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Eterofiction

di Elena Grammann

  • Ho letto la tua recensione[1].
  • E?
  • In ogni tua recensione c’è qualcosa della tua esperienza. Intendo della tua esperienza privata, personale. Sembra che tu scriva recensioni per parlare di te.
  • Difficile parlare con cognizione di causa di qualcosa che non sia il proprio sé. E i libri piacciono se si ritrova qualcosa che si conosce – o meglio: se aiutano a definire qualcosa che si conosceva senza riuscire a dargli un nome; o senza pensare che fosse il caso di dargliene uno. Troppo pigri o sbadati per pensarci.
  • Non ti facevo così platonica.
  • La teoria platonica della conoscenza è la più plausibile – indipendentemente da quel che si pensa del resto. (Pausa) Ma nel caso presente la recensione di Silvio D’Arzo ha veramente poco di me. Qualcosa, ma in fondo poco. Troppo statici i personaggi; troppo già composti per la tomba. Anche se può darsi che una certa necrofilia… Lo sai che quando ero piccola, diciamo verso i nove, dieci anni, e ero stufa di giocare con la bambola – anzi, credo che non mi sia mai piaciuto, ma non mi decidevo a mollarla lì, senza rito, perché me l’aveva regalata mia nonna e comunque per quanto bambola una sensibilità embrionale doveva pur averla… mi sentivo responsabile del suo benessere, già mi sentivo responsabile per tutto… insomma l’avevo deposta in pompa magna in una scatola con una bella copertina di raso e cuscino e materasso fatti di sacchetti di cellophane pieni d’erbe scelte e sistemata a dormire una specie di sonno eterno in solaio. Non molto diverso da una sepoltura nella torba se ci pensi. Poi ogni tanto andavo a controllare. C’ero rimasta malissimo quando avevo scoperto che l’erba era marcita e il cellophane era pieno di vermi bianchi… Un vistoso buco nelle tecniche di imbalsamazione. Nulla di eterno a questo mondo.
  • Dovevi far seccare l’erba.
  • Già. E da qualche parte lo sapevo. Ma ero toppo impaziente di spedire la bambola in un’orbita supralunare.
  • Supralunare?
  • Nel senso di incorruttibile. Sai, l’etere, la quintessenza…
  • Ah d’accordo. Ma D’Arzo?
  • No, voglio dire, eccesso di necrofilia in quei racconti, soprattutto il secondo. Madonna ’sti due vecchi! un piede nella fossa e l’altro su una saponetta! – cos’hai da ridere?
  • No perché noi invece…
  • Ma cosa c’entra, cosa c’entra… Non è una questione d’età. Questi ci sono nati con un piede nella tomba. O meglio, no, forse non ci sono nati ma era un destino. Un Destino con la maiuscola e ineluttabile. Ecco guarda: quei due racconti sono il funerale di un modo d’essere anteguerra.
  • Non mi dire che lo conosci, il modo d’essere anteguerra.
  • Certo che lo conosco. Anni e anni di racconti. Io appoggiata alla parete in cucinino mentre lei lavava i piatti. Mia madre era una grande narratrice, aveva un talento per la narrazione orale. Le veniva da suo padre. Mi teneva con l’affabulazione; io sono cresciuta in un mondo che non c’era più. E fra parentesi era abbastanza intelligente per rendersi conto che quando ha voluto metterle per iscritto, le affabulazioni, ne è uscita una schifezza. Sono due mondi completamente separati – io direi addirittura opposti, la narrazione orale e la narrazione scritta. Benché Thomas Mann a quanto pare …
  • Senti, ma tornando a D’Arzo?
  • No, aspetta un attimo, perché cambi argomento? Non ti rendi conto di quanto è importante? Tu fai presto, tu non sei mai stato cooptato per le serate “Narratori del territorio”, non ti hanno mai tirato per il coppino nelle associazioni culturali Al Filòss, non ti sei dovuto sorbire la signora che era brava a fare i temi e ora ha raccolto i ricordi del tempo che fu e esordisce dicendo: L’ho buttato giù così, come veniva eh, come veniva, e tu che pensi distintamente No signora non doveva farlo, e invece ti tocca assumere per un’ora e mezza un’espressione assorta leggermente sorridente, così che ti vengono i crampi a tutti i muscoli facciali più quelli della nuca con cervicale assicurata e alla fine, dopo gli applausi liberatori, da bere c’è soltanto dell’imbevibile malvasia e tu la bevi per la disperazione. Konna taiken wo shita koto ga naindeshou ne.
  • E che vuol dire?
  • Vuol dire che tu non hai mai fatto questa esperienza.
  • Certo che l’ho fatta, un sacco di volte, e la faccio decisamente meno tragica di te. Sono sicuro che fra i ricordi “buttati giù” dalla signora c’erano cose interessanti. Fondamentali forse. Proprio negli scriventi “non autorizzati” compare oggi quel plurale, di cui il plurale della letteratura “alta” deve tenere conto. Comunque preferirei non discuterne adesso. Propongo di chiudere la parentesi e tornare a D’Arzo. Cosa dicevi della tua recensione? (Silenzio) Be’? Non parli più? Che ti prende?
  • No niente, volevo raccontare una storia ma forse è meglio che te la fai raccontare da uno scrivente non autorizzato.
  • Per dio quanto sei permalosa! Non ti sembra di esagerare?
  • Gli spiriti nobili sono permalosi. Achille era permaloso. Orlando era permaloso. Crimilde e Ximena erano permalose.
  • A Ximena avevano ammazzato il padre.
