat e l’autonomo? Tagliata interamente. Ma non nella loro vita reale ovviamente. Invece forclusa. Questi personaggi isolati nel momento storico non sembrano “irreali”?

    2. O meglio, che ne è di quegli anni definiti anche come gli anni delle separazioni? Perché mai entrano questi lati nelle memorie “politiche”? Che erano poi ultrapolitiche se appena viste in una altra prospettiva, che rivedeva l’intera storia occidentale come storia dell’Uno. Ormai acquisito, tra l’altro.

    3. Samizdat incontra la ex moglie di Autonomo. Si comorende che si tratta di una altra classe, rispetto a Samizdat, ma risoetto ad Autonomo? Non si sa, nin si sa se lei aveva creduto all’incontro con un lc nonostante la differenza sociale (capitava!) se la differenza sociale aveva ripreso il sopravvento, o se era solo questione di atteggiamento tra membri della stessa classe. E del figlio, come molti degli anni 70, terrorismo o eroina, si scivola via. Insomma: memoria sì, unilaterale, parziale, concentrata su…?

      1. Capisco quello che dici. Ma è solo l’inizio, vediamo quel che viene.
        Sulla ex moglie dell’Autonomo: Samizdat non ha le informazioni ed è perfettamente verosimile che non le abbia. Deve inventarle? L’autore deve far intervenire un narratore onnisciente che supplisce alle lacune nelle informazioni di Samizdat? A sua volta, l’autore ha queste informazioni (ad esempio reperite più tardi) o deve inventarle? Tutto si può fare, ma apre un altro ramo di narrazione. L’autore lo vuole fare? Dipende dal suo progetto complessivo. Che non può essere onnicomprensivo, per forza deve essere parziale, lasciar fuori delle cose.
        Tu insisti molto sull’aspetto della memoria – memoria di un’epoca ad uso di quelli che non c’erano – che così risulterebbe unilaterale, parziale, amputata ecc. Ma quello che Ennio ci propone non è un memoriale e neanche un saggio storico o una raccolta di documenti; è un testo letterario in cui cerca di condensare un’esperienza prima di tutto sua; di raffinarla per farne emergere la struttura essenziale, che evidentemente è politica e non familiare o amorosa o che altro. Poi aspettiamo, magari ‘sto Samizdat una famiglia ce l’ha (quello del 2006 ce l’aveva)…

        1. Non sono d’accordo. Proprio allora le differenze di classe, o ceto, venivano da noi femministe “politicamente” cioè espressamente evidenziate, e persino, essendo il femminismo volutamente interclassista, analizzate per individuare possibili soluzioni o necessarie incompatibilità: reali e personali insieme, senza ricorrere ad altre ideologiche im/possibilità. La rivoluzione nei rapporti degli anni 70 non è stata uno scherzo, neppure per i figli lanciati in un vuoto che occorreva riempire di qualcosa. Io c’ero, madre sola di due maschi.
          Quello che vorrei dire è che “il testo letterario” è gia noto. Più o meno (senz’altro più per un accanimento su di sé, storico e politico, meritorio) ma non completo, non spiega, è previsto nel quadro letterario.
          Invece, credo io, siamo in un’epoca mai data finora. La memoria quindi è un dato, letterariamente sincero e artefatto, ma dobbiamo pensare il futuro. O lo penserà chissà chi altro.

  8. “Much of life’s machinery teeters on the edge of heat destruction. This seems like a problem, but it is in fact vital. Life is a process, and the disruption wrought by the unrelenting molecular clamour provides an opportunity for rearrangement and novelty.”
    — vThe Demon in the Machine, Paul Davies

    impaurita? forse scordando il ruolo avuto nel presentare il vecchio marito al nuovo amante, cosicchè i carabinieri da questo comandati non avessero crisi da grilletto facile…
    reticente? quanto lo può essere una poetessa di zingaresca florida bellezza, che lascia intravvedere solo quel che convien si veda
    sospettosa? certo i lineamenti forti mostrano le pieghe che un figlio schiacciato fra due macigni sempre genera, ma anche la prudenza delle non borghesi vicissitudini di una donna altera che non rinuncia alla propria storia

    quando sono ancora sull’albero scosso dal vento
    le foglie che si illuminano son diverse per ognuno
    di qualcuna il riflesso resta nell’occhio più a lungo
    questa luce a volte è energia, pronta per un altro giorno

  9. REPLICA 1

    @ Cristiana Fischer

    1.
    Ti sento lettrice troppo diffidente. E mi permetto di dire che mi sembri – tu più di me – fissata nell’attribuirmi lo schema “possibile rottura rivoluzionaria”. Prof Samizdat nello stesso nome-simbolo è fuori da quella cornice o da quella problematica («cosa occorre e cosa mancava per una rivoluzione? chi fa oggi le rivoluzioni? a chi ispirarsi? cosa e come inventare?»). È consapevolezza della sconfitta, della crisi lunga, della caduta (Cfr. anche il bassorilievo che ho scelto come immagine di accompagnamento dei testi-prova che sto pubblicando). E, come detto, memoria e riflessione per non «dimenticare l’azzurro di cielo intravisto» (che può voler dire varie cose).

