Eterofiction

di Elena Grammann

  • Ho letto la tua recensione[1].
  • E?
  • In ogni tua recensione c’è qualcosa della tua esperienza. Intendo della tua esperienza privata, personale. Sembra che tu scriva recensioni per parlare di te.
  • Difficile parlare con cognizione di causa di qualcosa che non sia il proprio sé. E i libri piacciono se si ritrova qualcosa che si conosce – o meglio: se aiutano a definire qualcosa che si conosceva senza riuscire a dargli un nome; o senza pensare che fosse il caso di dargliene uno. Troppo pigri o sbadati per pensarci.
  • Non ti facevo così platonica.
  • La teoria platonica della conoscenza è la più plausibile – indipendentemente da quel che si pensa del resto. (Pausa) Ma nel caso presente la recensione di Silvio D’Arzo ha veramente poco di me. Qualcosa, ma in fondo poco. Troppo statici i personaggi; troppo già composti per la tomba. Anche se può darsi che una certa necrofilia… Lo sai che quando ero piccola, diciamo verso i nove, dieci anni, e ero stufa di giocare con la bambola – anzi, credo che non mi sia mai piaciuto, ma non mi decidevo a mollarla lì, senza rito, perché me l’aveva regalata mia nonna e comunque per quanto bambola una sensibilità embrionale doveva pur averla… mi sentivo responsabile del suo benessere, già mi sentivo responsabile per tutto… insomma l’avevo deposta in pompa magna in una scatola con una bella copertina di raso e cuscino e materasso fatti di sacchetti di cellophane pieni d’erbe scelte e sistemata a dormire una specie di sonno eterno in solaio. Non molto diverso da una sepoltura nella torba se ci pensi. Poi ogni tanto andavo a controllare. C’ero rimasta malissimo quando avevo scoperto che l’erba era marcita e il cellophane era pieno di vermi bianchi… Un vistoso buco nelle tecniche di imbalsamazione. Nulla di eterno a questo mondo.
  • Dovevi far seccare l’erba.
  • Già. E da qualche parte lo sapevo. Ma ero toppo impaziente di spedire la bambola in un’orbita supralunare.
  • Supralunare?
  • Nel senso di incorruttibile. Sai, l’etere, la quintessenza…
  • Ah d’accordo. Ma D’Arzo?
  • No, voglio dire, eccesso di necrofilia in quei racconti, soprattutto il secondo. Madonna ’sti due vecchi! un piede nella fossa e l’altro su una saponetta! – cos’hai da ridere?
  • No perché noi invece…
  • Ma cosa c’entra, cosa c’entra… Non è una questione d’età. Questi ci sono nati con un piede nella tomba. O meglio, no, forse non ci sono nati ma era un destino. Un Destino con la maiuscola e ineluttabile. Ecco guarda: quei due racconti sono il funerale di un modo d’essere anteguerra.
  • Non mi dire che lo conosci, il modo d’essere anteguerra.
  • Certo che lo conosco. Anni e anni di racconti. Io appoggiata alla parete in cucinino mentre lei lavava i piatti. Mia madre era una grande narratrice, aveva un talento per la narrazione orale. Le veniva da suo padre. Mi teneva con l’affabulazione; io sono cresciuta in un mondo che non c’era più. E fra parentesi era abbastanza intelligente per rendersi conto che quando ha voluto metterle per iscritto, le affabulazioni, ne è uscita una schifezza. Sono due mondi completamente separati – io direi addirittura opposti, la narrazione orale e la narrazione scritta. Benché Thomas Mann a quanto pare …
  • Senti, ma tornando a D’Arzo?
  • No, aspetta un attimo, perché cambi argomento? Non ti rendi conto di quanto è importante? Tu fai presto, tu non sei mai stato cooptato per le serate “Narratori del territorio”, non ti hanno mai tirato per il coppino nelle associazioni culturali Al Filòss, non ti sei dovuto sorbire la signora che era brava a fare i temi e ora ha raccolto i ricordi del tempo che fu e esordisce dicendo: L’ho buttato giù così, come veniva eh, come veniva, e tu che pensi distintamente No signora non doveva farlo, e invece ti tocca assumere per un’ora e mezza un’espressione assorta leggermente sorridente, così che ti vengono i crampi a tutti i muscoli facciali più quelli della nuca con cervicale assicurata e alla fine, dopo gli applausi liberatori, da bere c’è soltanto dell’imbevibile malvasia e tu la bevi per la disperazione. Konna taiken wo shita koto ga naindeshou ne.
  • E che vuol dire?
  • Vuol dire che tu non hai mai fatto questa esperienza.
  • Certo che l’ho fatta, un sacco di volte, e la faccio decisamente meno tragica di te. Sono sicuro che fra i ricordi “buttati giù” dalla signora c’erano cose interessanti. Fondamentali forse. Proprio negli scriventi “non autorizzati” compare oggi quel plurale, di cui il plurale della letteratura “alta” deve tenere conto. Comunque preferirei non discuterne adesso. Propongo di chiudere la parentesi e tornare a D’Arzo. Cosa dicevi della tua recensione? (Silenzio) Be’? Non parli più? Che ti prende?
  • No niente, volevo raccontare una storia ma forse è meglio che te la fai raccontare da uno scrivente non autorizzato.
  • Per dio quanto sei permalosa! Non ti sembra di esagerare?
  • Gli spiriti nobili sono permalosi. Achille era permaloso. Orlando era permaloso. Crimilde e Ximena erano permalose.
  • A Ximena avevano ammazzato il padre.
  • Sempre meno grave di una serata al Filòss.