  • Sempre meno grave di una serata al Filòss.
  • Dai, piantala e racconta.
  • Ma non è poi niente, una cosa che mi è venuta in mente mentre ti dicevo che nella recensione non c’è molto di me.
  • E allora?
  • E allora quella recensione era uscita qualche anno fa, in forma più ampia, in un volume a diffusione locale. L’aveva letta una signora, un’esperta di D’Arzo che ha scritto saggi, curato edizioni; e mi era stato riferito – me lo riferì un’anziana parente mia e sua – che era rimasta molto positivamente impressionata, direi quasi toccata… Io la signora la conoscevo di vista, diciamo che sapevo chi era. Ne fui lusingata. Ma soltanto adesso, quando hai detto che nelle mie recensioni c’è qualcosa di me, ho capito che cosa aveva apprezzato; cosa l’aveva toccata: ed è che io lì non parlavo di me; parlavo di lei.
  • Questo devi spiegarlo.
  • È una storia lunga… anche se immagino che si potrebbe riassumere in due parole. Ma bisogna invece raccontarla per bene, partire dall’inizio, e non so nemmeno se riesco a ricostruire tutte le parentele. Dovrei fare un sopraluogo al cimitero.
  • Al cimitero?
  • Be’ sì. La grande anagrafe diacronica.
  • Va be’, al cimitero ci andrai. Intanto comincia. (Silenzio) E adesso che c’è?
  • C’è un problema. Io questa storia non la posso raccontare. La signora è ancora al mondo.
  • E allora? Rimane fra me e te, no? È una conversazione privata.
  • Macché conversazione privata, io sto scrivendo un racconto.
  • Stai scrivendo un racconto? Ma allora, se è tutto finto…
  • No, è tutto vero, è ben quello il problema. Tutti personaggi veri. Di finto ci sei solo tu.
  • Ah, io sarei finto. Senti, non ti seguo. Ma non puoi comunque raccontare la storia? Cambia i nomi, cambia un po’ le circostanze…
  • Orrendo orrendo orrendo! Non dirlo neanche, mi fa male alle orecchie! È una storia vera ti dico, non si può cambiare nulla o non val più la pena – anzi, non vale più niente!
  • Ma nemmeno i nomi?
  • Soprattutto i nomi. I nomi veri hanno una risonanza, hanno corpo, fanno metà della storia. Mettici un nome inventato e tutto si assottiglia, scivola nell’inessenziale.
  • Allora dobbiamo rinunciare?
  • Potrei provare con le iniziali e i tre puntini, come si faceva una volta.
  • Ma sì, prova così.
  • Questa storia comincia prima della guerra. Prima della guerra l’ingegner F…, come tanti altri signori di Reggio, aveva una villa qui a San Venanzio. I F… venivano dalla montagna. Era un’antica famiglia della montagna, benestante, benpensante e cattolica. Etica personale rigorosa. Non so quale fosse l’atteggiamento nei confronti del fascismo, in ogni caso non si distinsero né per fascismo né per antifascismo e dopo il ’43, che io sappia, non subirono ritorsioni. Si potevano definire “quasi ricchi”, come la signora Nodier o i due vecchi prima del lento tracollo; la “quasi ricchezza” era tutta in case e terreni, ma di case e terreni ne possedevano, a quel che ho sentito, veramente parecchi.
  • Potresti specificare “a quel che ho sentito”?
  • Certo. La mia fonte principale non è il catasto ma mia madre. E a riguardo di mia madre devo dire che per quanto avesse lei stessa scarse attitudini a procurarsela, e senza esserne propriamente invidiosa, era però affascinata dalla ricchezza e tendeva a magnificarla e a esagerarla. E già che ci siamo diciamo anche, perché ha senz’altro un peso nel tono generale di questa storia, che per mia madre il peccato che non poteva essere perdonato era il peccato contro la proprietà.
  • Non andavi molto d’accordo con lei vero?
  • No. Ma tornando all’ingegner F…, sposò una Paterlini di San Venanzio, e anzi non so se la villa, in cui i F… venivano etimologicamente a villeggiare, appartenesse in origine alla famiglia dell’ingegnere o a quella della moglie. Durante la guerra ebbero due figli, un maschio e una femmina; la femmina, di qualche anno la maggiore, diventerà la nostra esperta di Silvio D’Arzo. Fu poi anche, a differenza del fratello, provvista dei titoli accademici necessari, ma non mi risulta che abbia mai lavorato. Probabilmente, almeno all’inizio, non ne aveva bisogno. Credo però che il motivo principale – comune, questo, a lei e al fratello – fosse una comprensibile e persino nobile inettitudine al lavoro retribuito. Ma questo viene dopo. La Paterlini dunque, sposa dell’ingegner F…, ebbe due figli, i cui nomi iniziano entrambi con A, il che ci crea qualche problema, a meno di chiamare Auno la maggiore e Adue il secondogenito, come fa peraltro Musil nel racconto Il merlo, dove per indicare i protagonisti usa le cifre Auno e Adue; e anzi si potrebbe tentare un collegamento col Merlo del Perù di Rita Simonitto[2], dal momento che in entrambi, Musil e Simonitto, il merlo diventa figura di una certa estaticità, sobria o sognante, e in entrambi è in qualche modo centrale la figura della madre…
  • Scusa, potremmo tornare ai figli dell’ingegner F…?
