32 pensieri su “Ragionamenti sulla guerra in Ucraina

  1. Gli ultimi 3 punti (9,10, 11) mi sembrano i più espliciti nel poggiare su scelte personali dell’autore (scelte peraltro largamente condivise da governo e partiti) e tuttavia non motivate apertamente e razionalmente.
    Il sostegno con armi e denaro a Kiev (anzi: a Zelensky) viene motivato “per assurdo” (come si dimostravano alcuni teoremi di geometria alle medie) cioè esibendo l’inconsistenza ideologica e personale degli oppositori. Un esempio: invece di affermare di voler sostenere i valori democratici del governo ucraino (forse perchè poco accertabili) Mantelli accusa i pacifisti di “totali cecità e rigetto di fronte alla dimensione militare, purtroppo drammaticamente non eliminabile, qui e adesso, dalla storia”.
    Non ho trovato in alcuno degli 11 punti la presentazione di ragioni politico/valoriali per sostenere fattivamente, con armi e denaro, la resistenza ucraina all’invasione.
    Gli ucraini resistono. Era non così prevedibile. Quindi è pacifico che si alimenti un “circolo (che io [Mantelli] ritengo virtuoso, altri potranno chiamare vizioso) di reciproci rimandi: più lʼUcraina resiste, più lʼOccidente è spinto a sostenerla (con armi e sanzioni) e viceversa”. Il fatto assorbe ogni ragione di scelta.
    Piuttosto la finale osservazione di Mantelli mi colpisce, ma sembra lasciata cadere quasi per caso, come se non fosse il vero punto di partenza, a monte, per sviluppare, a valle, la scelta di partecipare alla guerra in corso o astenersi: “Alle spalle di tutti gli atteggiamenti prima descritti, comunque, sta lʼirriflessa convinzione che la regressione non sia possibile, che la storia non possa tornare indietro, che a reggere le sorti dellʼumanità sia il progresso, non il caos. Purtroppo, così non è.”
    Ecco: quali rischi terribili si connettono possibilmente a questa guerra? Ed è orientati da questi immani pericoli che l’azione da lontano degli Usa, e il governo e i partiti in Italia, hanno deciso di partecipare sostenendo attivamente Kiev?

  2. Ho riletto con attenzione il doppio intervento di Mantelli, ma fatico a capire la logica di questo fotoromanzo:
    c’è il Buono, culla della civiltà e campione della democrazia, che aiuta un gruppo di nuovi partigiani a combattere il malvagio erede degli zar. La bella Italia, tra sospiri e tentennamenti, impugna il fucile e va a combattere con loro.
    I lettori di fotoromanzi (se ancora ce ne sono) sanno che non bisogna andare tanto per il sottile, ma qui si esagera un poco:
    – non si capisce se il Buono, incerto se essere multipolare o unipolare, sia imperialista o meno, cosa che tutti finora davano per scontata.
    – campione della democrazia non si sa bene: a casa sua forse, ma è problema loro, all’estero certamente no, visto la fraterna amicizia coi peggiori tagliagole (dai sauditi ai dittatori congolesi) e gli interventi in tutto il mondo per rovesciare con la forza governi legittimi; e ne sa qualcosa anche la bella Italia, data la regia delle bombe nelle banche e sui treni che l’hanno dilaniata (v. Commissione Stragi del Parlamento della stessa)
    – anche se non si sa bene cosa intendere per democrazia, quindi nel dubbio lo spiega: la possibilità di scioperare; qua il lettore salta sulla sedia dall’emozione, chè rivive le immortali battute di Fantozzi sulla resistenza ai prepotenti mediante poderose nasate sui pugni. Ma subito si intristisce ricordando che questo è il paese dove milioni di persone fanno lavori a tempo pagati 3 euri l’ora, eccessivi per alcuni famosi personaggi che propugnano il lavoro gratis nei ristoranti e non solo, e dove le elezioni, non si sa perchè, non producono mai risultati inopportuni (e quando succede ci si pensa subito, chè il figlio di Bernardo Mattarella è sempre a disposizione..)
    – ma non è solo il Buono a non essere credibile: questi nuovi partigiani nati da un golpe (del Buono) sono anche infarciti di nazisti (v. telefonata della Viktoria che detta la lista e i ruoli dentro e fuori il governo) che coi partigiani non c’entrano molto, che hanno anche bruciati vivi quelli che stavano contando le schede dei referendum separatisti, che hanno fatto più morti nella loro repressione di tutta la guerra finora. Ma in fondo non è altro che un aggiornamento della Resistenza: il 25 Aprile ha sfilato anche l’esercito, il prossimo tutti insiemi coi repubblichini..
    -il cattivo invece è ovviamente imperialista data l’eredità bolscevica e zarista, su questo non ci piove; anche se gli spettatori che hanno studiato chiederebbero a gran voce che venga aggiornata la definizione: non più l’imperialismo predone ottocentesco, non più l’imperialismo finanziario novecentesco, ma l’imperialismo morale, votato al dominio del male; così poi anche Disney può fare la sua parte.
    – e, dulcis in fundo, la bella Italia per imbracciare il fucile dovrebbe stracciare la sua carta fondante (dove la guerra è ripudiata, e dove l’armarsi è lecito solo contro un nemico che la invade). Nessun problema, l’impone la realtà e la trama: tanto era buona solo per giocare a Monopoli.
    Di fronte a tutta questa spigliatezza qualche lettore/spettatore potrebbe rimanere sconcertato, ma subito si ricrederebbe: al botteghino questo fotoromanzo ha un successo strepitoso.

  3. @ Paolo Di Marco

    “e, dulcis in fundo, la bella Italia per imbracciare il fucile dovrebbe stracciare la sua carta fondante (dove la guerra è ripudiata, e dove l’armarsi è lecito solo contro un nemico che la invade).”

