Angelica De Gianni: «Tra (me E me). Un dialogo interiore»

di Donato Salzarulo

1.- Non conosco Angelica De Gianni. In quarta di copertina leggo che è nata a Bisaccia (quindi, è mia compaesana) ed insegna materie letterarie. Ha studiato a Napoli presso l’Università Federico II e, dopo la laurea in Filologia classica, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Papirologia. Durante questo percorso ha lavorato un anno in Baviera, presso l’Università di Würzburg. Ottimo.

Sotto gli occhi ho questa sua prima opera letteraria e, prima di immergermi, nelle sue ottanta pagine mi crogiolo col paratesto: «Tra (me E me). Un dialogo interiore.» (Guida editori, 2022). Titolo intrigante. Molto bella l’immagine di copertina, dovuta a Giuseppe Formiglio e Debora Costi. Su un unico collo sono rappresentati due profili di volti simmetrici che guardano in direzione opposta. Quello a destra più femminile, quello a sinistra più ambivalente e mascherato. Un Giano bifronte che forse imita o riproduce il dettaglio di un papiro.

2.- Ritorno sul titolo. L’autrice gioca chiaramente sulla segmentazione del significante per regalarci due significati: “Trame E me” e “Tra me E me”. Nel primo caso abbiamo a che fare con un me e delle trame. Ossia con degli intrecci del tessuto linguistico, degli orditi, delle sequenze di storie personali e altrui; nel secondo si evidenzia e anticipa il sottotitolo, cioè il dialogo interiore.

L’attenzione al significante, alla materialità e sonorità della parola è una delle caratteristiche della funzione poetica. Guardando l’indice, noto che De Gianni la esercita ulteriormente per due titoli dei suoi componimenti: “C(o)rolla” (pag. 17) e “Ri-cor-do” (pag. 69). Però, leggendo “Raccolta”, il primo testo a pag. 9, capisco subito che è un discorso più generale. L’attenzione alla singola parola non riguarda soltanto la materialità del significante, ma anche la capacità denotativa e connotativa del significato. De Gianni sceglie una versificazione ridotta, non di rado, a una sola parola. Quasi sicuramente per sottolinearne la forza e la sua capacità evocativa. Riproduco per esemplificare la prima poesia:

Raccolta:
 
Mi siedo
Addosso
a gambe incrociate.
Risposta
Scrivo
mandibole serrate.
Appoggio
Ricordi
tra voglie slacciate
su una tavola imbandita di
occasioni mai osate.
 
E sedendo al banchetto,
svestita del corpo,
godo me stessa
davanti a uno Specchio.

Chi si raccoglie è l’Io poetante che si mette a scrivere come se si apprestasse a partecipare a un banchetto, a sedersi a una tavola “imbandita di / occasioni mai osate”. Nell’ultimo verso c’è ardimento, volontà di rischiare, impudenza (“Appoggio / Ricordi / tra voglie slacciate”). “Svestita del corpo”, il risultato finale è il piacere di godere sé stessa davanti a uno Specchio. Nulla di nuovo e di male nella metafora dell’opera come specchio, nel dialogo come simposio, nell’affidarsi alla libera associazione dei ricordi e dei desideri. La scrittura può certamente assolvere a un compito di autoanalisi.

La metrica di questi versi è libera. Particolarmente forte è l’enjambement del verso 10: “su una tavola imbandita di”; il ricorso alle rime dei versi 3-6-9-11 (“a gambe incrociate”, “mandibole serrate”, “tra voglie slacciate”, “occasioni mai osate”) e dei versi 10-13 (“imbandita” / “svestita”) insieme ad alcune assonanze (“AddOssO / AppOggiO, cOrpO) e allitterazioni (“Mi sieDO / aDDO sso”, “imBANdita” / “BANchetto”/ “daVANti”, ecc.) si sforzano di armonizzare musicalmente il testo.

3.- A questo punto, do una veloce sfogliata agli altri componimenti per capire quanti sono caratterizzati da una prevalenza di “versicoli” (uso il termine coniato da Ungaretti per i suoi versi brevi, senza alcun significato spregiativo). Trovo: “Giro” (pag. 15), “Argilla” (pag. 31), “Prima del niente” (pag. 39), “Quando prendo il fiato” (pag.61), “A scendere” (pag. 73). Il che non vuol dire che scompaiono negli altri componimenti. Semplicemente non sono prevalenti. È il caso, ad esempio, della seconda poesia.

Le scarpe:
 
C’è chi si fa paladino dei dolori, dei mal di testa,
dei mal di schiena, del mal di stomaco.
Urlano gli eroi della sofferenza,
bisogna dirlo il dolore!
 