  • Ah va bene. Allora, nel ’52 o ’53, non più tardi perché era ancora ragazza, mia madre, che dava lezioni, si vide arrivare a casa una signora con un bimbetto di sei o sette anni. O forse otto, forse si era incagliato sul sistema metrico decimale. Erano la signora F… con il secondogenito Adue. Ma la cosa particolare era che il bambino, magrolino, era infilato in un saio da frate. Guardava per aria con gli occhi sgranati, curiosi, come se ci fossero in giro un sacco di cose che non capiva fino in fondo; e interessanti però. Io lui – molto più tardi naturalmente – l’avrò visto tre o quattro volte, e l’ultima nella foto sul necrologio. Ma anche da quella riuscivo a immaginare il bambino ficcato nel saio e l’espressione sgranata e curiosa che aveva visto mia madre.
  • Appunto – il saio?
  • Era un voto che aveva fatto la signora F… Può darsi che inizio anni Cinquanta la pratica, più che altro materna, di fare voti sopra la testa dei figli fosse ancora diffusa. In ogni caso la dice lunga sulla madre… Chissà cosa ne pensava l’ingegnere. Sempre che non fosse un’idea sua; perché questi ingegneri e medici e avvocati della montagna erano tipi strani, ossessivamente religiosi. Mia madre ne conosceva un altro, un medico, un terziario francescano che veniva giù da Marola, in pieno inverno e la neve per terra, coi sandali ai piedi e senza calze. A questi qui i figli generalmente gli morivano…
  • Lascia stare i terziari francescani e dimmi invece: cosa vuol dire “una pratica piuttosto diffusa”? Era approvata dalla chiesa?
  • Approvata non credo proprio. Tollerata, come molte altre follie. Cosa vuoi, quando l’arciprete li incontrava gli avrà fatto una carezza sulla testa e avrà detto: “Ma guarda che bel fraticello!” Come me: l’unica volta che ho partecipato agli esercizi spirituali le suore volevano convincermi che il mio futuro era con loro.
  • E?
  • E no. Scarsine come affabulatrici. La storia di Laura Vecuña, poveretta, che raccontavano, faceva solo puzza di incenso e candele. Una puzza che ho sempre trovato sospetta. Troppo parziale per qualcosa che vorrebbe essere universale. Troppo particolare.
  • D’accordo. Ma Adue infagottato nel saio?
  • Allora, per tornare al bambinello Adue, se mandi in giro un ragazzino vestito da frate, poi non puoi stupirti se…
  • Se cosa?
  • Ridotto al minimo, se non combina niente nella vita e finisce per dilapidare il patrimonio. Ma a ridurre al minimo non ti resta niente in mano e la riduzione al minimo è buona giusto per i titoli di cronaca.
  • Continua a raccontare allora.
  • Allora, intanto non è vero che non abbia combinato niente nella vita. Questo lo direbbero quelli per i quali ‘combinare qualcosa nella vita’ vuol dire accrescere: il patrimonio, o, se proprio non si può il patrimonio, almeno il prestigio. Perfettamente in linea con la Bibbia fra l’altro, Antico e Nuovo Testamento. Perché anche la parabola dei talenti…
  • Sì, va bene, ma Adue?
  • Adue dipingeva. Era pittore surrealista, fa conto Mirò un po’ più figurativo. Dei surrealisti storici gli mancava l’abilità di tenere, monetariamente parlando, un piede nella realtà. Se penso al bambino con gli occhi sgranati non faccio fatica a immaginare che, di stupore in stupore, la cosiddetta realtà finisse per sfuggirgli completamente. E non faccio fatica a immaginare l’angoscia del vecchio ingegnere. Il quale, sentendosi prossimo alla morte, ideò uno stratagemma non indegno di un notaio francese: dopo la scomparsa dei genitori, per alienare qualsiasi porzione dell’ingente patrimonio immobiliare sarebbe stata necessaria la firma della sorella, di Auno.
  • Avvilente per Adue – anzi più che avvilente. Equivale a non essere ammessi nell’età adulta. Giusto tollerati in un limbo artistico. D’altra parte, così si riverbera su Adue la gloria di Baudelaire e così l’ingegnere salvò il patrimonio. Due piccioni con una fava, in un certo senso.
  • Niente affatto. Perché Auno, quando Adue proponeva di vendere qualcosa, non riusciva a dire di no.
  • Così vendettero tutto e finirono in miseria?
  • Non proprio. Negli anni vendettero, credo, quasi tutto. Ma la vendita della villa di San Venanzio merita che se ne dica qualcosa. (Pausa) C’era a Reggio negli anni ’60 e ’70 un giovane gallerista intraprendente che aveva aperto una bottega d’arte in uno scantinato. Era in gamba e si affermò, tanto che lo scantinato, che faceva ancora bohème, non faceva più al caso. Nell’ambiente artistico cittadino il gallerista lanciato in cerca di congrua sede incrociò l’artista desideroso di lancio che possedeva, in solido con la sorella, la villa di San Venanzio. Le possibilità che l’incontro si concludesse diversamente che con un passaggio di proprietà erano estremamente scarse.
  • Capisco.
  • Pare che la villa sia stata acquistata a un prezzo decisamente inferiore al suo valore. Dico ‘pare’ perché la mia fonte era affetta da pregiudizio a favore del mattone. Soffriva di mal della pietra, con cui non si intende la calcolosi renale ma un interesse patologico per il laterizio. Per mia madre il mattone non era mai pagato abbastanza – soprattutto se era suo. Dico questo per correttezza, ma posso facilmente immaginare che la somma che Auno e Adue intascarono, probabilmente inadeguata, fosse integrata dal baluginio di una parte immateriale: la prospettiva del lancio che naturalmente non ci fu.