    D’altronde che cosa disse il ‘guitto’ Roberto Benigni? Dico ‘guitto’ perché il ‘comico’ è tutt’altra cosa, nel senso che si fa portatore di una verità trasfigurata mentre il guitto è il portatore di una verità dettata dall’esterno. Il ‘guitto’ Benigni diceva che la nostra Costituzione è la più bella del mondo! E ha perfettamente ragione trattandosi di un mondo, quello odierno, il quale anzichè essere governato da statisti sembra essere in mano ai ‘guitti’. E costoro invece di far ridere, fanno piangere non solo per la loro pochezza (l’ultimo acquisto della squadra è Zelenskij) ma perché con quella ‘pochezza’ seducono le menti – ovviamente già appecoronate! E questa Costituzione è bella perché si suona a fisarmonica dando fiato a chi in quel momento decreta il “là”. Così si può permettere a Massimo D’Alema, l’ineffabile, di portare l’Italia, in quanto lui Presidente del Consiglio nel marzo del 1999 (Governo di Centro Sinistra), a partecipare con nostri mezzi e truppe a una operazione militare offensiva in Kosovo al seguito dei bombardieri NATO e di vantarsene orgogliosamente. Ma la nostra Costituzione è subordinata ai dictat della NATO? A quanto pare, sì. Ma il prezzo di una Alleanza (si fa per dire!) può valere la rinuncia ai propri principi costituzionali? Ed anche etici, come quando Roberto Benigni (sempre di guitti si tratta) dette un calcio alla Storia e nel suo brutto film “La vita è bella” fece entrare al campo di Auschwitz la liberazione portata dai carri armati americani anziché da quelli sovietici.
    Ma, si sa, ai guitti tutto è permesso! Possono sempre cavarsela dicendo “Ma si faceva per burla!” Ma gli effetti di quella ‘burla’ la paga quel crescente gruppo di persone che viene tenuto nell’ignoranza imbesuito dalle luci dello spettacolo!
    Ed è proprio allo spettacolo che il Presidente ucraino fa riferimento, è lì che trova sponda: all’Eurovision Song Contest, a Cannes ecc. ecc. Lo troviamo dappertutto a ‘sponsorizzare’. Come se non si trattasse di una guerra vera ma di una fiction! E da qualsiasi pulpito chiede/obbliga il mondo intero affinchè si adopri per annientare la Russia. E minaccia pure gli indecisi: mal gliene incoglierà! Ma questo forse è un problema suo (o di chi lo foraggia) perché non credo che il suo popolo martoriato da questa guerra (ingiusta!) voglia ciò: vuole pace, lavorare, vuole delle serie riforme sanitarie (promesse ma mai attuate), abbattimento delle mafie e lotta ai corrotti oligarchi…Da quale potere divino gli arriva tale improntitudine ed arroganza?
    Fra un po’ rispolvereremo la vecchia vignetta, ambientata in Piazza San Pietro a Roma, in cui c’è un fedele che chiede all’altro “Ma chi è quella persona vestita di bianco che appare al balcone di fianco a Zelenskij?”

    1. La finale considerazione appena accennata da Mantelli (che a reggere le sorti della storia sia il progresso e non il caos anche se purtroppo non è così) è il tema che affronta Habermas in un lungo articolo tradotto su Reset https://www.reset.it/tag/jurgen-habermas-2
      Rispetto ai giovani politici del suo governo, diventati da pacifisti convinti bellicisti (al contrario degli ignoranti pacifisti nostrani, diventati imbelli assoluti da terroristi quali erano, secondo Mantelli) Habermas vecchietto come me è convinto che la guerra, al tempo nucleare non si può vincere, pena la mutua distruzione (fisica totale? o solo moralmente parziale con le bombette atomiche a raggio breve…).
      La confusione tra reazione morale e azione politica spiega secondo Habermas la posizione della giovane ministra verde&liberale Anne Baerbock, così come la attuale confusione morale circa le proprie azioni armate passate spiega la scelta imbelle dei nostri “sinistri pacifisti” per Mantelli.
      A quando una classe politica europea orientata su valori del presente?
      Non servili, che di quelli, in questo vuoto, ce n’è a iosa…

  4. uno scarto di lato, che illumina chi sono quelli che muovono i fili degli Zelensky e dei Draghi:
    ‘I helped make Haiti and Cuba a decent place for the National City Bank boys to collect revenues,” Maj. Gen. Smedley Butler, a leader of the American force in Haiti, wrote in 1935″
    ‘Black people were “ungovernable” and had “an inherent tendency to revert to savagery and to cast aside the shackles of civilization which are irksome to their physical nature.”
    Robert Lansing, Segretario di Stato 1915, a proposito degli Haitiani
    Il NYTimes, con una di quelle inchieste che lo rendono un grande giornale, con un lavoro di mesi ha trovato e pubblicato centinaia di documenti nascosti che documentano come Haiti, il primo paese dove gli schiavi hanno sconfitto gli schiavisti (francesi), è stato depredato selvaggiamente prima dai francesi con la loro banca e poi dagli americani con la loro (Citycorp).
    Ma c’è un altro rapporto con l’Ucraina: semplicemente questo è un buon esempio del lavoro di storico, che troppi dovrebbero seguire.

  5. Intanto un apprezzamento generale: è effettivamente uno scambio di idee che mantiene le promesse di confronto civile. Poi una nota, un aspetto su cui mi pare non si sia soffermata l’attenzione (ma nel mare di commenti mi sarà sfuggito). Ossia gli effetti che il prolungarsi della guerra potrà avere sulla stabilità dei regimi democratici europei, sulle libertà (di sciopero, di salvaguarda dei diritti ecc. ecc.) faticosamente conquistate in tempi in cui i conflitti sociali anche aspri (l’importanza delle lotte del lavoro di cui parlava Einaudi) si svolgono nell’ambito di regole di convivenza sociale riconosciute e accettate, regole che solitamente saltano in momenti di emergenza e l’emergenza non nasce solo dalla partecipazione diretta a una guerra, ma anche dall’instabilità sociale che può innescarsi da gravi crisi economiche (ne abbiamo già avuto qualche esperienza all’indomani della crisi del 2008). Sollevare questo timore –timore di un drastico impoverimento, di un aggravamento delle condizioni di vita delle popolazioni europee – viene solitamente tacciato di egoismo, di mancanza di valori. Mi ha colpito la famosa alternativa “aria condizionata o pace” perché l’ho trovata espressione della distanza abissale che esiste tra i membri dei ceti dirigenti (temo non solo italiani) e la realtà. Se la guerra si prolunga si aggraveranno le conseguenze su buona parte della popolazione, e non sarà questione di qualche grado in più nelle case d’estate o in meno in inverno. Ne accenna (ottimisticamente) Mantelli, nella sua ottava considerazione, dove dice che si dovranno ripensare fonti energetiche, rapporti commerciali ecc. e scrive che «può ben darsi che ciò comporti una riduzione dei livelli attualmente raggiunti di benessere e consumi, ma la storia non è un progresso continuo; ci sono momenti e fasi di passaggio». Ma le fasi di passaggio possono essere lunghe e avere effetti molto profondi e duraturi (dell’umana durata si parla, ovviamente: dieci, vent’anni, ma quanto basta a rovinare una generazione). Una delle eventualità non remote di questo conflitto, delle sanzioni incrociate, delle nuove forme di protezionismo commerciale, potrebbe essere una nuova crisi economica e nuova disoccupazione e da che mondo è mondo queste situazioni raramente hanno portato a processi di estensione della democrazia, ma sono state le basi e le ragioni di drammatiche involuzioni. Può darsi che queste siano ragioni egoistiche per volere la pace, ma non ho presente casi in cui l’impoverimento e il peggioramento delle condizioni di vita abbiano portato a rafforzamenti delle istituzioni in senso democratico. Già si è visto come dopo il 2008 siano cresciute forze nazionalistiche, populiste e xenofobe; non vorrei trovarmi ad assistere, prima che la fase di passaggio sia trascorsa, a un nuovo suicidio dell’Europa dopo quello del 1914-18. Questo sarebbe definitivo.

  6. Grazie a Ennio Abate ed a tutte/tutti per i commenti. Resta una domanda a cui nessuno dei commentatori però risponde: 1) se non si mandano armi all’Ucraina, l’Ucraina sarà sconfitta; 2) se l’Ucraina sarà sconfitta, la Federazione Russa, guidata da Putin, si rafforzerà, e con essa il suo modello politico reazionario ed autoritario; 3) conviene a noi, ed al movimento operaio nel suo complesso, un rafforzamento di quel modello? Negli USA, tanto per esser chiari, sono possibili sindacati liberi. Lo stesso in UE. In Russia e in Cina NO! Tutto lì.

