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Natale secondo Majakovskij (1)

Per dar modo ai lettori di soffermarsi sulle particolarità con cui tre grandi  poeti russi (Majakovskij, Pasternàk,Mandel’štam)  hanno sentito e parlato del Natale  pubblico in tre puntate  le loro poesie accompagnate dal commento di Angelo Maria Ripellino e dalle note di Antonio Sagredo. [E. A.]  

di Antonio Sagredo

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Intervista ad Antonio Sagredo

Chiesa di S. Matteo a Lecce

a cura di Ennio Abate

Questa lunga intervista risale al 2015.  La considero un’intervista-duello. Da una parte ci sono le 9 domande preparate da uno come me, convinto che la poesia sia lavoro: da distinguere (non separare) da tutte le  forme (storiche) del lavoro umano. Esse mirano, perciò, a chiarire per quanto possibile le radici materiali (biografiche, storiche, geografiche,  culturali) del «fare versi». Dall’altra ci sono le risposte di Sagredo, che a volte eludono o contestano apertamente le domande; e teatralizzano una visione della Poesia come inattesa Visitatrice, che quasi sottopone a stalking il poeta («ho pregato più volte, l’anno scorso, la Poesia di non disturbarmi più… invano! L’ho pregata da quando iniziai due decenni fa»).
Il risultato mi pare, comunque, interessante: Sagredo  espone qui numerosi ricordi del suo «periodo infantile» o della sua «esperienza adolescenziale leccese-salentina»; rende note alcune fonti ispiratrici o guide della sua ricerca (Vanini, Ripellino, «il santo Federico» [Nietzsche], Tommaso Riccardo, Stirner, i formalisti russi, Andrzej Nowicki, Francesco P. Raimondi ,ecc.); esalta il cosmopolitismo culturale (novecentesco) contrapponendolo – a mio parere sin troppo – alla «mancanza d’aria» della poesia italiana; e rivendica una assoluta libertà («I miei versi sono nati nella massima e totale libertà e verità interiori, una sorta di creazione arbitraria senza zavorre culturali»).  Il lettore valuterà le ragioni delle due posizioni .

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Pasternàk, il treno… la donna…. la natura… la creazione poetica…

di Antonio Sagredo

Erenburg ha scritto nel ’22:

“In Pasternàk c’è l’entusiasmo dello stupore, l’accumulamento dei nuovi sentimenti, la forza della primordialità: in una parola il mondo dopo il diluvio, oppure dopo una settimana passata in una trincea a difendersi dai proiettili. Per rendere questa novità di percezioni Pasternàk non si interessa soltanto dell’invenzione delle parole, ma della disposizione delle parole. La magia di Pasternàk è nella sua sintassi. Una sua poesia si chiama Gli Urali per la prima volta, tutti i suoi libri possono essere chiamati: il mondo per la prima volta; essi sono in realtà un mastodontico segno esclamativo, una oooh!, che è molto più bella e convincente di tutti i ditirambi”.

. (Il’ja Erenburg, Uomini, anni, vita, op. cit., 1963, vol. II, p.55)