È più difficile dire la gioia, dire la felicità.
Io ho paura di essere felice, dimostrare.
Ho uno strano senso di colpa che mi fa essere sempre
a metà tra felicità
e rimpianto.
 
Non so immaginare cosa accadrà.
Sono imprigionata a terra.
Attaccata al pavimento,
forte.
Forse
dovrei provare a togliere le scarpe.

L’escursione metrica di questi versi va dalle due sillabe di “forte” e “forse” alle diciassette del primo verso. Qui chiaramente l’autrice è più attenta alla sintassi dei pensieri che alla capacità evocatrice della singola parola. Forte/Forse è una simpatica paronomasia, ma le figure retoriche mobilitate sono quelle d’ordine sintattico: l’anafora soprattutto (“mal / mal / mal “, “dire / dire”, “felicità / felicità”, “essere / essere”, ecc.)

Non so se esistono questi “eroi della sofferenza”. Ci sono indubbiamente i malati immaginari, gli specialisti del lamento, i sofferenti per partito preso, ci sono i cattolici sostenitori della vita come “valle di lacrime” e i filosofi attenti all’”energia del soffrire”…Probabilmente De Gianni ha ragione ad avercela con gli  “eroi della sofferenza”; non possiamo dimenticare, comunque, che essa  è una componente essenziale della vita. Credo che lo pensi anche lei se, a pag. 41, pubblica una poesia intitolata: ”Il dolore per la morte in ogni respiro”. Non c’è bisogno di essere heideggeriani per capire che siamo nati per morire. Veramente anche per amare, lavorare, scrivere poesie, sognare, lottare…Ma la morte domina la scena.

Ciò detto, non mi sembra che sia più difficile dire la gioia. Invece, l’Io poetante scrive proprio così: scrive che “ha paura di essere felice”, ha paura di mostrarlo. Ha “uno strano senso di colpa che mi fa essere / a metà tra felicità / e rimpianto”. Quando sono felice, io non ho nessun senso di colpa. Mica la rubo a qualcuno!… Non solo ha questo strano senso di colpa. Sostiene che è “imprigionata a terra / Attaccata al pavimento / forte”. E questa storia non la capisco bene. Non è che, se sei coi piedi per terra, non puoi essere felice. Ma lei si sente “imprigionata”, non riesce ad “immaginare” cosa accadrà. Allora pensa al gesto di togliersi le scarpe, un gesto che assume quasi certamente un significato simbolico. Come se, togliendosi le scarpe, riuscisse a sentirsi più libera, magicamente in volo, oppure pensa di entrare in uno spazio più intimo, raccolto, protetto.

En passant: De Gianni quasi certamente sa che “Le scarpe” rappresentano un soggetto con una lunga tradizione pittorica, a partire da Van Gogh. Tradizione che ha dato adito a testi notevoli di interrogazione filosofica: da Heidegger a Derrida.

4. Ma perché questi versicoli? Perché questo andare a capo, dopo una parola di due o tre sillabe? Nel paratesto, la poetessa affida la prefazione del suo libretto a Biancamaria Sparano, la cui professione è quella forense. Conosce l’autrice da parecchi anni, è stata «preziosa con la sua serenità e dolcezza nel guidare mio figlio all’approfondimento della cultura latina e greca» (pag. 7) e la loro frequentazione si è arricchita con conversazioni online. Tutte cose importanti. Ma quella più importante per me è che la prefatrice, alla fine, tira in ballo una citazione di Ungaretti: “Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso”. (pag. 8)

Quindi, la nostra poetessa scrive i suoi versi brevi seguendo la lezione ungarettiana? Non lo so. La prefatrice, guardando la forma di queste poesie, probabilmente l’ha pensato.

La mia idea è che, per quanto cerchi di “svestirsi del corpo”, De Gianni forse associa la sagomatura dei suoi versi ad un doppio processo: quello del respiro e quello del pensiero. Lo dichiara abbastanza esplicitamente in due poesie: “Giro” (pag. 15) e “Quando prendo fiato” (pag. 61)

Giro
 
A volte
respiro
male,
a singhiozzi
aria a piccoli fiocchi
ma la sera,
nel letto,
solo poche volte, respiro bene.
Il fiato è disteso
appagato
lungo e morbido,
si blocca nel naso,
e dal centro degli occhi
risale in testa
e giro.
 
Quando prendo fiato
 
Misuro
Usuro
Trituro
Il corpo è contro il muro
Peso le lettere
Soccorro i pensieri
Adagio le sillabe
E corro
a capo
quando perdo
il fiato

Un po’ disturbano le quattro rime baciate iniziali della seconda poesia (è un gioco troppo facile), ma poi l’Io poetante dice qualcosa di fondamentale sulle regole di composizione di questi suoi testi: l’attenzione alle lettere, alle sillabe, il soccorso svolto nei confronti dei pensieri, il rapporto tra l’andare a capo della versificazione e la perdita del respiro.