    2.
    Della mia esperienza del femminismo (e solo di quella) ho già parlato (in Donne seni petrosi) e ne parlerò anche nel narratorio e in Prof Samizdat (che dovrebbe essere una sua sezione assieme ad altre. Forse: A vocazzione, Immigratorio, Psicoscrittoio).

    3.
    « Esperienza e storiografia non si corrispondono». Ma si osservano e possono avere punti di contatto. È per questo che vorrei evitare l’autobiografismo o il rendiconto da storico ( e magari servirmi di entrambi gli sguardi).

    4.
    Prof Samizdat/Autonomo. No, eviterei i riferimenti danteschi, specie se normativi (come mi pare dalle tue citazioni). Le mie sono figure “fraterne” e anche in conflitto tra loro, entrambe limitate e per certi versi in “inferni” vicini (fuori- dentro istituzioni “carcerarie”) che tentano di raccontarsi e smuovere.

    5.
    Non mi è molto chiara l’obiezione del tuo commento 29 Luglio 2021 alle 17:18
    Ma prof Samizdat ( non «professore Samizdat») non è « impaniato in quel presente» o «non ha passato». Coglie analogie tra situazioni presenti e passate (Cfr. prova 1: le bidelle: « Gli ricordarono le donne del dopoguerra – zie e cugine del suo paese – nella stanza di campagna dove lavoravano da sarte. O le galline accovacciate nel pollaio dei Bonomo o in quello di zi’ Assuntine») proprio perché “ha passato”.
    Forse non il passato a cui pensi tu («il collegamento a certe costanti culturali di lungo periodo che aspirerei a riconoscere anche implicite») E, anche nel raccontare, costruisce (al momento) « legami con altri presenti e altri problemi».

    6.
    « che ne era della vita privata di Samizdat e l’autonomo? Tagliata interamente.».

    No, ne parlerò. (E l’ho già fatto – ripeto – in Donne seni petrosi). Come parlerò dei cosiddetti «anni delle separazioni» o della «differenza sociale» anche nelle coppie. Non credo, però, nei termini “autocritici” o “femministici” e neppure “ultrapolitici”, a cui paiono alludere le tue parole.

  10. La Prova Due mi sembra una prova a tutto tondo per Prof. Samizdat, nasce da una crisi profonda del mondo socio-politico quanto interiore…Sembra corteggiare e schernire, in un procedere zoppo, a volte fantozziano: prima di tutto se stesso, definendosi “Don Chisciottino” e “angioletto di periferia”, poi la classe operaia sfruttata che dovrebbe infiammarsi di idee rivoluzionarie , ma resta una Sfinge incoprensibile, lo stesso Autonomo, che pur si ammira per la radicalità delle idee, il rifiuto del compromesso “Storto” e l’essere per presunto lottarmatismo finito incarcere, alla fine suscita sospetti e diffidenza…C’è poi, tragicomica, la battaglia dei volantini, scritti da sigle diverse in competizione e presentati agli operai in uscita dalle fabbriche…Alla fine, ormai privo di strumenti collettivi di lotta, quando la sua lettera di solidarietà al docente incarcerato non viene sottoscritta dai colleghi, il prof si ritrova profondamente deluso e senza strumenti collettivi di lotta. Isolato il professore, ma soprattutto l’Autonomo scelto come capro espiatorio dal governo quale monito per tutti gli aderenti al movimento e abbandonato dalla sua stessa parte, ormai in stato di confusione e di declino…Le tinte in conclusione si fanno tragiche, rivisitare quelle pagine è coraggioso

  11. REPLICA 2

    @ Elena Grammann

    1.
    Non so se la definizione di «”movimento di popolo” elitario» (riferita agli studenti? alle “avanguardie operaie”?) sia corretta o una buona chiave per capire o narrare quel passato. Di sicuro il ’68-’69 fu un “biennio rosso” ( con analogie e differenze notevoli rispetto a quello del 1919-20) rispetto alla Restaurazione (o Postmodernità) che è iniziata dopo. Ed effettivamente quella spinta sociale e tra l’altro di dimensione mondiale, tanto reale e temuta dai governanti d’allora da indurre certe forze di destra a preparare in Italia la strage di Piazza Fontana, spinse altre forze di sinistra, interne o collaterali ma mai esterne a quel moto come le formazioni dell’area “extraparlamentare” e la galassia “lottarmatista”, a dare battaglia non solo «senza avere i numeri» ma sbagliando strategia politica. Perché chi pensava in quegli anni all’implosione dell’Urss? O alla incipiente “rivoluzione informatica”?