(Pausa)

  • Certo, è un po’ triste. Però non vedo, sai, quelle grosse analogie con i personaggi di D’Arzo. È vero che i due vecchi del racconto vendono la casa senza preoccuparsi di ottenerne il massimo, ma mi sembra che l’analogia si fermi lì.
  • Aspetta. La storia non è finita. I due F…, Auno e Adue, non erano né della mia generazione né della mia classe sociale. Quando venivano in villa, durante la mia adolescenza, conducevano la vita ritirata dei signori e frequentavano quelli del loro ceto, la vecchia borghesia terriera più o meno decaduta e in via di decadenza. Io non li conoscevo né, francamente, me ne occupavo. Poi me ne andai dal paese. Al mio ritorno, parecchi anni dopo, seppi che vivevano a San Venanzio. Li vidi qualche volta: erano dimessi, viaggiavano in corriera. Vivevano in una villetta che non gli apparteneva. Piuttosto modesta, niente a che vedere con l’imponenza, le dimensioni, il numero di stanze della vecchia; ma protetta da vecchi alberi e, benché si trovasse in una specie di triangolo fra due strade, signorilmente in disparte.
  • Quindi stavano in affitto?
  • La villetta non gli apparteneva ma non pagavano affitto. Per spiegare questa circostanza dobbiamo fare un passo indietro e tornare alla Paterlini di San Venanzio, moglie dell’ingegner F… Questa Paterlini aveva una sorella, Ines di nome, che aveva sposato un possidente locale. E costruirono la villetta. Il matrimonio rimase per diversi anni senza figli, tanto che si fecero prestare una figlia da una sorella del marito, che aveva sposato un cugino di mio nonno.
  • Mi sto perdendo.
  • Ok, lascia perdere che il marito della sorella del marito era cugino di mio nonno. Il succo è che questa coppia, senza figli, prese in casa come figlia una nipote. Mi dirai: ma perché la famiglia d’origine la cedette? Erano indigenti? Non riuscivano a mantenere la prole? Nient’affatto, erano robusti lavoratori, ma benestanti, e non avevano nessun problema a mantenere i loro molti figli. Tutti maschi. E quell’unica femmina. E allora perché cedere proprio la femmina? Che insomma in casa poteva far comodo. Perché al padre – il cugino di mio nonno – non piacevano le femmine. Cioè: non gli piacevano le figlie femmine, perché le femmine non figlie invece gli piacevano. Ma mai extra muros.
  • Sarebbe?
  • Sarebbe che si limitava a scopare le serve, pare di concerto con qualcuno dei figli.
  • Ma che libertini!
  • Libertini? Per nulla, erano tutti cattolicissimi.
  • E non ci vedevano contraddizione?
  • Mah, negli angoli morti fra la casa e la stalla non si dava tutta quell’importanza. I francesi la chiamano la bagatelle, no? E poi non si sperperava denaro. Quindi non c’era vero peccato. Comunque, per tornare alla coppia che “adottò” la nipote, qualche anno più tardi ebbero essi stessi un figlio, e la nipote scivolò, come dire, un po’ in subordine. Si trovò fra due famiglie come fra due sedie, tanto che più tardi finì per sposare un ingegnere lombardo; un tipo antipatico dice mia madre, veramente insopportabile, e la sua idea è che fosse un matrimonio di facciata e avessero fatto entrambi voto di castità. Erano infatti molto cattolici.
  • Mi sembra però che ci stiamo allontanando…
  • Certo. Abbiamo allora questa Paterlini Ines con marito – zii di Auno e Adue – che già un po’ avanti con gli anni hanno il figlio tanto atteso: Federico. Federico era… vorrei dirlo nel modo più neutro e accurato possibile. Era un semplice, ecco. Il padre morì abbastanza presto. Rimasero lui e la madre, nella villetta. A un certo punto – aveva già passato la quarantina credo – spuntò una brava ragazza ma la madre mise il veto: la brava ragazza non era socialmente all’altezza.
  • Questa Ines c’è ancora?
  • No no, è morta.
  • Allora starà arrostendo in fondo alla Geenna, sui roghi allestiti per i crimini materni.
  • Probabile. Io però non la conoscevo affatto. Mia madre la chiamava la Formigòna perché era sempre in giro alla ricerca di mobili antichi. Ne aveva messi insieme di gran pregio, fra cui un famoso scrittoio: un’opera d’arte. La Formigòna campò moltissimo; gli ultimi anni era allettata e il medico che la curava si accordò per l’acquisto dello scrittoio al prezzo stimato da un antiquario competente. Ma lo stuolo dei maschi cugini, i figli dello scopatore di serve, vegliava sul patrimonio e la vendita non si fece. Per dire: fra i molti criteri che si citano per dividere l’umanità in categorie può figurare anche questo: c’è chi vende, e chi non vende.
  • Sì ma – Auno e Adue?
  • Adesso ci arrivo. Tieni presente che questa storia comincia prima della guerra, ma nel frattempo siamo verso la fine degli anni ’80 e tutti sono invecchiati e continuano a invecchiare: la Formigòna, Federico, anche Auno e Adue.
  • E dunque?
  • E dunque Auno e Adue – non credo che non avessero propriamente dove andare – in ogni caso si trasferirono nella villetta della zia e penso che la soluzione andasse a vantaggio di tutti: Auno e Adue ebbero qualcosa che, complice la posizione protetta e nascosta della casa, era un rifugio adatto a loro; e gli altri due un aiuto nella quotidianità quando questa, invecchiando la Formigòna, diventava problematica. Fu insomma un caso felice di simbiosi mutualistica, e checché ne dicesse mia madre per quanto si può essere felici io credo che lo fossero. Il triangolo di terra fra le due strade, chiuso da alberi e siepi, mi è sempre sembrato un’isola misteriosa e disancorata dal resto in cui alcune persone hanno potuto vivere, fino alla fine, fedeli a se stesse.
  • La conclusione mi pare un po’ fiabesca; ma in un racconto, perché no. Piuttosto c’è qualcosa che non ho capito: che ruolo ha, nella storia, la nipote “adottata”, quella che poi sposò l’ingegnere antipatico?
  • Lei? Nessuno. A proposito: è la parente che mi disse che Auno aveva così apprezzato il mio saggio su D’Arzo.
  • Parentele complicate. Sei sicura di raccapezzarti bene?
  • Dove non ero sicura sono andata a controllare al cimitero.
  • Ma come? Se non ti sei mossa di qui…
  • E tu che nei sai? Se non esisti neanche…