  7. Gentile Brunello Mantelli,

    sia pure tristemente, sono felice per lei perché almeno si può permettere di vivere sufficientemente sereno in quel mondo che lei ha dettagliato nei punti 1-2 e 3 e dove nessun dubbio né alcuna Storia possono fare capolino.
    Le sembra ‘libertà’ il fatto che io, prima di dire qualsiasi cosa, debba premettere di essere contro Putin (qualche tempo fa dovevo premettere che ero pro-vaccino) e che debba valutare il peso delle mie parole intervenendo in Poliscritture perché un algoritmo vendicativo potrebbe decidere di silenziare il nostro caro amico Ennio? Perché le elezioni di Putin (“modello politico reazionario e autoritario”) non sono riconosciute come espressione della libera volontà del popolo mentre quelle di Zelenskij, palesemente sponsorizzate dall’Occidente (dopo il precedente ‘colpo di Stato’), invece sì? Perché in questi due anni, nel nostro ‘democratico paese’, dove “sono possibili sindacati liberi”, il nostro popolo ha gridato, sofferto, pianto, scioperato (anche con cariche della polizia) scivolando giorno dopo giorno nella miseria non solo economica (che, in parte, sta affliggendo il mondo intero) ma in quella ‘morale’, nell’isolamento sociale, nell’abbrutimento culturale? E tutto questo ‘arbitrio del potere’ non suscita indignazione alcuna? A che mi serve la ‘libertà’ di fare queste affermazioni quando cadono nel vuoto, azzerate da un annebbiamento che ha invaso le menti, costrette ad inseguire il presente e le sue mutazioni senza un progetto, il che significa mettere assieme passato presente e futuro? Perchè ci propinano sempre un emergente che ci impedisce di disporre di tempo per riflettere e pensare?
    Mi torna in mente quando a Dario Fo e Franca Rame, dopo anni di ostracismo, venne concesso il visto per andare negli Stati Uniti. Quando ci raccontarono della loro esperienza in quel Paese la cosa che mi colpi fu questa: “Siamo rimasti sconvolti dal fatto che lì puoi dire di tutto, tanto non gliene importa niente a nessuno e le cose continuano come prima”.
    Questo è il principio: “protesta pure, tanto il potere decisionale lo detengo io”.
    Consiglio a tutti di vedere (o rivedere) il film “Quant’è bello lu murire accuso” (E. Lorenzini, 1975) quando Pisacane si fidò delle promesse dei liberali napoletani che sembravano propensi nei confronti della ‘rivoluzione’ mazziniana. Ma quando temettero per il loro potere, cambiarono idea facendo trucidare Pisacane degli stessi contadini che lui cercava come alleati.

    Ad majora!!!!

    1. Continuo a non capire quali sarebbero le migliorie rispetto al tutt’altro che perfetto Occidente apportate dal progetto politico di matrice russa o cinese. Quanto al “colpo di Stato” di piazza Maidan, vedo che le mancano i fondamentali e perciò va dietro alle cucche diffuse da russi e filorussi. Consiglio due volumi sull’Ucraina, quello di Simone Attilio Bellezza, giovane storico di valore e perfetto conoscitore delle lingue russa e ucraina e della letteratura in merito, e quello di Jurii Colombo, giornalista, madre lingua russa, a lungo corrispondente de “Il manifesto” da Mosca, espulso sui due piedi dai servizi segreti russi a guerra iniziata, nonostante sia sposato con una russa, a cui per inciso non è permesso di uscire dal paese. Mi creda, con tutti i suoi limiti (molti!) la democrazia liberale è meglio assai dell’autocrazia (non per caso Putin piace a Orban, Salvini, Berlusconi, Le Pen, Trump, ecc. ecc.)

  8. Io dissento da molte delle considerazioni svolte da Mantelli, però non possiamo nemmeno negare i dati di realtà: il fatto che le libertà in occidente siano limitate, a volta ostacolate, altre ininfluenti, non significa che si viva in un regime paragonabile a quello russo. Le lotte politiche e sociali in Italia, per restare nel nostro paese, hanno portato a molte conquiste nei “vituperati” anni 70 (SSN, divorzio, Statuto lavoratori, legge Basaglia ecc. ecc.). Che oggi ci sia un arretramento non significa che non sia pensabile e possibile ottenere nuove conquiste. In Russia no (e nemmeno in Cina, in Turchia o in molte altre realtà dove la democrazia, formale finchè si vuole, ma che con tutti i limiti consente lotte politiche altrove impossibili. Oggi è più difficile, certo, ma questo è un altro tema). Il mio dissenso da Mantelli è tutta nella sua considerazione che, se Putin vince, “si rafforza il modello politico reazionario ed autoritario”. Non siamo, io credo, di fronte a uno scontro di civiltà (modello democratico vs. modello autoritario), ma a un tentativo di una potenza nazionalista e imperialista di riaffermare il proprio protagonismo, e anche di difendere la propria sicurezza, messa in discussione in Europa dall’ampliamento della Nato e dalla perdita di sicurezza lungo i propri confini (la Nato in fondo è pur sempre un’organizzazione militare che guarda a est). Riconoscere questo non significa riconoscere a Putin il diritto di invadere, ma dovrebbe insegnare che non si dovrebbe pensare di risolvere questo conflitto isolando o umiliando la Russia, facendo cioè l’errore fatto a suo tempo a Versailles nei confronti della Germania (e se si pensa a questa guerra come scontro di civiltà rischia di essere inevitabile pensare alla vittoria come annientamento del nemico). Da simili politiche non nasce mai nulla di buono. Certo una vittoria di Putin sarebbe deleteria per qualunque percorso democratico dentro la Russia, ma non vedo come potrebbe influenzare il “modello democratico” laddove questo esiste. La Russia non è l’Unione sovietica, che, nel bene e nel male, rappresentava (almeno alle origini) un modello politico ed economico antagonista. La Russia è una nazione che sgomita per avere o conservare un ruolo nel mondo. Certo se arrivasse a dominare l’intero globo sarebbe un disastro, ma un mondo dominato da una sola potenza, da un solo “modello” sarebbe comunque un male: anche un mondo in cui esistesse come unico quello occidentale anglosassone (libero, ma anche poco o per nulla attento alle politiche sociali, all’uguaglianza) non sarebbe un bene. Per dirla con un personaggio della Montagna magica: «farò a meno di domandare che ne sarebbe del principio del moto e della ribellione qualora la felicità e l’unione fossero realizzate. A quel punto la ribellione diventerebbe un crimine…». Per farla breve, la vittoria di Putin sarebbe ininfluente “per il movimento operaio nel suo complesso”, sarebbe influente per l’Ucraina e per gli equilibri tra USA e Russia, sarebbe una sconfitta diplomatica e politica (non militare) dell’Europa che non ha saputo proporsi e imporsi come mediatrice (oggi, ma soprattutto negli anni passati). Se Putin perde sarebbe una vittoria degli Stati Uniti (e nuovamente una sconfitta diplomatica, politica e militare dell’Europa), ma anche una vittoria della parte orientale dell’Europa, dei paesi meno democratici che fanno parte dell’unione che ne uscirebbero ulteriormente rafforzati all’interno della UE. Due scenari che dovrebbero suggerire – già da tempo – all’Europa di assumere un ruolo di mediatrice.