    2.
    Ho molte incertezze sul dosaggio tra capitoli digressivi (come questo che ha al centro l’Autonomo, ma ce ne sono altri; ad esempio, la collega bionda, di cui tempo fa ho già pubblicato una prova) e vicenda principale, che nella bozza a cui lavoro in modo intermittente da decenni è la quasi cronaca di un anno scolastico “vero” del ’78-’79. E procedo per tentativi ed errori. Ora aggiungendo e riadattando materiali anche da altre sezioni del narratorio. Ora tagliando per tentare di pubblicare almeno una sezione completa. Ma non so se ci riuscirò. E, com’è facile intuire, ampliare o tagliare comporta tante altre ripercussioni (su stile, registro linguistico, contenuti). E anche una proliferazione esagerata di appunti, autoraccomandazioni, caveat, citazioni per affinità di letture che nel frattempo vado facendo. A volte le integro nel narratorio stesso, altre le metto da parte.

    3.
    Concordo sulle tue osservazioni sulla ex moglie dell’Autonomo. E ho già detto su autobiografismo e rendiconto storico. Vorrei appunto fare altro, non chiudermi in nessuna di queste due prospettive.

  12. REPLICA 3

    @ paolo
    Sei nelle condizioni di un lettore particolare: sai chi erano i vivi dietro alcune di queste maschere letterarie. Forse potresti aiutare prof Samizdat ad aggiungere altri tasselli…

    @ Subhaga
    Grazie per le due opere indicate.

    @ Sagredo
    Ma che commenti allo sbando!

  13. @ Ennio: al tuo punto 4: come ben sai Bonconte si trova in purgatorio invece che in inferno, e questo perchè all’ultimissimo momento “perdei la vista e la parola;/nel nome di Maria fini’,” quindi la “salvezza” (la umanità, dirò io) è appesa anche a un solo momento. Infatti noi rifiutiamo la pena di morte. Quindi davo per pacifico che S. e A. erano figure fraterne.
    al punto 5: nello stesso senso il legame con i passati della nostra tradizione occidentale, quelli “a cui penso io”, rimanda alla comune appartenenza oltre ogni evoluzione di opposizioni. (Deve essere proprio vero che la nostra è “una cultura” occidentale… se Cina e Vaticano dialogano.)
    Le osservazioni di Elena a proposito della moglie dell’Autonomo non mi paiono giuste, “Samizdat non ha le informazioni ed è perfettamente verosimile che non le abbia. Deve inventarle? L’autore deve far intervenire un narratore onnisciente che supplisce alle lacune nelle informazioni di Samizdat? A sua volta, l’autore ha queste informazioni (ad esempio reperite più tardi) o deve inventarle? Tutto si può fare, ma apre un altro ramo di narrazione. L’autore lo vuole fare? Dipende dal suo progetto complessivo. Che non può essere onnicomprensivo, per forza deve essere parziale, lasciar fuori delle cose”. Poichè il biennio 68-69 si pensava rivoluzionario superava le differenze sociali, era egualitario. Se invece la rottura tra Autonomo e moglie risaliva a differenze di classe, questa era materia di interesse per tutti, allora. Il distacco di Samizdat che allora non lo sa, ma neppure se lo chiede, non suppone, non fa ipotesi, mi pare per questo poco credibile.

    Vorrei capire meglio perchè “prof” e non professore Samizdat.

    1. “Vorrei capire meglio perchè “prof” e non professore Samizdat.” (Fischer)

      Nella mia immaginazione:
      1. perché è professore *dimezzato* (intellettuale massa) rispetto alle figure tradizionali (almeno quelle da liceo della mia giovinezza);
      2. come tale viene percepito anche dagli studenti, anch’essi di massa e non più destinati a diventare di sicuro cetomedisti e dai suoi colleghi appartenenti alla Docenza Seria (Picci-neria, etc.) ;
      3. perché quest’amputazione permette uno sguardo più radicalizzato e maggiore sensibilità “al gemito dell’ultimo condannato / quando insorge in incubo in povertà /in assenza di mondo in bende in prigionia/ in nomadiche zuffe attorno ai palazzi /nei soffi di terremoto/ che creparono terrecotte già eterne”.