  • Dai, piantala e racconta.
  • Ma non è poi niente, una cosa che mi è venuta in mente mentre ti dicevo che nella recensione non c’è molto di me.
  • E allora?
  • E allora quella recensione era uscita qualche anno fa, in forma più ampia, in un volume a diffusione locale. L’aveva letta una signora, un’esperta di D’Arzo che ha scritto saggi, curato edizioni; e mi era stato riferito – me lo riferì un’anziana parente mia e sua – che era rimasta molto positivamente impressionata, direi quasi toccata… Io la signora la conoscevo di vista, diciamo che sapevo chi era. Ne fui lusingata. Ma soltanto adesso, quando hai detto che nelle mie recensioni c’è qualcosa di me, ho capito che cosa aveva apprezzato; cosa l’aveva toccata: ed è che io lì non parlavo di me; parlavo di lei.
  • Questo devi spiegarlo.
  • È una storia lunga… anche se immagino che si potrebbe riassumere in due parole. Ma bisogna invece raccontarla per bene, partire dall’inizio, e non so nemmeno se riesco a ricostruire tutte le parentele. Dovrei fare un sopraluogo al cimitero.
  • Al cimitero?
  • Be’ sì. La grande anagrafe diacronica.
  • Va be’, al cimitero ci andrai. Intanto comincia. (Silenzio) E adesso che c’è?
  • C’è un problema. Io questa storia non la posso raccontare. La signora è ancora al mondo.
  • E allora? Rimane fra me e te, no? È una conversazione privata.
  • Macché conversazione privata, io sto scrivendo un racconto.
  • Stai scrivendo un racconto? Ma allora, se è tutto finto…
  • No, è tutto vero, è ben quello il problema. Tutti personaggi veri. Di finto ci sei solo tu.
  • Ah, io sarei finto. Senti, non ti seguo. Ma non puoi comunque raccontare la storia? Cambia i nomi, cambia un po’ le circostanze…
  • Orrendo orrendo orrendo! Non dirlo neanche, mi fa male alle orecchie! È una storia vera ti dico, non si può cambiare nulla o non val più la pena – anzi, non vale più niente!
  • Ma nemmeno i nomi?
  • Soprattutto i nomi. I nomi veri hanno una risonanza, hanno corpo, fanno metà della storia. Mettici un nome inventato e tutto si assottiglia, scivola nell’inessenziale.
  • Allora dobbiamo rinunciare?
  • Potrei provare con le iniziali e i tre puntini, come si faceva una volta.
  • Ma sì, prova così.
  • Questa storia comincia prima della guerra. Prima della guerra l’ingegner F…, come tanti altri signori di Reggio, aveva una villa qui a San Venanzio. I F… venivano dalla montagna. Era un’antica famiglia della montagna, benestante, benpensante e cattolica. Etica personale rigorosa. Non so quale fosse l’atteggiamento nei confronti del fascismo, in ogni caso non si distinsero né per fascismo né per antifascismo e dopo il ’43, che io sappia, non subirono ritorsioni. Si potevano definire “quasi ricchi”, come la signora Nodier o i due vecchi prima del lento tracollo; la “quasi ricchezza” era tutta in case e terreni, ma di case e terreni ne possedevano, a quel che ho sentito, veramente parecchi.
  • Potresti specificare “a quel che ho sentito”?
  • Certo. La mia fonte principale non è il catasto ma mia madre. E a riguardo di mia madre devo dire che per quanto avesse lei stessa scarse attitudini a procurarsela, e senza esserne propriamente invidiosa, era però affascinata dalla ricchezza e tendeva a magnificarla e a esagerarla. E già che ci siamo diciamo anche, perché ha senz’altro un peso nel tono generale di questa storia, che per mia madre il peccato che non poteva essere perdonato era il peccato contro la proprietà.
  • Non andavi molto d’accordo con lei vero?
  • No. Ma tornando all’ingegner F…, sposò una Paterlini di San Venanzio, e anzi non so se la villa, in cui i F… venivano etimologicamente a villeggiare, appartenesse in origine alla famiglia dell’ingegnere o a quella della moglie. Durante la guerra ebbero due figli, un maschio e una femmina; la femmina, di qualche anno la maggiore, diventerà la nostra esperta di Silvio D’Arzo. Fu poi anche, a differenza del fratello, provvista dei titoli accademici necessari, ma non mi risulta che abbia mai lavorato. Probabilmente, almeno all’inizio, non ne aveva bisogno. Credo però che il motivo principale – comune, questo, a lei e al fratello – fosse una comprensibile e persino nobile inettitudine al lavoro retribuito. Ma questo viene dopo. La Paterlini dunque, sposa dell’ingegner F…, ebbe due figli, i cui nomi iniziano entrambi con A, il che ci crea qualche problema, a meno di chiamare Auno la maggiore e Adue il secondogenito, come fa peraltro Musil nel racconto Il merlo, dove per indicare i protagonisti usa le cifre Auno e Adue; e anzi si potrebbe tentare un collegamento col Merlo del Perù di Rita Simonitto[2], dal momento che in entrambi, Musil e Simonitto, il merlo diventa figura di una certa estaticità, sobria o sognante, e in entrambi è in qualche modo centrale la figura della madre…
  • Scusa, potremmo tornare ai figli dell’ingegner F…?
