Cronache dalla provincia

di Marisa Salabelle

A un mese dalle elezioni comunali, che hanno visto la riconferma al primo turno del sindaco uscente Alessandro Tomasi (Fratelli d’Italia), noi pistoiesi, originali o acquisiti, possiamo azzardare un minimo bilancio. Che Tomasi avesse buone chance di essere rieletto era una cosa che girava nell’aria da mesi. Il sindaco dagli occhi azzurri è molto popolare in città: si fa vedere in giro, sorride ai bambini, saluta tutti, «è uno di noi». Non come quell’antipatico di Bertinelli, il suo predecessore, con quell’aria da intellettuale che si ritrovava. In fin dei conti i pistoiesi hanno sempre diffidato della cultura, e in questo Tomasi non li ha delusi. Sbolliti gli ardori giovanili, che lo avevano visto nascere in CasaPound, si è costruito un’immagine garbata, ha saputo barcamenarsi tra le diverse esigenze dei cittadini, è diventato persino amico dei partigiani conferendo il titolo di cittadino illustre a Silvano Fedi, eroe locale della Resistenza, e inaugurando senza batter ciglio diversi monumenti e lapidi alle vittime della guerra civile e della Shoah. Per il resto, il nulla: la manutenzione delle strade e del verde urbano, cavallo di battaglia della sua prima campagna elettorale, ha raggiunto i minimi storici, salvo risvegliarsi a ridosso delle nuove elezioni con asfaltature varie e inaugurazione di giochi nei giardini pubblici. Gestione dell’emergenza pandemica in linea con le direttive nazionali, un occhio di riguardo verso commercianti e ristoratori, devastazione di quartieri anche pregevoli del centro storico per installare immense piattaforme di cassonetti semi-interrati, crollo di un pezzo della cinta muraria che tuttora sta lì transennata e pericolante.

Tomasi ha ereditato Pistoia capitale della cultura: l’anno era il 2017, per metà se l’è goduto il sindaco uscente, l’altra metà è toccata a lui. Come primo provvedimento ha ordinato lo spegnimento del cosiddetto raggio verde, un fascio luminoso che congiungeva idealmente il centro della città con la Fattoria di Celle, un ambiente che ospita numerose installazioni artistiche. Finito in un modo o nell’altro l’anno della cultura, Pistoia è uscita da tutti i circuiti, ha annullato alcuni eventi che si svolgevano regolarmente da diversi anni, come Leggere la città, ha lasciato che venisse chiuso il Museo Marini, che custodisce alcune preziosissime opere dello scultore pistoiese Marino Marini. La cultura, si sa, è pallosa, poi c’è sempre questo sospetto che sia una cosa di sinistra: meglio sagre alimentari e della birra, che fanno bene a chi mangia e beve e anche a chi vende.

In verità, un’iniziativa culturale di spessore la giunta Tomasi, sostenuta da tutto il centrodestra compatto e da alcune liste civiche, nella scorsa legislatura l’ha avuta: ha installato nel Palazzo comunale una mostra ispirata alla graphic novel Foiba rossa, pubblicata dalla casa editrice Ferrogallico, di chiara ispirazione fascista.  Si tratta di un testo che narra la storia di Norma Cossetto, una ragazza istriana, fascista militante, vittima di violenza e uccisa da partigiani titini nel 1943. Fermo restando il severo giudizio sulle sevizie subite dalla giovane, bisogna dire che il racconto è viziato da un’interpretazione assolutamente scorretta dei fatti storici e da una sorta di esaltazione di un idilliaco clima italiano e patriottico che avrebbe permeato di sé la regione istriana durante la guerra, tacendo delle violenze e dei soprusi commessi da fascisti e nazisti in quel territorio. Pistoia, medaglia d’argento al valor militare per i sacrifici delle sue popolazioni e per la sua attività partigiana, ha dovuto ospitare all’interno del Palazzo comunale un’esposizione tanto discutibile e ingannevole.