Attacco quasi da tregenda la prima strofa, ma che poi quasi come una valanga furibonda della natura che tutto coinvolge si espande travolgendo in un subbuglio senza fine montagne alberi ghiaccio e uomini minacciosi (le orde asiatiche che disturbano il sonno dei russi da secoli!)… la natura è sconvolta… il poeta quasi si trovasse al centro di questo caos  assiste ai primi albori mattutini: sono delle grida queste prime luci, come quelle di una donna che partorisce, per questo c’è uno sconvolgimento degli elementi… e mentre le montagne intorno si scontrano tra di loro, ecco che il treno macchia questi albori coi fumi carboniosi e tutto avviluppa di nerastro, allo stesso modo il mostro Gorynyč, sputando fuoco,  annerisce i boschi  macchiandoli di caligine… La prima strofa è stupefacente e lascia senza respiro il lettore. Forme e contenuti coincidono nello svolgersi dei vari eventi, e sono attoniti, quasi involontari protagonisti dell’evento: il parto dei primissimi bagliori di luce: il parto di Leuca! È un occhio cinematografico quello del poeta che già ben conosciamo. Dalla prima strofa: tutto viene visto da lontano, poi man mano si riducono le distanze, ed ecco : la cittadella, i massicci, gli sbuffi della locomotiva (pare che l’occhio del poeta segue la locomotiva sui binari), e ai lati paiono i boschi dare l’assalto al treno, sono incombenti, da soffocare. È un’alba liquida-catramosa che si spande ovunque e si versa, come avesse ingerito forti dosi d’oppio, o che  si danno da uno spacciatore (qui: Gorynyc, drago a tre teste che sputa fuoco, proprio come la locomotiva) a un compagno di strada. Questa droga eccita e risveglia: gli occhi sono spalancati e vedono minacciose le orde asiatiche (antichissimo mito, pauroso, tutto slavo!) che travolgono ogni cosa… e solo i pini, come monarchi e guerrieri si ergono come baluardi contro queste invasioni, e sono prìncipi villosi (le ramificazioni), vestiti di nero per la fuliggine, e che man mano il sole s’alza sull’orizzonte si colorano d’arancione per i bagliori di un sole rossastro. Sembra che si sia scampati a un incubo notturno. //// E qui, in questi versi-quadri del poeta, mi sembra di ravvisare i dipinti quasi scultorei, sfaccettati, dei quadri del pittore Nikolaj Rerich (1874-1947)… delle montagne e delle foreste russe intrise fino allo spasimo delle fiabe e dei personaggi della mitologia russa che dentro vivono, e che rivissero nei vari spettacoli dei Balletti russi di Djaghilev, dei quali fu uno dei pittori e scenografi.

(mia nota 175, p.55)

Aggiunge Ripellino:

   C’è sempre una freschezza mattinale dello sguardo. È la posa dell’uomo appena sveglio che ancora si strofina le palpebre. Non è come una certa poesia sovietica, ad esempio Sluckij:” Mi alzerò al mattino, alacre e fresco”.
   Qui c’è invece questo sonnambulismo del risveglio, risveglio che è la primordialità e la riscoperta di tutto ciò che è innocente e vero. Questa enormità fumosa, questa colata di umido, queste nubi di caligine e poi questo fuoco improvviso e la discesa della tribù di asiatici, sembra un film di Pudovkin e il movimento viene dato con semplice balenio e per questo coronamento, questa specie di balletto uralico nel gusto dei balletti di Djaghilev e della fiaba russa. (AMR – p. 55)

  Ma noi sappiamo che il treno per il poeta ha anche significato di fuga dalla vita domestica che spesso era costellata da liti, scontri verbali, come succede  in qualsiasi famiglia; e allora dalla poetessa Anna Achmatova sappiamo secondo quanto riferì alla Elaine Feistein che “quando lui (Pasternàk) litigava con la moglie prendeva talvolta il treno per Leningrado e dormiva da lei (Achmatova) sul pavimento”. In  E. Feinstein, Anna di tutte le Russie, op.cit., 2006, p. 296.
  Era l’eterno chiacchiericcio, il pettegolezzo, le dicerie malevoli che il poeta non riusciva a sopportare e che a causa loro molti poeti russi  hanno pagato con la vita questa pressione davvero terribile e che questo suo divincolarsi di continuo ha un parallelo con l’andamento irregolare dei treni: gli scarti, lo sferragliare, il cambiare binari, gli urti, ecc. (mia nota 215, p. 85)… nonostante tutto Pasternàk resta per tutta la sua vita grandemente generoso verso la donna (la donna-treno, aggiungo!)

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La morte di un poeta

Non ci credevano - che fossero fandonie,
ma lo apprendevano da due,
da tre, da tutti. Si allineavano nella riga
del suo tempo fermatosi di botto                                 
le case di mogli, di impiegati e di mercanti,
i cortili, gli alberi e su essi
i corvi, nel fumo di un sole rovente
gridavano eccitati contro le cornacchie
perché le sciocche, d’ora in avanti
non si impicciassero nel peccato.
C’era sui volti un umido spostamento,
come fra pieghe di una rete strappata.