  • Ah va bene. Allora, nel ’52 o ’53, non più tardi perché era ancora ragazza, mia madre, che dava lezioni, si vide arrivare a casa una signora con un bimbetto di sei o sette anni. O forse otto, forse si era incagliato sul sistema metrico decimale. Erano la signora F… con il secondogenito Adue. Ma la cosa particolare era che il bambino, magrolino, era infilato in un saio da frate. Guardava per aria con gli occhi sgranati, curiosi, come se ci fossero in giro un sacco di cose che non capiva fino in fondo; e interessanti però. Io lui – molto più tardi naturalmente – l’avrò visto tre o quattro volte, e l’ultima nella foto sul necrologio. Ma anche da quella riuscivo a immaginare il bambino ficcato nel saio e l’espressione sgranata e curiosa che aveva visto mia madre.
  • Appunto – il saio?
  • Era un voto che aveva fatto la signora F… Può darsi che inizio anni Cinquanta la pratica, più che altro materna, di fare voti sopra la testa dei figli fosse ancora diffusa. In ogni caso la dice lunga sulla madre… Chissà cosa ne pensava l’ingegnere. Sempre che non fosse un’idea sua; perché questi ingegneri e medici e avvocati della montagna erano tipi strani, ossessivamente religiosi. Mia madre ne conosceva un altro, un medico, un terziario francescano che veniva giù da Marola, in pieno inverno e la neve per terra, coi sandali ai piedi e senza calze. A questi qui i figli generalmente gli morivano…
  • Lascia stare i terziari francescani e dimmi invece: cosa vuol dire “una pratica piuttosto diffusa”? Era approvata dalla chiesa?
  • Approvata non credo proprio. Tollerata, come molte altre follie. Cosa vuoi, quando l’arciprete li incontrava gli avrà fatto una carezza sulla testa e avrà detto: “Ma guarda che bel fraticello!” Come me: l’unica volta che ho partecipato agli esercizi spirituali le suore volevano convincermi che il mio futuro era con loro.
  • E?
  • E no. Scarsine come affabulatrici. La storia di Laura Vecuña, poveretta, che raccontavano, faceva solo puzza di incenso e candele. Una puzza che ho sempre trovato sospetta. Troppo parziale per qualcosa che vorrebbe essere universale. Troppo particolare.
  • D’accordo. Ma Adue infagottato nel saio?
  • Allora, per tornare al bambinello Adue, se mandi in giro un ragazzino vestito da frate, poi non puoi stupirti se…
  • Se cosa?
  • Ridotto al minimo, se non combina niente nella vita e finisce per dilapidare il patrimonio. Ma a ridurre al minimo non ti resta niente in mano e la riduzione al minimo è buona giusto per i titoli di cronaca.
  • Continua a raccontare allora.
  • Allora, intanto non è vero che non abbia combinato niente nella vita. Questo lo direbbero quelli per i quali ‘combinare qualcosa nella vita’ vuol dire accrescere: il patrimonio, o, se proprio non si può il patrimonio, almeno il prestigio. Perfettamente in linea con la Bibbia fra l’altro, Antico e Nuovo Testamento. Perché anche la parabola dei talenti…
  • Sì, va bene, ma Adue?
  • Adue dipingeva. Era pittore surrealista, fa conto Mirò un po’ più figurativo. Dei surrealisti storici gli mancava l’abilità di tenere, monetariamente parlando, un piede nella realtà. Se penso al bambino con gli occhi sgranati non faccio fatica a immaginare che, di stupore in stupore, la cosiddetta realtà finisse per sfuggirgli completamente. E non faccio fatica a immaginare l’angoscia del vecchio ingegnere. Il quale, sentendosi prossimo alla morte, ideò uno stratagemma non indegno di un notaio francese: dopo la scomparsa dei genitori, per alienare qualsiasi porzione dell’ingente patrimonio immobiliare sarebbe stata necessaria la firma della sorella, di Auno.
  • Avvilente per Adue – anzi più che avvilente. Equivale a non essere ammessi nell’età adulta. Giusto tollerati in un limbo artistico. D’altra parte, così si riverbera su Adue la gloria di Baudelaire e così l’ingegnere salvò il patrimonio. Due piccioni con una fava, in un certo senso.
  • Niente affatto. Perché Auno, quando Adue proponeva di vendere qualcosa, non riusciva a dire di no.
  • Così vendettero tutto e finirono in miseria?
  • Non proprio. Negli anni vendettero, credo, quasi tutto. Ma la vendita della villa di San Venanzio merita che se ne dica qualcosa. (Pausa) C’era a Reggio negli anni ’60 e ’70 un giovane gallerista intraprendente che aveva aperto una bottega d’arte in uno scantinato. Era in gamba e si affermò, tanto che lo scantinato, che faceva ancora bohème, non faceva più al caso. Nell’ambiente artistico cittadino il gallerista lanciato in cerca di congrua sede incrociò l’artista desideroso di lancio che possedeva, in solido con la sorella, la villa di San Venanzio. Le possibilità che l’incontro si concludesse diversamente che con un passaggio di proprietà erano estremamente scarse.
  • Capisco.
  • Pare che la villa sia stata acquistata a un prezzo decisamente inferiore al suo valore. Dico ‘pare’ perché la mia fonte era affetta da pregiudizio a favore del mattone. Soffriva di mal della pietra, con cui non si intende la calcolosi renale ma un interesse patologico per il laterizio. Per mia madre il mattone non era mai pagato abbastanza – soprattutto se era suo. Dico questo per correttezza, ma posso facilmente immaginare che la somma che Auno e Adue intascarono, probabilmente inadeguata, fosse integrata dal baluginio di una parte immateriale: la prospettiva del lancio che naturalmente non ci fu.