Per quale motivo i pistoiesi, per settant’anni “rossi” (progressivamente sfumati dal rosso carico al rosso sbiadito al rosa pallido…) hanno eletto una prima volta e poi confermato un sindaco che viene dalla fila di CasaPound, con la quale non ha interrotto i legami, frequentandone la sede e l’annesso ristorante, che milita in Fratelli d’Italia, sul cui simbolo arde la fiamma ereditata dal Movimento Sociale Italiano, la fiamma del sepolcro di Mussolini? Perché regalano consensi, oltre che ai Fratelli della sora Giorgia, alla Lega e a Forza Italia? Cosa è cambiato nel loro animo?

Io, che a Pistoia ci vivo da quando avevo dieci anni e che ho trascorso la mia adolescenza tra i cortei del Primo maggio, coi trattori, le bandiere rosse, i fazzoletti al collo, gli striscioni contro “Johnson boia e assassino”, quelli con su scritto “Via l’Italia dalla Nato-via la Nato dall’Italia”; che ho visto sfilare in centro manifestazioni di studenti e operai “uniti nella lotta”, e qualche volta ho partecipato, cercando di mimetizzarmi affinché mio padre non mi sgamasse, sono sempre stata consapevole che nella rossa Pistoia di allora esisteva un duro cuore fascista. I fascisti c’erano: al liceo classico, che frequentavo, allo Scientifico, dove andavano molti miei amici, negli istituti tecnici e professionali. I fascisti c’erano tra gli adulti, anche se non si palesavano volentieri. Non per nulla uno dei personaggi più inquietanti della Prima repubblica, Licio Gelli, era pistoiese. Pistoia è la città borghese per eccellenza: piccola, chiusa, autoriferita. È stata, non so se lo sia ancora, una delle città italiane col più alto tasso di risparmio di famiglie e aziende, soldi invisibili, chiusi nelle casse di risparmio e banche locali, proprio come i giardini delle famiglie bene che abitavano nel centro città e all’interno dei loro palazzi avevano parchi urbani protetti da mura.

Quindi, accanto ai classici toscani “rossi”, ai pistoiesi ancora legati alle vicende della guerra e della Resistenza, agli aficionados delle numerose Case del popolo e ai lavoratori impegnati nella conquista dei loro diritti, viveva in città un nucleo non trascurabile di fascisti duri e puri e una vasta “terra di nessuno” rappresentata dalla borghesia benestante chiusa nei suoi palazzi e nei suoi giardini al riparo delle mura.

Col tempo, con le vicende che hanno segnato le trasformazioni della società italiana e non certo solo pistoiese, con i settant’anni di amministrazione monocolore che certamente ha voluto dire appropriazione delle leve di comando e delle posizioni di privilegio, con l’annacquarsi progressivo della sinistra pistoiese come di quella italiana, con l’imborghesimento generale e la perdita di quel senso di partecipazione che bene o male aveva caratterizzato gli anni ’70, con l’arrivo delle prime ondate di immigrati mai bene accetti dai pistoiesi doc, è stato inevitabile che la città comunista perdesse la sua identità.

Molto di suo ci ha messo il PD, che in occasione delle elezioni del 2017 si è spaccato per far dispetto al sindaco uscente Bertinelli, il filosofo antipatico, e ha così aperto un’autostrada al successo del Fratello d’Italia Tomasi. Quest’anno il PD ha messo in campo una candidata destinata a perdere, e non è detto che non l’abbia fatto con cognizione di causa: si dice infatti che, certi del successo di Tomasi, i democratici pistoiesi abbiano preferito bruciare una candidata scarsamente popolare per poi prendersi, eventualmente, la rivincita nel 2027. Lungimiranti. Federica Fratoni, una cinquantenne di bell’aspetto, da sempre parte dell’apparato di partito, già presidente della Provincia, poi consigliera in Regione, è pistoiese, ma non ha un gran legame con la popolazione ed è vista semplicemente per quello che è: una donna d’apparato, appunto. Sono venuti Enrico Letta, Dario Nardella e se non sbaglio anche Eugenio Giani a sostenerla con megacomizi, ma il risultato è stato misero: Fratoni non è andata nemmeno al ballottaggio.

