Molti (non “tutti”) scrivono, ma perché?

Due domande ad Adriano Barra

 

a cura di Ennio Abate

Riporto da FB spunto e primi commenti per una riflessione sulle cosiddette “scritture di massa” (o poliscritture?). 
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Adriano Barra
Per una – un po’ inquietante, va detto – tendenza alla semplificazione, io, fra i miei rari amici amici elettronici, passo ormai per quello che sostiene che la letteratura è morta. A forza di sentirmelo dire, ho finito per pensare che devo spiegarmi meglio: urge una correzione, ecco. Dunque, quello che penso io non è che la letteratura è morta, ma semmai che è troppo viva, cioè che ce n’è troppa. Tutti scrivono, e, soprattutto, tutti pubblicano, E poi ne parlano, e poi commentano, e poi si lodano, e poi si imbrodano, e poi se ne hanno a male, se qualcuno dice che non gli piace. È un putiferio, un bailamme, un casino infernale. Così, alla fine, viene solo voglia di fare come i giocatori della nazionale tedesca di calcio – vedi foto -, viene voglia di tapparsi la bocca. I giocatori della nazionale tedesca di calcio dicono che l’hanno fatto per protestare contro l’omofobia del paese che ospita i mondiali. Mah. Quando uno sta zitto corre sempre il rischio di essere equivocato. Ma, visto che si è equivocati anche quando si parla, allora meglio risparmiare il fiato. Meglio tacere. Meglio ascoltare, anzi, forse, nemmeno quello. C’è anche da dire che i tedeschi, poi, hanno perso. Ma forse, anche in questo caso, è meglio così: meglio perdere.

Ennio Abate
1. Prima di tapparmi la bocca, mi chiederei se c’è qualcuno in giro che abbia capito cosa vogliono (o cosa sognano) questi fastidiosi «tutti» (in realtà sono soltanto “molti”) che scrivono, pubblicano, commentano, ecc.
2. A meno di non considerarli come il dottissimo Umberto degli imbecilli ( che «prima parlavano solo al bar e subito venivano messi a tacere»: https://www.huffingtonpost.it/…/umberto-eco-internet…).2. E anche se c’è qualcuno in giro che sappia che fare. Mettere il numero chiuso anche alla letteratura perché ce n’è «troppa» (come di “democrazia”)? Ma non era «morta»?

Commenti:

Adriano Barra
Dicevo troppa nel senso di troppa per orientarsi, per riuscire a capirci qualcosa. Troppa anche per riuscire a leggerla. Nessun numero chiuso, per carità.

Emma Pretti
Sono d’accordo su tutta la linea. E mi taccio, se no cado in contraddizione.

Adriano Barra: Tutti pubblicano? Mi sembra davvero abbastanza temeraria questa affermazione in una fase storica dove per farti leggere una proposta editoriale devi praticamente pagare (agente, editor): ormai il campo dell’editoria è talmente messo male e omologato che esige di guadagnare alla fonte, sullo scrittore, invece che sul lettore. Nel complesso, criticare chi vuole scrivere o pubblicare (che si loda, si imbroda ecc.) mi sembra una obiezione “di destra”, dal momento che l’aspirante scrittore è il punto debole della catena e la democrazia è appunto la possibilità per tutti di pubblicare (anche perché l’editoria segue regole principalmente commerciali); ripeto, l’aspirante scrittore ormai è costretto a pagare, in modo diretto (autopubblicazione, case editrici a pagamento) o indiretto (agente, editor), a meno che abbia delle vie di comunicazione preferenziali (conoscenze). Se invece si vuole criticare il “disorientamento” dovuto a tante pubblicazioni, di nuovo, criticare chi pubblica è una critica di destra, elitaria, una critica di sinistra sarebbe criticare i critici letterari per la loro incapacità di “orientare” verso pubblicazioni, come dire? di qualità.

Ennio Abate
Lorenzo Galbiati
E’ una questione che non sento più di leggere SOLTANTO con le categorie – che pur hanno una residua valenza euristica – destra/sinistra né nei termini di letteratura d’intrattenimento (o sfogo)/ letteratura di qualità. Limitatamente alla produzione poetica me ne sono occupato dal 2006 al 2012 con il Lab. Moltinpoesia (qui una riflessione) ma – riconosco – senza riscontro né in blog più seguiti del mio e neppure tra gli amici. Ora mi limito a qualche obiezione più distaccata. Ma vedo che il problema viene spesso riproposto. C’è.