    1. Come si fa a mediare con chi NON vuole mediare? Al Cremlino non han nessuna voglia di trattare, allo stato. Quanto alla tesi che il nazismo sia stato conseguenza di Versailles, è una tale sciocchezza che nessuno studioso serio oggi si sogna di sostenere. Il gruppo dirigente russo ha un progetto, è quello esposto più volte su “Ria Novosti”; lo si legga (ne circolano traduzioni, in inglese e italiano).

  9. Perdonami, ma non ho scritto che il nazismo è stato conseguenza di Versailles, ma solo che quel modello di trattato di pace è il più sbagliato possibile (mi pare che affermare il contrario sarebbe anch’essa “una tale sciocchezza che nessuno studioso serio oggi si sogn[erebbe] di sostenere”). Quanto al resto, be’ non resta allora che sperare che Putin perda su tutta la linea augurandosi che non segua l’esempio di Sansone

    1. Hai ragione, ho inferito, ed ho sbagliato. Vero è che molti prolungano il giudizio su Versailles facendone il prodromo del NS, ma tu non lo avevi detto. Scusa. Il trattato comunque non fu firmato, come sai, dagli USA, e la sua forma “punitiva” fu voluta fortemente dalla Francia, che si portò appresso il Belgio. In UK c’erano parecchi dubbi, e l’uscita critica di Keynes non fu il gesto isolato di uno studioso indipendente, ma rifletteva opinioni abbastanza diffuse a Westminster, dove – tra l’altro – non si vedevano affatto di buon grado idee “neonapoleoniche” invece coltivate a Parigi, dalla costruzione della “Piccola Intesa” all’appoggio nemmeno tanto velato ai secessionisti renani. Tanto è vero che, una volta consolidatasi la Russia post ottobre 1917 e guerra civile, a Londra si prese in considerazione una normalizzazione dei rapporti con Mosca anche in funzione antifrancese (per lo stesso motivo non si vide male, da Downing Street, l’arrivo al potere di Mussolini).

      1. Figurati! Conosciamo tutti le insidie della foga delle discussioni, insidie da cui nessuno, a cominciare da me, è esente, tanto più quando il tema è vitale, e quindi appassionatamente vissuto, come in questi frangenti

  10. una breve riflessione sulla Forza del Pensiero che riusciva a illuminare le menti persino da dietro le sbarre durante regimi autoritari, pensando agli esempi di Rosa Luxemburg e di Antonio Gramsci…Pensiero, consegnato agli scritti e non solo, che generava correnti di pensiero alternativa, traducendosi in azione attraverso, tra l’altro, ad un pullulare di stampa clandestina, certo a rischio, per i responsabili, di esilio carcere e tortura…Oggi invece si impone la forza del Pensiero mistificante, quello della propaganda governativa, di Paesi e superpotenze, che rinchiude le menti in gabbie di pensiero. Chi ne esce e vede il re nudo anche in Occidente e non solo in Oriente, non incorre in un tribunale dell’inquisizione, ma deve affrontare forme di ostracismo demonizzante ed emarginante…Il peggio è che le vittime diventano collaboratrici di ingiustizie, cioè siamo messi gli uni contro gli altri…Molta Stampa di oggi è allineata, si salvano solo alcune voci e social..Cosi’ la cosiddetta Democrazia corre su un filo strettissimo in tutte le latitudini e anche il modello nostro anglosassone, capofila gli USA, traballa non poco…Le stragi armate nelle scuole americane sono una cartina di tornasole di devianze profonde e distruttive da portare alla luce, al di là delle apparenze

    1. Concordo con te Annamaria, che siamo in un pensiero mistificante retto da potenti stati e alleanze, che chi vede il re nudo deve affrontare ostracismo escludente, che la democrazia corre su un filo strettissimo, che il “modello” traballa non poco … e che le stragi fatte da giovani maschi negli Usa hanno delle motivazioni radicate nel modello.
      Ma, siccome allora mi direbbero che “sto con Putin”, posso solo denunciare una crisi terribile del nostro ex-dominio occidentale (e motivata e fondata sadio quanto!) e… stare a guardare il nostro… non dirò sfacelo ma almeno scacco … e rassegnare il futuro in mani … quali? Il Fato (chi mai lo pronunciò … al futuro?) o la Punizione, o la Giustizia Storica?
      O il Nulla e la Forza?

      1. Mantelli continua a parlare di un mondo immaginario che nulla c’entra con la situazione di fatto: la Russia non vuole esportare nessun modello, e non c’entra nulla con l’imperialismo vecchio e nuovo; e i dati parlano del fatto che Putin non è il protagonista se non indirettamente (come Canfora ci ha detto chiaramente più volte).
        Il quadro sul campo sono gli Stati Uniti che han preso l’iniziativa, hanno accerchiato la Russia ed eliminato l’Europa (che nei suoi momenti migliori, con la Merkel, si era rivota ad Est). Il resto sono tattiche e favole.
        Rispetto alla ‘democrazia liberale’ ho postato il riferimento a una bella inchiesta su Haiti del NYTimes, ricchissima di documenti, che ci mostra cosa significa veramente quando è applicata all’estero

        1. Come dire? Quello che scrivi lo pensiamo in molti. Questo anche mostra il limite sostanziale della nostra vita democratica, dato che i grandi media non danno di noi nessun conto. Mi chiedo, distrattamente, che senso abbia per noi parlarci addosso… se non, appunto, farlo. Ma la possibilità di modificare l’opinione pubblica -che, si suppone, sia in rapporto diretto con la vita politica- è quasi zero. Trasmissioni dirette: figli nipoti amicizie… ma fin dove arrivano?

        2. Ria Novosti lo hai letto o no? Parrebbe di no. Leggilo allora. Quanto a Canfora, va letto quando scrive di Grecia classica, non quando parla di cose che non sa.

  11. Ria Novosti è un’agenzia di stampa: magari un riferimento-link più preciso aiuterebbe;
    ma ho letto anche i documenti della Rand Corporation su cosa fare in Ucraina per distruggere la Russia- in entrambe i casi penso che tra progetti e realtà ci siano spesso differenze; quindi invece di fare illazioni mi baso sui documenti che dicono quello che è successo e non su quello che si sarebbe voluto che succedesse.
    Un documento chiave mi sembra la telefonata tra Viktoria Nuland e Pyatt dove si decide chi farà parte del nuovo governo dopo piazza Maidan: dopo averla sentita difficile dire che non fosse un golpe.
    Ma la cosa preoccupante è che in tutta l’analisi-discorso-romanzo la Nato sparisce, se non come emanazione dell’impero del bene. E con lei tutto il quadro geopolitico e di contesto.
    Cioè quello che rende gli accadimenti storia.
    E che è esattamente il punto che Canfora sottolineava: non per l’antichità, ma come guida di metodo per tutti gli storici.