Era un giorno, un innocuo giorno, più innocuo
di una decina di precedenti giorni tuoi.
Si affollavano, allineandosi nell’anticamera,
come se lo sparo li avesse allineati.
Come se avesse, schiacciandoli, schizzati da una chiavica
Lucci e scàrdove una deflagrazione
Di petardi riposti fra i biodi.
Come un sospiro di strati micidiali.
 
Tu dormivi, spianato il letto sulla maldicenza,
dormivi e, cessato ogni palpito, eri placido, -
bello, ventiduenne,
come aveva predetto il tuo tetrattico.
 
Tu dormivi, stringendo al cuscino la guancia,
dormivi - a piene gambe, a pieni malleoli,
inserendoti ancora una volta di colpo
nella schiera delle leggende giovani.
Tu ti inseristi in esse più sensibilmente,
perché le avevi raggiunte d’un balzo.
Il tuo sparo fu simile ad un Etna
in un pianoro di codardi e di codarde.
 
 
1930
(trad. di AMR)

  Il tetrattico è il poema La nuvola in calzoni di Majakovskij. Perché lo definì tetrattico? Così scrive nei suoi Ricordi Lilja Brik: “Majakovskij chiese a Òsip Brik  se esistesse un nome per le icone composte non di tre parti, i trittici, ma di quattro. Òsip gli rispose che ne ignorava l’esistenza, ma che nel caso potevano essere definite tetrattici”. In  Lilja e le altre”, op.cit., cap. “Lilja – Ricordi”, p. 94.  –

  Questa poesia fu scritta qualche tempo dopo la morte di Majakovskij (tutto da rivedere se fu davvero un suicidio!) ed è un attacco tremendo e estremo contro le malelingue del borghesuccio piccolo uomo sovietico. E fu il il borghesuccio piccolo uomo del tempo degli zar a causare la morte di Puskin. In “Quattro modi di morire” consiglio di ascoltare questa poesia…  l’ineguagliabile interpretazione di Carmelo Bene… questa  voce unica” davvero mette i brividi.

   Se dunque “  Pasternàk ha l’intuizione del movimento, i suoi versi sono bellissimi per la loro  trazione…. ma  le loro righe si curvano e non si possono distendere, come verghe d’acciaio. Cozzano l’una contro l’altra come vagoni di un treno che freni all’improvviso. A parte l’implicazione ferroviaria, è proprio così: i versi sono urtanti, l’uno contro l’altro. E, appunto, per questo continuo rimando e scampanellare da stazione che essi hanno, che sono “gremiti come vagoni di traslochi”. (AMR -( p. 85)

Nella poesia che inizia coi versi Mia sorella la vita anche oggi nella piena\ s’è frantumata in pioggia primaverile contro tutti,… (e che dà il titolo alla raccolta) benissimo scandisce Ripellino i tempi e i modi di questa lirica, che Pasternàk forse per renderla più quotidianamente valida affinché poi fosse egualmente compresa da tutti (nulla togliendo alle caratteristiche stilistiche tipiche della sua stessa poesia) specie dall’acqua stessa che umanizza come al suo solito -, dal chiacchiericcio filisteo e ottuso del popolino, dalla natura stessa e dai sensi umani che interagiscono; e dallo stesso treno che in Pasternàk è tutto lo spazio e il tempo mescolati per essere indissolubili… e infine dopo che tutto è presente è anche pronto ad essere accettato e identificato con l’immensa dimensione che circonda;  gli sportelli dei vagoni sparsi nella steppa significano che le vite private e quotidiane si liberano – fuggono dai vagoni in corsa verso lo spazio che viene incontro velocemente –  dal proprio intimo esistere sciogliendosi, e dunque rigenerandosi in uno spazio che non ha confini per una nuova vita… e ancora una volta è la donna ad essere la scintilla, perché anche lei è sorella della vita, come lo è il poeta che la canta!

(mia nota 270, p. 109).

 Questa poesia fu rifatta diverse volte proprio per centrare ancora meglio quei motivi che erano essenziali al poeta per poter progredire; lo slavista individua cinque motivi centrali :
1 – la vita è eguale all’ acquazzone e piena primaverile; è irrequieta e tempestosa, come l’acqua di    primavera.
2 – i borghesi hanno ciondoli e sono burberi, non capiscono le ragioni della poesia e della vita.
3 – solito tentativo di cogliere tutti gli odori e i suoni del mondo, con le narici aperte, le orecchie tese, pur passando attonito attraverso il mondo, è sempre pronto a coglierne i suoni e i colori.
4 – il treno, motivo centrale: passa, inserendosi nell’universo.
5 – il palcoscenico si allarga, alla fine, sulla vastità cosmica.