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[1] Vedi qui su Poliscritture. Nel testo si fa inoltre riferimento a un altro racconto di Silvio D’Arzo, di argomento analogo: Due vecchi.

[2] Qui su Poliscritture.

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Istruzioni per proteggersi dalla vita

di Elena Grammann

Silvio D’Arzo, pseudonimo di Ezio Comparoni, scrittore reggiano scomparso nel 1952 all’età di trentun anni, è noto quasi esclusivamente per il racconto lungo Casa d’altri[1]. Ma quando morì, davvero prematuramente, questo outsider in tempi di neorealismo aveva al suo attivo un romanzo (All’insegna del Buon Corsiero, Vallecchi 1942) e, oltre a Casa d’altri (1952), numerosi racconti e articoli di critica pubblicati in rivista soprattutto negli anni dell’immediato dopoguerra. Nel 1960 il volume Nostro Lunedì. Racconti – Poesie – Saggi, a cura dell’amico Rodolfo Macchioni Jodi, riunisce sempre per Vallecchi gli editi e qualche inedito, fra cui il romanzo breve L’Osteria, anch’esso composto fra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta.

Dopo di che per più di vent’anni Ezio Comparoni/Silvio D’Arzo finisce nel dimenticatoio, complici la scomparsa precoce, una ricerca personale del tutto autonoma rispetto alle mode dell’epoca e, per quel che riguarda la città natale che per decenni lo ignorò, sicuramente la scelta, dopo l’armistizio del ’43 e una fortunosa fuga dal convoglio che lo portava nei campi di prigionia in Germania, di non “andare in montagna” ma di rimanere, semiclandestino, in città. Nel 1976 era stato pubblicato il terzo romanzo breve di D’Arzo: Essi pensano ad altro, coevo degli altri due[2]. Ma è soltanto dopo la metà degli anni Ottanta che edizioni e riedizioni testimoniano della nascita di un interesse duraturo; e nel 1986 Anna Luce Lenzi dedica a D’Arzo un volume[3] in cui, sulla base di testi editi e inediti che interpreta come “capitoli”, tenta di ricostruire il romanzo lungamente meditato Nostro lunedì, che D’Arzo aveva annunciato all’editore Vallecchi e che la malattia e la morte gli impedirono di scrivere.