(Pausa)

  • Certo, è un po’ triste. Però non vedo, sai, quelle grosse analogie con i personaggi di D’Arzo. È vero che i due vecchi del racconto vendono la casa senza preoccuparsi di ottenerne il massimo, ma mi sembra che l’analogia si fermi lì.
  • Aspetta. La storia non è finita. I due F…, Auno e Adue, non erano né della mia generazione né della mia classe sociale. Quando venivano in villa, durante la mia adolescenza, conducevano la vita ritirata dei signori e frequentavano quelli del loro ceto, la vecchia borghesia terriera più o meno decaduta e in via di decadenza. Io non li conoscevo né, francamente, me ne occupavo. Poi me ne andai dal paese. Al mio ritorno, parecchi anni dopo, seppi che vivevano a San Venanzio. Li vidi qualche volta: erano dimessi, viaggiavano in corriera. Vivevano in una villetta che non gli apparteneva. Piuttosto modesta, niente a che vedere con l’imponenza, le dimensioni, il numero di stanze della vecchia; ma protetta da vecchi alberi e, benché si trovasse in una specie di triangolo fra due strade, signorilmente in disparte.
  • Quindi stavano in affitto?
  • La villetta non gli apparteneva ma non pagavano affitto. Per spiegare questa circostanza dobbiamo fare un passo indietro e tornare alla Paterlini di San Venanzio, moglie dell’ingegner F… Questa Paterlini aveva una sorella, Ines di nome, che aveva sposato un possidente locale. E costruirono la villetta. Il matrimonio rimase per diversi anni senza figli, tanto che si fecero prestare una figlia da una sorella del marito, che aveva sposato un cugino di mio nonno.
  • Mi sto perdendo.
  • Ok, lascia perdere che il marito della sorella del marito era cugino di mio nonno. Il succo è che questa coppia, senza figli, prese in casa come figlia una nipote. Mi dirai: ma perché la famiglia d’origine la cedette? Erano indigenti? Non riuscivano a mantenere la prole? Nient’affatto, erano robusti lavoratori, ma benestanti, e non avevano nessun problema a mantenere i loro molti figli. Tutti maschi. E quell’unica femmina. E allora perché cedere proprio la femmina? Che insomma in casa poteva far comodo. Perché al padre – il cugino di mio nonno – non piacevano le femmine. Cioè: non gli piacevano le figlie femmine, perché le femmine non figlie invece gli piacevano. Ma mai extra muros.
  • Sarebbe?
  • Sarebbe che si limitava a scopare le serve, pare di concerto con qualcuno dei figli.
  • Ma che libertini!
  • Libertini? Per nulla, erano tutti cattolicissimi.
  • E non ci vedevano contraddizione?
  • Mah, negli angoli morti fra la casa e la stalla non si dava tutta quell’importanza. I francesi la chiamano la bagatelle, no? E poi non si sperperava denaro. Quindi non c’era vero peccato. Comunque, per tornare alla coppia che “adottò” la nipote, qualche anno più tardi ebbero essi stessi un figlio, e la nipote scivolò, come dire, un po’ in subordine. Si trovò fra due famiglie come fra due sedie, tanto che più tardi finì per sposare un ingegnere lombardo; un tipo antipatico dice mia madre, veramente insopportabile, e la sua idea è che fosse un matrimonio di facciata e avessero fatto entrambi voto di castità. Erano infatti molto cattolici.
  • Mi sembra però che ci stiamo allontanando…
  • Certo. Abbiamo allora questa Paterlini Ines con marito – zii di Auno e Adue – che già un po’ avanti con gli anni hanno il figlio tanto atteso: Federico. Federico era… vorrei dirlo nel modo più neutro e accurato possibile. Era un semplice, ecco. Il padre morì abbastanza presto. Rimasero lui e la madre, nella villetta. A un certo punto – aveva già passato la quarantina credo – spuntò una brava ragazza ma la madre mise il veto: la brava ragazza non era socialmente all’altezza.
  • Questa Ines c’è ancora?
  • No no, è morta.
  • Allora starà arrostendo in fondo alla Geenna, sui roghi allestiti per i crimini materni.
  • Probabile. Io però non la conoscevo affatto. Mia madre la chiamava la Formigòna perché era sempre in giro alla ricerca di mobili antichi. Ne aveva messi insieme di gran pregio, fra cui un famoso scrittoio: un’opera d’arte. La Formigòna campò moltissimo; gli ultimi anni era allettata e il medico che la curava si accordò per l’acquisto dello scrittoio al prezzo stimato da un antiquario competente. Ma lo stuolo dei maschi cugini, i figli dello scopatore di serve, vegliava sul patrimonio e la vendita non si fece. Per dire: fra i molti criteri che si citano per dividere l’umanità in categorie può figurare anche questo: c’è chi vende, e chi non vende.
  • Sì ma – Auno e Adue?
  • Adesso ci arrivo. Tieni presente che questa storia comincia prima della guerra, ma nel frattempo siamo verso la fine degli anni ’80 e tutti sono invecchiati e continuano a invecchiare: la Formigòna, Federico, anche Auno e Adue.
  • E dunque?
  • E dunque Auno e Adue – non credo che non avessero propriamente dove andare – in ogni caso si trasferirono nella villetta della zia e penso che la soluzione andasse a vantaggio di tutti: Auno e Adue ebbero qualcosa che, complice la posizione protetta e nascosta della casa, era un rifugio adatto a loro; e gli altri due un aiuto nella quotidianità quando questa, invecchiando la Formigòna, diventava problematica. Fu insomma un caso felice di simbiosi mutualistica, e checché ne dicesse mia madre per quanto si può essere felici io credo che lo fossero. Il triangolo di terra fra le due strade, chiuso da alberi e siepi, mi è sempre sembrato un’isola misteriosa e disancorata dal resto in cui alcune persone hanno potuto vivere, fino alla fine, fedeli a se stesse.
  • La conclusione mi pare un po’ fiabesca; ma in un racconto, perché no. Piuttosto c’è qualcosa che non ho capito: che ruolo ha, nella storia, la nipote “adottata”, quella che poi sposò l’ingegnere antipatico?
  • Lei? Nessuno. A proposito: è la parente che mi disse che Auno aveva così apprezzato il mio saggio su D’Arzo.
  • Parentele complicate. Sei sicura di raccapezzarti bene?
  • Dove non ero sicura sono andata a controllare al cimitero.
  • Ma come? Se non ti sei mossa di qui…
  • E tu che nei sai? Se non esisti neanche…

__________________________

[1] Vedi qui su Poliscritture. Nel testo si fa inoltre riferimento a un altro racconto di Silvio D’Arzo, di argomento analogo: Due vecchi.