Nei versicoli di tre o quattro sillabe, l’Io respira male, a singhiozzi. Entra aria a piccoli fiocchi. Il corpo è contro il muro. Fuor di metafora, c’è poco mondo in poesie così. L’Io, invece, va in giro, cammina, viaggia, vira su sé stesso, quando respira bene, quando il fiato è disteso, appagato, lungo e morbido. Non credo in realtà che siano parole come abisso scavate nel silenzio interiore della propria vita. A me sembrano piuttosto parole obbligate, parole che vorrebbero soccorrere i pensieri. Ecco cosa afferma l’autrice nella poesia “Il rovescio delle medaglie” (pag. 55)

Avrei voluto scrivere per giorni, tutti i pensieri
scrivere per liberare, per darmi
ma la mente trattiene e imprigiona.
L’indipendenza paga sempre lo scotto della solitudine.
Quanto più non vuoi caricare gli altri di un tuo pensiero,
tanto più senti la mancanza dell’isolamento.
Un circolo di indipendenza e bisogno

Nei primi tre versi è chiaro quale sia il desiderio: scrivere pensieri per liberare sé stessa e gli altri, per donarsi. Ma la mente trattiene e imprigiona. E quando la mente fa questo “Misuro / Usuro / Trituro / Il corpo è contro il muro”. I versicoli sono parole isolate, parole rilasciate da una mente che trattiene e imprigiona i pensieri, parole che non liberano e che non consentono all’io di darsi.

“Indipendenza”, “solitudine”, “isolamento”, “bisogno”. I quattro versi successivi si avvitano intorno a questi concetti, a queste parole astratte, sintomi sicuramente di problemi vissuti, ma di difficile comprensione. Non perché non si conosca la definizione, ma perché rimangono enunciati privi di esemplificazioni. Perché l’Io non vuole “caricare gli altri di un suo pensiero”? Chi lo dice che l’indipendenza “paga sempre lo scotto della solitudine”? Si può essere indipendenti e frequentare un bel gruppo di amici o amiche…Scegliere momentaneamente di isolarsi ed essere costretto all’isolamento sono condizioni simili?…Non mi pare.

A scendere
 
Vorrei scrivere
Di mestiere
Armeggiare al pallottoliere
Come biglia
Che bisbiglia
Alla figlia che ho in me
Calpestata
Perdonata
Sradicata
Ritrovata
Senza righi
Tutti vuoti
I dolori tralasciati
Lunghi anni sparpagliati
Ai vent’anni chiusi a chiave
Metto i trenta per le scale.

Che rapporto c’è tra questa poesia e quella di prima? Qui le rima baciate non hanno la funzione di liberare significati nuovi, inattesi, sorprendenti. Ma, come dice Montale, somigliano a tante Dame di San Vincenzo. L’io poetante farebbe bene ad allontanarle, a nasconderle, a barare, a tentare il contrabbando.

Tuttavia, al di là di queste facili rime, l’Io sostiene che ha in sé una figlia “calpestata / perdonata /sradicata / ritrovata”.. Insomma, vicende di un certo spessore. Povera figlia, vien da dire. Ma perché si limita ad alludere e non prova a raccontare in cosa è consistito il maltrattamento, la sofferenza? Da chi è stata perdonata e per quali colpe commesse? Quando è stata sradicata e poi ritrovata?… Chi decide di esporsi con la scrittura, non può lasciare vuoti tutti questi righi. Senza mettersi in mente di diventare eroi (o eroine) della sofferenza, non si possono rimuovere i dolori. Chiudere a chiave i propri vent’anni non è operazione indolore e semplice. Soprattutto non è proficua. Vent’anni sono una miniera per la scrittura. “Alla ricerca del tempo perduto” è il titolo della grande opera di Proust e la nostra poetessa lo sa, visto che nella prima poesia intendeva appoggiare “Ricordi / tra voglie slacciate / su una tavola imbandita di / occasioni mai osate”: Se davvero s’intende liberare i desideri e poetare su “occasioni mai osate”, non bisogna mettere una pietra sopra sui propri vent’anni. Si può scendere le scale verso i trenta, scavando nella miniera del passato. Forse questo è un problema decisivo per chi vorrebbe esercitare il mestiere della scrittura (“Vorrei scrivere / Di mestiere”). L’autrice in questo libretto veleggia tra versi brevi e pensieri, tra singole parole più o meno evocatrici e frasi-pensieri incastrati nei bisogni, nelle voglie, nei desideri, nelle aspirazioni, nei ricordi. “Si può dire tutto in un secondo / Si può dire tutto quello che hai capito in una vita / In un secondo” (pa.59). Ma davvero l’Io poetante crede a questi versi? In un secondo si può dire una parola. Si può dire “cicale”, “grilli”, “ortica”…Si possono pronunciare alcune parole preziose, fondamentali, parole che riassumono scene, copioni, sequenze essenziali di una vita o di un suo periodo. Ma se non si compie il viaggio di scrittura, se non si dice dove, come quando perché le cicale (o i grilli o l’ortica) sono stati importanti per noi; se non si riesce a trasportare sulla carta la magia del loro incanto o l’energia strana che ci hanno regalato, la parola resta un residuo inerte, un virus che ha bisogno di un corpo per attivarsi. Non a caso, ho evocato le cicale, i grilli e l’ortica. Sono i protagonisti dei primi versi del “Ri-cor-do” di pag. 69