    1. Ria Novosti del 3 aprile 2022, articolo di Timofey Sergeytsev. Ne esistono traduzioni in inglese e italiano. L’originale russo è comunque visibile. Titolo: “Cosa dovrebbe fare la Russia con l’Ucraina”.

      Accetto la definizione di Euromaidan 1914 come “colpo di Stato” solo se formulata da chi ritenga che gli avvenimenti dell’ottobre 1917 in Russia siano stati, essi pure, un “colpo di Stato”. Altrimenti NO.

  12. APPUNTO 1

    A VOLO/ HABERMAS /“ETICA DEL DISCORSO”

    I discorsi sono procedure, cioè procedimenti speciali, nei quali può essere tematizzato e verbalizzato l’oggetto del contendere. I discorsi si alimentano dei dissensi – sia manifesti sia latenti – che sono impliciti a ogni proposta controversa di ordinamento sociale. Nei discorsi Habermas fa valere la prassi argomentativa teorizzata con i criteri della cosiddetta “etica del discorso”: tutti i partecipanti, quali soggetti di linguaggio e di azione, hanno la stessa chance di prendere la parola. Tutti possono far uso della possibilità di affermare qualcosa e chiedere spiegazioni. Tutti obbediscono al principio della sincerità (Wahrhaftigkeit) anche verso sé stessi, neutralizzando ogni meccanismo coattivo sia dentro sia fuori del discorso. Habermas sa bene che nessuna comunicazione reale può – di fatto – rispettare completamente tutti gli esigenti presupposti di un discorso. Tuttavia è possibile raggiungere un certo avvicinamento a questi presupposti ideali. Così il discorso teorico ha la funzione di esaminare le pretese di verità. I discorsi pratici devono chiarire le pretese riguardanti la giustezza normativa.

    Nota
    Habermas ammette di avere rinunciato a una filosofia (teleologica) della storia su base empirica quale quella teorizzata da Marx: “Ho anche rinunciato al concetto hegelo-marxiano di totalità sociale, ancora sotteso ai miei saggi Theorie und Praxis” (Luchterhand 1963, trad. it. Prassi politica e teoria critica della società, introd. di G. E. Rusconi, il Mulino 1973). Anche il concetto di ideologia, assolutamente centrale in Adorno, viene da Habermas abbandonato: “Per un verso la coscienza pubblica dell’elettorato politico non si struttura più a partire da visioni-del-mondo religiose o filosofiche”. Per l’altro verso, è oggi molto più istruttivo studiare la mistificazione con cui certe informazioni vengono (per motivi d’interesse) trascelte, nascoste, represse: “Si tratta di strategie che, in una sfera pubblica dominata dai mass media, vogliono nascostamente catturare l’attenzione del pubblico (una risorsa sempre scarsa e appetibile). Depistaggio, frammentazione, distrazione e divertimento sono strategie che condizionano la mutevole emotività della coscienza pubblica assai meglio che la tradizionale ‘ideologizzazione’. Una teoria della società che volesse fondarsi sulla critica dell’ideologia rischierebbe oggi di mancare il bersaglio” (così Habermas, citato in Smail Rapic, a cura di, Habermas und der historischer Materialismus, cit., p. 201).

    (https://www.reset.it/caffe-europa/addio-passato-habermas-oltre-la-scuola-di-francoforte)

  13. APPUNTO DUE
    Come c’era da aspettarsi le posizioni contrapposte sulla guerra in Ucraina si sono ripresentate – inconciliabili – anche in questa discussione pur pacata nei toni rispetto ad altri contesti. Io ho detto la mia nella Lettera a Mantelli e non ho altro da aggiungere. Rilevo solo che vivo con tormento queste divisioni fra compagni o ex compagni. E le ritrovo un po’ dappertutto in giro. In questo secondo appunto – sempre indirettamente – riporto l’attenzione su una riflessione di Pierluigi Sullo (dalla sua pagina FB) che , senza dimenticare la tragedia della guerra in corso, ha il merito (per me) di mettere a fuoco queste divisioni scavando sia sulla storia dell’Urss che su alcune dinamiche interne di un giornale (il manifesto), che molto ha contato nella mia formazione di immigrato al Nord.