[2] Qui su Poliscritture.

_________________________

20 pensieri su “Eterofiction

  1. un dialogo curioso e spigliato tra due persone, il narrante e colui che ascolta e interagisce… dove ricorrono pause, dettate forse da emozioni prolungate o dalla sforzo della memoria di ricordare e riferire fedelmente, con intermezzi dubbiosi circa quello che a sua volta la narratrice aveva appreso da un’altra persona, la madre… interruzioni e digressioni da parte di chi “parla”, con sollecitazioni e domande da parte di ascolta… malumori manifesti ed esplosioni di fiera permalosità…giudizi taglienti, ma anche distacco narrativo…Questi espedienti, ma non solo, rendono efficacemente, in una narrazione scritta, la “forma” della narrazione orale, di cui Elena era molto affascinata da bambina…Lei è sicuramente una scrivente “autorizzata”: credo che per lei “il vero”, anche quando rispecchia un cammino in fieri, non concluso, come nella fac-simile narrazione orale, deve avere una sua “forma” estetica…Invece l’ascoltatore- interlocutore, di sua invenzione ma sembra ispirato ad una persona reale- non concorda: pensa che anche i narratori non autorizzati, che fanno venire mal di pancia alla scrittrice, abbiano diritto a scrivere, avendo molto vissuto da raccontare…D’altra parte la storia non la fanno solo i letterati, vedi B. Brecht…
    In quanto alle vicende umane narrate, dalla profonda periferia dell’anteguerra, mi ispira tristezza, ne ho conosciute anche nella mia…Non che il presente sia molto meglio, al di là delle apparenze…Un po’ mi ha richiamato i personaggi del romanzo di Aldo Palazzeschi: “le sorelle Materassi”…Ma Auno, in qualche modo, si riscatta, rimanendo fedele a se stessa, sembra dirci la scrittrice. Grazie

  2. La lettura di questo testo di Elena Grammann mi ha fatto ricorrere alla musica, per indentificare quei movimenti compositivi che richiamano quelli della narrazione. Questo testo ne richiama un altro di Silvio D’Arzo (la signora Nodier li collega) e del resto il dialogo in questo post fa avanti e indietro sul lavoro che l’autrice di questo, Elena, ha fatto e probabilmente fa ancora sullo scrittore D’Arzo.
    I due dialoganti vanno intorno al tema della critica letteraria, c’è chi è esperta di letteratura e critica letteraria e chi fa il lettore in genere (magari sono i due dialoganti del testo di Rita Simonitto, che aprono su un’altra questione letteraria: sull’età o su “un modo d’essere anteguerra”, ché il passato storico è un vero termine) colto su Platone ma ingenuo lettore di letteratura (ogni riferimento a chi sta commentando è intenzionale).
    Infatti si passa alla narrazione: quella restituisce, perché immerge, perché emoziona. E’ reale continuità.
    Sottoquestione: tradizione orale e scritta.
    Qui si apre un racconto vero, nel suo rapporto con fatti storici (passati, raccattati al cimitero, però ci sono sempre discendenti attuali. Li ricordo anche io, i bambini vestiti da fraticelli! E i pregiudizi sociali di quell’epoca: da una borghesia terriera a una cittadina professionale.)
    Taglio corto: così Elena, con il suo proprio racconto, confluisce, attraverso “la signora Nodier”, con il racconto di Silvio D’Arzo, nel campo della letteratura.
    Che è totale, caro interlocutore, infatti anche tu non esisti, sei -come del resto il lettore!- nella mente di chi scrive.

  3. UN, DUE, TRE..

    1.
    “Lei è sicuramente una scrivente “autorizzata”: credo che per lei “il vero”, anche quando rispecchia un cammino in fieri, non concluso, come nella fac-simile narrazione orale, deve avere una sua “forma” estetica…Invece l’ascoltatore- interlocutore, di sua invenzione ma sembra ispirato ad una persona reale- non concorda: pensa che anche i narratori non autorizzati, che fanno venire mal di pancia alla scrittrice, abbiano diritto a scrivere, avendo molto vissuto da raccontare…(Locatelli)

    2.
    “I due dialoganti vanno intorno al tema della critica letteraria, c’è chi è esperta di letteratura e critica letteraria e chi fa il lettore in genere (magari sono i due dialoganti del testo di Rita Simonitto, che aprono su un’altra questione letteraria” (Fischer)

    3.
    “E allora preferisco chi, come Fortini, mi mette la pulce nell’orecchio. In maniera decisa egli insisteva sul fatto che la forma – anche quando è o proprio perché è forma (e quindi efficace, coerente con il contenuto, magari anche “bella”) – non smette mai di avere a che fare con un universo ideologico e storico pervaso dal conflitto; è comunque essa stessa impregnata di tale conflitto; e, proprio perché vi può alludere comunque solo in modo ambiguo, suscita reazioni diverse e prevede letture diverse, tutte da considerare e valutare. Per questo diffido soprattutto dei “formalisti puri” (Terzo non mi pare che lo sia davvero) così propensi ad autonomizzare in assoluto la forma (la poesia o addirittura la Poesia) dal resto, da ciò che forma non è, da ciò che non raggiunge la forma, da ciò che va messo da parte o cancellato o rimosso o dimenticato perché ci sia forma. Fortini diceva con chiarezza estrema sia che la forma è ambigua sia che, di conseguenza (e non solo per processi soggettivi del lettore) essa suscita due modi di riceverla, di leggerla che egli giudicava entrambi «fondamentali e antagonisti» e che, mutuando i termini da Hegel, chiamava signorile e servile. Il primo, diceva Fortini, legittima l’esistenza formale (fa della forma l’elemento centrale). Il secondo, quando non la nega del tutto (nei casi più “ingenui” o “rozzi”, quando si fa confusione tra arte e vita, politica e poesia), chiede soprattutto «messaggi e non forme». Perciò i lettori della poesia, quelli “ingenui” e quelli “raffinati”, hanno per lui – ripeto – due atteggiamenti entrambi significativi («fondamentali») e non facilmente conciliabili («antagonisti»): c’è chi bada al contenuto (o di più al contenuto) e chi «contempla il gioco della superficie verbale» (o soprattutto questo). E questo dissidio fondamentale e antagonista lo vivono, credo, gli stessi poeti.