Unica novità nel contesto cittadino la buona affermazione della coalizione che ha unito i partiti di sinistra, i Verdi Europei e alcuni soggetti della società civile a sostegno di Francesco Branchetti, che con un programma esplicitamente definito “di sinistra”, a favore dell’ambiente e nell’impegno contro le disuguaglianze, ha totalizzato oltre il 12 per cento e tre seggi in consiglio comunale, dai quali promette di fare un’opposizione serrata.

Concludo con brevi cenni alla vicenda sulla quale negli anni passati ho intrattenuto, volenti o nolenti, i lettori di Poliscritture: il centro di accoglienza migranti di Vicofaro. Su questa struttura e sul suo parroco, Massimo Biancalani, che si è fatto un punto d’onore di accogliere senza riserve chiunque si presenti alla sua porta, il sindaco Tomasi ha basato gran parte della sua ricerca di consenso tra la popolazione. Erano gli albori della prima amministrazione di destra quando “il caso Vicofaro” salì alla ribalta col suo prete grosso e imbronciato e i giovani migranti colpevoli di aver frequentato – paganti – una piscina evidentemente riservata ai bianchi. Questione di “sicurezza”, di “salute pubblica”, di “decoro”, Vicofaro a parole doveva essere sgombrato in quattro e quattr’otto dallo zelante sindaco: a distanza di cinque anni i profughi sono ancora lì e i proclami di Tomasi sono rimasti quello che erano fin dall’inizio: parole. Com’è cambiato, Vicofaro, rispetto al 2017? Ovviamente, i ragazzi della piscina non sono più lì. Se ne sono andati, diversi di loro hanno trovato lavoro e casa, alcuni hanno messo su famiglia, altri sono partiti per altri lidi, dietro alla ricerca di un’opportunità o al ricongiungimento con parenti e amici. Qualcuno è tornato in Africa, di altri non si sa niente. Al momento attuale canonica, chiesa piccola e chiesa grande ospitano oltre cento persone, in maggioranza giovani tra i 20 e i 30 anni: ma ci sono anche alcune donne e qualche famiglia. Don Biancalani offre un tetto, una branda, servizi igienici (scarsi) e da mangiare. Non riceve sovvenzioni dallo Stato ma offerte e donazioni. È un’accoglienza minimale, “di bassa soglia” (questa è la definizione). Alcuni giovani stanno lì per poche settimane o pochi mesi, altri sono più stanziali, per i soggetti più fragili e le famiglie si attivano i servizi sociali in cerca di una sistemazione migliore. C’è chi è in possesso del permesso di soggiorno, lavora e aspetta l’occasione di sistemarsi in una vera casa. C’è chi i documenti se li sta procurando, con procedure lente ed estenuanti. C’è chi è uscito dai percorsi ufficiali dell’accoglienza ed è stato buttato sulla strada senza tanti complimenti. Sono quelli che Biancalani chiama “gli scarti del sistema”. Il sistema crea i suoi scarti: qualcuno se ne deve occupare.

Da quando frequento quell’ambiente ho sentito parlare non so quante volte di “tavoli”, “protocolli”, “soluzioni”. Di fatto siamo sempre allo stesso punto. Il Comune di Pistoia in tutto questo ha mantenuto la sua posizione: ha scosso la testa, ha brontolato, ha deplorato. Ha promesso di “risolvere”. Non ha fatto nulla, né in bene né in male. Vediamo nel quinquennio appena iniziato.

4 pensieri su “Cronache dalla provincia

  1. A parte i monumenti della lunga storia di Pistoia e le sue eredità artistiche quant’è simile la miseria del ceto politico a quella che subiamo qui a Cologno Monzese. E non abbiamo neppure un don Biancalani. Grazie Marisa per aver reso possibile questo confronto.

  2. Sono contenta che la mia analisi sia condivisa da alcuni concittadini… segno che non è del tutto campata in aria. Rileggendo mi sono accorta di un errore di battitura: la rivincita che il PD spera di prendersi ovviamente non sarà nel 2022 ma nel 2027 *

    * Nota di E. A.
    Corretto

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