    Pierluigi Sullo
    (da https://www.facebook.com/pierluigi.sullo/posts/5368587473199132)
    I paleocomunisti
    Ho notato che la formula “paleocomunisti” ha avuto una certa fortuna. L’avevo coniata per l’articolo (il “post”) che trattava il tema dell’antipatia “di sinistra” nei confronti degli ucraini, ed è stata usata da molti come arma polemica. Non era la mia intenzione, anche se l’espressione ha un suono sprezzante, perciò tento qui di spiegare cosa volevo dire.
    (Credo che sarà una lunga spiegazione, perciò chi sopporta solo gli epigrammi o i telegrammi o le invettive, si disinteressi. E lo stesso chi usa solo insulti o insinuazioni: sto cercando di ragionare, con permesso).
    Lo spunto, microscopico, me lo ha fornito Andrea Colombo, ex co-redattore del manifesto fino a vent’anni fa (credo che lui ci scriva ancora e buon pro gli faccia). In una delle tante polemiche suscitate da quelle considerazioni sull’antipatia ecc., nella pagina di un amico che aveva condiviso quell’articolo, Andrea ha scritto (cito a memoria ma sono sicuro dell’esattezza): “Gigi (cioè io, ndr) un tempo scriveva una marea di cazzate, vedo che non ha perso l’abitudine. Perciò ho dovuto fargli la guerra”. E, di fronte all’obiezione di qualcun altro sul tono torppo brutale, lui replica: “Anche in guerra ci si può rispettare, infatti gli voglio bene”.
    Certo, in una guerra si può stabilire un virile rispetto reciproco tra i combattenti, perfino a partire da un giudizio così totalmente negativo, “una marea di cazzate”. che peraltro lui non mi aveva mai manifestato. Ma io mi sono chiesto: perché tanta virulenza? Possibile che nei circa quindici anni in cui abbiamo lavorato nella stessa redazione, Andrea Colombo abbia sempre considerato solo “cazzate” quel che dicevo o scrivevo? E posso adoperare questa avversione per capire meglio, indagando sul passato di una redazione che si presentava come la più plurale e dialogante e attenta alle novità come quella del manifesto dell’epoca?
    Bene, Andrea Colombo è stato parte di una delle fazioni in cui si era frammentato il mitico “collettivo”. Lui apparteneva a una storia di estrema sinistra piuttosto combattiva, quella di Potere operaio (se non sbaglio). Niente di male, il giornale, sulla radice del gruppo dissidente espulso dal Partito comunista, aveva raccolto giovani, sessantottini, di varia provenienza. Io per esempio venivo dal Quotidiano dei lavoratori, il giornale di Avanguardia operaia (che per le origini dei suoi fondatori, a Milano nel ’68, non aveva mai frequentato lo stalinismo, dettaglio utile per il seguito del ragionamento).
    Come Andrea c’erano altri, in redazione, con quella origine, che a un certo punto, metà anni ottanta, fecero una scissione intestina di tipo negriano fondando una loro rivista, “Luogo comune”, capitanata da una persona squisita nei modi e coltissima come Paolo Virno, e, quando la rivista chiuse, mantennero il controllo (in gran parte) delle pagine culturali e della casa editrice che portava il nome del giornale (c’era anche Severino Cesari, che presto andò a fondare Einaudi Stile libero).
    Era un’epoca in cui avevamo a che fare con le macerie degli anni settanta, il che favoriva gli esodi in questa o quella direzione. Per esempio, un gruppo molto compatto era quello che chiamerei degli “antimperialisti”, che controllavano di fatto la sezione esteri e che in nome dell’opposizione all’imperialismo americano pendevano dalla parte di Saddam Hussein, nel ’91, e di Milosevic, con lo scoppio della guerra civile jugoslava. Stefano Chiarini era uno di loro, e fu molto coraggioso, restando a Baghdad sotto le bombe e i missili americani, unico giornalista occidentale insieme a quello della Cnn, e quando finalmente tornò e io proposi alla casa editrice di rielaborare e pubblicare i suoi reportage in un libro (avevo anche il titolo, non originalissimo: “Hotel Baghdad”) andai a sbattere contro un muro, mai e poi mai un libro di Chiarini (Stefano qualche anno dopo morì prematuramente).
    Non solo. Quando il Partito comunista decise di cambiare nome, man mano si creò, nella generazione di redattori successiva a quella dei sessantottini, una forte simpatia per i tentativi di uscire dal “comunismo”. Era la stagione della “terza via” incarnata da Blair e Clinton, e in Italia da Veltroni e D’Alema. Al punto che Stefano Menichini, capofila di questa corrente, qualche anno dopo divenne il direttore di “Europa”, il quotidiano rutelliano della Margherita.
    Infine, c’eravamo noi, che tenevamo il “centro” del giornale, dal punto di vista della sua fabbricazione quotidiana, che credevamo di stare nel solco della tradizione del giornale, comunista sì ma aperto alle novità e cambiamenti culturali, da Praga in poi, e quindi ci occupavamo di tutto quel che di nuovo c’era nella società, dagli ambientalisti (dopo Chernobyl) ai migranti, dalle nuove guerre alla questione delle droghe, ecc. Forse è questa la “marea di cazzate” di cui parla Colombo, non so. E certo lui e i suoi amici erano molto impegnati a trovare il “soggetto” della rivoluzione, e lo trovavano via via nei lavoratori precari o nel “general intellect”, e così via.
    L’espressione più efficace la trovò Rossana, a un certo punto. Disse: questo non è un giornale, ma una federazione di pagine. Voleva dire che ciascun gruppo, ciascuna tendenza culturale e politica, aveva conquistato un pezzo di giornale e lo gestiva a modo suo, alzando altrettanti piccoli muri di Berlino per difendere il suo territorio.
    A che serve, questa descrizione poco nostalgica? A mostrare, forse, come ogni luogo di sinistra, o comunista, si frazionasse fatalmente in correnti o sette. La stessa cosa che è sempre avvenuta nei partiti, nei sindacati, perfino nelle associazioni culturali. E questo è il lascito, uno dei più velenosi, dello stalinismo, che, consci o meno che si fosse, ha costituito lo scheletro del comunismo novecentesco. Io stesso ebbi una grande sorpresa quando mi fu regalato, molti anni fa, un grosso volume con gli scritti scelti di Lenin. Del fondatore dell’Unione sovietica conosciamo in genere le intransigenze, le durezze, l’impeto che gli consentì di lanciare i soviet contro il governo di Kerenskij (e fu non un colpo di stato, ma il compimento di una rivoluzione che bolliva in tutto l’immenso paese, come dimostrò la vittoria dell’Armata Rossa nella guerra civile che fu scatenata contro la neonata repubblica sovietica). In quel volume trovai uno degli ultimissimi articoli di Lenin pubblicato sulla Pravda, in cui si trova questa frase: “… Una volta che il potere dello Stato è nelle mani della classe operaia… effettivamente, non ci resta che da organizzare la popolazione in cooperative”. L’articolo è complesso, ovviamente, ma il punto centrale è sicuramemte questo.
    (Volendo, ci sono anche gli appunti a proposito delle nazionalità nella nuova Unione sovietica, dove Lenin dice che non basta l’uguaglianza formale tra tutte le nazionalità, ma ci vuole “una certa ineguaglianza” a favore delle nazioni più piccole e a sfavore della “grande nazione”, che inevitabilmente le opprime. E cita esplicitamente ucraini, georgiani e tatari. E dunque la nazionalità ucraina effettivamente esisteva, agli occhi di Lenin).
    Stalin ignorò, una volta diventato capo supremo, questa visione di Lenin. L'”accumulazione originaria” per creare l’industria pesante fu fatta non coinvolgendo i contadini e favorendo le loro cooperative, ma a mano armata, sequestrando i raccolti e reprimendo chi si opponeva, e costringendo i contadini via via a lavorare le le aziende agricole di stato, i kolkoz. Da cui la grande carestia che, specie in Ucraina, negli anni trenta provocò milioni di morti. E lo stesso accadde ovunque, nel mondo comunista, dove prevalse la ragione di Stato sovietica, che giustificava ogni crimine, dallo sterminio dei comunisti tedeschi al momento dell’accordo con Hitler, alla caccia al trotskista nella Spagna che difendeva la repubblica, e infiniti eccetera. E anche lo stile, diciamo così, comunista si adeguò, e perfino Gramsci rischiò di essere espulso dal Pci, mentre si trovava in carcere.
    Come diceva Rossana, il movimento comunista del Novecento ha suscitato smisurate speranze e mobilitato enormi masse di esseri umani, perché il comunismo, cioè l’eguaglianza, è una aspirazione perenne dell’umanità, come disse una volta Etienne Balibar, da San Francesco in poi. Ma lo stalinismo aveva un lato oscuro, come si constatò nel ’78, quando la stessa Rossana organizzò a Venezia un convegno sui paesi del “socialismo reale”, in cui parlarono molti dissidenti di sinistra dell’est europeo.
    Va bene, ma che c’entra con l’Ucraina? Lo scenario del secolo scorso, da una parte il capitalismo e dall’altro il “mondo socialista” , è stato così solido e così longevo, che molti ragionano oggi come quel conflitto esistesse ancora. Questo non vuol dire non vedere come gli Stati uniti, con il loro braccio armato, la Nato, cercano di puntellare un’egemonia, su mezzo mondo, durata settant’anni, commettendo una infinità di crimini, dall’Iraq all’Afghanistan, all’America latina. Ma bisogna vedere che la Russia di Putin ha mantenuto viva solo la brutalità dello stalinismo (oltre all’imperialismo zarista), e che la Cina è un paese super-capitalista e super-armato, e gigantesco, che opprime dissidenti e popoli (come gli Uiguri), molto lontano dalla Cina della Rivoluzione culturale e delle comuni agricole, su cui ci eravamo entusiasmati mezzo secolo fa.
    Ecco, quelli che vivono e pensano nel passato sono i paleo-comunisti. Però: esiste la possibilità di pensare, e agire, un comunismo nuovo, che si affranchi da quella eredità velenosa? Secondo me sì, se ne può parlare, a patto di gettar via le macerie.