    8. A differenza di Terzo (ma anche di Adorno) che sembrano voler quasi espungere la «referenzialità» dal testo poetico o la considerano secondaria, per cui più l’artista è innovatore quanto più da quella referenzialità (storica, sociale, politica, ecc.) si distacca, Fortini riconosceva (meno dogmaticamente, meno partigianamente, meno corporativisticamente, pur essendo stato un critico letterario di valore riconosciuto) il valore e il limite di questa ambivalenza intrinseca della poesia (e dell’arte) e la legittimità e problematicità delle due letture (signorile e servile) che la storia della società in un certo senso continua ad imporre e dalle quali non è facile liberarsi. Egli manteneva aperto e approfondiva il discorso là dove Terzo lo interrompe per predilezione dell’estetica e del formalismo. E non a caso mentre Terzo chiede il rispetto del “privilegio” della comunicazione artistica, Fortini vedeva uno dei segni di grandezza di un’opera di poesia e d’arte nella capacità di scartare gli “amici della poesia” (gli esteti) e di puntare ai suoi “nemici” apparenti, cioè a quelli che s’aspettano «messaggi e non forme». Non accettava per questo il loro “rozzo pregiudizio”, ma come poeta e come critico si assumeva in pieno il compito di misurarsi con la dimensione non-letteraria e non-poetica, con la pressione”barbarica” che mette in discussione i propri otia:

    «Chi ha valutato positivamente quella pressione “barbarica” (Goethe tutti i classicismi) ne ha tratto che esistono “soggetti” buoni o cattivi, temi e forme di “destra” o di “sinistra” e che l’esito formale, l’intima coerenza eccetera non sono il criterio dell’eccellenza ma solo una sua frazione» (Poesia e antagonismo, in Non solo oggi, p. 204) [sottolineatura mia].

    Terzo in modi professorali tende a chiudersi proprio almeno a un certo tipo di pressione “barbarica”, a ridimensionarla se non a demonizzarla. Fortini, invece, richiamandosi ad Hegel e ricordando che per il filosofo tedesco «la vita può mantenersi solo in prossimità della morte», sosteneva non una semplicistica separazione tra arte e vita, ma una tensione continua tra poetico ed extrapoetico ( tra arte e vita, tra arte e politica):

    «Il discorso poetico può mantenersi solo se accetta la propria continua contestazione compiuta dal discorso extrapoetico ossia da una lettura comunicativa-pratica» (Poesia e antagonismo, in Non solo oggi, p. 205)”

    (Ennio (2011), Da quali nemici e falsi amici
    si devono guardare i poeti (esodanti)
    [ Seconda puntata]
    https://moltinpoesia.blogspot.com/2011/02/ennio-abate-da-quali-nemici-e-falsi.html#more)

    1. Tuttavia a me pare che il tema affrontato da Elena con il suo post/racconto non sia tanto quello della forma rispetto al contenuto, quanto quello narrativo, dei meccanismi narrativi, e in questo l’opposizione tra storie orali, i filòss, la madre, e il sottile meccanismo di contrappunto che Elena mette in campo con i racconti di D’Arzo e di Simonitto mi pare si articoli su lineare e complesso, su semplificazioni della fantasia e memoria storica, su spiegazioni della vita corrente e casualità imponderabile del tempo storico.
      Un bel racconto, un bel film, colgono un punto di vista non comune, rovesciano la prospettiva corrente, rimettono i fatti in un altro assetto. Certo, bisogna anche avere uno stile, procedere in modo incalzante e sorprendente insieme, non so però se il termine “forma” ne dà conto.

  4. Il tema affrontato da Elena è «quello narrativo, dei meccanismi narrativi, e in questo l’opposizione tra storie orali etc»?
    Certo, ma il petulante sig. 3 ha voluto ricordare che una poesia, un racconto, un testo letterario «non smette mai di avere a che fare con un universo ideologico e storico pervaso dal conflitto; è comunque [qualcosa] impregnata di tale conflitto; e, proprio perché vi può alludere comunque solo in modo ambiguo, suscita reazioni diverse e prevede letture diverse [almeno fino a pochi decenni fa «fondamentali e antagoniste» e che, mutuando i termini da Hegel, Fortini chiamava signorile e servile], tutte da considerare e valutare».

    1. Giusto, e allora vediamo in che modo il racconto di Elena dà conto di elementi conflittuali, esprimendo “messaggi e non forme”. Innanzitutto è esplicita nel separare l’invenzione dai fatti storici: “Di finto ci sei solo tu”, mentre i personaggi del racconto sono veri, si nomineranno quindi appena con la lettera iniziale e tre puntini. Un elemento di conflitto è anche nel bambino vestito da abatino, in quanto c’è una oggi inaccettabile imposizione da parte degli adulti ai bambini. Inoltre c’è più di un accenno alla ipocrita religiosità borghese, ipocrisia correlata a una borghesia terriera mentre si trasformava in borghesia cittadina delle professioni.
      Altri elementi conflittuali emergono attraverso le figure femminili, per il derisorio soprannome della Formigona, per la nipote disinvoltamente ceduta e adottata, per le serve usate per le intemperanze sessuali dei maschi di casa: suppongo e spero che si tratti di pratiche in decadenza.
      Ma poi, argomento definitivo sulla presenza del conflitto nel racconto di Elena, sono le inserzioni nel suo racconto di altri racconti, di quello di D’Arzo e di quello di Rita Simonitto… e quindi di Poliscritture nel campo narrativo, cioè letterario. Allora occorre spostare lo sguardo sulla pressione barbarica in Poliscritture: con testimonianze, inchieste, critica, manifesti, analisi, di cui la letteratura è una provincia.