Lorenzo Galbiati
Ennio Abate
eh, la critica di destra o di sinistra è chiaramente una semplificazione dovuta anche a una “fase” che sto passando. Io considero negativo che oggi sempre più case editrici non abbiano i mezzi o la volontà di leggere le proposte editoriali che gli arrivano (spesso scrivono che non leggono manoscritti non richiesti) e si chieda sempre più una selezione alla base, per esempio: “priorità a chi si presenta con un agente” – peraltro, quasi tutte le agenzie letterarie non leggono gratuitamente nemmeno la sinossi. Che poi un lettore fatichi a orientarsi, è vero, ma del resto siamo nel 2020, tutti hanno accesso alla scrittura, alla registrazione di un disco ecc., è naturale che l’offerta sia molto più ampia che nei secoli passati, quando quasi tutti erano analfabeti o semianalfabeti.

Ennio Abate
sto leggendo l’articolo che hai linkato, che ospita una riflessione molto approfondita e interessante.

Mah, io mi son fatto l’idea che tanti scrivono (senza averne le capacità), perché hanno bisogno di un “riconoscimento alto” e si illudono così in qualche modo di averlo.
C’entra la famosa leggenda che gli italiani siano tutti dei geni: e quindi la genialità in qualche modo devono dimostrarla e sfogarla…
C’entra la questione dell’autore incompreso, che fa fare alle menti più fragili il ragionamento “tanto anche XY si vide rifiutato quel romanzo che adesso tutti stimano un capolavoro, quindi…”
C’entra l’ignoranza relativa agli strumenti che lo scrittore usa: chi “scrive per esprimere se stesso” (altro equivoco riguardo alla scrittura, soprattutto quella poetica), pensa che gli strumenti siano carta e penna; non ci arriva proprio a capire che sono le parole, con il loro suono e la loro struttura: ma già che a tenere una penna in mano son capaci tutti, “perché io non posso essere uno scrittore?”.
C’entra la guerra contro il merito, che ha avuto la sua apoteosi coi social: uno scrive quattro righe in croce e si ritrova, oltre che con like e faccine varie, con giudizi del tipo “strepitoso”, “meraviglioso”, “toccante e sublime”. E non ce la fa a chiedersi: “Se quello che ho scritto io merita solo dei superlativi, quello che ha scritto Montale – primo nome che mi viene in mente – com’è?”.
Questa democrazia da accattoni ha fatto anche credere che l’arte (qualunque arte) non abbia metri di paragone: tutti sanno correre, ma in qualche centinaio vanno ai campionati regionali, in qualche decina a quelli nazionali; un paio (se va bene) vanno alle Olimpiadi. Nell’arte, no. Scrivo, quindi sono un poeta laureato.
Io ritengo che questa situazione (quella del metro di giudizio) sia figlia dell’ipocrisia che permea la nostra società e che, tra i tanti motti ha anche quello “non giudicare, se non vuoi essere giudicato”. Cosa che trovo alquanto bizzarra: personalmente sono fiero di venir giudicato, perché anche nella peggiore delle ipotesi c’è sempre qualcosa da imparare.
Un’ultima considerazione: tanta gente (non solo “sedicenti artisti”) è convinta che l’arte sia una professione; e sì che non dovrebbe esser difficile capire, che l’arte è una qualità nel fare una determinata cosa. Qualsiasi cosa.

Ennio Abate
Alberto Rizzi
In tutta sincerità visto che in un certo senso ci conosciamo e polemizziamo da sempre. I tuoi sono generici luoghi comuni:« tanti scrivono (senza averne le capacità)», « la famosa leggenda che gli italiani siano tutti dei geni», « la questione dell’autore incompreso», «le menti più fragili», «la guerra contro il merito», «questa democrazia da accattoni».
E’ proprio una posizione reazionaria. Alla Eco (e prima alla Montale, che non a caso citi). Antitetica a quella che sostengo nelle mie “ otto tesi per essere (criticamente) molti in poesia”. Snobismo di massa (Fortini). Paura (e disprezzo) delle masse (Balibar).
Il potenziale nocciolo politico e culturale del problema dei tanti “scriventi” viene negato o occultato. A favore dell’esistente e della legge del più forte: Da quanto scrivi non resterebbe che riconfermare le presunte gerarchie “naturali” a vantaggio dei pochi, i veri “campioni” (« tutti sanno correre, ma in qualche centinaio vanno ai campionati regionali, in qualche decina a quelli nazionali; un paio (se va bene) vanno alle Olimpiadi»).
No, non c’è da scandalizzarsi perché «tanti scrivono (senza averne le capacità)». In questa massa individuerei e coltiverei rapporti con gli autodidatti, quelli che si dedicano ad esercizi poetici, a letture magari sconclusionate da apprendisti, a sperimentazioni forse ingenue per tentativi ed errori. Da qualche parte devono pur cominciare. Col tempo matureranno o smetteranno. Si tratta di una prima “alfabetizzazione” (o autoalfabetizzazione) letteraria, che neppure la scuola di massa è riuscita davvero a fornire. Non trovo tali scritture ( o poli-scritture) disprezzabili o da ridicolizzare. Vista l’attuale assenza di scuole, di maestri, di movimenti culturali e politici capaci di offrire modelli che mirino a sviluppare una potenzialità non ricalcata su quelli cristallizzati delle élites. Né capisco perché questi tanti non dovrebbero sperare in un riconoscimento adeguato. Semmai autorità in grado di darglielo non ce ne sono. E sicuramente c’è troppa dispersione, scialo, deriva. Ma questo è un altro problema. Che non viene però sfiorato dalle chiacchiere sull’«ipocrisia che permea la nostra società». ( Tra l’altro, non capisco neppure su cosa si basi la tua fierezza di «venir giudicato». Da quali autorità?).
Ammesso poi che i pochi (tra i quali mi pare ti collochi) gli « strumenti che lo scrittore usa» li posseggano e non cadano nelle trappole dei neofiti, dei dilettanti o di «chi “scrive per esprimere se stesso” », nulla garantisce al momento che la loro attuale strumentazione sia adeguata ai problemi estetici, filosofici, storici che si pongono in letteratura (o in poesia). E che ancora non trovano adeguata formulazione.