Il suono delle cicale
i grilli e l’ortica che
pungeva di male alle dita.
Ricordo delle margherite
l’odore e
un soffuso colore di verde inondava
i pensieri e le vite.
I fili dell’erba intrecciati
rugosi,
infilati tra i denti
strisciati nel verso
contrario alle fibre,
tagliavano piano le labbra sottili e
incidevano lieve
la mia giovinezza.
 

5. – Il libretto raccoglie in tutto 34 testi. Non tutti in versi, sette sono “trame”, prose, storie. La prima è intitolata “Fino alle tempie”. Parla dell’incontro con Maria. Al di là del confronto fisico (Maria ha le trecce, che all’Io non starebbero bene), sono importanti i pensieri-giudizi congetturati dall’Io e messi in bocca all’interlocutrice: «Quella ragazza era carina, forse un po’ scialba, non mi sembra avesse le idee chiare. Ma sembra felice del suo lavoro. E se questo è quello che Maria ha pensato di me? E se avesse ragione? Sono scialba.» (pag. 11). Ecco uno dei temi di quest’Io: il problema dell’incontro con l’altro/a e il timore di essere giudicata inadeguata, scialba, priva di colore, smorta, spenta. È un tema trattato anche in testi come “L’eccesso” (pag. 21), “Saluta” (pag. 23), “Mi presento” (pag. 57)

“Fino alle tempie” si conclude con un motivo che abbiamo visto già affiorare nella poesia “Le scarpe”: quello della paura. L’Io è a letto.

«Non mi sono mai fermata da sola in un parco. Domani ci vado. Lentamente buio. Vibra tutto, sarà colpa di quei pensili montati male. Chi avrà montato i pensili qui? Qui ci è passato qualcun altro. Che strano. Ora dormo. Forse ci riesco. Schiaccio i pensieri nel cuscino, forte, coperta fino alle tempie, sudo un po’, ma ho meno paura.» (pag. 11).

Qui, per fortuna, riesce un po’ a contenerla, ma nel testo “Ho paura” (pag. 45), questo sentimento dilaga dappertutto.

Ho paura
 
di tutto, degli sguardi degli altri dei rumori degli altri dei silenzi degli altri dei tremori del buio dell’acqua, troppo profonda, di ciò che non vedo, di ciò che non sento, di ciò che penso. La paura mi ha sempre fatto compagnia. Paura degli occhi, delle mani, in testa, delle parole, addosso. Io e la paura. È il modo che ho per non avere paura. Amica della paura inizio a fare paura. Alzo la testa, la guardo e parlo. Vivo da sola. Vado via, ora! In una terra lontana dove la paura non possa seguirmi, dove accanto a me il posto è occupato da un estraneo che un po’ mi fa paura. In pullman da sola in treno da sola di notte da sola in aereo da sola atterra da sola bei piedi da sola in silenzio da sola
nel cuore in gola, in testa
è tornata la paura.

6. – Ecco un elenco degli altri temi di questo dialogo interiore

– il dolore dell’Io poetante e il confronto con quello degli altri (pag.17)

C(o)rolla
 
Inizi a vederlo
solo quando ti crolla addosso.
Prima girava,
perfetto
Tutto sorretto
in orbita
allineato, poi è
crollato.
Ho pensato per molto tempo al mio dolore,
solo più tardi ho pesato il Tuo.

Poesia un po’ enigmatica. Nei due versi finali l’Io confessa l’errore compiuto: ha pensato per molto tempo al suo dolore (egocentrismo, egoismo), solo più tardi ha potuto pesare (misurare) il Tuo. Il pronome possessivo è riferito ovviamente al Tu; però non si capisce bene chi è. Forse una specie di Fiore. a giudicare dalla corolla del titolo.