Questa introduzione per parlare di un racconto del 1947: Elegia alla signora Nodier[4]; meno noto e meno “importante” di Casa d’altri ma senz’altro maturo e ricco di fascino darziano.

 È stato detto che tutti noi, almeno per un certo periodo, viviamo una vita non propriamente nostra: finché, ad un tratto, arriva il “nostro giorno”, qualcosa come una seconda nascita, e solo allora ciascuno di noi avrà la sua inconfondibile vita.

Io ho avuto modo di riscontrarlo in più d’uno. Ma, quanto alla signora Nodier, proprietaria dei campi confinanti coi nostri, mi sembra che essa abbia sempre vissuto la sua.

Nell’incipit il lettore si trova confrontato quasi brutalmente con uno dei temi fondanti, se non con il tema fondante, della narrativa darziana: la “vita non propriamente nostra” e le possibilità di riscattarsene. Immediatamente, già nella terza frase, ci viene detto che la condizione comune, di più o meno lungo soggiorno in una vita impropria, non vale per la signora Nodier, non è mai stata la sua. Vedremo quale sarà il prezzo per questa esenzione dal comune destino. Perché un prezzo, per una vita “propriamente nostra”, c’è sempre, e i protagonisti di un racconto coevo[5] ad esempio, letteralmente non lo possono pagare.

Ma torniamo alla signora Nodier. La sua vicenda ci viene narrata da uno “i cui campi confinavano coi suoi”. La signora Nodier è infatti una proprietaria terriera benestante, “quasi ricca” che vive in un suo podere, non lontano da un paese (o una piccola città). I luoghi, come sempre in D’Arzo, sono al contempo vaghi e precisi: vaghi per quel che riguarda toponomastica ragguagli geografici assenti; precisi nel senso della precisione poetica e narrativa, che con pochi tocchi raggruppa attorno ai personaggi i dettagli necessari a situarli in un determinato contesto storico, geografico e sociale. In questo caso bassa padana, periodo fra le due guerre, riferimento a un’impresa coloniale che si immagina la guerra d’Etiopia.

Il narratore – poco più di una voce narrante dal momento che di lui non sappiamo nulla, se non che per un certo periodo è stato vicino di proprietà della signora Nodier – continua a seguirne la vicenda anche dopo che quest’ultima, in seguito al matrimonio, si trasferisce altrove. Si sa inoltre che le fa visita almeno una volta e che dispone, per narrare la sua storia, di testimonianze (il giardiniere, la servitù) e di documenti: un diario e una lettera. L’introduzione della figura del narratore e il fatto che egli “citi” quasi sempre le fonti risponde al desiderio di raccontare la storia “dal di fuori” secondo un procedimento “fenomenologico” piuttosto nuovo e assai lontano dai vari naturalismi e psicologismi.

Ma torniamo all’affermazione d’esordio del narratore, secondo il quale la protagonista “ha sempre vissuto la sua vita”. Essa si fonda sul fatto che la signorina Nodier, pur essendo bella e (quasi) ricca, ha superato abbondantemente i trenta “senza sposarsi: non solo, ma senza esser mai stata nemmeno richiesta”; e possiamo aggiungere (perché, pur non essendo detto apertamente, è implicito), senza innamorarsi. Essa, insomma, da sempre e naturalmente ha vissuto nell’autenticità; non è mai uscita da se stessa, non ha mai avvertito quel bisogno di una vita finalmente nostra e autentica che, nella speranza di ottenerla, ci spinge verso le avventure e i compromessi; cioè in definitiva, e per quanto possa suonare paradossale, verso gli altri.

Il suo atteggiamento, in paese, è variamente commentato. Di fatto, dice il narratore, “la trovavano sprezzante. Ma nessuno aveva abbastanza spirito da ammetterlo”. Comunque, giunta a un’età che normalmente la voterebbe allo zitellaggio, la signorina Nodier, inaspettatamente, si sposa. Sposa il generale B.D., personaggio delineato, come sa fare D’Arzo, con pochi tratti, personaggio per molti versi speculare alla protagonista, su cui non ci dilunghiamo se non per dire che è il marito “giusto”, cioè quello che permette alla signorina non solo di non uscire dalla sua vita, ma anzi di continuare a viverne una perfino più sua. “Era perfino il caso di pensare”, commenta il narratore, “che lei si fosse comportata per anni e anni a quel modo, sfidando con inalterabile calma, disprezzo, ironia e l’ombra di un malinconico avvenire, nella certezza di quell’avvenimento.

La felicità coniugale della coppia consiste in una tranquilla quotidianità; lui va a caccia accompagnato dalla cagna scozzese da cui non si separa mai e lei lo saluta dalla finestra o lo richiama talvolta per allungargli qualcosa che ha dimenticato. “Più tardi”, dice il narratore, “seppi anche che essi non fecero mai il minimo progetto sull’avvenire”. Non ce n’è bisogno: la loro felicità, o tranquillità, non ha bisogno di progetti: è data, è spontanea, si instaura semplicemente nel momento in cui essi sono. Soprattutto, essi non costruiscono: non intervengono in nessun modo all’esterno di sé. È significativo, a questo proposito, che vadano a vivere nella vecchia villa del generale.