(AMR – p.109)

    E a questo punto   doverosa è una distinzione fra due grandi poeti, cioè del loro rapporto col mondo femminile, che se con Pasternàk si realizza la tangibilità dell’eterno femminino,  invece in Blok svanisce dopo una iniziale acclamazione; finirà  questi per deriderlo nei suoi lavori teatrali: Balagančik,1906,  (Il baraccone) e Neznakomka 1907,  (La Sconociuta). (mia nota 315, p. 148)

Questa donna,  che è sempre nel gusto di Pasternàk di spiritualizzare, di elevare la figura femminile che viene, come la vita stessa a prendere la vita del poeta e a soffiarne via la polvere.

(AMR – p.315)

   La donna per Pasternàk è sorgente di rigenerazione continua nonostante delle gravi crisi che dovette subire e che misero a dura prova la sua capacità creativa, infatti già nel 1925 Pasternàk dovette affrontare una crisi, ma di natura diversa, e cioè di una sorta di rinuncia alla poesia e alla prosa lirica, e di questo suo stato ne è prova una lettera (del 16 agosto 1925) che inviò a Mandel’štam; scrive: ”Ho cominciato a scribacchiare qualcosa.[…] Si tratta del ritorno al vecchio binario poetico di un treno che era deragliato e che per sei anni è restato in fondo a una scarpata. Tali sono per me Sestra, Ljuvers e qualcosa dei Temi.[…]Dai primi di gennaio scrivo a pezzi e bocconi, svogliatamente. È incredibilmente difficile. Tutto è arrugginito, frantumato, distrutto, su tutto si sono depositati strati sovrapposti di insensibilità, di ottusità, di abitudinarietà. Che schifo. Ma il lavoro è lontano dalla faccia del giorno, esattamente come succedeva a suo tempo coi nostri primi abbozzi e coi lavori più riusciti. Si ricorda? E proprio in ciò sta il suo fascino. Esso porta alla memoria il dimenticato, rafforza le riserve di energie che sembrano come rivivere”, in Poesia e vita, Lucarini, Roma 1990, p.17.

(mia nota 132, p. 32)

   Ma Il’jà Erenburg nelle sue Memorie scrive che Pasternàk era “uno dei maggiori lirici del nostro tempo”.* [e così fu celebrato da Bucharin al  I° Congresso degli scrittori sovietici del 1934; pure la Achmatova (che per 13 anni non aveva scritto nulla)– riferisce alla Lidija Čukovskaja nel gennaio del 1954 – che disse severa al poeta: ”Calmati, amico mio, anche se negli ultimi dieci anni non hai scritto più niente rimani uno dei più grandi poeti europei del ventesimo secolo”, in E. Feinstein, Anna di tutte le RussieLa vita di Anna Achmatova, La Tartaruga edizioni, 2006, p. 297

(mia nota 10, p. 5)

Finisco con questa mia nota 70, p. 42:

   Nel poema La nuvola in calzoni di Majakovskij la nuvola, altrove vezzeggiata dal poeta, qui assume la figura di uno strumento di tortura. Dalla nuvola cade la pioggia perché ha (co)stretto il cielo; dal poeta cadono lacrime: è l’autoflagellazione, il masochismo di un giovanissimo uomo, è quell’Io che non sa dove sbattere la propria esistenza. Come dunque sono diverse e distinte le visioni della Natura che hanno