– Lo strano senso di straniamento e la vergogna dell’Io che dovrebbe provare a Restare al paese (pag.19). Alla fine di “Trame”, la strada scelta dall’Io, quella di restare, mi sembra chiaramente indicata. Ecco cosa scrive l’autrice con parole fortemente ispirate alle opere di Franco Arminio:

“Siamo nati per restare. Altro che andare, allontanarsi. Quando capisci che tornare è l’unica cosa che conta, con te tornano tutte le vite che avevi perso. Tutte le vite che ti eri immaginata da piccola. Sono proprio stanca. Sono sicura di aver fatto abbastanza, ma ancora non lo hanno capito tutti. Una casa è una piccola chiesa, tutto può diventare sacro, sacro il divano, sacro il termosifone, sacro il balcone, il camino, sacra volontà di tenermi a terra. Sacre radici, allignate nel suolo. Ci ho provato in tutti i modi a reciderle, non ci sono riuscita. Adesso ho meno paura del vuoto che verrà dopo che della tristezza che provo ora. Faccio parte di una generazione senza vita, tutta esistenza in eccesso. Sabato sera ubriaco e domenica tutto il giorno alla scrivania, il senso di colpa sulle spalle te lo trascini dal venerdi e non c’è un giorno in cui non ti chiedi chi sei.” (pag. 65-66)

Sono d’accordo e non sono d’accordo con questa litania del sacro. Come si fa a negare il tepore, l’accoglienza, la sicurezza, il senso di appartenenza che la casa e le “sacre radici” regalano?… Quindi, sono d’accordo. La poetessa, però, conclude “Bazar” (pag. 49) con tre versi stupendi, a mio parere, i migliori di tutto il libretto:

La calma
e la pazzia.
Questa è casa mia.

Si dirà: ma qui si tratta di una casa metaforica, mentre la sacra è quella con le finestre piccole che “concedono il lusso di immaginare” e sul quale l’Io ha “disegnato per anni sagome di vapore e acqua che / scorre” (pag. 51). Vero. Ma le due case dovranno dialogare: quella interiore, del corpo-mente fatta di calma (riflessiva, razionale, meditativa) e pazzia (inconscio, pulsioni irrazionali, indifferenziate) e quella esteriore col divano, il termosifone, il balcone, il camino. “Ci ho provato in tutti i modi a reciderle, non ci sono riuscita”. Come mai è nata questa voglia di recidere le “sacre radici”?… Non so. Credo, comunque, che De Gianni col suo curricolo di studi debba affidarsi meno alle litanie del sacro e prestare più attenzione alla dialettica dell’andare-tornare. Ulisse non ha proprio nulla da insegnarci? E quanti non sono morti nel proprio paese natìo e hanno costruito nuove case e nuove città? Per Virgilio, senza Enea, Roma non ci sarebbe stata…In fondo, gli esseri umani non sono alberi.

-Il rapporto coi genitori: “Alle mani” pag. 25. Il titolo potrebbe suggerire un “venire alle mani” coi genitori. Ma nulla. Il confronto è soltanto fisico: la madre ha gomiti morbidissimi, gambe liscissime e senza peli, denti perfetti, diritti, tutti allineati; mentre l’Io poetante ha gomiti ruvidi, gambe pelose e sporgenti, denti bucati.

Gli anelli
alle mani di mamma
oggi
li porto io
alle dita
lunghe di papà.
 

Conclusione: l’Io poetante dal confronto corporeo con la madre ne esce piuttosto male. Ha, invece, le mani lunghe di papà. Edipismo più o meno inconscio?…

Il papà ritorna nella poesia “Teso” a pag. 47, col suo pensiero che vibra “come un filo di chitarra / teso”, una vibrazione che passa alle gambe dell’Io.

Un corpo enorme su gambe sottili.
Un’unica tensione alla vita
che traballa
come un acrobata sui trampoli.
Legati dalle caviglie.

Infine è ancora il papà a svolgere un ruolo fondamentale nei versi di “Voce fuori campo” a pag. 71. “Papà è la vita vera” sostiene il primo verso e, se non interpreto male, è quello che raffigura all’Io poetante “la prospettiva veggente / l’ingegno e la costanza, l’indipendenza del / Cuore sereno, / nei pantaloni da uomo”. Mentre, “Mamma è coraggio / Nonna è donna / Mi sento intrappolata nei loro gesti / E libera nei loro tormenti”.

Il confronto coi genitori e le loro storie costituisce un momento fondamentale ed inevitabile del nostro romanzo di formazione. La famiglia è un luogo da cui si è guardato sempre il mondo. Chi insegna o vorrebbe scrivere per mestiere (o anche solo per piacere o per autoanalisi) in aggiunta farebbe bene a non dimenticare le tante pagine lette di persone come Saffo, Eschilo, Sofocle, Catullo, Orazio, Virgilio, Tibullo…Sono i primi nomi che mi vengono in testa. Cercare le proprie parole e la propria voce, farlo con calma o con l’entusiasmo folle di un neofita, è un viaggio, uno scavo, una ricerca che non può non partire anche dai segni, dalle trame e dalle tracce che questi morti-vivi hanno lasciato su di noi. In questo libretto non avverto molto la presenza della cultura classica, non sento molto la voce degli antichi. Certo, è il primo libretto. De Gianni che fin da piccola voleva sbalordire tutti, ci sbalordirà sicuramente nei suoi prossimi lavori. Questi morti-vivi attendono di essere resuscitati dalla sua voce e dal lavoro del suo corpo-mente.

– “A pezzi”. L’io si sente fuori tempo e cerca di trovare un posto. Mentre cerca si sente a pezzi. (pag. 27) Vissuti momentanei (si spera) di depersonalizzazione e derealizzazione.

-.La vita come una corsa. “Un minuto vuoto, in cui tutto il corpo è inutile e necessario” (pag. 29). La corsa è metafora della vita. “Un minuto prima della corsa”. “Mi sto preparando, è quel minuto prima della corsa.”

.- Il tema dell’amore. “Argilla”. Plasticità dell’io poetante riavvolto “in un lembo di creta” da mani ignote. (pag. 31). Stesso tema nella poesia intitolata “Come un gatto” (pag. 43). Mi pare che l’amore venga visto nel momento dell’accoppiamento.

-“La cortina” (pag.33). L’Io poetante dichiara di aver dimenticato il motivo della sua Insofferenza (suscettibilità, impazienza, incapacità di adattamento o di sopportazione) e della sua rabbia. “C’entrava sicuramente con qualcosa che non comprendo”

Come quanto spesso, tutto sia
costruito,
forzato,
alto
limato.
Una cortina,
indifesa
 

Cosa sia una cortina, lo si capisce: è un tendaggio o una tendina, un sipario o qualsiasi cosa che si frapponga fra un oggetto e chi guarda in modo da impedirne la vista. È una sensazione, un sentimento dell’Io. La cortina diventa così una barriera, un separé, qualcosa che non permette di comprendere, qualcosa che si presenta come “costruito, forzato, alto, limato” Dopo tre puntini sospensivi, l’Io cambia registro

“Odio l’arroganza,
mi è tornata alla mente mentre scrivevo”

-. L’Io non odia soltanto l’arroganza, odia anche i lecchini. Cfr. “Smaglianti” pag. 35

-“Che cosa mi farà capire che questo smarrimento è finito?”, pag. 37. Diversi componimenti nascono da questo smarrimento, da questa condizione di straniamento, da questa cortina sentita intorno a sé, da questo senso di inadeguatezza nell’incontro con gli altri, dal sentimento di paura…

Ogni nascita è distacco:
comprendersi e lasciarsi
dietro
il senso di colpa
(pag. 37)

Questa nascita è poi descritta a pag. 39.

-“Il dolore per la morte in ogni respiro”. (pag. 41). È una delle poesie più significative, che meriterebbe un commento approfondito.

Il dolore per la morte in ogni respiro
 
L’intento di provocare turbamento
allenta le maglie della tua sofferenza?
Credi di sentirti meglio
e lanci lontano i sassi?
 
Insoddisfatti!
 
Colpisci le parti scoperte.
E ti ritrai vincente,
ferito,
dopo aver colpito.
Ma, d’improvviso, un boccone ti andrà di traverso.
E sentirai la paura,
ricorderai l’errore.
Curerai l’ansia di essere vivo
continuamente,
per l’attimo in cui riprendi fiato.
 
E respiri con affanno.
 
Il vuoto stringe le caviglie,
afferra le voglie e
trascina giù
lo spettro nascosto e sùbito
addosso il rimorso.
 
Ti sentirai, allora, più uomo
meno dottore
meno ingegnere
meno banchiere
meno soldato
meno avvocato
meno spavaldo
solo più solo,
ancora più suolo.

Nell’ultima strofa il sentirsi “più uomo” viene contrapposto al ruolo professionale (dottore, ingegnere, banchiere, soldato, avvocato). Ma questa maggiore umanità non riceve riconoscimento. Si diventa meno spavaldi, più soli e più terra-terra, mediocri, scadenti.

Il “fare umanità” è un lavorio progettuale tutt’altro che facile. Ho l’impressione però che l’Io lo reputi quasi impossibile. Privo, comunque, di gratificazione. Sente di appartenere ad una generazione fragile, “instabile, che traballa” (pag. 63).

.

7.- I versi di Ungaretti, citati da Biancamaria Sparano nella prefazione, fanno parte di una poesia, in forma di lettera, indirizzata ad Ettore Serra e intitolata “Commiato”. Il testo è il seguente:

Gentile
Ettore Serra
Poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
è la limpida meraviglia
di un delirante fermento
 
Quando io trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso

La prefatrice cita i versi della seconda strofa, quella individualizzante, quella in cui il poeta parla della sua parola simile a un abisso, trovata nel suo silenzio e scavata nella sua vita.

La prima strofa contiene una definizione generale di poesia che può essere interessante sottolineare. Parafrasando, secondo Ungaretti, la poesia è il mondo, l’umanità, la propria vita che fioriscono dalla parola. La parola non è il vocabolo. È quella che viene trovata dopo un lavoro di scavo. Trovata e cercata. Questa è la prima parte della definizione. Nella seconda, il poeta ricorre ad un’antitesi e sostiene che la poesia è “la limpida meraviglia / di un delirante fermento”. Ossia, stupore puro, chiaro, terso di un’assurda agitazione, di una demenziale eccitazione, di un’irrazionale inquietudine, di un folle fervore, di una maniacale vitalità.

La calma
e la pazzia.
Questa è casa mia.
 

Questi tre versi sono belli perché forse approssimano l’antitesi ungarettiana.

Per il resto, non credo che nei suoi versi brevi De Gianni abbia seguito la lezione di questo maestro. Nel poeta de “Il porto sepolto” c’è una dimensione simbolico-mitologica del tutto assente nel libretto di De Gianni. C’è un’equivalenza tra “parola” e “abisso” difficile da rintracciare in queste poesie. C’è un mondo, un’umanità, la storia di una vita, vissuta quasi giorno per giorno, che la nostra poetessa, invece, ha paura di trasportare totalmente sulla carta (per inibizione, per rimozione, per una strana sensazione di inadeguatezza, per timore di essere etichettata e giudicata).

Il libretto quindi non ha padri o madri e l’unico autore di cui si avverte chiaramente la presenza è Franco Arminio. Ciò detto, merita di essere letto con attenzione. È un frutto ancora acerbo, non privo di ingenuità e contraddizioni. È un frutto degno di sviluppi, che sicuramente matureranno in altre opere. Il libretto va letto perché consente di prendere contatto, sia pure parzialmente e in modo indiretto, con un’area ricca di problemi esistenziali vissuti da una persona appartenente alla generazione delle mie nipoti (dai venti a trent’anni), una persona che, per il percorso di studi compiuto, dovrebbe rappresentare, almeno in parte, le nascenti leve intellettuali umanistiche del nostro tempo.

Senza probabilmente volerlo fare, il libretto dà voce a questa generazione, al loro disagio, alla loro paura di non essere all’altezza, alla loro difficoltà a individuare un’identità, all’incubo del fallimento, del crollo, al senso di colpa, alla vergogna di non essere come li vuole un Tu sociale tirannico, insopportabile, performante, ossessionato unicamente dalla prestazione, competitivo. Il mondo, sembra dire questo Tu, è a portata di mano e, se non lo conquisti, la colpa è tutta tua. Non sai essere un buon imprenditore di te stesso.

Il discorso di questo Super- Io tirannico coincide con la religione neoliberista dominante in Italia e in Occidente, a partire almeno dagli anni Ottanta. È questo discorso che va rifiutato, criticato, smontato. È pieno di balle.

«La rivoluzione la dobbiamo fare noi. Figli della provincia del mondo, del lavoro in fabbrica, dei piccoli commerci, figli di chi legge la Repubblica perché vuole capire lo Stato. Quando nasci in provincia già in partenza sei in ritardo, sei lontano, sei solo. L’orizzonte mio sono le colline, il muretto dal quale guardavo i tetti da piccola e Sant’Agata davanti, appuntita. Non so qual è stato il momento nel quale ho capito che mi conveniva imparare. Senti tutti i giorni la diversità: assecondare i bisogni, assecondare gli sguardi, assecondare i sorrisi, assecondare i maestri, i parenti, la gente, il paese.» (pag. 63).

Ecco, io spero che De Gianni abbia scritto questo libretto per non assecondare più nessuno, per dare espressione ai bisogni, ai desideri, alle pulsioni e alle aspirazioni del suo corpo-mente. Un libretto per confrontarsi con gli altri, per dialogare, non per assecondare; un libretto che, fermo restante la dolcezza dell’orizzonte delle colline, sia un punto di partenza per delineare nuovi orizzonti, nuove occasioni, per mettere alla prova ed incarnare quei valori umanistici appresi e interiorizzati in anni di studi, nuove iniziative e modalità per “fare umanità”, un’umanità che non abbia timore di scoprire i molti significati di una parola come “rivoluzione”, una rivoluzione sociale, culturale, economica e politica. Non la presa di un Palazzo d’inverno, ma un processo, una guerra di posizione (culturale, innanzitutto) per la conquista di un’altra umanità. Oltre che scavo nel porto sepolto della nostra vita, la poesia è anche il sogno di questa cosa.