Fusione perfetta, spontanea felicità a due e, dunque, un po’ egoista. Del che si rende ben conto la signora Nodier, la quale pensa “che era ragionevole quindi l’ostilità e l’antipatia della gente”. Si direbbe che col matrimonio essa abbia raggiunto la perfezione di quella vita “sua” che da sempre la segna, e che questa vita così propria, autentica, comporti una distanza dagli altri, da quello che si dice mondo; una distanza vissuta senza alterigia, ma che insomma c’è, e che gli altri avvertono.

Ma due giornate la rimisero, per qualche tempo almeno, nel mondo, benché poi, di lì a poco, essa riuscisse a farle completamente “sue”: quando il generale, colla sua cagna, partì per la guerra in colonia, e quando, sette mesi più tardi, gliene fu comunicata la morte.

 La partenza del generale per la guerra e la sua morte costituiscono i punti di crisi del racconto. Ciò che è avvenuto prima, matrimonio compreso, non è che un preambolo. Di queste due giornate il narratore dice che “rimisero [la signora Nodier] nel mondo”: la sottrassero, cioè, alla vita “sua” e la scaraventarono in quell’estraneità che le era sempre riuscito di evitare.

Al di là del dolore per la morte del generale (“Fu”, dice a questo proposito il narratore, “una cosa terribile”; e quasi a giustificare la povertà dello stile aggiunge: “qualche volta la banalità è inevitabile”), e anzi, tutt’uno con il dolore, inscindibile da esso, l’esilio nel mondo consiste, in un certo senso, nell’essere confrontata con gli altri, con gli estranei, nel dover porsi nei loro confronti.

Provò a fare del male e poi del bene, ma l’uno e l’altro con soddisfazioni ben povere; e se alla fine decise di attenersi al bene soltanto, fu perché, dopotutto, la cosa le era molto più facile.

 Dopo un po’ le pare di essere diventata molto buona. Scrive infatti nel diario:

Ah, ma io non son più la stessa. Sono diventata così buona […] Sarei disposta a dare metà di me stessa …”

 Commenta però il narratore:

Essa era, sì, disposta a dare metà di se stessa; ma non certamente ad accettare l’altra metà che la gente necessariamente le avrebbe voluto dare in cambio. E dovette accorgersi molto presto che il dono non sarebbe mai stato accettato, senza accettare, a sua volta, il compenso. Ora, questo era chiederle troppo. Era superiore, realmente, alle sue forze.

 Alla signora Nodier, insomma, risulta impossibile mischiarsi, accettare in se stessa una parte di un’alterità qualsiasi, permettere alla sua vita di decentrarsi, di spostare il suo centro, sartrianamente parlando, verso il centro di altri.

 A questa notazione, diciamo, psicologica ne segue un’altra che è, invece, sociologica o, piuttosto, storica:

Gli stessi contadini, inoltre, non avevano più l’antico rispetto, ma la guardavano con una certa espressione come se lei avesse oscure colpe. […] “Il generale sì che ha capito” li sentiva quasi pensare. “Si è accorto che non ci saranno più tempi per lui … Se ne è andato in tempo … Ha capito … Ma lei, lei cosa aspetta?...”

Ritorna il tema dell’ostilità e antipatia della gente, radicato stavolta in una specie di necessità sociale e storica che ne fa qualcosa di ineluttabile e indipendente, in fondo, dalla volontà della stessa signora Nodier. Ci si potrebbe chiedere che senso hanno queste notazioni di dialettica storica in un racconto che è essenzialmente esistenziale. Situando i protagonisti[6] all’interno di un ceto in declino (la borghesia terriera), sottolineano il loro “essere sulla difensiva”, il progressivo ritirarsi dietro trincee sempre più arretrate nel tentativo, vano, di proteggersi da una vita che prosegue, all’esterno, per cammini incomprensibili e suoi.

Ci dice anche, però, il narratore, che l’esilio nell’estraneità fu di breve durata, e che “di lì a poco” anche queste due giornate – la partenza e più tardi la morte del generale – giornate della crisi e del più grave pericolo per se stessa, la signora Nodier riuscì a farle “completamente sue”. Ciò avviene, si può immaginare, attraverso un paziente, metodico e inflessibile relegare il mondo fuori dal raggio della propria vita:

… si ridusse a vivere quasi senza interruzione nella villa […] Questa specie di isola fu, in definitiva, la sua salvezza: e, a poco a poco, la morte del generale si andò tramutando via via in una sopportabile infelicità.

 E se una “sopportabile infelicità” ci appare un traguardo scarso, il narratore, poco oltre, aggiunge:

Ella se l’era venuta costruendo giorno per giorno, come altri, giorno per giorno, si va costruendo la sua illusione: era, a modo suo, un’illusione, verso il passato anziché verso l’avvenire: le era assolutamente necessaria: era, insomma, se stessa.