  5. Ringrazio le commentatrici e il commentatore.
    Voglio innanzitutto rassicurare Annamaria: il personaggio femminile del racconto non ha nessuna intenzione di ledere il diritto di chicchessia a raccontare; ma ha la fermissima intenzione, ove sia il caso, di difendere il diritto delle sue orecchie a non essere maltrattate. Quanto ai rapporti del vero col bello, credo che discuterne qui ci porterebbe un po’ troppo lontano.
    Ringrazio Cristiana di avere riportato l’attenzione sul punto reale del contendere fra i due personaggi: la distinzione fra la narrazione orale e la narrazione scritta. I problemi infatti cominciano non quando si racconta, ma quando “si mette per iscritto” – e non sono necessariamente legati a ceto sociale, livello di istruzione ecc.
    Sorvolerò sul declassamento della letteratura a provincia (ma di quale sopraordinato organismo, precisamente?)
    Sulla distinzione fra forma e contenuto non ho nulla da dire, tranne che io non la vedo. Dunque non capisco nessun discorso che vi faccia riferimento. Idem sulle due letture e sul “conflitto”. Ci sono molti più conflitti (e molte più letture) di quello (e) a cui allude Fortini e personalmente sono dell’opinione che ci si debba attenere al conflitto che si conosce bene. Studiare bene il conflitto che singolarmente ci affligge. Sperimentalmente, senza andar dietro a quelli che te lo raccontano.
    Per il resto, nessuno è più curioso di me di assistere al passaggio dei barbari e vedere come sarà il mondo dopo.
    Per concludere, del mio racconto vorrei dire che l’idea mi è venuta effettivamente da un’osservazione di Ennio sulle mie recensioni. Ma poi, a parte pasticciare un po’ col postmoderno (meglio tardi che mai), non avevo altro obiettivo che scrivere qualcosa che, possibilmente, fosse per il lettore così piacevole da leggere come era gratificante per me da scrivere. Nient’altro.

    1. Entra in una libreria e, tra i numerosi scaffali e tavoli su cui sono esposti i libri più recenti, alcuni libri saranno di narrativa e poesia, quello che normalmente si intende per letteratura “Oggi s’intende comunemente per l. l’insieme delle opere affidate alla scrittura, che si propongano fini estetici, o, pur non proponendoseli, li raggiungano comunque; e, con significato più astratto, l’attività intellettuale volta allo studio o all’analisi di tali opere”, Enciclopedia Treccani online, un settore quindi, o una provincia, del sopraordinato continente-libreria fisica, o continente-scrittura in generale.

      1. Ah, in quel senso. Una provincia come le guide turistiche, i libri di cucina… Se poi di fianco c’è un alimentare le province si allargano ancora: ingredienti, informazioni nutrizionali, istruzioni di cottura… Un supermercato: la carta igienica (stesso supporto è, e a volte anche la materia adagiata sopra).
        Una bella trovata questa delle province, e com’è giusta. E che sistema pratico l’analogia: universale, sovraprovinciale… Non per niente un procedimento letterario

        1. Vuoi dire che dove c’è libro c’è letteratura? Un timore reverenziale per qualunque parola scritta che non differenzia Leopardi dal calendario di sant’Antonio? Mia zia in effetti pensava così. Però aveva pochissimi libri in casa. Anche tu non distingui tra Jakobson e Tabucchi? Io sì. Anche se entusiasmante a volte, Jakobson non si poneva un fine estetico, dilettevole e autosufficiente : qualcosa che, possibilmente, fosse per il lettore così piacevole da leggere come era gratificante per me da scrivere”, ma allargare la discussione su certe sue teorie ragionate. Tutta roba che sta nei libri certo ma non la trovi nello scaffale “letteratura” in libreria.

    2. Ma poi, abbi pazienza Elena, tutta la storia su una parola che implicherebbe “declassamento” e “sopraordinato” è solo prodotto tuo. E pure l’organismo, se cerchiamo le analogie… nel corporeo, direi.

      1. Abbi pazienza Cristiana, le parole (in questo caso “provincia”) hanno un significato, fatto di denotazione e connotazione. Vatti a fare un giro su un dizionario.

        1. Ma guarda che bello! Dal vocabolario Treccani, voce provincia “5. In senso fig., nell’uso letter. (non com.), settore specifico, ramo ben determinato nell’ambito di una disciplina, di un’arte e sim.: le scienze … mi paiono una p. di letteratura … interamente diversa dalle belle lettere (Alfieri)”.
          Non comune d’accordo ma siamo tra persone colte.
          Invece non hai mai spiegato cosa intendi tu per letteratura. Ti chiedo di essere precisa tenendo conto di quanto scritto finora, e cioè che io considero l. le “belle lettere” e la riflessione su di esse.

          1. Uso letterario, e per di più non comune. Che “provincia” sia, al giorno d’oggi e indipendentemente dalla tua intenzione, connotato “svalutativamente” (come risulta anche dal resto dell’articolo Treccani, ove non si usi la parola in senso proprio, cioè puramente amministrativo) lo conferma anche la segnalazione di Ennio, che mi pare si rivolga a persone colte. Poi si possono fare tutti i distinguo del caso, ma in prima battuta la connotazione è negativa.