    1. Visto il post di Sullo con i commenti relativi, mi chiedo se in effetti si possano separare “macerie” da… ? Qualche muro ancora in piedi? Che lapsus, niente muri!
      Edifici, forse. Case comuni. Ma case separate da… un paesaggio?
      Capanne? O i superbi edifici dritti contro o verso il cielo delle capitali postcomuniste? Insomma: non capisco il senso della parola macerie.
      Cambiando discorso, il tema è: chi fa(ceva) la storia? I partiti, i capi, i lavoratori, i popoli, le speranze, gli ideali… il denaro, le riserve, le risorse… E oggi? Il DoD negli Usa che fa la guerra a Putin sostenendo l’ideale di libertà del popolo ucraino?
      E che c’entrano i paleo o post comunisti, in quanto attori storici, oggi, nella crisi terribile in cui -forse- stiamo scivolando tutti e intendo tutti?
      Mi pare: meno di niente.

  14. ” non capisco il senso della parola macerie.” (Fischer)

    Meglio (più nobile e letterario e meno da rottamatori) il termine *rovine*.
    Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Garzanti, Milano 1990.
    E poi il Rinascimento non venne fuori dallo studio delle *rovine* degli antichi?
    In qualsiasi disegno nuovo di edificio vengono integrate anche alcune *rovine*.
    Continuità/discontinuità.

    P.s.
    Per scherzare: Vedere Putin! Vedere Biden! Vedere Macron! Vedere Xi Jinping!

    1. Poi nella serie “vedere” tizio e caio ci penso. Ma intanto: macerie e rovine non sono lo stesso concetto: macerie indica materiale scaduto non utilizzabile, rovine qualcosa che rimane da costruzioni reali.
      Macerie del comunismo indica materiali non adatti alla costruzione dello stesso.
      Rovine del comunismo indica le nuove costruzioni in cui si è trasformato.
      Quelle “macerie” infatti non le riconoscevo: da quando quelle costruzioni mal fatte non funzionavano più?
      Era da allora che si preparavano rovine?
      La mia passione per la filosofia della storia. Scusami, neh?

      1. Usciamo fuori dalle metafore. La questione seria è stata posta in uno scambio (improvvisato) fra me, Mantelli e Sullo sotto l’articolo sulla pagina FB di quest’ultimo che ho sopra riportato. Ne copio gli interventi finora comparsi:

        Brunello Mantelli
        Intervento, questo di Pierluigi Sullo, molto interessante. Casomai troppo breve, non troppo lungo! Solo due dubbi: uno, già enunciato da altri, non riesco a vedere una cesura netta tra Lenin e Stalin (e nemmeno tra Stalin e Trockij, al di là che uno fece uccidere l’altro). Il nodo, credo, è stato il bolscevismo; il secondo dubbio riguarda l’usabilità del termine “comunismo”. Troppo a lungo è stato identificato, e per molti ancora si identifica, con il “socialismo reale” e con l’URSS. Come spiegare a chi, nell’Europa a Est di Jalta, ha vissuto per oltre 40 anni = 2 generazioni sotto regimi oppressivi, polizieschi, di minoranza, sedicenti “comunisti che noi siamo sì comunisti ma di altra specie. Non gira.

        Ennio Abate
        a Brunello Mantelli
        “il secondo dubbio riguarda l’usabilità del termine “comunismo”. Troppo a lungo è stato identificato, e per molti ancora si identifica, con il “socialismo reale” e con l’URSS. ”
        Ma dietro quel nome noi che ne conosciamo la storia ci vediamo ancora una “sostanza” salvabile o da salvare o no? Coi limiti del ragionamento analogico mi viene da pensare che nel ‘500 il cristianesimo era sputtanato dalla gestione della Chiesa di Roma ma i movimenti protestanti riuscirono a spiegare che erano sì cristiani “ma di un’altra specie”.
        Comunque mi fa piacere che Pierluigi Sullo scavi su queste divisioni dolorose e pensi ancora a un “comunismo nuovo”. Io da isolato in questi decenni di sfascio ho tentato di proporre invano una riflessione a partire da un testo solo in apparenza minore di Franco Fortini, commentandolo in vari articoli. Segnalo solo il primo:
        Appunti politici (3): “Comunismo” di F. Fortini
        http://www.poliscritture.it/2017/02/09/appunti-politici-3-comunismo-di-f-fortini/

        Brunello Mantelli
        a Ennio Abate
        Ennio, i riformatori, da Lutero in poi, si differenziarono anche sul nome: non più: “cattolici apostolici romani”, ma “evangelici”. Noi, allo stato, non possiamo (e non dobbiamo, credo) più definirci comunisti, ma qualcos’altro: socialisti libertari, ad esempio.

        Ennio Abate
        a Brunello Mantelli
        E perché non comunisti libertari? Non è che solo i comunisti storici hanno i loro scheletri negli armadi e i socialisti no.
        Comunque, la questione va oltre il nome. O , se si recuperasse la sostanza reale dei conflitti in atto, si riuscisse a ricostruire un progetto innovativo per agirvi attivamente e con indipendenza (non da tifosi), si potrebbe portare persino il nome vecchio. Sarebbero le nuove lotte a fare la differenza da quelle del passato.

        Pierluigi Sullo
        a Ennio Abate
        Caro Ennio, grazie, non conoscevo quel testo di Fortini. E caro Brunello. vediamo, ci siamo definiti in tanti modi, nei secoli, noi che eravamo per l’eguaglianza. Qualcosa uscirà.

        Brunello Mantelli
        a Ennio Abate
        Se la questione va oltre il nome, perché starsene appiccicati al nome: “comunisti”???

        Brunello Mantelli
        a Pierluigi Sullo
        Dobbiamo farlo uscire noi. Un nome che segni prima di tutto la cesura più netta con la storia dell’URSS post Kronstadt 1921. Sennò il morto risucchierà il vivo. Spot pubblicitario: date un’occhiata a “Officina Primo Maggio”, sito e rivista stampata (arrivata ora al numero 4): https://www.officinaprimomaggio.eu/ Fine spot pubblicitario (NB: l’asse portante di OPM è un gruppo di trentenni. Noi cariatidi diamo una mano ).

        Ennio Abate
        a Brunello Mantelli
        “Se la questione va oltre il nome, perché starsene appiccicati al nome: “comunisti”???”

        La questione ANDRA’ oltre il nome soltanto se, come ho detto sopra, riusciremo a recuperare “la sostanza reale dei conflitti in atto”. Non possiamo “farlo uscire noi” (Sullo) a capriccio o a casaccio. Nel frattempo dobbiamo usare i vecchi nomi (comunisti sì, socialisti sì, anarchici sì) perché ancora ci servono per intenderci (almeno tra chi proviene da una stessa storia). Basta non ridursi alle vecchie risse che in vecchi nomi possono riattizzare. Continuità/discontinuità…

        Brunello Mantelli
        a Ennio Abate Comunisti no! Anche perché dobbiamo parlare anche con i compagni dell’ex sfera egemonica sovietica, dove il concetto di “comunismo” fa piuttosto orrore.