 In altre parole: la vita della signora Nodier non si può dire felice, ma è tornata ad essere sua, e questo, si direbbe, è l’importante.

In un certo senso essa vive di ricordi – e ciò sarebbe banale, sennonché:

Ella aveva […] un’inarrivabile cura nell’evitare ogni cosa od incontro che rendesse troppo recente e vivace quei ricordi: perché allora il dolore avrebbe preso di nuovo il posto di quella sua dolce infelicità, e questo non lo voleva in nessun modo. Rifiutò, per esempio, di andare ad assistere a una cerimonia in memoria di lui, e non lesse nemmeno un discorso che ne ricordava la morte. Un giorno, sì, sarebbero diventati ricordi e lei sarebbe venuta di mano in mano riscoprendoli: ma ora erano soltanto vita, era il giorno appena passato: e la vita era troppo forte per lei.

 Che quest’affermazione non sia, così, un modo di dire, una frase ad effetto, lo mostra la conclusione del racconto: la svolta inattesa e sorprendente e crudele che lo pone nella tradizione di Maupassant. Prima di passare ad esaminarla, mi preme però chiarire un’ambiguità nei termini.

Il termine “vita” è, in un certo senso, ambiguo: quando è preceduto da un possessivo (la mia vita, la sua vita) indica il modo complessivo in cui si è venuta organizzando un’esistenza; quindi le circostanze, le determinazioni spazio-temporali, i legami, gli affetti ecc. Senza possessivi (la vita) indica invece le condizioni generali e universali all’interno delle quali può organizzarsi un’esistenza particolare qualsiasi. Ora è chiaro che quando si dice che la signora Nodier ha sempre vissuto la sua vita si intende la vita nel primo senso, cioè come esistenza. Quando invece si dice che “la vita era troppo forte per lei” si intende piuttosto qualcosa di esterno, qualcosa che viene da fuori e che minaccia, qualcosa di non veramente nostro e al quale ci tocca adeguarci, e quindi piuttosto la vita nel secondo significato.

Veniamo ora alla conclusione del racconto. Siamo, in un certo senso, alla terza ed ultima crisi: una sera gelida e piovosa d’inverno, un paio d’anni dopo la morte del generale, un soldato suona al cancello della villa. È stato incaricato di riportare alla vedova la cagna scozzese dalla quale il generale non si separava e che è sopravvissuta alla guerra. Il soldato, bagnato e infreddolito, è congedato senza aver veduto la signora e senza nemmeno la civiltà di un piccolo ristoro; e la domestica che ha fatto l’ambasciata è incaricata, nonostante la pioggia, di condurre immediatamente la cagna alla casa del contadino. Dovrà anche, nei giorni seguenti, portare alla posta una lettera nella quale la signora Nodier chiede al più fido dei suoi vecchi contadini di renderle un ultimo, vitale servizio. Il vecchio, ci dice il narratore, risponde alla chiamata.

Che cosa la signora Nodier gli abbia chiesto e in cosa consista il servigio che l’anziano dipendente si affretta a renderle, il lettore lo apprende poco dopo, quando il narratore, una settimana più tardi, fa visita alla signora e fra gli immobili oggetti dell’immobile salotto scorge “nascosta dall’ombra di una tenda, […] una cagna scozzese imbalsamata”.

Effettivamente, “la vita era troppo forte per lei”.

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[1] Dal racconto, Alessandro Blasetti trasse uno degli episodi del film Tempi nostri – Zibaldone n.2 (1954). Non credo esista menzione di Casa d’altri che non sia seguita dalla dicitura “«un racconto perfetto», come lo definì Eugenio Montale” – divenuto vero epiteto omerico. Non mi decidevo né a inserirlo né a ometterlo. Alla fine l’ho messo in nota.

[2] A proposito di questi romanzi che D’Arzo scrisse intorno ai vent’anni la critica parla di “esercizi di una scrittura che va cercandosi fra le maniere letterarie del periodo” (https://www.quodlibet.it/libro/9788886570695). Lo stesso Rodolfo Macchioni Jodi, nell’introduzione al volume del 1960, scrive: “Il Buon Corsiero e l’Osteria, […] sono semplici antefatti, la cui inclusione nel volume, a parte l’interesse retrospettivo, si giustifica con l’intento, sottinteso in un’opera omnia, di storicizzare compiutamente un’esperienza letteraria”. L’osservazione è corretta; rischia tuttavia di avvilire – soprattutto per L’Osteria e Essi pensano ad altro – una certa aria europea difficilmente riscontrabile nella produzione italiana dell’epoca.

[3] Anna Luce Lenzi, Nostro lunedì. Di Ignoto del XX secolo, Modena, Mucchi 1986.

[4] Originariamente pubblicato in «Cronache» n. 3, 18 gennaio 1947.

[5] Cfr. Silvio D’Arzo, Due vecchi, in: id., L’aria della sera e altri racconti, a cura di Silvio Perrella, Bompiani 2002.

[6] Il discorso vale anche per i due vecchi del racconto citato alla nota precedente.