  14. Per prof Samizdat…

    SEGNALAZIONE

    “Gli anni settanta si muovono, ondeggiano e fluttuano, si aprono dappertutto a tentativi di uscire dalla famiglia, l’esecrata famiglia (…) Ed ecco allora gruppi di affinità, di simpatia, di bizzarria o anche soltanto di intolleranza per gli altri, che vanno avanti per un po’, poi si dissolvono, spariscono per ricomparire eventualmente un po’ più in là. Somigliano a quelle strutture chiamate cristalli liquidi,una bella contraddizione a pensarci, ordinamenti fluidi eppure aguzzi e taglienti per molti (è il momento fourierista dell’epoca, la ricerca e la pratica di nuove armonie e disarmonie amorose) e subito dopo autodissolti, svaniti, introvabili. Dove siete finiti? Siete falliti, non è vero? Così dice la voce, quella che suona più alta, degli anni ottanta. Ma altre voci mormorano: non c’è fallimento, né scacco, non può esserci, dal momento che quelli lì andavano secondo un altro ritmo, seguivano un’altra logica, piuttosto enigmatica, a volte tragica, quella del desiderio e della libertà (chi ha mai detto che la libertà sia facile?). E alla fine si sono dissolti in ciò che è venuto dopo, pronti a ricristallizzarsi in un momento chissà dove chissà quando.” (7)

    (7) Elvio Fachinelli, Che bella “rivoluzione”: oggi siamo tutti soli, “L’Espresso”, n. 14, 12 aprile 1987. (da http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5733)

    1. … ammesso che un’altra logica, di desiderio e di libertà, siano la stessa logica e non almeno due, a volte pugnaci tra loro.

      1. Inutile l’urlo di un cervello implume e il cinguettìo rauco e peloso
        di una creatura che si forma e si disforma dalle sfere – e la leonina
        favoletta va in giro come quella di un messia prebarocco che ci aspetta:
        proprio da noi chiede una risurrezione non interdetta, ma concreta!

        Ma che importano agli spazi i terrestri eventi, le illusioni di sublimi pensieri
        e le credenze di opachi atomi del male e del bene e quei naufragi inesistenti
        in un dove che non è, ma è ovunque insensato, non calcolato da nessuno, sognato
        forse, come il galante viaggio a Citera mai compiuto, o forse si – aborto di un imbarco!

        Incompiuta…

        Antonio Sagredo

        ——————————–
        commentate prego. as

        1. La seconda strofa “ma che importano agli spazi…”: nulla, ammesso che gli spazi abbiano una coscienza e un interesse. Quindi è una immagine retorica con as che impersona gli spazi, forse navigando mentalmente in un dove che non è ma è ovunque insensato… eppure cui tutti si applicano a calcolare, direi, anzi sono sicura.

        2. Comincio dalla seconda strofa: gli spazi – l’universo della materia, privo di coscienza e che immaginiamo al meglio nello spazio cosmico non antropizzato – sono indifferenti sia ai “terrestri eventi”, che io leggo come ‘storia’, cioè dimensione collettiva dell’accadere, che alle più private e individuali “illusioni di sublimi pensieri”, “credenze …”. Sono indifferenti a ciò che fa l’umano, che lo caratterizza come umano in opposizione alla materia inanimata (?), ma anche agli animali. L’indifferenza della vastità della materia annichilisce l’umano (con effetto inverso rispetto alla “canna pensante” di Pascal) e gli mostra i prodotti della coscienza in una prospettiva di inanità e vanità e l’intero mondo del “cogitans” come nient’altro che sogno e illusione (“viaggio a Citera mai compiuto”, “aborto di un imbarco!”). Interessante che venga citato proprio l’Imbarco per Citera, malinconico e raffinatissimo sogno di un mondo alla fine.
          La prima strofa è, per me, più ambigua: non so se il ” cervello implume e il cinguettìo rauco e peloso / di una creatura che si forma e si disforma dalle sfere” faccia riferimento alla coscienza umana (come mi sembra più probabile), o a un Dio che non riesce a distaccarsi dall’essere prodotto di un racconto umano e a raggiungere l’esistenza indipendente che gli competerebbe. “Implume” parrebbe far riferimento all’incompiutezza di un venire all’essere; “favoletta” alle varie Rivelazioni. L’inconsistenza di questo Dio si manifesta quando è lui che chiede a noi “una resurrezione (…) concreta”.
          Queste però sono ipotesi. Eccessivamente razionali? Può darsi. Io non sono affatto insensibile all’aspetto “retorico” (nel senso migliore): alla cavalcata delle immagini, alle concatenazioni dei suoni e loro interazioni con il senso. Queste due strofe mi piacciono molto, le trovo anche meno criptiche della poesia di as che conosco – forse perché sono solo due: chissà come continuerebbe se non fosse “incompiuta”… (ma mi sembra perfetta così).
          Mi piacciono le allitterazioni di “si forma e si disforma dalle sfere”; noto “il cinguettìo rauco e peloso”, ossimoro e sinestesia in uno; la risurrezione (non) interdetta è un capolavoro di teologia coi piedi per terra, e sono particolarmente sensibile ai “galanti viaggi a Citera mai compiuti”.
          Però provo anche a capire.

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