   Majakovskij e Pasternàk: il primo sulla Natura disse poco, non aveva nulla che potesse importargli se non asservita all’uomo per produrre; per Pasternàk la Natura assurge a fondamento della sua esistenza. (vedi a proposito la nota 12, p.10: “il ferro da stiro…”). Ma una interessante suggestione avvicina Majakovskij a Cechov a proposito dell’elettricità e del vapore. Nel 1892 esce di Cechov il  racconto satirico “La sala numero sei” che è contro la filosofia di Tolstoj, di cui da troppi anni s’era fatto influenzare. In una lettera all’amico Suvorin scrive:” La morale tolstojana ha cessato di toccarmi fino sin fondo all’anima. Ciò per il fatto che il sangue che cola nelle mie vene è sangue di mužik… Quanto alla filosofia tolstojana, ne sono stato soggiogato per quasi 17 anni! Ma ora c’è qualcosa in me che protesta: la ragione e il senso di giustizia mi dicono che nell’elettricità e nel vapore vi è più amore del prossimo che nella castità e nel rifiuto di mangiare carne.”(in “La steppa. Cechov, Garzanti 1966, p.12).  Mentre Pasternàk venererà sempre Tolstoj fino a fare dello  Živago una sorta di personaggio tolstojano del/nel secolo XX°, Cechov ha il coraggio di staccarsene; ma Pasternàk verso al fine della sua vita rimpiangerà amaramente di non aver  letto Cechov in gioventù.

    Se Majakovskij ha la consapevolezza di cantare il ferro e il vapore senza limiti, Cechov ha l’intuizione o il presagio che nella tecnica risiede il futuro e la modernità. Certo il treno a vapore viene pure cantato da Pasternàk, ma con aneliti romantici. Esenin invece  disprezza del treno l’implicita presenza del demoniaco, cioè di una forza nemica e negativa, ma questo non gli impedisce certo di usarlo.

Il treno in Pasternàk: gli incontri, il destino,

Astapovo Station

1)

    L’infanzia di Pasternàk  ha come una ferita, come una folgore la presenza di Tolstòj. Non solo, ma anche l’andare su e giù dei treni alla stazione mentre Tolstòj muore nella stanzioncina influirà su tutta la poesia di Pasternàk. Il treno è tolstòjanamente uno dei problemi centrali della poesia di Pasternàk, il problema delle stazioni, dei razsluki, degli addii, il problema della ferraglia che cozza, delle vetture che si urtano l’una con l’altra; è quasi un riflesso del destino e quindi un lontano riflesso di Anna Karerina.

    Pasternàk tramite il padre, famoso pittore, conosce un gran numero di pittori da Vrubel’ a Serov a Vacnecov, conosce scrittori come Gorkij, artisti stranieri, come il poeta fiammingo Verhaeren, che frequenta la sua casa e a cui spesso il padre fa il ritratto.

   Scrive Pasternàk: ” Nel 1913 Verhaeren era a Mosca. Mio padre gli fece un ritratto. …io gli chiesi timidamente se avesse sentito parlare di Rilke. Non pensavo che Verhaeren lo conoscesse. È il migliore poeta d’Europa, disse Verhaeren, lo considero il mio fratello prediletto”, in Boris Pasternàk – Autobiografia. op. cit. p.44.

(AMR – Corso su Pasternàk del 1972\73. pp.10-11)

   Rilke un giorno si recò a Jasnaja Poljana da Tolstoj. Ecco che il circolo si raccorda, tutto viene a chiudersi nella vita con raccordi. Scese dalla stanzioncina dove l’aspettava la carrozza mandata dai Tolstoj. Comunque Rilke era in stretto rapporto con la famiglia Pasternàk, si scriveva con il padre, fu ritratto dal padre, regalò al padre le prime raccolte, che poi furono lette da Pasternàk (padre) che conosceva il tedesco perfettamente, quasi quanto il russo. Rilke colpì la fantasia del giovane Pasternàk così come lo aveva colpito la lettura delle poesie di A. Blok.  Mentre diceva che Blok era il poeta della città, cioè di Pietroburgo; Rilke era per lui “il secondo grande lirico del secolo”, dopo Blok

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 Emil Verhaeren (1855-1916); un filo rosso lega questo autore a Tolstòj attraverso il padre di Boris Pasternàk, amico di entrambi… la morte per treno, il 27/11/1916, del poeta belga e del personaggio Karenina. Verhaeren, che aveva cantato la città ferrigna  sarà celebrato da Majakovskij,  di cui a proposito scrive in Tenebre (Mrak,1916): “Oggi il cielo se l’è presa con Verhaeren./ Il cielo avrà pensato: /Dai/ che te lo sistemo io!/ Santoiddio,/e chi scriverà adesso?/ Scebuev, forse?.” Essendo quest’ultimo un mediocrissimo giornalista.