– meretricio o letteratura? …a un certo punto non mi era più chiaro di cosa si stesse scrivendo, cosa stavo leggendo.

Ennio Abate
Andrea Marchetto
Puoi spiegare più distesamente cosa intendi? Grazie.

– pagare per avere, vedere, osservare con bramosia, annusare la carta, sbirciare, compromessi, soprusi, vessazioni, mettere in mostra la mercanzia…
Fare lo scrittore è il mestiere più vecchio del mondo.

Ennio Abate
Andrea Marchetto
Insisto: puoi spiegare ancora di più. Grazie.

2 pensieri su “Molti (non “tutti”) scrivono, ma perché?

  1. Alberto Rizzo, alcune considerazioni terra terra:
    – Impariamo a scrivere a 6 anni. E’ l’unica arte che esercitiamo ogni giorno in modo spontaneo e obbligato (a scuola). Non c’è paragone con la musica, la pittura, il cinema ecc.
    E’ dunque evidente che la scrittura sia a portata di tutti.

    – Il metro di giudizio: è oggettiva la bellezza o meno di uno scritto? C’è una certificazione di competenze? Oppure ciò che è bello per te può essere brutto per me? Io credo che entro certi limiti si possa dire “scritto bene” o “scritto male”, ma al di là di quei limiti, il giudizio estetico (bello/brutto) è del tutto soggettivo. Forse, per la poesia la questione è più complessa rispetto alla narrativa, ma la questione di principio rimane.

    – In base a cosa pensi che questi scrittori senza competenze, che si reputano scrittori solo perché sanno tenere la penna in mano, si credano dei geni? Ne conosci qualcuno? E l’editoria ha forse per criterio principe nella selezione delle opere pubblicabili la loro qualità? O bellezza? O… e qui comunque ricadiamo nella questione: il giudizio è oggettivo o soggettivo?

    – I problemi principali del mondo editoriale sarebbero dunque da far risalire in buona parte a questo sproposito di persone semianalfabete che si credono dei geni della poesia?

  2. Questa discussione mi fa tornare in mente un periodo della mia vita in cui cercavo un editore per certi miei scritti, senza alcun risultato. L’autore/l’autrice che non si vede rifiutati i manoscritti, ma che viene letteralmente ignorato, snobbato; che ha la sensazione, una sensazione che via via diventa certezza, che i suoi lavori non siano “immaturi”, “inadatti” o “brutti” ma che semplicemente non vengano letti, rimangano nascosti sotto strati di polvere e di altri manoscritti del tutto simili ai suoi, prova un grande senso di frustrazione. Il mondo dell’editoria è praticamente inaccessibile, non è vero che tutti pubblicano: pubblica chi ha frequentato una scuola di scrittura, chi ha un agente letterario, che conosce qualcuno che possa sponsorizzarlo. Inevitabile, forse, di fronte alla gran mole di testi che quotidianamente vengono proposti alle case editrici, piccole, grandi o infime che siano. Alla totale mancanza di ricezione si unisce poi la beffa, quando autori già affermati, lettori e editor di case editrici sentenziano sui social: smettete di scrivere, per favore, non ce la facciamo più, non siete capaci. Coloro che hanno la sfrontatezza di continuare a proporsi vengono chiamati manoscrittari e bollati come dilettanti allo sbaraglio. Il che, indubbiamente, può essere vero per molti, ma forse non per tutti… Di questo, della ferocia del mondo dell’editoria, parla, se mi passate una piccola autopromozione, il mio romanzo La scrittrice obesa, già ospitato qui su Poliscritture.

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