        Ennio Abate
        a Brunello Mantelli
        Ma se quelli dell’ex sfera egemonica sovietica sono “compagni” stanno negli stessi casini (non solo linguistici) in cui siamo noi ad Occidente!

        1. “Compagni”, grazie a dio, è denominazione non riservata ai comunisti. “Genossen” = compagni, in tedesco, si chiamano tra loro pure i membri della SPD, che non essendo un PD qualsiasi ha mantenuto immagini, parole termini propri al movimento operaio (oltre a gestire la casa-museo di Karl Marx a Treviri, posto che ritengono Karl Marx il loro capostipite). Si può essere “Genossen” senza essere comunisti.
          La socialdemocrazia da un lato, l’anarchismo dall’altro hanno le loro colpe, ma il GULag e lo sterminio di buona parte dei comunisti non allineati col Vozd li ha fatti solo il realcomunismo sovietico (ed i suoi vari imitatori).
          Consegnamolo alla storiografia, come il fascismo, e andiamo oltre.

          1. “La socialdemocrazia da un lato, l’anarchismo dall’altro hanno le loro colpe, ma il GULag e lo sterminio di buona parte dei comunisti non allineati col Vozd li ha fatti solo il realcomunismo sovietico (ed i suoi vari imitatori).
            Consegnamolo alla storiografia, come il fascismo, e andiamo oltre.
            ” (Mantelli)

            Mentre sono d’accordissimo con la prima affermazione del tuo commento ( “Compagni”, grazie a dio, è denominazione non riservata ai comunisti.”), dissento da questa. Per alcuni motivi. Tra i primi che mi vengono in mente:

            1. non tutti i comunisti rientrano nella categoria del “realcomunismo sovietico ([e dei] suoi vari imitatori).

            2. Io ho in mente Fortini come “comunista speciale” che scriveva:

            Sempre sono stato comunista.
            Ma giustamente gli altri comunisti
            hanno sospettato di me. Ero comunista
            troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi.
            Giustamente non m’hanno riconosciuto.

            La disciplina mia non potevano vederla.
            Il mio centralismo pareva anarchia.
            La mia autocritica negava la loro.
            Non si può essere un comunista speciale.
            Pensarlo vuol dire non esserlo.

            Così giustamente non m’hanno riconosciuto
            i miei compagni. Servo del capitale
            io, come loro. Più, anzi: perché lo dimenticavo.
            E lavoravano essi; io il mio piacere cercavo.
            Anche per questo sempre ero comunista.

            Troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi
            di questo mondo sempre volevo la fine.
            Ma anche la mia fine. E anche questo, più questo,
            li allontanava da me. Non li aiutava la mia speranza.
            Il mio centralismo pareva anarchia.

            Com’è chi per sé vuole più verità
            Per essere agli altri più vero e perché gli altri
            siano lui stesso, così sono vissuto e muoio.
            Sempre dunque sono stato comunista.
            Di questo mondo sempre volevo la fine.

            Vivo, ho vissuto abbastanza per vedere
            da scienza orrenda percossi i compagni che m’hanno piagato.
            Ma dite: lo sapevate che ero dei vostri, voi, no?
            Per questo mi odiavate? Oh, la mia verità è necessaria,
            dissolta nel tempo e aria, cuori più attenti ad educare.

            3. Faccio riferimento alle ricerche storiche portate avanti da Pier Paolo Poggio in “L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico” (Jaca Book 2010) e allo sforzo presente in questo volume nei capitoli “Comunisti eretici”, “Marxisti eterodossi”, “L’antistalinismo”, “Un’altra idea di rivoluzione”.

            4. Mi pare una scorciatoia o, peggio, una rimozione volerlo consegnare alla “storiografia”. Quale poi? Quella che l’ha assimilato al fascismo e al nazismo sotto l’etichetta ambigua del ‘totalitarismo’ e ha liquidato proprio quell’istanza profonda che quel movimento reale aveva espresso, schiacciata – è vero – da una parte consistente di quelli che vi avevano aderito o l’avevano cavalcato? (Qui ancor rimando al volume di Poggio, ma credo che ci siano state anche altre ricerche degne di attenzione come quella della Rita di Leo, “L’esperimento profano: dal capitalismo al socialismo e viceversa” …).

            5. Oltre alla storiografia (non neutra) continua ad esistere – insistente, ossessivo, goebbelsiano – un “uso pubblico della storia” che agita il fantasma del comunismo imponendone la versione del “Libro nero del comunismo” a fini politici e propagandistici immediati e che non può essere sopportato o sottovalutato .

  15. APPUNTO 3

    (In riferimento a molte discussioni che si sono fatte e si vanno facendo sulla guerra in Ucraina)

    SEGNALAZIONE/AL VOLO

    Parole e pietre
    di Claudio Vercelli

    Le parole sono pietre, diceva Carlo Levi. E tali rimangono, malgrado il nostro tempo, quello che stiamo vivendo, le abbia erose, rimodellate, soprattutto levigate al punto tale da renderle ininfluenti. Non per questo non offendono o non feriscono. Semmai, una volta lanciate, colpiscono senza produrre altro effetto che non sia una qualche lesione in chi ne è bersagliato. Non mutano nulla che non sia la condizione di chi le subisce, in una sorta di piccola (o grande) lapidazione. Viviamo un tempo di inflazione. Non solo quella economica, della quale ci accorgiamo un po’ tutti. È inflazione, infatti, il processo di perdita di valore di un bene, ossia il suo maggiore prezzo a parità di quantità. L’inflazione delle parole è un fenomeno a sé stante, dove ad andare perduta non è la quantità come tale ma, piuttosto, la qualità – quindi il significato – di espressioni di senso condiviso. Il fenomeno inflattivo, infatti, è sempre e comunque un decremento di valore in quanto tale. Più che mai, allora, ciò che manca non sono le parole medesime, semmai scientemente ripetute, troppo spesso, con colpevole e livoroso candore, ma la loro veracità, veridicità e, con esse, al medesimo tempo la cautela attraverso la quale dovrebbero venire pronunciate. Oggi molte parole e tante immagini girano vorticosamente, si consumano nel momento stesso in cui vengono pronunciate o messe in circolazione, si frantumano in mille pezzi. In buona sostanza, non comunicano nulla. Sono come dei gusci vuoti, degli involucri senza polpa. Anche per questo, allora, fanno ancor più male quando vengono gettate contro qualcuno, a mo’ di anatema. Offendono non perché dicano qualcosa di significativo ma proprio per la loro feroce irrilevanza: è come se dichiarassero, in ragione della loro stessa inconsistenza, che chi ne viene bersagliato è egli medesimo una sorta di nullità, intercambiabile al pari delle parole pronunciate e dei loro mutevoli, incostanti e insinceri attributi di senso. La vera lesione non è mai generata dalla durezza di una pietra ma dal fatto che essa ferisca senza che sussista altra ragione che non sia il gusto di offendere in quanto tale.

    ( da https://moked.it/blog/2022/05/29/parole-e-pietre/?fbclid=IwAR2VciX2CJQ9mefIFERcwsfsMgKQVphYx9GLbpxOM-sP7JvJvq3szSzki5g)

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