(mia nota 37, p. 10)

Il treno in Pasternàk si fonde con la Natura. Con le rocce alpestri della Svizzera (in Esenin è in contrasto), quando entra nella città di Marburgo si fa medievale, come Marburgo [1] stessa, cioè il treno aspira a fondersi con le cose (a differenza di Tolstòj e di Esenin dove il treno è creazione del diavolo e nemico.

(AMR , idem, p. 11)

——

Il treno  in Majakovskij è differente: è rumore, tecnica, modernità… tutto fa pensare che nulla  sia legato a un destino, a una fatalità; e invece così il poeta risponde a Galina Katanjan (una sera di marzo 1926 a Tiflis), la quale gli aveva detto che la sua poesia  A casa  le ricordava alcuni versi di Esenin; e allora Majakovskij: ”… resta a lungo in silenzio, rigira nervoso un bicchiere con del vino rosso e con voce bassa, più a se stesso che a me (declama i suoi stessi versi:)…e, baciando le ginocchia delle traversine,/lieve/mi abbraccerà il collo la ruota d’una locomotiva”. Ecco che cosa mi ricordano quei versi (di Esenin), bimba mia”, in Lilia e le altre, op.cit. p. 178.  – I versi citati sono gli ultimi tre del prologo della Tragedia in due atti : V. Majakovskij [che il curatore di questo Corso tradusse nel 1971 (o 1973? ), stimolato proprio da Ripellino, poi che si pensava di metterla in scena, dopo la prima esperienza teatrale; vedi nota 2, p.3]. La sensazione che adesso possa toccare a lui di morire è netta, quasi un presagio già presente dal tempo giovanile della tragedia nel1913!. Mentre nella poesia Amore dello stesso anno, era stata quasi una “giocoleria”  la locomotiva: “Una fanciulla timidamente si imbacuccava in un pantano,/dilagavano sinistramente i motivi delle ranocchie,/nelle rotaie vacillava un rossiccio qualcuno,/e con aria di rimprovero con riccioli passavano le locomotive”.  Anche quando Majakovskij cita dei versi di Puškin, il riferimento è diretto a se stesso, al suo stato mentale e psicologico esasperato: ”Puškin è un poeta geniale, dato che ha scritto: La mia sorte è segnata, lo so,/ma perché la vita abbia un futuro/la mattina debbo essere sicuro/che prima di sera vi rivedrò”, in Lilia e le altre, op.cit. p. 246. Da ricordare che il pittore Vasilij Cekrygin muore giovanissimo, a 25 anni, per incidente ferroviario. Con Majakovskij si era incontrato la prima volta nel 1912; nacque subito un sodalizio artistico tra i due. (mia nota 39, p.11).

(mia nota 37, p. 11)

——

Ma il punto di partenza è sempre Tolstòj; questi treni che vanno su e giù davanti alla stanzioncina di Ostapovo significando la grandiosità, la dilatazione dimensionale della Russia di fronte alla morte di quest’uomo, l’indifferenza del ferro manovrato dagli uomini di fronte allo scrittore che si spegne.

(AMR , idem, p. 11)

——–

Come tutto questo contrasta con le stazioni e i treni di Delvaux (1897-1994), che niente hanno di grandiosità se non la fissità, ma viceversa stazionano fermi, immutabili, silenziosi, come statue greche, quasi che osservandoli si possa pensare ai loro sogni, ai loro misteri, insomma sono carichi dei simboli della staticità metafisica! (quasi come le statue di De Chirico); si può dire che non amano il movimento e il frastuono, ma la rêverie di cui discute Gaston Bachelard.

(mia nota 40, p. 11)

   C’è un viaggio nell’infanzia di Pasternàk che è importante ed è del 1900, quando il padre porta tutta la famigliola per l’estate a Odessa. Sono quelle famose partenze delle famiglie russe che Stanislavskij ha così ben descritto ne La mia vita nell’arte, quando si preparavano ceste, cestini, gerle piene di cibo e di vestiti e di medicine e di pillole e di canfora e di tolù e di sciroppi, che rappresentavano questa dolcezza patriarcale perduta.