            Sul definire la letteratura: di come vedo la letteratura ho parlato molto, sia in diversi post che nei commenti. Può darsi che più avanti tenti una definizione. Di sicuro non ne discuto con una persona che trova irritante un racconto perché è letterario – che è come trovare irritante un quadro a olio perché è dipinto.

    1. “Vuoi dire che dove c’è libro c’è letteratura? Un timore reverenziale per qualunque parola scritta che non differenzia Leopardi dal calendario di sant’Antonio?”

      No, voglio dire esattamente il contrario. Sei tu che parti dal contenitore e metti Jakobson di fianco ai libri di cucina, o al calendario di Sant’Antonio. Tutte province, una accanto all’altra. E’ quello che hai detto nella tua prima risposta.

  6. Elena, in realtà volevo pure io sottolineare la maestria nel tuo racconto nel farlo apparire con tutte le caratteristiche retoriche e spontanee del racconto orale: come essere li’, in quel cucinino, spalle appoggiate al muro, a sentir “spettegolare” te sulle vicende del lontano parentado, interrompendoti con curiose domande…Quindi mi sembra che di fatto smentisci la tua affermazione che sia impossibile…
    Riguardo a “…sono dell’opinione che ci si debba attenere al conflitto che si conosce bene” ( E.G.), penso che scrivere un racconto sia come lanciare un sasso in uno specchio o corso d’acqua… emergono cerchi concentrici che si vanno allargando: il piu’ piccolo, per diametro, è piu’ scavato ed evidenzia meglio “il conflitto” osservato, ma se si estende lo sguardo arrivi a comprenderne altri, piu’ ampi, nel paesaggio circostante…un occhio acuto, non il nostro, arriverebbe fino ai confini dell’universo…come il movimento d’ali di una farfalla puo’ generare a distanza un tornado…Tutto questo per affermare che esiste una rete fitta di interferenze…A ognuno la scelta

    1. Cara Annamaria, ti ringrazio veramente di cuore per l’apprezzamento. Mi chiedo però com’è che c’è sempre qualche equivoco: io non ho detto che è impossibile (“Quindi mi sembra che di fatto smentisci la tua affermazione che sia impossibile…” A.L.); ma tu stessa parli di maestria. Ora, proprio la scelta di ignorare l’aspetto della maestria (da cui mi sento assai lontana, ma almeno ho presente il problema) caratterizza una certa visione “democratica” della letteratura ed è ciò che irrita il mio personaggio.
      Grazie ancora…

  7. Senza intento polemico e solo per accennare anche a cosa (di grosso e complesso) cova oggi sotto questa possibile discussione e la parola ‘provincia’.

    SEGNALAZIONE

    Provincializzare l’Europa
    di Dipesh Chakrabarty
    http://www.meltemieditore.it/catalogo/provincializzare-leuropa/

    Il pensiero europeo è allo stesso tempo indispensabile e inadeguato per riflettere sulle esperienze di modernità politica nelle nazioni non occidentali. Indispensabile perché le idee universali proposte dall’Illuminismo europeo rimangono la fondamentale base di ogni critica sociale che cerchi di affrontare i problemi della giustizia e dell’equità. Inadeguato perché la transizione capitalista nel Terzo mondo, se misurata con gli standard occidentali e con la nostra idea di storicizzazione, appare spesso incompleta o inefficace.
    Già dalla metà del XX secolo la cosiddetta “epoca europea” della storia moderna ha cominciato a lasciare spazio ad altre configurazioni regionali e globali. Provincializzare l’Europa non significa però ripudiare o abbandonare il pensiero europeo, ma riflettere su come globalizzarlo rinnovandolo per e dai suoi margini.
    Ogni caso di transizione al capitalismo non è più semplicemente interpretabile come un fenomeno sociologico di transizione storica, ma anche come un caso di traduzione: una traduzione di mondi esistenti e delle loro categorie di pensiero nelle categorie e nella cultura della modernità capitalista. Chakrabarty dimostra, sia in modo teorico che attraverso esempi dell’India coloniale e contemporanea, come tali storie di traduzione potrebbero essere pensate o scritte.
    Imbastendo una sorta di conversazione tra due dei più importanti rappresentanti del pensiero europeo, Marx e Heidegger – l’uno esempio della tradizione analitica delle scienze sociali, l’altro di quella ermeneutica –, l’autore cerca di comprendere la modernità politica dell’Asia meridionale, prendendo in esame nella prima parte studi storici ed etnografici su gruppi “subalterni” e concentrandosi nella seconda sulla storia dei bengalesi indù delle caste superiori colte.
    Provincializzare l’Europa comincia e finisce indicando la necessità del pensiero politico europeo per la descrizione della modernità politica non europea e, al tempo stesso, affronta i problemi di rappresentazione che tale necessità produce.

    1. Viva il dialogo! Di cui è fatta la democrazia come composizione dei conflitti. Ove la struttura di base sia interna a un certo ambito.
      Al contrario del testo postato da Ennio – che non dà rilievo né alla divisione in Ue tra stati o nazioni occidentali e orientali, e che, in nome di forse-ideali non dice che la Ue è un disegno imperiale americano (che peraltro pretende oggi di agire come “impero” autonomo) in un mondo tutto armato (come la Ue?) e spartito da imperi più attrezzati (ma siamo sicuri di voler essere un impero?) io non sono convinta della Ue. Se non come il vecchio comando tra Francia e Germania sul resto. (Cacciata via la GB finalmente.)
      Bene di tutto ciò poco mi importa. Ma di interrelazioni precise tra me e te, o altre e altri, essendo vecchie ambedue e presumibilmente sagge, mi importerebbe di più nella irrilevanza delle nostre vite. Invece mi pare che tu sfugga per ragioni a me ignote. Me ne farò una o più diverse ragioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *