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Qualche accenno alla “cucineria” secondo Boris Pasternàk

Casa museo di Boris Pasternak, Mosca, Russia

di Antonio Sagredo

Il lilla
 
Supponiamo, - il ronzio di un alveare,
e un giardino che affoga nelle faccende.
E le spalliere delle seggiole di paglia,
ed i neri chicchi dei tafani.
 
E all’improvviso s’annunzia il riposo,
e dovunque abbandonano il lavoro:
la giovinezza lontana è nei favi,
il lilla biancastro è sbocciato!
 
Già in qualche luogo sono i barocci e l’estate,
e un tuono disserra i cespugli;
e l’acquazzone invade le cellette
della bellezza già tutta costruita.
  
E appena riempie il suo carro
d’aria fragorosa il firmamento, -
un edificio di cera gridellina,
galleggia, levatosi alle nuvole.
  
E le nubi giocano a rincorrersi     
e si sente il discorso del più anziano,
che il lilla deve in un piatto
decantarsi per bene e sgocciolare.
 
1927
  
(poesia Il lilla di Boris Pasternàk tradotta da A. M. Ripellino) 

Commento di A. M. Ripellino

“La poesia di Pasternàk è poesia dell’ingorgo, non della distensione. Questo tipo di immagine domestica e coloritamente cucineria, questo negozio di alimentari che è la sua poesia, la ritroviamo di continuo.  Per esempio, una poesia del Salvacondotto, dice: 

                                                               All’uscita del vicolo G.
la Nikitskaja era un uovo col cognac
nel sonoro baratro del crocicchio.

   La via era un uovo col cognac, perché c’era il disgelo, c’era la luce solare. È per questo che la cattiva e perfida signora Berberova (340) che non amava Pasternàk, lo chiama rococò sovietico (che poi questo non ha niente a che vedere col rococò

È una delle poesie in cui Pasternàk si associa a quella tendenza della casalinghità, così frequente nella letteratura russa; che va dal tempo di Puškin il quale, nel suo Evgenij Oneghin è uno dei primi poeti casalinghi russ.i Tutti i suoi discorsi sulla marmellata e sui cibi dei Làrini (soprattutto nella festa di Tatjana, quando Tatjana invita Oneghin). E Pasternàk è davvero un grande affiliato di questa linea.

Anche in poeti che sembrano lontani da questo, come Mandel’štam, per esempio, già in apertura di pagina troviamo dei versi di questo genere:

                                                         ma è eterno il gusto della panna montata
                                                          e l’odore della scorza d’arancia

  Cioè, il gusto del particolare casalingo, che oggi diremo cezannesco; ancora in Mandel’štam troviamo:

                                                           E tu cerchi di frullare un giallo
                                                           d’uovo con un cucchiaio arrabbiato

   C’è un lieve odore di scorza d’arancia, e decine di questi elementi.  È una strada ben precisa; non studiata ancora; la linea domestico-casalinga, nella letteratura russa è importantissima e corrisponde, tra l’altro, ad un’idea di patriarcalismo inconscio (341).  

Rozanov, per esempio, l’ha colto molto bene quando dice che: …dei suoi taccuini, sono più importanti quelli di cucina, che le lettere di Turgenev a Paolina Viardot…”

Note 340 e 341 di Antonio Sagredo

340 Già con Deržavin (quasi di certo il primo poeta russo ad elevare la cucineria a oggetto di poesia alta) si era iniziato questo gusto per le pietanze e le bevande: i colori, le forme dei cibi, gli odori e i sapori e i significati simbolici nascosti dietro ogni cibaria. Majakovskij, p.e., che dall’ode di Deržavin discende direttamente, ne cantò le lodi per la frutteria, specie, p.e., l’ananasso e la pernice assurgono in lui a simbolo di vita agiata, grassa, filistea e borghese. Ma sono tanti i poeti russi, dai simbolisti ai tardo futuristi, dell’inizio del secolo XX°  ad attingere alla cucina; Igor Severjanìn , p.e., canta lo champagne in un giglio. Quanto a discendenze e “etichette storiche”  (qui Majakovskij da Deržavin) Jurij Tynjanov dice che “si paragona Majakovskij a Nekrasov” mettendo tutti in guardia, poi che egli “stesso dice ha commesso un peccato ancora più grande paragonandolo [Majakovskij] a Deržavin, e Chlebnikov a Lomonosov”, poi chiama in causa Pasternàk citando alcuni suoi versi  dove si ammonisce chiunque a profetizzare; in Jurij Tynjanov, Avanguardia e tradizione, Dedalo libri, bari, 1968, p.264.

341  Parrebbe più facile e più naturale pensare a un matriarcato, giacché la donna è “regina” nella sua casa, specie nella cucina dove dovrebbe regnare indisturbata, e invece… raro, p.e., nei versi della Cvetaeva e della Achmatova, trovare una celebrazione delle cibarie; più facile delle bevande nella Achmatova, la quale spesso si trovò in situazioni così precarie “che nel maggio del 1926 Majakovskij e Pasternàk organizzarono una lettura pubblica delle loro poesie per devolvere a lei tutto il ricavo, anche se nei manifesti che annunciavano l’evento ciò non veniva specificato”, in E. Feinstein, Anna di Tutte le Russie, op. cit., p 164.  Per la Cvetaeva, poi, parlare di cibo è un affronto ed una offesa, gravi, a lei stessa, perché ricordiamo che era tanta la penuria di cibo che la sua figlia minore, Irina, morì di denutrizione: la ricerca di cibo per i suoi figli la tormentò quotidianamente e in maniera profonda, eppure, vedete, quale grandissima poesia geniale è riuscita a creare! Per lei, come per l’Achmatova, non esisteva affatto nessun alibi che la potesse distogliere dal far versi. Ma mentre l’Achmatova era assolutamente priva di senso pratico, almeno così raccontano le numerosissime testimonianze di chi le fu vicino, la Cvetaeva, al contrario, ne era satura, come dire sapeva far di tutto nell’operare quotidiano che la condannava.\\\\\\\\\\\\ Primo verso dell’ultima strofa va bene anche: “E le nubi giocano [s’intende] a rimpiattino”.

A proposito di questi versi
 
Sui marciapiedi li sminuzzerò
in un miscuglio di vetro e di sole.
D’inverno li rivelerò al soffitto
e li farò leggere agli angoli umidi.
 
Comincerà a declamare il solaio
con un inchino alle imposte e all’inverno.
Verso i cornicioni balzerà un salincervo [1]
di stramberie, sventure e annotazioni.
 
Non un mese soffierà la tormenta,
cancellerà  le fini e i principi.
D’improvviso mi ricorderò: c’è il sole.
Vedrò: la luce da tempo non è più quella.
  
Come un piccolo corvo Natale darà un’occhiata,
e il dolce giorno rasserenato
rivelerà molto di ciò,
che a me e alla mia amata non venne in mente.
  
Nella sciarpa, proteggendomi col palmo,
attraverso lo sportello griderò ai bambini:
“miei cari, qual millennio,
è adesso nel nostro cortile?”
 
Chi ha scavato un sentiero verso la porta,
verso il buco intasato di neve,
mentre io fumavo con Byron,
mentre bevevo con Edgard Poe?
  
Mentre accolto nel Dar’jal, come presso un amico,
come in un inferno, come in un deposito e in un arsenale
io la vita, come brivido di Lermontov,
come labbra nel vermut immergevo.

(poesia A proposito di questi versi di Boris Pasternàk tradotta da A. M. Ripellino
  
1917 

[1] salincèrvo 
sa|lin|cèr|vo
pronuncia: /salinˈʧɛrvo/
sostantivo maschile

giochi arcaico gioco di ragazzi che si fa mettendo uno dei giocatori chino, col viso nascosto nel grembo di un altro, mentre un terzo gli sale sul dorso a cavalcioni e gli domanda quante dita delle mani abbia aperte: soltanto quando abbia indovinato, il primo giocatore è libero dalla sua incomoda posizione

Commento di A. M. Ripellino

( “…bisogna tener presente la casalinghità (169) delle immagini pasternàkiane: “Il Caucaso era tutto come un letto disfatto”, “Le gocciole (della pioggia) hanno il peso dei bottoni”, “Come un vecchio grembiule una nube si secca e si strizza”, “Sulle grondaie, come maniche di vecchie camicie, languivano i rami”, “Il silenzio era bagnato come un cappotto”, “La pioggerella pestava i piedi accanto alla porta e c’era odore di sughero di vino” : la più folta serie delle metafore pasternàkiane ha un secondo termine sempre domestico. Per questo è stato chiamato dačnyj. Pasternàk vive sempre all’interno di una villa, anche nelle poesie cosmiche, con un guardaroba e un arsenale di cose domestiche.

   Il gusto dell’immagine vestimentaria e dell’immagine casalinga è stato introdotto nella poesia russa moderna (ma c’era già in Gogol’) dagli immaginisti (Šeršenevic, Kusikov, Esenin). Tutto questo poi non è che l’attuazione di un principio messo in moto dal filosofo Vasilij Rozanov (primo novecento) nell’opera Le foglie cadute, dove si incontrano continuamente esaltazioni delle cose familiari, di tutto ciò che è domestico. (170)

  Gli oggetti piccoli della nostra vita divengono oggetti supremi. Dice Rozanov:

Il mio libricino delle spese di cucina (con le entrate e le uscite), vale altrettanto quanto le “lettere di Turgenev a Paolina Viardot”. È qualcosa di diverso, ma non è meno asse del mondo né, in sostanza, meno poesia. (171)

Si immette qui tutta una tradizione che va da Puškin a Gogol’, Aksakov, e Mandel’štam. Tutto ciò che è cuciniero, tutto ciò che è domestico, tutta la casalinghità è un termine supremo di poesia”).

Note 169, 170, 171 di Antonio Sagredo

nota 169

Egli [Pasternàk] propende  a spiegarsi senza ricercatezze a proposito dei temi più elevati, in maniera casalinga, e a rendere l’emozionata grandezza del Caucaso alla buona, nel tono d’una conversazione famigliare di tutti i giorni: e – non nel suo piatto- . oppure – il Caucaso era tutto come sul palmo della mano e tutto come un letto gualcito. – La sua originalità sta in questo, che egli poetizza il mondo con l’aiuto dei prosaismi che iniettano nel verso la verità della vita e perciò la trasferiscono dalla sfera dell’invenzione ricercata alla categoria della poesia autentica”. Così Andrej Siniavskij in Boris Pasternak – Poesie inedite , Rizzoli 1966, p.29.  Ma con queste parole Siniavskij mette, più d’ogni altro critico, una parola esatta e definitiva sulla condizione della domesticità della poesia pasternàkiana, e con questo suo giudizio ribalta il principio di incomprensibilità che ha accompagnato la poesia di Pasternàk per decenni.

(nota 170)

È paradossale come questa fede in un quotidiano attivo, non filisteo, abbia vinto la rivoluzione d’ottobre e non solo; questa superata da quelle aspettative che solo l’amore domestico può dare: per le piccole cose,  per i tepori intimi, per quelle atmosfere minime ma essenziali, e che concorrono alla creazione della grande poesia; e qui azzarderei una sorta di Biedermeier sovietico. Insomma non è necessario incidere l’epoca con lo strumento di un bisturi, basta solo la visione, lo sguardo di un poeta a modificarla

(nota 171)

Vasìlij Ròzanov, Foglie cadute, Adelphi 1976, p. 185. (a cura di Alberto Pescetto con un saggio di A. M.Ripellino).

Natale secondo Majakovskij (1)

Per dar modo ai lettori di soffermarsi sulle particolarità con cui tre grandi  poeti russi (Majakovskij, Pasternàk,Mandel’štam)  hanno sentito e parlato del Natale  pubblico in tre puntate  le loro poesie accompagnate dal commento di Angelo Maria Ripellino e dalle note di Antonio Sagredo. [E. A.]  

di Antonio Sagredo

Continua la lettura di Natale secondo Majakovskij (1)

Putin e la Russia Eterna

di Antonio Sagredo

ir\riflessione (NON COMPARATA CON ALTRE CULTURE) sulla singolarità russa odierna (o passata – i “tempi torbidi”, insomma non è cambiato nulla tra le mura del Cremlino)… se ne era accorto per primo ìl poeta Alexander Blok scrivendo nei suoi taccuini che non gli sembrava affatto una rivoluzione, ma l’ascesa di un gruppo (o casta se volete) per conquistare il potere che divenne più assoluto del potere degli zar. Il poeta Majakovskij alla vigilia della sua morte (anno 1930) si dichiara convinto e dà ragione al Blok. So che è stato ucciso dagli uomini di Stalin anche se non ho le prove, ma prima o dopo usciranno, stessa cosa per il poeta Esenini.- Continua la lettura di Putin e la Russia Eterna

La poesia di Ángel Guinda

 

a cura di Pablo Luque Pinilla

                                                                                                        El poeta es un condenado a la claridad y al canto1

Ángel Guinda nasce a Saragozza nel 1948. Vive a Madrid dove insegna Lingua e Letteratura in una Scuola Secondaria. La sua consistente opera poetica, esistenziale e minimalista, dagli anni ’70 a oggi è stata raccolta in riviste e libri di poesia. Ha scritto anche le raccolte di aforismi Breviario, 1980-1992 (1992) e Huellas (1992), i manifesti Poesía y subversión (1978) e Poesía útil (1994), e il saggio El mundo del poeta, el poeta en el mundo (2006). Ha tradotto diversi poeti: Cecco Angiolieri dall’italiano, Teixeira de Pascoaes, Florbela Espanca, José Manuel Capêlo e la poetessa brasiliana Ana Cristina Cesar dal portoghese, Àlex Susanna dal catalano. Negli anni ’70 fonda e dirige la collezione Puyal di libri di poesia e alla fine degli anni ’80 la rivista letteraria Malvís. Ha firmato centinaia di articoli di critica letteraria e critica d’arte sulle pagine dei quotidiani “Heraldo de Aragón” e “El Periódico de Aragón”. La sua opera in versi comprende i seguenti titoli: Vida ávida (1980-1990), Cántico corporal (1989), Conocimiento del medio (1990-1995), La llegada del mal tiempo (1995-1996), Biografía de la muerte (1996-2000), La voz de la mirada (2000-2001), Toda la luz del mundo (tradotto nelle lingue ufficiali presenti sul territorio spagnolo e all’interno dell’Unione Europea nel periodo 2000-2003), l’autoantologia La creación poética es un acto de destrucción, 1980-2004 (2004) e Claro interior (2000-2007). Attualmente è in corso di stampa l’edizione canonica della sua poesia completa, Poesía útil, 1970-2007. Un’ampia bibliografia dell’autore può essere consultata in rete all’indirizzo: www.olifante.com/guinda/biblio/index.html

Spesso la sua opera ha ricevuto consensi unanimi sia tra i lettori che tra i poeti e i critici letterari, e ha ricevuto il “Premio Pedro Saputo de las Letras Aragonesas” per Biografía de la muerte. Alcune tra le più recenti e importanti antologie degli ultimi anni raccolgono i suoi lavori; tra queste ricordiamo: Antología de la poesía española (1966-2000): Metalingüísticos y sentimentales. 50 poetas hacia el nuevo siglo (2007).

Come succede sempre nei casi di grande poesia, la sua opera affronta i temi classici più ricorrenti come il tempo, l’amore e la morte. Allo stesso tempo, la sua attenzione si dirige all’esplorazione metapoetica. Per quanto possa sembrare scontato sottolineare la validità di questi interessi, in realtà non lo è: basti pensare a come, nel nostro contesto attuale, vengano esaltati il nonnulla magniloquente e l’originalità priva di contenuto, in un atto di onanismo creativo che confonde il verso con lo spasmo, la letteratura con l’opportunismo dello spot. In maniera completamente diversa, invece, Ángel Guinda affronta la propria scrittura da una preoccupazione per l’umano, esasperata fino all’estremo della rottura del soggetto poetico, fino all’implosione stessa dell’io lirico. Questa scommessa è sostenuta anche da un grande rigore tecnico che si manifesta sia nell’impiego del verso libero che del poema in prosa o del verso sciolto (il più presente). Ma anche attraverso procedimenti espressivi come l’ellissi, il concettismo, la sinestesia e l’uso di un linguaggio attualizzato, convenzionalmente affatto poetico. Solo in alcune occasioni questo diventa più retorico o volutamente letterario; infatti, nella vita, fonte d’ispirazione di questa scrittura, vige il linguaggio nella stessa misura in cui, a volte, succede il contrario. In definitiva, una tematica e un’estetica che, tutto sommato, risultano radicalmente contemporanee.

Per il resto, si tratta di un’opera che, come dichiara l’autore stesso, si specchia in quella di Jorge Manrique, Quevedo, Bécquer, Ungaretti, Montale, Quasimodo e Jaime Gil de Biedma; e si fonda su tre idee fondamentali, spesso riportate nei suoi manifesti, in interviste e presentazioni. Innanzitutto, la concezione della poesia come atto di distruzione; quindi la convinzione che, puntualizzando quanto affermava Nebrija che «si scrive come si parla»2 in realtà, innanzitutto, «si scrive come si vive»3 e la coscienza di marginalità di chi va alla ricerca di un lirismo profondo che condanna il poeta a illuminare il mondo e a cantarlo. Con la prima di queste idee, il poeta risulta uno “sterminatore” – come l’ha definito qualcuno – che cerca di liquidare l’ordine prestabilito per edificarne uno nuovo, esente dai pregiudizi che falsano la realtà dell’uomo, guidato dal sentore del vero. Questo per dire che il carattere apparentemente distruttivo della sua poesia nasce da un’inclinazione al rischio e alla profondità, in cui ogni parola viene soppesata e indirizzata per dotare il poema della massima intenzionalità, sia etica che estetica. Ángel Crespo spiegava il medesimo concetto, affermando che questa poesia è «volta a rimuovere gli ostacoli della vita più che a essere messaggera di annichilimento; porta scompiglio, non nell’ordine naturale, ma nel disordine con cui i manichei di tutti tempi hanno cercato di sostituirlo»4. E noi aggiungiamo che questo modo di procedere, basato sull’effetto dei contrari, colloca il nostro poeta agli antipodi del nichilismo. Arriviamo quindi alla conclusione che Ángel Guinda scrive come vive, così come è stato accennato riguardo al secondo aspetto della sua scrittura. Una fame di vita e di esperienze personali che ci rivela nell’opera lo spazio comune delle nostre vite, la fattura dei nostri desideri, delle nostre frustrazioni, speranze, dubbi e certezze. Infine, sulla risultante delle due vie tracciate ritroviamo la terza che abbiamo indicato: il poeta si sente spinto al canto, alla poesia poiché tanta vita che come spesso afferma l’autore è anche tanta morte, non può non essere offerta, donata. In questo senso, Guinda è stato definito come un poeta maledetto, condannato a rendere poetico tutto quanto incontra. Ciò nonostante, ci sembra più adeguato considerare tale aspetto maledetto come l’ombra che la tentazione della concentrazione su se stesso proietta sul suo lavoro, pur se non arriva a materializzarsi. Di fatto, l’autore stesso ha denunciato questo pericolo nel suo saggio El mundo del poeta, el poeta en el mundo. Ci riferiamo alla pretesa che la poesia crei uno stato migliore della realtà e, per questo, migliore rispetto alla realtà, dimenticando che, come ci ricorda Víctor Moreno, lungi dall’essere così, il verso è «una possibilità espressiva in più che abbiamo a nostra disposizione»5 e, come tale, «non né migliore né peggiore di altre»6. Capiamo allora, che se Ángel Guinda dichiara di scrivere contro la realtà, non è perché la detesta, ma perché riconosce in essa l’incapacità di rispondere al suo grido umano, il che, in ultima istanza, non gli fa rinnegare quanto esiste, ma perseguire – quasi implorare -un inizio di risposta, qualcosa che gli sveli su claro interior – la sua chiara interiorità – come recita il titolo dell’ultima raccolta di poesie. La constatazione, in definitiva, che la realtà è segno di un’altra cosa. Infatti, nella poesia intitolata “La realtà” si spiega che, nonostante scriva contro di essa, senza sapere nemmeno se esiste, essa persiste «e questo sì, è un mistero»7. Un ulteriore conferma ci è data da una traiettoria poetica che comprende due tappe: quella che si conclude con il libro Biografía de la muerte e quella successiva a questa pubblicazione. La linea divisoria tra le due sarebbe delineata dall’incontro con la voz de la mirada – la voce dello sguardo – titolo di un’altra sua opera, e punto di inflessione verso una poesia «rivolta al mistero»8.

Se in Ángel Guinda è stato possibile questo itinerario, c’è da chiedersi cosa possa definirsi impossibile! Noi lettori aspettiamo ansiosi l’evoluzione del suo lavoro, e questo, per un poeta, è molto significativo.

                                                                                                                                             Traduzione di Gloria Bazzocchi

 

1Ángel Guinda, El Mundo del Poeta. El Poeta en el Mundo, Olifante, Zaragoza, 2007, pp. 7-8.

2Ángel Guinda, Poesía y Subversión: Manifiesto del 78, Zaragoza, Olifante, 1978; cit. Vida ávida, edizione bilingüe in bulgaro e spagnolo, trad. Rada Panchovska, Sofía, Próxima RP editorial, 2006 p. 88.

3Ibid.

4Ángel Crespo, Las cenizas de la flor, Madrid, Júcar, 1987; cit. Vida ávida, edizione bilingue in bulgaro e spagnolo, trad. Rada Panchovska, Sofía, Próxima RP editorial, 2006, pp. 97-98.

5Víctor Moreno (2007), “Lugares comunes sobre el hecho poético”, Cuadernos de Literatura Infantil y Juvenil, 2007, pp. 1-3.

6Ibid.

7Ángel Guinda, Claro interior, Zaragoza, Olifante, 2007, “La realidad”.

8Ángel Guinda, El mundo del poeta, el poeta en el mundo, Zaragoza, Olifante, 2006, p. 10.

POESIE DI ÁNGEL GUINDA
a cura di Pablo Luque Pinilla
traduzione di Gloria Bazzocchi

 

Tu boca vertical me escupió oblicuo
y no ha dejado tu sangre de rodar;
más que en la mesa, al volcarse una botella,
su dentro se derrama.
Y esa sangre no puede coagular
sino en mi pecho,
en esa bomba músculo que llaman corazón
y yo taberna.
Bebo mosto de alumbramiento,
negro alcohol espejo de tu ausencia.
Llevo toda la vida
bebiendo hijo sin fermentar,
masticando la madre de mi vino.
Toda la vida borracho de soledad
tragando muerte.(Vida ávida, 1980-1990)La tua bocca verticale mi espulse di sbieco
e non ha smesso il tuo sangue di gorgogliare;
più di quando su un tavolo si rovescia una bottiglia,
il suo interno si sparge.
E quel sangue non può coagulare
se non nel mio petto,
in quella pompa muscolo che chiamano cuore
ed io taverna.
Bevo mosto di nascita,
nero alcol specchio della tua assenza.
È tutta la vita
che bevo figlio non fermentato,
che mastico la madre del mio vino.
Tutta la vita ubriaco di solitudine
a ingurgitare morte.PÓSTUMOMe he bebido la vida.
La resaca
ha dejado en mis labios
un torbellino de desdén,
y en la mirada
toda la ausencia de la lejanía.
Convivo con la muerte.
Cualquier noche,
en lugar de unas manchas sobre un folio
y un ruido de palabras martilleantes
dando tumbos contra la dentadura,
te dejaré la luz de mi silencio,
limpio como el mantel desplegado del sol.

(Vida ávida, 1980-1990)

POSTUMO

Mi son bevuto la vita.
La sbornia
ha lasciato sulle mie labbra
un turbinio di disprezzo
e nello sguardo
tutta l’assenza della lontananza.
Convivo con la morte.
Una notte,
al posto di macchie su un foglio
e un rumore di parole martellanti
sbalzate contro la dentatura,
ti lascerò la luce del mio silenzio,
pulito come la tovaglia spiegata del sole.

LA EDAD DE ORO

No lamentes
haber perdido el esplendor juvenil,
los estallidos de la vida,
a cambio
de un horizonte de cenizas.
Nadie puede avanzar
en medio de un bosque en llamas,
sí a través del desierto.

(Conocimiento del medio, 1990-1995)

 

L’ETA’ DELL’ORO

Non rimpiangere
d’aver perduto lo splendore giovanile,
le esplosioni della vita,
in cambio
di un orizzonte di cenere.
Nessuno può camminare
in mezzo a un bosco in fiamme,
ma attraverso il deserto, sì.

PARA PERMANECER

Je ne vois qu´infini par toutes les fenêtres
Charles Baudelaire

Sin perder de vista el cielo,
que la tierra te mire
y puedas ver el mar.
Que en ti todo lo oculto
esté presente;
todo lo muerto, vivo;
lo por nacer, nacido.
Y tu huella dé fruto,
a la orilla del tiempo.

(Conocimiento del medio, 1990-1995)

 

PER PERDURARE

Je ne vois qu´infini par toutes les fenêtres
Charles Baudelaire

Senza perder di vista il cielo,
che la terra ti guardi
e tu possa vedere il mare.
Che in te quanto è nascosto
sia presente;
quanto è morto, vivo;
quel che deve nascere, nato.
E la tua impronta dia frutti,
sulla riva del tempo.

 

AUTOBIOGRAFÍA

Si mi vida no es esto
¿qué será la vida?

Martín Adán

Me preguntas por mi vida a bocajarro:
¿qué puedo responder, con qué y de qué modo?
Lo que sé de mi vida lo borra cuanto no sé de ella:
las palabras no alcanzan, los recuerdos confunden.
Mi vida es lo que he hecho,
he deshecho, he dejado de hacer.
Para saber de mi vida, piensa en la muerte;
piensa en ti que estás viva y has de sobrevivirme.
No sé si tendré tiempo
para vivir lo no vivido, para matar lo que viví,
para vivir la muerte antes de que me muera.
Mi vida recibe instrucciones de otras vidas
anteriores a mí, a las que sirvo
como fiel sucesor y en mí reviven
-no tengo ojos sino para lo que no veo.
Mi vida es una noche que a la luz no se adapta,
un astro fugitivo extraviado en la tierra;
es también la palabra que aún no me encontró,
el mensaje misterioso que no descifraré.
Aunque mi verdadera vida tal vez se inventará.

(La llegada del mal tiempo, 1995-1996)

  

AUTOBIOGRAFIA

Si mi vida no es esto
¿qué será la vida?

Martín Adán

Mi chiedi della mia vita a bruciapelo:
che rispondere, come e in che modo?
Quel che so della mia vita lo cancella quanto di essa non so:
le parole non bastano, i ricordi confondono.
La mia vita è quel che ho fatto,
ho disfatto, ho smesso di fare.
Per sapere della mia vita, pensa alla morte,
pensa a te che sei viva e che mi devi sopravvivere.
Non so se avrò tempo
per vivere il non vissuto, per uccidere quanto vissi,
per vivere la morte prima di morire.
La mia vita riceve istruzioni da altre vite
precedenti, che servo
come fedele successore e in me rivivono
– non ho occhi se non per quanto non vedo.
La mia vita è una notte che non si adatta alla luce,
un astro fuggitivo smarrito sulla terra;
è anche la parola che ancora non mi ha trovato,
il messaggio misterioso che non decifrerò.
Anche se la mia vera vita forse s’inventerà.

REGLAS DEL JUEGO

Cuando se es muy joven
uno vive sin apenas darse cuenta.

Cuando se es menos joven
uno comprende cuánto cuesta vivir.

Cuando se empieza a envejecer
uno hace recuento de todo lo vivido.

Cuando se es ya viejo
uno evita la idea de morir.

Cuando se nubla la vista
todo se ve definitivamente claro.

(La llegada del mal tiempo, 1995-1996)

REGOLE DEL GIOCO

Quando si è molto giovani
si vive quasi senza rendersi conto.

Quando si è meno giovani
si capisce quanto è duro vivere.

Quando si comincia a invecchiare
si fanno i conti di tutto quanto si è vissuto.

Quando ormai si è vecchi
si evita l’idea della morte.

Quando si annebbia la vista
tutto appare definitivamente chiaro.

LOS ALMENDROS EN FLOR

Cada año
la llegada de la primavera
me duele más.

Salgo al campo:
están los almendros en flor,
pero yo no.

(La llegada del mal tiempo, 1995-1996)

 

I MANDORLI IN FIORE

Ogni anno
l’arrivo della primavera
mi fa più male.

Vado in campagna:
i mandorli sono in fiore,
ma io no.

LA PUERTA DEL SILENCIO

Somos gotas de sed,
ecos de un resplandor.

Frente al mar todos callan.

(La llegada del mal tiempo, 1995-1996)

 

LA PORTA DEL SILENZIO

Siamo gocce di sete,
echi di uno splendore.

Di fronte al mare tutti tacciono.

 

MORIR

Morir es no volver a estar
a la misma hora
en los mismos lugares,
con las mismas personas.
No aparecer, cada mañana,
como esa gran luz nueva
disuelta entre las cosas;
dejar interrumpidos los trabajos,
los viajes en punto muerto.
Ajenos a los mares y a los astros.
Morir es estar quietos, sordos,
ciegos, mudos, desaparecidos,
desconectados de todos y de todo,
de nosotros también;
no regresar a casa nunca más.
No emitir ya señales, recibirlas tampoco.
Morir es no volver.

(Biografía de la muerte, 1996-2000)

 

MORIRE

Morire è non ritornare
alla stessa ora
negli stessi posti,
con le stesse persone.
Non apparire, ogni mattina,
come quella grande luce nuova
dissolta tra le cose;
lasciare interrotti i lavori,
i viaggi a un punto morto.
Estranei ai mari e agli astri.
Morire è rimanere calmi, sordi,
ciechi, muti, dispersi,
isolati da tutti e da tutto,
anche da noi stessi;
non tornare a casa mai più.
Non emettere più segnali, e nemmeno riceverli.
Morire è non tornare.

UNA VIDA TRANQUILA

Antes del fin
Ricardo Defarges

Me he castigado tanto el cuerpo, el alma,
que sólo tengo ganas de volver,
desatado de todo y de mí mismo,
a ese lugar donde las horas cunden,
fértiles, y pensar aprovecha
como un zumo fresco de frutas bajo el sol.
Pasear, empapado de olor a savia, camino de la casa
-observando el vuelo raso de la neblina
y las candelas del atardecer.
Y allí, junto al hogar, poner un poco de orden
al estrépito de los años, a los muebles de la memoria.
Oír el llover lento de la conciencia
calar en el eco de mis pasos, dispuesto a vigilar,
aunque sea de reojo, el reloj del adiós.
Me he castigado tanto el cuerpo, el alma,
que tengo ganas de regresar al campo
a ver amanecer; escuchar
el agua del deshielo rodar por la montaña;
colmarme de la paz de los senderos,
del canto de pájaros e insectos,
de la brisa que estremece las manos de los árboles;
tropezar con las piedras al contemplar las nubes.
Sentir que, sin saberlo,
estuve tanto tiempo vivo, y aún lo estoy.

(Biografía de la muerte, 1996-2000)

 UNA VITA TRANQUILLA

Antes del fin
Ricardo Defarges

Ho castigato tanto il corpo, l’anima,
che ho solo voglia di tornare,
staccato da tutto e da me stesso,
in quel luogo in cui le ore rendono,
fertili, e pensare trae beneficio
come un succo fresco di frutta sotto il sole.
Passeggiare, impregnato di odore di linfa, verso casa
– osservando il volo raso della foschia
e le luci dell’imbrunire.
E lì, vicino a casa, rimettere un po’ in ordine
il chiasso degli anni, i mobili della memoria.
Sentire il piovere lento della coscienza
immergermi nell’eco dei miei passi, disposto a vegliare,
se pur nascostamente, l’orologio degli addii.
Ho castigato tanto il corpo, l’anima,
che ho voglia di tornare in campagna
a vedere l’alba, ascoltare
l’acqua del disgelo rotolare giù per la montagna
riempirmi della pace dei sentieri,
del canto di uccelli e insetti,
della brezza che fa tremare le mani degli alberi,
inciampare nei sassi nel contemplare le nuvole.
Sentire che, senza saperlo,
sono stato vivo per tanto tempo e ancora lo sono.

CANCIÓN ESTÉRIL

Cómo habría querido darte todo
lo que yo nunca tuve: una infancia feliz
-cimiento de un futuro
compacto en seguridad y fortaleza;
cierta disposición favorable ante el mundo,
la salud del silencio,
el taller clandestino de las palabras,
la amistad, el ansia de saber, de ser libre,
las llamas del motín de enamorarse,
el fragor de vivir y un respeto a la muerte.
Pero nada de esto te podré conceder,
porque no nacerás.
Y aun así, me pregunto
si habrías admitido cuanto yo te ofrecía
-simplemente, la vida;
y aceptarme, porque yo te aceptaba.

(Biografía de la muerte, 1996-2000)

 

CANZONE STERILE

Come avrei voluto darti tutto
quanto non ho mai avuto: un’infanzia felice
– fondamento di un futuro
saldo in sicurezza e forza;
una certa disposizione favorevole al mondo,
la salute del silenzio,
il laboratorio clandestino delle parole,
l’amicizia, l’ansia di sapere, di essere libero,
il fuoco di quel tumulto che è innamorarsi,
il fragore di vivere e un rispetto per la morte.
Ma nulla di questo ti potrò concedere,
perché non nascerai.
E anche così, mi chiedo
se avresti accolto quanto io ti offrivo
– semplicemente, la vita;
e accettarmi, perché io ti accettavo.

¿Mirar es acercarse o atraer?
El sol, frutal, tirita, estremecido
fogonazo de trinos y de aromas.
En los brazos del monte brama el viento:
¿qué dice cuándo pasa?
No conoce el nombre de los árboles.
Hay otra luz para las flores de agua.
Islas en llamas en la noche,
vamos detrás de aquello que se escapa.

(La voz de la mirada, 2000-2001)

 

Guardare è avvicinarsi o attirare?
Il sole, fruttifero, trema,vibrante
vampata di trilli e di aromi.
Tra le braccia del monte bramisce il vento:
cosa dice quando passa?
Non conosce il nome degli alberi.
Vi è un’altra luce per i fiori d’acqua.
Isole in fiamme nella notte,
andiamo dietro a quello che sfugge.

 

“Eres la lejanía, que me cerca.”

(Toda la luz del mundo, 2000-2002)

“Sei la lontananza, che mi circonda.”

Qué insaciable beber un agua que tiene sed.

(Toda la luz del mundo, 2000-2002)

Quanto è insaziabile bere dell’acqua assetata.

LAS PALABRAS

Cada palabra pesa
todo lo que la vida
ha pasado por ella.

Hay palabras que viven,
palabras que dan vida;
hay palabras que mueren
y palabras que matan:
sólo algunas traspasan.

Cada palabra pesa
su paso por la vida.

(Claro interior, 2000-2007)

LE PAROLE

Ogni parola pesa
tutto quanto la vita
ha passato per lei.

Vi sono parole che vivono,
parole che fanno vivere;
vi sono parole che muoiono
e parole che uccidono:
solo alcune rimangono.

Ogni parola pesa
il suo passare per la vita.

LA REALIDAD

A pesar de que escribo
contra ella
-sobre ella jamás-
no sé en qué consiste
la realidad,
ni siquiera si existe.
Pero persiste,
y esto sí que es misterio.

(Claro interior, 2000-2007)

LA REALTÀ

Nonostante io scriva
contro di lei
– ma su di lei mai –
non so in cosa consiste
la realtà,
neppure se esiste.
Eppur persiste,
e questo sì è un mistero.

MUNDO PROPIO

Estar fuera del mundo por llevar un mundo dentro.

Si mi mundo no es éste, mi mundo dónde está.

(Claro interior, 2000-2007)

MONDO PROPRIO

Essere fuori dal mondo per avere un mondo dentro.

Se il mio mondo non è questo, dov’è il mio mondo.

 

© de los poemas en castellano: licencia otorgada por Olifante. Ediciones de Poesía
© delle poesie in castigliano: licenza rilasciata da Olifante. Ediciones de Poesíapablo.luque.pinilla@gmail.com
gloria.bazzocchi@unibo.it

 

 

a Jan Palach

di Antonio Sagredo

Ci sarebbe da salvare
il cuore
per offrire un messaggio
lieve
agli ottusi
e perdonare le fiamme
dopo tanto scempio.
 
Ma la sua mente è salva
col pensiero che ci consegna
un ideale
a prova d'immortalità:
così il suo esempio
ancora ci sorprende!

Maccarese,  16 gennaio 2022


Mandel’štam e il treno

                            e  “la extraterritorialità” delle sua Poesia

 

 di Antonio Sagredo

    A differenza di Majakovskij e Pasternàk, il treno per il poeta Mandel’štam significa esilio, miseria, indigenza ecc. In una sola e unica parola si sintetizza il significato di treno per Mandel’štam: sofferenza! Estrema, senza rimedio, senza soluzione alcuna.

   Come comincia la sofferenza del poeta, oramai oggetto-fantoccio alla mercé del potere, in qualche maniera ce lo comunica la poetessa Achmatova, sua vecchia e fedelissima amica. (ma altre testimonianze dirette confermano quanto segue).
A.M. Ripellino cita a proposito  la Achmatova (Corso su Mandel’stam del 1974-75, p. 53) che racconta l’inizio del calvario del martirio:

  “Una mattina telefonarono a Nadežda (moglie del poeta) e le proposero se voleva andare col marito; e, in questo caso, di essere dopo due ore alla stazione di Kazan’. Nina Ol’ševskaja-Ardova ed io (l’Ol’ševskaja era un’amica della Achmatova) andammo a raccogliere un po’ di soldi per il viaggio, e ci diedero molto. La moglie dello scrittore Bulgakov cominciò a piangere e mi ficcò nella mano tutto quello che conteneva il suo borsellino. Andammo in due alla stazione con Nadežda, ma prima passammo alla Lubjanka, per prendere i documenti. Il giorno era chiaro e luminoso, da ogni finestra ci guardavano i baffacci di scarafaggio. E alla stazione fecero incontrare Nadežda e il marito e partirono insieme sorvegliati da due gendarmi della NKVD per il confino”. 

(da mia nota 144, p.53)

In Anna Achmatova, Memorie… – /// Questo è detto anche in E. Feinstein, Anna di tutte le Russie, op.cit., p.186. Desta sorpresa che la moglie di Bulgakov  il 29 novembre 1934 con “Stalin e Sergej Kirov, amico del dittatore e suo principale luogotenente a Leningrado andarono insieme al Teatro delle Arti di Mosca”, in E. Feinstein, op. cit., pp. 186-187. Sulla moglie dello scrittore Michail Bulgakov, l’autore de Il maestro e la margherita, non è mai emerso un minimo sospetto di collaborazionismo col potere sovietico, ma…

  Nadežda scriverà su questo viaggio minutamente, come su tutte le altre  tristi peregrinazioni: questa è del 1934.  Erano diretti entrambi verso :

 “una specie di residenza coatta, questo confino, nel quale la Nadežda seguendo il marito …descrive tutti i cambi di treno. A Sverdlovsk sotto scorta; poi sul treno Sverdlovsk-Solikamsk nella regione degli Urali. Lui già malato e con una specie di delirio. Da Solikamsk poi sul battello all’ospedale di Čerdyn’ dove Mandel’štam tentò di uccidersi saltando dalla finestra, ma cadde su uno strato d’argilla dissodata; gli rimase l’omero fratturato e a lungo non poté muovere il braccio destro, che poi gli fu curato nel soggiorno a Voronež . Čerdyn’, dove furono assegnati, era una cittaduzza sul fiume Kama, che entrava nel sistema dei lager del NKVD (c’era tutto un sistema che Solženicyn ha descritto nell’ Arcipelago Gulag).

   Era una cittaduzza di quelle scelte dalla polizia politica per i condannati, una delle tante della rete dei lager. Mandel’štam infermo, soffre di allucinazioni auricolari in seguito alla prigionia alla Lubjanka, allucinazioni in conseguenza degli interrogatori notturni (Mandel’štam, come ha detto Il’jà Erenburg, era un uomo che aveva paura del dentista). Sente voci minacciose che gli comminano tutte le pene possibili, sente soprattutto una voce lontana di donna; ha angoscia che vengono a prenderlo, ha parossismi di terrore, e insieme accessi di asma.”. (AMR, p.53- Corso…)

   Quando più tardi nel ’36 si incontreranno a Voronež, l’Achmatova scriverà:

 “ Egli (il poeta) mi ha raccontato che in un accesso di pazzia si mise a correre per tutta Čerdyn’ e che cercava il mio corpo fucilato e ne parlava a voce alta a chiunque incontrasse; e aveva scambiato i festoni, posti in onore dei marinai della Čeljuškin (cioè quelli della spedizione al Polo Nord della nave Čeljuškin che tornarono come eroi), che li considerava  in onore del mio arrivo. (AMR, p. 53- Corso)

da mia nota 147, p. 53)

L’ Achmatova in occasione di questo incontro scrisse il 4 marzo 1936 una poesia dal titolo Voronež; dicono gli ultimi versi: “E nella stanza del poeta al bando/vegliano a turno il terrore e la musa/e  va la notte/che non conosce alba”.(…e scorre la notte….).

     Ed ecco a Čerdyn’, dopo tre mesi, lo raggiunge la commutazione della pena voluta da Stalin (in seguito all’intervento di Bucharin). Stalin gli permetteva di scegliere, tranne dodici escluse, una qualsiasi località, ma c’era un elenco di altre nelle quali poteva stare in soggiorno obbligato, e Mandel’štam sceglie Voronež. (Voronež allora era un luogo di confino).

  Il ’35 e il ’36 è un’epoca di estrema povertà per loro. Egli fa piccoli lavori a Voronež; all’inizio fa il direttore letterario del teatro locale, e lavorò anche per la radio locale, facendo delle brevi introduzioni per trasmissioni musicali, in particolare per Orfeo e Euridice di Gluck; tradusse persino canzonette napoletane per una cantante e fece piccole trasmissioni per i bambini; soprattutto lo aiutavano gli artisti locali in gran parte esiliati che avevano dato vita a questo teatro.”

(AMR, p. 54- Corso)

 Curioso è questo interessamento di Mandel’štam per le canzonette napoletane e proprio in questo luogo di confino tristissimo! Si può pensare che queste canzonette gli abbiano reso più “confortevole” questo luogo?

(da mia nota 148, p. 54 – Corso)

Perché Mandel’štam  si interessa di canzonette napoletane?. Già nel cabaret Il cane randagio che Mandel’štam frequentò si cantavano queste canzonette; lavorava infatti come cantante Grigorij Fabianovič Gnesin di origine ebrea (i cui fratelli fondarono l’Accademia Russa di Musica). Ritornato in patria dall’Italia “pubblica alcune canzoni napoletane con delle traduzioni dei testi in russo: è il primo divulgatore della canzone partenopea in Russia ”[°] Entra in contatto col critico K. Čukovskij, con Repin e con Mejerchol’d; viene arrestato nel 1937 e fucilato poco dopo. Suo fratello Michaíl Gnesin lavorò con nuove musiche [°°] al Revisore di Mejerchol’d  del 9 dicembre 1926. Ma le prime collaborazioni col regista risalgono al periodo “1913-1916 negli Studi teatrali di via Povarskaja e via Borodinskaja a San Pietroburgo”[*]. È assai probabile che Mandel’štam e Grigorij Gnesin si siano incontrati al cabaret Il cane randagio; o che ne abbia solo sentito parlare di Gnesin;  Mandel’štam ne fu attratto, e forse  così si spiega il suo interesse per le canzonette napoletane. – A. Gullotta, La memoria, il terrore, il terrore della memoria”, in: eSamizdat, 2010]; [°° A.M.Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, op.cit. p. 139]. – Riferisce Nadežda Mandel’štam in  L’epoca e i lupi, op. cit. 1971, p. 221, che Mandel’štam ”…aveva  ascoltato alla radio Marian Anderson [ soprano americana (1897-1993)]  e il giorno precedente era stato a visitare un’altra cantante, espulsa da Leningrado. Per lei Mandel’štam aveva fatto una traduzione libera di certe canzonette napoletane, da cantare poi  alla radio, dove in quel periodo tutti e due riuscivano a guadagnare qualche soldo”. Di certo la poesia di Mandel’štam del 12 febbraio 1937 “Sono affondato nella  fossa dei leoni” ,che è l’ultima del Secondo quaderno di Voronež, è stata creata dopo quell’ascolto. /////  [*] in:– Lezione del 24/03/2010 – di Dmitry Trubochkin.  ////// Si deve sottolineare che, a proposito di canzoni napoletane, la celeberrima  O sole mio fu composta in Russia, ad Odessa nel 1898, da Eduardo Di Capua (1865-1917) su parole di Giovanni Capurro. Il  Di Capua si era imbarcato su una nave da crociera come pianista; durante un soggiorno a Odesssa  si narra che, guardando dalla finestra dell’albergo il sole ucraino nascente  riflettere sul Mar Nero, sentisse nostalgia del sole di Napoli, e allora cominciarono a sorgere in lui le prime note di quella canzone, che poi sarà universalmente conosciuta in tutto il mondo.

   Mandel’štam compirà altri “viaggi”; si può dire che ad ogni nuovo arresto un nuovo viaggio in treno; il più terribile è l’ultimo viaggio del 1938. E i più terribili anni del terrore vanno dal 1936 al 1938.

 All’inizio del ’38  i Mandel’štam sempre in cerca di casa, sbalestrati da un luogo all’altro, vanno in un sanatorio con i mezzi del fondo letterario che anticipa sulla vendita dei libri, nel nord della Russia presso Muromsk, a Samaticha. Ma questo sanatorio si trasforma in una sorta di trappola, perché nella notte dal 1° al 2 maggio 1938 Mandel’štam è di nuovo arrestato e viene condannato a 5 anni di lager per attività contro-rivoluzionaria. È prima nel carcere Butyrki, a Mosca, dove si formavano i consigli per l’estremo Oriente, e poi non si sa più nulla di lui. Cioè ci sono delle testimonianze varie di ex-deportati, ma nessuna è sicura.

   Sembra che egli sia stato a Vladivostok, in un campo, in attesa che si aprisse la navigazione per il trasporto nel lager di Magadan o a Kolyma, famosi luoghi di repressione e di deportazione. Aveva lasciato Mosca il 7 o il 9 settembre ed era arrivato il 12 a Vladivostok.

(AMR, P. 65- Corso)

   Il lager di transito si chiamava Vtoraja Rečka ed era mostruosamente gremito, non c’era posto e i nuovi venuti si sistemavano all’aperto tra due file di baracche. Testimonianze dicono che accanto alla latrina uomini seminudi in quel freddo schiacciavano i pidocchi. I convogli continuavano ad affluire con centinaia di esseri inselvatichiti e sporchi. Penetrare in una baracca per un posto significava lottare accanitamente per farsi strada.

    Mandel’štam era ammalato d’asma e durante il tragitto in treno stava sempre sdraiato con la coperta fin sulla testa (testimonianze di suoi ex-compagni di lager), ma la cosa più grave era che non voleva più mangiare perché era ossessionato dalla idea dell’avvelenamento. 

   I soldati della scorta gli compravano un panino, ma a fatica si riusciva a farglielo mangiare, aveva continua paura del veleno e perciò giungeva sino alla inedia. All’inizio del periodo in cui Mandel’štam sta in questo campo di concentramento scoppia il tifo e i deportati vengono chiusi nelle baracche, mentre gli ammalati vengono rinchiusi in orrende apposite baracche. Qualcuno dice di aver visto Mandel’štam in una baracca di ammalati di tifo, ma non è sicuro. 

   Sugli ultimi mesi e sulla fine di Mandel’štam esistono numerose varianti e leggende, contraddittorie notizie di deportati che gli furono vicini, ma che confondono località, toponimi, nomi e avvenimenti. Dicono tutti che gelava nel suo cappottino di pelle gialla a brandelli, temeva sempre che lo volessero avvelenare e perciò non toccava cibo; il cibo era costituito da pane, aringhe, cavoli e legumi disseccati. Perdeva regolarmente la razione di pane e la gavetta; era ormai molto svitato, era convinto che anche la moglie fosse stata arrestata; insieme a questi intellettuali deportati c’erano i delinquenti comuni, i quali lo trattavano brutalmente. Una volta fu sorpreso a rubare una razione di pane e fu bastonato ferocemente. 

   Parecchie testimonianze parlano della sua pazzia accentuatasi a Vladivostok.  Continuamente riceveva minacce e percosse perché rubava le razioni altrui, che era convinto non fossero avvelenate. Lo buttarono più volte fuori della baracca, viveva accanto alle fosse dei rifiuti, sudicio, barbuto, con lunghi capelli, in cenci; uno dei testimoni dice:”…si era mutato in uno spauracchio da campo di concentramento”.

(AMR , p. 66 – Corso)

 (da mia nota 179, p. 66 – Corso)

Osip Mandel’štam, Lettera da Voronež. E a proposito di spedire prodotti e alimenti. All’epoca del Secondo quaderno di Voronež (6 dicembre 1936-fine febbraio 1937), quando Nadežda era insieme ad Osip, sappiamo che “il fratello di Nadežda Jakovlevna spediva loro ogni mese i duecento rubli che V. Višnevskij e V. Šklovskij gli consegnavano”. Cambia drasticamente lo stato del poeta, in peggio, all’epoca del Terzo quaderno di Voronež (marzo-maggio 1937). Il poeta scriverà a Kornej Čukovskij agli inizi del ’37  “Mio fratello Evgenyj Emilevič non mi dà un centesimo!” e in una lettera precedente allo stesso: “Sono malato. Non posso restare solo neanche per un momento. Adesso si prende cura di me la madre di mia moglie, una vecchietta. Se restassi solo mi sbatterebbero in un manicomio”(vedi Nadežda Mandel’štam, Le mie memorie, op.cit. 396; e  cap. Lettere di Mandel’štam, pp. 389-400). Di certo Nadežda è sostituita da sua madre, poi che è partita per Mosca, dove cercherà aiuto non solo materiale, p.e. dai poeti Pasternàk e Achmatova; cerca anche un lavoro per non chiedere soldi agli amici; tenterà poi di parlare con qualche autorità per rendere più vivibili le condizioni del poeta. In questo stato terribile il poeta non si perde d’animo: ha fede nella sua poesia tanto che a Jurij Tynjanov [il celeberrimo critico formalista] scrive: “È atroce. È già un quarto di secolo che, mischiando le cose serie alle sciocchezze, sputo sulla poesia russa; ma presto i miei versi entreranno in lei mutando qualcosa nella sua struttura e nel suo corpo”.(lettera da Voronež del 21 gennaio 1937). A questa fede si alterna il momento della disperazione: ”Ormai non posso fare niente altro che chiedere aiuto a chi non vuole che io soccomba fisicamente”.(dalla lettera K. Čukovskij dell’inizio 1937); da Nadežda Mandel’štam, Le mie memorie, op.cit. pp. 396-397.

 La sorte di Mandel’stam non fu diversa di quella di milioni di persone in quei “campi di lavoro” (che  non cessarono di esistere anche al tempo di Gorbaciov; giusto furono attenuati i tormenti).
E ora così finì la sua esistenza il poeta, e ancora una volta riferisco dal Corso di Ripellino:

 “Aveva anche paura di misteriose iniezioni che privano della volontà (e questa gli era rimasta dal periodo del primo arresto quando gli iniettavano la scopolamina per farlo parlare).

   Ora, nei campi di transito non era necessario lavorare, come nei campi dove si era assegnati definitivamente, ma pur di sfuggire all’ebetudine dell’inerzia, tutti cercavano di far qualcosa, e Mandel’štam portava pietre su una carriola. I medici gli avevano dato un giaccone di pelliccia che egli aveva ceduto per un po’ di zucchero, ma lo zucchero gli era stato rubato. Qualcuno dice che Mandel’štam recitava versi agli internati e segnatamente sonetti di Petrarca, davanti a un falò.

   Nadežda Mandel’štam riuscì a spedire un unico pacco al marito, pacco che le fu respinto dopo qualche tempo con la dicitura: “morte del destinatario” Nel giugno 1940 il fratello di Mandel’štam, Aleksandr Emilevič, ricevette la comunicazione che il poeta era morto il 27 dicembre del 1938, a 47 anni, per paralisi cardiaca. Ora, ci sono diversissime leggende: c’è chi dice che fu ucciso da delinquenti comuni che stavano con lui; un’altra dice che morì su una nave diretta verso la Kolyma, che fu gettato nell’oceano.

    Semplicemente morì nel campo di smistamento: una mattina non si era alzato più dal letto, lo avevano portato in ospedale dove morì. Seppellivano allora senza vestiti, senza bara, in una fossa comune comunque dice la moglie, che la sua morte non fu peggiore di quella del compagno di acmeismo, Narbut, il quale fu addetto come vuotacessi, a pulire i pozzi neri e fu fatto saltare in aria con altri malati, quando si ammalò, in un barcone.”

(AMR, p. 67 – Corso)

(da mia nota 180, p. 67 del Corso)

La fossa comune  fa ovviamente pensare a Mozart; e si dice che pure la Cvetaeva finì in una fossa comune; comunque non furono mai individuati precisamente i luoghi dove furono sepolti. — A proposito del suicidio della  Cvetaeva, scrive E. Feinstein (parlando con Lidija Čukovskaja): “L’ultimo biglietto che la Cvetaeva scrisse a Mur [nomigmolo di suo figlio, che sarebbe morto il 18 giugno 1944] è di una tristezza quasi insostenibile: “Perdonami. Andare avanti sarebbe stato peggio… Sono terribilmente malata, non sono più me stessa. Ti amo pazzamente. Di’ al babbo [Sergej Efron] e a Alja [sua figlia], se li vedrai, che li ho amati fino all’ultimo minuto, e spiega loro che ero arrivata a un punto morto”.(p. 241); ancora  Feinstein: “ La figlia Alja accusò lo scrittore Aseev di aver provocato la morte della madre e disse: “È un assassino, e il suo delitto è più grave di quello commesso da d’Anthes”, [il barone alsaziano che aveva ucciso Puškin in duello].   Lidija Čukovskaja  racconta [alla Feinstein]  che la Cvetaeva le disse:” Non troverò nulla [a Čistopol, vicino a Elaguba, luogo dove si impiccò *]. Anche se trovassi una stanza non mi darebbero un lavoro… Dimmi, per favore, perché pensi che valga ancora la pena di vivere?”, e che  quando [Lidija] sentì la notizia della morte della Cvetaeva, l’Achmatova  ne fu desolata. (pp. 240-241). A Mosca, all’inizio del 1941, le due poetesse si erano incontrate due volte; forse questo incontrò fu organizzato da Pasternàk nella casa degli Ardov [amici intimi della Achmatova; la Cvetaeva a Mosca non aveva dimora], con i quali stabilì l’incontro dopo una serie di telefonate. (p. 227). Continua ancora la Feinstein : “ Viktor Ardov ricorda che le aprì la porta [alla Cvetaeva] e poi guardò le due donne che si stringevano la mano e andavano nella stanzetta in cui stava la Achmatova. Rimasero lì sole per quasi tutto il giorno, e l’Achmatova non parlò mai di quel che si erano dette; osservò solamente che  la Cvetaeva sembrava semplicemente una persona normale, molto preoccupata per il destino della propria famiglia. S’incontrarono di nuovo il giorno dopo, questa volta nell’appartamento di  Nikolaj Chardžiev, e lì chiacchierarono  e bevvero vino”. (p. 228) .. Le pagine citate sono tratte dal libro di  Elaine Feinstein, Anna di tutte le Russie, op. cit

Ma la rivincita di  Mandel’štam sulla natura di tutti i possibili poteri che si sono succeduti nella storia umana, è dovuta alla sua poesia, in particolare alla sua singolarità che si manifesta attraverso la extraterritorialità della stessa; singolarità già appartenuta (come a pochi altri poeti),  a Dante, poeta tantissimo amato dal poeta russo. Forse è improprio dire  rivincita, come anche vendetta o similari termini, della sua poesia; semplicemente il potere della Poesia non ha confini affatto e né limiti che mai si sono potuti definire, perciò è sconfinato e illimitato e ha raggiunto tutte le genti di qualsiasi popolo della storia umana.

E’ un potere il suo, quello di un poeta, contro il quale il potere di un dittatore terribile  e crudele nulla può,  qualunque esso sia; e senza alcuna uccisione se non quella morale ed etica del dittatore stesso e di tutti quelli che a questo sono asserviti.
Mi si conceda a proposito di intervenire con una mia nota.

(da mia nota 126 , p. 42- Corso)

 L’extraterritorialità della letteratura del nostro pianeta (2001\02) di Donald E. Pease (1945-), che analizza un saggio di Wai Chee Dimock, dove si afferma nelle pagine dedicate a Mandel’štam, che la letteratura è uno degli agenti della denazionalizzazione, la quale permette di violare la sovranità dei territori dello Stato (esempio di globalizzazione); e a proposito è esemplare l’atto realizzato da Mandel’štam che affronta il potere dello Stato autoritario sovietico di Stalin; e che lo supera nel tempo e nello spazio, portandosi con sé, mentre va incontro all’esilio verso  il lager, la Divina Commedia di Dante; e che questa opera diviene il simbolo di superamento di tutti i poteri autoritari che si sono succeduti nella storia umana.

  Quindi la Commedia è manifestazione della potenza di una letteratura planetaria, che non conosce barriere cronologiche e che è un continuum  metastorico contro tutte le barriere autoritarie spaziali e temporali. Con Dante, Mandel’štam rafforza il suo potere di dissenso contro lo Stato stalinista, e sono inutili gli sforzi compiuti da questo Stato per sopprimere la scrittura del poeta. Due esili che si comprendono a distanza di secoli! – comunque sintetizzando: “È stata la extraterritorialità della scrittura di Mandel’štam la condizione-chiave che gli ha permesso di sopravvivere e il suo essere radicato fisicamenteparadossonel territorio ha fornito al poeta il pretesto di deterritorializzare con la letteratura lo Stato autoritario che opprimeva lui e chi all’interno del suo spazio riusciva a sopravvivere”.

  Conclude il critico l’analisi al saggio del Dimock, dichiarando la “poesia come forma più duratura della corporeità e – che – mentre era in esilio Mandel’štam ha inventato una forma di scrittura che ha preso il posto della Russia da cui era stato bandito, fornendogli una forma di sopravvivenza biologica”. Donald E. Pease non manca di rilevare che: “Dimock  tende a perdere di vista il modo in cui Mandel’štam torna a scrivere… dopo il primo arrestocome la materializzazione di una forma alternativa di territorialità… che i suoi scritti sulle letture di Dante sono prima del suo (ultimo) – esilio…”, e che se ha portato con sé Dante è non per strumentalizzarlo, ma per affermare un’altra scrittura sotto esilio e dice: ”vorrei proporre che era lo status extraterritoriale della scrittura che Mandel’štam là ha prodotto che costituisce il tratto fondante della letteratura planetaria”.

E, infine, chiude affermando che è stata questa extraterritorialità scritturale che ha permesso al poeta di appartenere ancor più e di occupare più fisicamente il territorio e di resistere e di sopravvivere ai terribili atti che là si compivano. Furono inutili dunque gli sforzi del potere sovietico di “dislocare il corpo” di questo grande poeta!, che scrisse, sembra, la sua ultima poesia il 4 maggio del 1937, secondo la sua, ultima, musa: Nataša Štempel.

  In una poesia del 1915, Mandel’štam tratteggia il futuro suo e della umanità, e specie nella seconda quartina, si domanda: ma dove navigate?”, denunciando, con tanto anticipo temporale lo smarrimento di una umanità che non era più in grado di ri-conoscere un traguardo di pacificazione universale. E quel “navigate” allude di certo alla barca di Dante che avendo perduto il timone era in balia di qualsiasi tragedia. Le cui avvisaglie si erano già presentate oscure, pesanti, prossimo a un capezzale luttuoso.

Insonnia. Omero. Le vele tese.

Io ho letto sino a metà l’elenco delle navi:
questa lunga nidiata, questo treno gruesco
che sopra l’Ellade un tempo si è levato.

Come un cuneo di gru in confini stranieri -
sulle teste dei re c’è la schiuma divina -
ma dove navigate? Se non ci fosse Elena,
a che servirebbe Troia da sola, uomini achei?

E il mare, e Omero - tutto questo è mosso dall’amore.
Chi devo ascoltare? Ed ecco, Omero tace,
e il mare nero, perorando, risuona
e con un pesante tonfo si avvicina al capezzale.

agosto 1915

(trad. di AMR)

 

Karel Jaromír Erben

E’ uscita la prima traduzione italiana delle 13 ballate, note in origine come “Kytice”, di Karel Jaromír Erben, importante poeta e folclorista ceco del XIX secolo. L’edizione è bilingue. Qui pubblico, ringraziando gli autori, la prefazione di Antonio Sagredo e tre delle ballate di Erben tradotte e curate da Paolo Statuti. [E. A.]

prefazione di Antonio Sagredo

  Karel Jaromír Erben nacque a Miletín il 7 novembre 1811 e morì a Praga il 21 novembre 1870 di tubercolosi. Fu etnografo, storico, poeta, scrittore e studioso del folclore ceco e slavo. Raccolse i canti e i detti nazionali ed elaborò tutte le leggende in modo artistico, preservando la loro freschezza originale.

È generalmente considerato il secondo più importante poeta del Romanticismo ceco, insieme con Karel Hynek Mácha (1810-1836), autore del famoso poemetto Maggio. In contrasto con l’enfasi posta da quest’ultimo sull’unicità e individualità della vita umana, Erben mette a fuoco la validità di una legge universale, interpretata di solito come Fato. Studiò in collegio a Hradec Králové. Nel 1831 si trasferì a Praga, dove si iscrisse alla facoltà di filosofia e in seguito a quella di diritto. Nel 1843 iniziò a lavorare nel Museo Nazionale, insieme con František Palacký (1798-1876), storico e politico, uno dei principali fautori della rinascita ceca. Nel 1848 diventò redattore della rivista Notizie praghesi, e due anni dopo fu nominato archivista del Museo Nazionale. Svolse questo impiego per lunghi anni e ciò gli permise di esaminare molti antichi documenti e di farsi una solida preparazione sulla storia ceca.

Tra le sue opere principali ricordiamo: una bella raccolta di sue poesie, i Canti popolari di Boemia, con 500 testi; i Canti popolari cechi e rime per bambini; Cento racconti e leggende slave nei dialetti originali, opera nota anche col sottotitolo Libro di lettura slava, influenzata dalle favole dei fratelli Grimm. In tutte le sue opere, sature di poetica popolare, egli affronta i temi dell’amore, della morte, della colpa e del castigo.

Nel 1853 Erben pubblicò Kytice z povĕstí národních, in italiano Un mazzetto di leggende popolari, una raccolta di 13 ballate diventata un classico della letteratura ceca, uno dei più conosciuti e amati dal popolo ceco. Alcune di esse sono affini a quelle di altri Paesi europei: ad esempio, L’arcolaio d’oro, colma di scene raccapriccianti,è simile a una vecchia ballata del confine anglo-scozzese e nelle Camicie nuziali, intrisa di vampirismo,si ritrova un motivo delle ballate tedesche.

La sostanza materiale delle varie ballate è data essenzialmente da un folclore ricchissimo di temi, di suggestioni, di storie che attingono a un mondo antico pagano, talvolta cristiano, il tutto pervaso da uno spirito slavo atavico che ha ben piantato le sue radici nelle varie aree geografiche, ciascuna con le proprie specificità.

Forse la matrice più evidente e importante di questo folclore ceco (boemo) lo si trova in quel vastissimo sentimento che fu la “fratellanza slava”, cioè delle genti di chiare origini slave, accomunate appunto da un sentire comune ma anche troppo idealistico. I primi assertori di questa fratellanza furono F. Palacký e P.J. Šafárik (1795-1861), che studiarono a Bratislava e che con il loro piccolo volume Inizi della poesia ceca, in particolare della prosodia suscitarono un gran clamore, anche perché vi era un non celato sentimento nazionalistico. Entrambi filologi e profondissimi conoscitori delle lingue e letterature slave, dettero un apporto notevolissimo, ciascuno nel proprio campo di ricerca, alla conoscenza di una cultura slava davvero originariamente antica: Šafárik con Antichità slave e, nello specifico, Palacký con la sua Storia della nazione ceca in Boemia e in Moravia.

Queste tematiche furono poi riprese con gran vigore sia da Jan Kollar (1793-1852) che da F.L. Čelakovský (1799-1852), ambedue imbevuti del sentimento della fratellanza fra popoli slavi e, come i primi due, di sentimenti antigermanici. Essi pubblicarono raccolte di canti popolari slavi, in specie slovacchi e cechi, ed entrambi attinsero anche ai canti popolari e folcloristici russi.

Ma fu di F.L. Čelakovský la prima formulazione balladica, con Toman e la vergine del bosco che, come dire, fu il nucleo da cui si sviluppò tutta una serie di temi e motivazioni balladici. Alcuni di questi temi furono in parte ripresi con grande maestria e originalità da Karel Jaromír Erben.

Erben, che collaborò con Palacký, fu insuperabile nella conoscenza del mondo folclorico e la filologia che lo sosteneva gli fu di utilissimo aiuto, poiché il materiale folclorico fu da lui elaborato e riadattato con espedienti letterariamente originali, di cui ancora adesso si possono cogliere la vivacità e la scioltezza.

La creazione di Kytice attinge al mondo popolare ceco e moravo in tutti i suoi aspetti più nascosti e più singolari: ogni minuzia è controllata affinché il mito ne risulti più chiaro ed evidente, e la parola (sceneggiatura) che lo esprime è sottoposta a un rigido schema espressionistico, tant’è che davvero alcune scene (scenografia), che escon fuori dai dialoghi fra gli attori, sono da cinema espressionista tedesco: come quello dell’orrore e del terrore persistenti, che attanagliano i gesti e i pensieri dei personaggi della ballata. Vi sono scene dagli squarci acuti e affilati, fitte di luci, di ombre e penombre che si succedono senza requie in un bianco e nero (da preferire ai colori!), tanto che lo stesso lettore deve fare una pausa per riprendersi, come dalla scena dello squartamento del corpo nella ballata L’arcolaio d’oro.

Scrive Ripellino: «La tematica di Erben, tipo schizoide-romantico, è il mondo della immaginazione satanica, surreale, morbosamente fantastica. La tonalità della ballata si riveste di un senso religioso dove l’uomo è tragicamente passivo, soggetto a un essere superiore che lo domina sempre. L’aldilà è sempre un presente metafisico e religioso e impegna l’uomo in una eterna, ma vana, lotta per sopravvivere ad ogni costo a forze più grandi di lui, malgrado la passività».

A sua volta Meriggi mette in evidenza nelle ballate di Erben «l’analisi meticolosa e ossessiva dei sentimenti dei vari personaggi, specialmente di quello materno… Ovunque risplende la maestria dell’autore, il quale si dimostra un acuto osservatore della psicologia dei protagonisti e un estasiato ammiratore degli spettacoli naturali che si presentano al suo sguardo».

Le ballate hanno come tema principe la lotta tra il bene e il male. Si ripete lo schema: tesi, antitesi ed epilogo finale positivo e vincente; come dire: e vissero felici e contenti. Restano come un ritornello le atmosfere cupe, terrifiche, con personaggi che incutono paura, e che appaiono improvvisi per suscitare sgomento, spavento. La foresta domina incontrastata la scena, perché in essa avvengono fatti indicibili e inspiegabili: essa è fitta e impenetrabile…

Spesso il sangue irrompe nella scena, come nella ballata Le camicie nuziali:

Sopra le rose canine,
sugli arbusti e sulle spine,
i suoi bianchi piedi posava
e tracce di sangue lasciava.

Oppure  nella ballata  Vodnik:

Due cose a terra nel sangue –
una vista orribile e funesta:
la testa senza corpicino
e il corpicino senza testa!

Insomma queste ballate di Erben fanno spesso pensare a una continua morgue ma poi, come una sorpresa, in alcune prevale l’aspetto moralistico, come un monito, ad esempio nel Tesoro; in altre invece l’atmosfera domestica esalta gli affetti familiari, e la quotidianità diviene il personaggio principale da celebrare in tutti i possibili atteggiamenti e comportamenti scanditi dalla tradizione; regole fisse e rigide ci aiutano anche a comprendere la psicologia degli attori… Il sangue qui è scomparso, finalmente, pur facendo capolino in qualche verso qualcosa di incomprensibile che si aggira tra le mura domestiche, come nella Vigilia di Natale.

Le ballate di Erben si somigliano fra loro per molti aspetti, siano essi compositivi che riferiti alle varie tematiche. Per ogni tema ripetuto vi è una variante dello stesso tema che la distingue dalle altre varianti, e ciò testimonia quanto furono essenziali le differenti elaborazioni cui Erben sottopose le sue ballate, e spesso la stessa ballata. Fu proprio questa strategia a decretare il successo di Kytice: le varianti di una ballata diventano altre ballate e tutte diverse fra di loro. Questo fu dovuto alla conoscenza capillare e profonda delle dinamiche filologiche e folcloriche di cui Erben era provvisto, per promuovere a più alti livelli la cultura popolare. E facendo appunto di ogni ballata una sorta di racconto, la elevò al grado di una letteratura alla portata di tutti. Questo raccontare in rima gli eventi e le azioni dà alla sua ballata una dinamica chiara ed espressivamente sciolta quando la si legge o la si recita.

La traduzione delle ballate di Erben di Paolo Statuti dà un apporto notevole al modo in cui si devono leggere o recitare i versi che sono quasi rigidamente rimati, e tradotti con tecnica stilistica rara, per non cadere in facili cantilene, per cui la loro musicalità compositiva risulta sempre controllata ed equilibrata. E ciò è degno di gran lode e di riconoscimento.

Per concludere vorrei ricordare che le ballate di Erben ispirarono diversi compositori cechi, in primo luogo Antonín Dvořák con la cantata Le camicie nuziali e i poemi sinfonici Le camicie nuziali, Il Vodnik, La strega di mezzodì, L’arcolaio d’oro, Il piccolo colombo. Inoltre ricordiamo Zdeněk Fibich, con i melodrammi La vigilia di Natale e Il Vodnik, e Bohuslav Martinů con la cantata Le camicie nuziali. Anche Robert Schumann ha composto una romanza per voci femminili, Der Wassermann, Op. 91/9.


tre ballate

Un mazzetto di leggende

Morì la madre e fu seppellita,
orfani i figli restarono;
ogni mattina essi venivano
e la mammina cercavano.
 
Dei bambini la madre ebbe pietà,
e allora il suo cuore ritornò
e, trasformatosi in un fiorellino,
con esso la tomba adornò.
 
Sentirono la madre dal profumo
i figli e presero a ballare;
e il fiore – loro consolazione,
cuordimamma vollero chiamare.
  
Cuordimamma! caro alla nostra patria,
voi semplici nostre leggende!
Sopra una vecchia tomba ti ho colto
e ti porterò tra la gente.
  
Io farò di te un mazzetto,
ti metterò un nastro e infine,
ti mostrerò la strada per la terra
dove hai una famiglia affine.
 
Si troverà una figlia di mamma
che il tuo profumo sentirà?
E si troverà un giorno un figlio
che al suo petto ti stringerà?
 

La strega di mezzodì

Vicino al banco il bambino
urlava a squarciagola.
“Smettila una buona volta,
almeno un’ora sola!
 
Tra poco è mezzogiorno,
papà ritorna ed io
non riesco a cucinare,
sei un castigo di Dio!
 
Zitto! hai i soldatini –
Gioca! – qui hai il galletto!”
ma ciò che ha sottomano,                        
getta via con dispetto.
 
La madre allora esclama:
”Che strazio, basta così!
Adesso ti porterà via
la strega di mezzodì!
 
Vieni a prenderlo, o strega,
portalo via lontano!”
Ed ecco che nella stanza
la porta s’apre pian piano.
 
Un fazzoletto in testa,
bassa e di pelle scura,
Le gambe storte e la gruccia –
entra questa figura!
 
“Dammi il bambino!” – “O Cristo!
Grazia una peccatrice!”
La morte è già nell’aria
e la strega è felice.
 
La strega come un’ombra
è sempre più vicino;
la madre, terrorizzata,
afferra il suo bambino.
 
Lo stringe a sé, indietreggia –
oh, guai al bambino, guai!
La strega è vicina al bimbo,
quasi lo tocca ormai.
 
Già allunga la sua mano,
stringe le braccia la madre:
“Per la passione di Cristo!” –
grida ma sviene e cade.
 
Ora suona la campana
la dodicesima volta,                                            
la maniglia ha cigolato,
il padre varca la porta.
 
La madre giace svenuta,
il bimbo al petto è serrato:
la madre riprende i sensi,
ma il bimbo – è soffocato.

La maledizione della figlia

“Perché sei così rattristata, figlia mia?
Perché sei così rattristata?
Eri così spensierata,
ora hai cessato di ridere!”
 
“Ho ucciso un colombo appena nato, madre mia!
Ho ucciso un colombo appena nato –
era solo e abbandonato –
era bianco come la neve!”
 
“Un colombo non era, figlia mia!
Un colombo non era –
il tuo viso non è quello di ieri
e il tuo aspetto è trasandato!”
 
“Oh, ho ucciso il bambino, madre mia!
Oh, ho ucciso il bambino,
il mio povero piccino –
voglio andarmene anch’io adesso!”
 
“E ora che conti di fare,
che conti di fare, figlia mia?
La tua colpa come riscattare
e lenire l’ira di Dio?”
  
“Andrò a cercare quel fiore, madre mia!
Andrò a cercare quel fiore
che perdona anche il più grave errore
e raffredda il sangue mio.”
  
“E dove lo troverai, figlia mia?
E dove lo troverai,
dove nel vasto mondo cercherai?
In quale giardino cresce?”
 
“Sul poggio c’è un palo, madre mia!
Sul poggio c’è un palo con un chiodo,
e sul chiodo c’è un nodo –
un cappio di canapa, madre mia!”
 
“E che lascerai a quel giovinetto, figlia mia?
e che lascerai a quel giovinetto
che frequentava il nostro tetto
e con te si rallegrava?”
 
“Lasciagli la benedizione, madre mia!
Lasciagli la benedizione –
l’inferno sia la sua dannazione,
per avermi falsamente parlato!”
 
“E a me che ti ho amata, figlia mia?
E a me che ti ho amata,
che ti ho dolcemente cullata,
che tanto amore ti ho dato?”
 
“La maledizione ti lascerò, madre mia!
La maledizione, che tu soccomba
e ti sia negata la pace di una tomba.
per avermi lasciato fare di testa mia!”
 

Pasternàk, il treno… la donna…. la natura… la creazione poetica…

di Antonio Sagredo

Erenburg ha scritto nel ’22:

“In Pasternàk c’è l’entusiasmo dello stupore, l’accumulamento dei nuovi sentimenti, la forza della primordialità: in una parola il mondo dopo il diluvio, oppure dopo una settimana passata in una trincea a difendersi dai proiettili. Per rendere questa novità di percezioni Pasternàk non si interessa soltanto dell’invenzione delle parole, ma della disposizione delle parole. La magia di Pasternàk è nella sua sintassi. Una sua poesia si chiama Gli Urali per la prima volta, tutti i suoi libri possono essere chiamati: il mondo per la prima volta; essi sono in realtà un mastodontico segno esclamativo, una oooh!, che è molto più bella e convincente di tutti i ditirambi”.

. (Il’ja Erenburg, Uomini, anni, vita, op. cit., 1963, vol. II, p.55)

Attacco quasi da tregenda la prima strofa, ma che poi quasi come una valanga furibonda della natura che tutto coinvolge si espande travolgendo in un subbuglio senza fine montagne alberi ghiaccio e uomini minacciosi (le orde asiatiche che disturbano il sonno dei russi da secoli!)… la natura è sconvolta… il poeta quasi si trovasse al centro di questo caos  assiste ai primi albori mattutini: sono delle grida queste prime luci, come quelle di una donna che partorisce, per questo c’è uno sconvolgimento degli elementi… e mentre le montagne intorno si scontrano tra di loro, ecco che il treno macchia questi albori coi fumi carboniosi e tutto avviluppa di nerastro, allo stesso modo il mostro Gorynyč, sputando fuoco,  annerisce i boschi  macchiandoli di caligine… La prima strofa è stupefacente e lascia senza respiro il lettore. Forme e contenuti coincidono nello svolgersi dei vari eventi, e sono attoniti, quasi involontari protagonisti dell’evento: il parto dei primissimi bagliori di luce: il parto di Leuca! È un occhio cinematografico quello del poeta che già ben conosciamo. Dalla prima strofa: tutto viene visto da lontano, poi man mano si riducono le distanze, ed ecco : la cittadella, i massicci, gli sbuffi della locomotiva (pare che l’occhio del poeta segue la locomotiva sui binari), e ai lati paiono i boschi dare l’assalto al treno, sono incombenti, da soffocare. È un’alba liquida-catramosa che si spande ovunque e si versa, come avesse ingerito forti dosi d’oppio, o che  si danno da uno spacciatore (qui: Gorynyc, drago a tre teste che sputa fuoco, proprio come la locomotiva) a un compagno di strada. Questa droga eccita e risveglia: gli occhi sono spalancati e vedono minacciose le orde asiatiche (antichissimo mito, pauroso, tutto slavo!) che travolgono ogni cosa… e solo i pini, come monarchi e guerrieri si ergono come baluardi contro queste invasioni, e sono prìncipi villosi (le ramificazioni), vestiti di nero per la fuliggine, e che man mano il sole s’alza sull’orizzonte si colorano d’arancione per i bagliori di un sole rossastro. Sembra che si sia scampati a un incubo notturno. //// E qui, in questi versi-quadri del poeta, mi sembra di ravvisare i dipinti quasi scultorei, sfaccettati, dei quadri del pittore Nikolaj Rerich (1874-1947)… delle montagne e delle foreste russe intrise fino allo spasimo delle fiabe e dei personaggi della mitologia russa che dentro vivono, e che rivissero nei vari spettacoli dei Balletti russi di Djaghilev, dei quali fu uno dei pittori e scenografi.

(mia nota 175, p.55)

Aggiunge Ripellino:

   C’è sempre una freschezza mattinale dello sguardo. È la posa dell’uomo appena sveglio che ancora si strofina le palpebre. Non è come una certa poesia sovietica, ad esempio Sluckij:” Mi alzerò al mattino, alacre e fresco”.
   Qui c’è invece questo sonnambulismo del risveglio, risveglio che è la primordialità e la riscoperta di tutto ciò che è innocente e vero. Questa enormità fumosa, questa colata di umido, queste nubi di caligine e poi questo fuoco improvviso e la discesa della tribù di asiatici, sembra un film di Pudovkin e il movimento viene dato con semplice balenio e per questo coronamento, questa specie di balletto uralico nel gusto dei balletti di Djaghilev e della fiaba russa. (AMR – p. 55)

  Ma noi sappiamo che il treno per il poeta ha anche significato di fuga dalla vita domestica che spesso era costellata da liti, scontri verbali, come succede  in qualsiasi famiglia; e allora dalla poetessa Anna Achmatova sappiamo secondo quanto riferì alla Elaine Feistein che “quando lui (Pasternàk) litigava con la moglie prendeva talvolta il treno per Leningrado e dormiva da lei (Achmatova) sul pavimento”. In  E. Feinstein, Anna di tutte le Russie, op.cit., 2006, p. 296.
  Era l’eterno chiacchiericcio, il pettegolezzo, le dicerie malevoli che il poeta non riusciva a sopportare e che a causa loro molti poeti russi  hanno pagato con la vita questa pressione davvero terribile e che questo suo divincolarsi di continuo ha un parallelo con l’andamento irregolare dei treni: gli scarti, lo sferragliare, il cambiare binari, gli urti, ecc. (mia nota 215, p. 85)… nonostante tutto Pasternàk resta per tutta la sua vita grandemente generoso verso la donna (la donna-treno, aggiungo!)

—————————————–

La morte di un poeta

Non ci credevano - che fossero fandonie,
ma lo apprendevano da due,
da tre, da tutti. Si allineavano nella riga
del suo tempo fermatosi di botto                                 
le case di mogli, di impiegati e di mercanti,
i cortili, gli alberi e su essi
i corvi, nel fumo di un sole rovente
gridavano eccitati contro le cornacchie
perché le sciocche, d’ora in avanti
non si impicciassero nel peccato.
C’era sui volti un umido spostamento,
come fra pieghe di una rete strappata.

Era un giorno, un innocuo giorno, più innocuo
di una decina di precedenti giorni tuoi.
Si affollavano, allineandosi nell’anticamera,
come se lo sparo li avesse allineati.
Come se avesse, schiacciandoli, schizzati da una chiavica
Lucci e scàrdove una deflagrazione
Di petardi riposti fra i biodi.
Come un sospiro di strati micidiali.
 
Tu dormivi, spianato il letto sulla maldicenza,
dormivi e, cessato ogni palpito, eri placido, -
bello, ventiduenne,
come aveva predetto il tuo tetrattico.
 
Tu dormivi, stringendo al cuscino la guancia,
dormivi - a piene gambe, a pieni malleoli,
inserendoti ancora una volta di colpo
nella schiera delle leggende giovani.
Tu ti inseristi in esse più sensibilmente,
perché le avevi raggiunte d’un balzo.
Il tuo sparo fu simile ad un Etna
in un pianoro di codardi e di codarde.
 
 
1930
(trad. di AMR)

  Il tetrattico è il poema La nuvola in calzoni di Majakovskij. Perché lo definì tetrattico? Così scrive nei suoi Ricordi Lilja Brik: “Majakovskij chiese a Òsip Brik  se esistesse un nome per le icone composte non di tre parti, i trittici, ma di quattro. Òsip gli rispose che ne ignorava l’esistenza, ma che nel caso potevano essere definite tetrattici”. In  Lilja e le altre”, op.cit., cap. “Lilja – Ricordi”, p. 94.  –

  Questa poesia fu scritta qualche tempo dopo la morte di Majakovskij (tutto da rivedere se fu davvero un suicidio!) ed è un attacco tremendo e estremo contro le malelingue del borghesuccio piccolo uomo sovietico. E fu il il borghesuccio piccolo uomo del tempo degli zar a causare la morte di Puskin. In “Quattro modi di morire” consiglio di ascoltare questa poesia…  l’ineguagliabile interpretazione di Carmelo Bene… questa  voce unica” davvero mette i brividi.

   Se dunque “  Pasternàk ha l’intuizione del movimento, i suoi versi sono bellissimi per la loro  trazione…. ma  le loro righe si curvano e non si possono distendere, come verghe d’acciaio. Cozzano l’una contro l’altra come vagoni di un treno che freni all’improvviso. A parte l’implicazione ferroviaria, è proprio così: i versi sono urtanti, l’uno contro l’altro. E, appunto, per questo continuo rimando e scampanellare da stazione che essi hanno, che sono “gremiti come vagoni di traslochi”. (AMR -( p. 85)

Nella poesia che inizia coi versi Mia sorella la vita anche oggi nella piena\ s’è frantumata in pioggia primaverile contro tutti,… (e che dà il titolo alla raccolta) benissimo scandisce Ripellino i tempi e i modi di questa lirica, che Pasternàk forse per renderla più quotidianamente valida affinché poi fosse egualmente compresa da tutti (nulla togliendo alle caratteristiche stilistiche tipiche della sua stessa poesia) specie dall’acqua stessa che umanizza come al suo solito -, dal chiacchiericcio filisteo e ottuso del popolino, dalla natura stessa e dai sensi umani che interagiscono; e dallo stesso treno che in Pasternàk è tutto lo spazio e il tempo mescolati per essere indissolubili… e infine dopo che tutto è presente è anche pronto ad essere accettato e identificato con l’immensa dimensione che circonda;  gli sportelli dei vagoni sparsi nella steppa significano che le vite private e quotidiane si liberano – fuggono dai vagoni in corsa verso lo spazio che viene incontro velocemente –  dal proprio intimo esistere sciogliendosi, e dunque rigenerandosi in uno spazio che non ha confini per una nuova vita… e ancora una volta è la donna ad essere la scintilla, perché anche lei è sorella della vita, come lo è il poeta che la canta!

(mia nota 270, p. 109).

 Questa poesia fu rifatta diverse volte proprio per centrare ancora meglio quei motivi che erano essenziali al poeta per poter progredire; lo slavista individua cinque motivi centrali :
1 – la vita è eguale all’ acquazzone e piena primaverile; è irrequieta e tempestosa, come l’acqua di    primavera.
2 – i borghesi hanno ciondoli e sono burberi, non capiscono le ragioni della poesia e della vita.
3 – solito tentativo di cogliere tutti gli odori e i suoni del mondo, con le narici aperte, le orecchie tese, pur passando attonito attraverso il mondo, è sempre pronto a coglierne i suoni e i colori.
4 – il treno, motivo centrale: passa, inserendosi nell’universo.
5 – il palcoscenico si allarga, alla fine, sulla vastità cosmica.

(AMR – p.109)

    E a questo punto   doverosa è una distinzione fra due grandi poeti, cioè del loro rapporto col mondo femminile, che se con Pasternàk si realizza la tangibilità dell’eterno femminino,  invece in Blok svanisce dopo una iniziale acclamazione; finirà  questi per deriderlo nei suoi lavori teatrali: Balagančik,1906,  (Il baraccone) e Neznakomka 1907,  (La Sconociuta). (mia nota 315, p. 148)

Questa donna,  che è sempre nel gusto di Pasternàk di spiritualizzare, di elevare la figura femminile che viene, come la vita stessa a prendere la vita del poeta e a soffiarne via la polvere.

(AMR – p.315)

   La donna per Pasternàk è sorgente di rigenerazione continua nonostante delle gravi crisi che dovette subire e che misero a dura prova la sua capacità creativa, infatti già nel 1925 Pasternàk dovette affrontare una crisi, ma di natura diversa, e cioè di una sorta di rinuncia alla poesia e alla prosa lirica, e di questo suo stato ne è prova una lettera (del 16 agosto 1925) che inviò a Mandel’štam; scrive: ”Ho cominciato a scribacchiare qualcosa.[…] Si tratta del ritorno al vecchio binario poetico di un treno che era deragliato e che per sei anni è restato in fondo a una scarpata. Tali sono per me Sestra, Ljuvers e qualcosa dei Temi.[…]Dai primi di gennaio scrivo a pezzi e bocconi, svogliatamente. È incredibilmente difficile. Tutto è arrugginito, frantumato, distrutto, su tutto si sono depositati strati sovrapposti di insensibilità, di ottusità, di abitudinarietà. Che schifo. Ma il lavoro è lontano dalla faccia del giorno, esattamente come succedeva a suo tempo coi nostri primi abbozzi e coi lavori più riusciti. Si ricorda? E proprio in ciò sta il suo fascino. Esso porta alla memoria il dimenticato, rafforza le riserve di energie che sembrano come rivivere”, in Poesia e vita, Lucarini, Roma 1990, p.17.

(mia nota 132, p. 32)

   Ma Il’jà Erenburg nelle sue Memorie scrive che Pasternàk era “uno dei maggiori lirici del nostro tempo”.* [e così fu celebrato da Bucharin al  I° Congresso degli scrittori sovietici del 1934; pure la Achmatova (che per 13 anni non aveva scritto nulla)– riferisce alla Lidija Čukovskaja nel gennaio del 1954 – che disse severa al poeta: ”Calmati, amico mio, anche se negli ultimi dieci anni non hai scritto più niente rimani uno dei più grandi poeti europei del ventesimo secolo”, in E. Feinstein, Anna di tutte le RussieLa vita di Anna Achmatova, La Tartaruga edizioni, 2006, p. 297

(mia nota 10, p. 5)

Finisco con questa mia nota 70, p. 42:

   Nel poema La nuvola in calzoni di Majakovskij la nuvola, altrove vezzeggiata dal poeta, qui assume la figura di uno strumento di tortura. Dalla nuvola cade la pioggia perché ha (co)stretto il cielo; dal poeta cadono lacrime: è l’autoflagellazione, il masochismo di un giovanissimo uomo, è quell’Io che non sa dove sbattere la propria esistenza. Come dunque sono diverse e distinte le visioni della Natura che hanno

   Majakovskij e Pasternàk: il primo sulla Natura disse poco, non aveva nulla che potesse importargli se non asservita all’uomo per produrre; per Pasternàk la Natura assurge a fondamento della sua esistenza. (vedi a proposito la nota 12, p.10: “il ferro da stiro…”). Ma una interessante suggestione avvicina Majakovskij a Cechov a proposito dell’elettricità e del vapore. Nel 1892 esce di Cechov il  racconto satirico “La sala numero sei” che è contro la filosofia di Tolstoj, di cui da troppi anni s’era fatto influenzare. In una lettera all’amico Suvorin scrive:” La morale tolstojana ha cessato di toccarmi fino sin fondo all’anima. Ciò per il fatto che il sangue che cola nelle mie vene è sangue di mužik… Quanto alla filosofia tolstojana, ne sono stato soggiogato per quasi 17 anni! Ma ora c’è qualcosa in me che protesta: la ragione e il senso di giustizia mi dicono che nell’elettricità e nel vapore vi è più amore del prossimo che nella castità e nel rifiuto di mangiare carne.”(in “La steppa. Cechov, Garzanti 1966, p.12).  Mentre Pasternàk venererà sempre Tolstoj fino a fare dello  Živago una sorta di personaggio tolstojano del/nel secolo XX°, Cechov ha il coraggio di staccarsene; ma Pasternàk verso al fine della sua vita rimpiangerà amaramente di non aver  letto Cechov in gioventù.

    Se Majakovskij ha la consapevolezza di cantare il ferro e il vapore senza limiti, Cechov ha l’intuizione o il presagio che nella tecnica risiede il futuro e la modernità. Certo il treno a vapore viene pure cantato da Pasternàk, ma con aneliti romantici. Esenin invece  disprezza del treno l’implicita presenza del demoniaco, cioè di una forza nemica e negativa, ma questo non gli impedisce certo di usarlo.