17 febbraio 2023

3 pensieri su “Angelica De Gianni: «Tra (me E me). Un dialogo interiore»

  1. «Siamo nati per restare. Altro che andare, allontanarsi…. Una casa è una piccola chiesa, tutto può diventare sacro, sacro il divano, sacro il termosifone, sacro il balcone, il camino, sacra volontà di tenermi a terra. Sacre radici, allignate nel suolo.» (De Gianni)

    In controcanto:

    Nel sud della mente

    Là, nel sud della mia mente
    nel seno sfatto dei vicoli
    riconosco apparenza e vigore del mio odio
    non troppo lontano dall’ascolto d’amore.

    Là, il febbrile strappo di poveri panni
    indossarne altri simili
    alla cieca
    premere la povertà passata
    come brace dentro il palmo della mano;
    la presente, nella bovina sua abbondanza
    tenerla a bada, oplà
    e già al passo fuggiasco
    danzare ancora ossute ribellioni.

    Fossi rimasto
    quanta untuosa la mia cattiveria
    immalinconita la solitudine
    cadenzate d’invidia le lamentele.

    Care voci d’un passato assai carezzato
    non illudetemi sul dovere di un ritorno.
    Vivo è questo nostro reciproco smarrirci
    che altrimenti ha profilato i corpi
    e divaricate, irricongiungibili, le storie.

    Emigrare è conoscere dalla parte delirante del celeste
    l’oscuro schianto del comune presepe.
    Voi, i rimasti, dalla parte interrata
    ne soffrite lo stesso l’agonia.

    (da E.A. Salernitudine)

    Certo, ogni generazione ha una sua sensibilità verso i luoghi e gli “sradicamenti” volontari o imposti. La distanza tra me e questa giovane poetessa è troppa per scandalizzarmi di questo suo bisogno del sacro o mettermi a fare predicozzi. Devo però pur dire che trovo ridicolo che divani o termosifoni possano diventare sacri! E ribadire che disapprovo il “catechismo del falso sacro” – ah, “la sporca religione dei poeti”! – che Franco Arminio dannosamente ha fatto circolare a iosa nei decenni scorsi con l’aiuto benevolo dei mezzi meno sacri della storia umana: mass media e social.

  2. Ho letto con piacere i passi riportati e la recensione del prof. Donato Salzarulo sull’opera della prof. Angelica De Gianni dal titolo “Tra me E me. Un dialogo interiore”, di cui colpisce molto la copertina per la sua straordinaria forza simbolica.
    Non me la sento di entrare negli aspetti tecnici, nei canoni estetici di questa raccolta di poesie. Essendo opera prima si evidenzia uno stile poetico in fase di ricerca, evoluzione e sistemazione.
    L’autrice esprime le sue sensazioni, emozioni e riflessioni per immagini flash, senza approfondire e dare risposte alle sue continue domande interiori.
    Il suo è un linguaggio allusivo che racchiude significati nascosti, che forse faticano ad affiorare alla sua stessa coscienza. Ma questo credo che sia del tutto normale, perchè non sempre è possibile esprimere i moti dell’anima e far emergere ciò che resta confinato nelle gole dell’inconscio.
    Credo tuttavia che le immagini che ci propina siano suggestive, di forte impatto emotivo, capaci di stupire, anche perchè i contenuti espressi rivelano una profonda sensibilità d’animo e uno sforzo di configurazione della propria identità/personalità.
    Di qui le sue continue domande, l’insinuazione del dubbio su ogni cosa, la difficoltà di entrare in relazione dinamica con l’alterità e con il mondo.
    Dai suoi versi traspare un senso di inadeguatezza diffusa rispetto alla complessità e contraddittorietà del mondo in cui viviamo. Né sembra restituire conforto la permanenza/ritorno nei luoghi dell’anima, della memoria dell’identità collettiva, che in assenza di relazioni autentiche ( vedi il suo incontro con Maria in “Fino alle tempie”) finiscono per configurarsi anch’essi come “non luoghi”, non comunità, ma spazi spersonalizzati e di estraniazione.
    L’autrice a tratti sembra voler mettere ordine ai suoi pensieri attraverso un’avvertita esjgenza di cambiamento di un mondo, ormai indifferenziato, sempre più limitante e omologante, in cui ci immoliamo come “eroi della sofferenza”.

  3. “ci immoliamo come “eroi della sofferenza”” (Lapenna)

    Immolarsi? Chi ce lo chiede? Attenzione anche a chi presenta le vittime di rapporti di dominio e di violenza come “eroi”.

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