   Il viaggio di Pasternàk è descritto ne Il salvacondotto e c’è il treno, quindi. Alla stazione incontrano un signore tedesco che parlava anche in russo, che è accompagnato da una signora “ che io non so chi fosse” dice Pasternàk  in  Ochrannaja gramota. Ma è facile saperlo. In treno questo signore – ricorda il bambino Pasternàk – viene a visitare nello scompartimento tutti i Pasternàk, compreso lui. Questo signore è il poeta tedesco Rainer Maria Rilke, la donna era evidentemente Lou Andreas Salomè

(AMR , idem, p. 11)

Stazione

Stazione, cassaforte incombustibile
dei miei congedi, incontri e congedi,
amica provata e mia guida,
a cominciare - non si finirebbe mai nel dire i tuoi meriti.
 
 
Accadeva che tutta la mia vita fosse  - in una sciarpa,
bastava che fosse bloccato alla banchina il convoglio,          
ed emanavano fuoco le museruole delle arpie,
velandoci gli occhi col vapore.
 
 
Accadeva che mi sedessi accanto - (a qualcuno)               
ed ero spacciato. Mi accostavo  e mi staccavo.
Addio, è tempo, mia gioia.
Adesso salterò giù, conduttore.
 
 
Accadeva che l’occidente si aprisse
nelle manovre delle intemperie e delle traversine
e si mettesse ad afferrare fiocchi,
per non finire sotto i respingenti.
 
 
E si placava il fischio ripetuto,
e di lontano ne echeggiava un altro,
e il treno spazzava per le banchine
con una sorda bufera di neve dalle molte gobbe.
 
 
Ed ecco ormai il crepuscolo non ne poteva più,
ed ecco ormai dietro il fumo
si scatenavano il campo e il vento, -
oh, se anch’io fossi nel loro numero!
 
 
1913-1928

(trad. AMR)

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Questa poesia descrive anche  puntigliosamente il desiderio del poeta a voler far parte: o della bufera naturale che imperversa tra treni e vagoni e binari e traversine o di quella che la locomotiva, coi suoi sbuffi continui e fischi laceranti, e i treni, incrociandosi in moto, provocano, suscitando scompiglio anche nella sua mente: tutta questa identificazione è evidente nell’ultima strofa.

La distinzione tra Majakovskij e Pasternàk è per tante tematiche, marcata. (ancora una volta ho la sensazione che tra Pasternàk e Petrarca ci siano valide affinità: la cameretta come unica finestra di dove osservare il mondo…, p.e.). Tolstoj e Pasternàk vanno d’accordo, e come non potrebbe esserlo, anche sulla locomotiva, da entrambi vista qualche volta come congegno infernale; da Majakovskij (che sempre ha deriso Tolstoj nei suoi versi e nella prosa) è simulacro circense, folle (= sinonimo di rossiccio). Nella poesia Amore del 1913:  “il rossiccio qualcuno” è un pagliaccio qualsiasi; il treno: le locomotive hanno riccioli di fumo, (cfr. il treno in  Tolstoj e in Blok). Anche nella tragedia Vladimir Majakovskij (vedi nota2, p.3; e nota 39, p.11)  ci sono le locomotive e le vaporiere : “mi abbraccerà il collo la ruota di una locomotiva”, foriera anche in lui di disgrazie: non ci si può togliere dalla testa la fine di Anna Karerina e del primo poeta urbano, Emil Verhaeren. (vedi note 37 e 39, p.11).

    Il treno in Delvaux è monumento a un mito statico, quasi d’oltretomba¸ metafisica è la fissità di una locomotiva ancorata ad una stazione!

    Per la Cvetaeva, che non faceva altro che spostarsi da occidente a oriente e viceversa alla ricerca vana di una pace, il treno invece d’assumere sembianza di qualcosa in movimento, è apparentemente fermo… fisso è il viaggiatore sulla stazione poi che  partenza e arrivo sono attimi di staticità assoluta: è il dubbio angoscioso del partire oppure no che, appunto, ti pietrifica! E te ne stai fisso là, sulla stazione, e non sai se vi saranno incontri o congedi, arrivederci o addii: questo è anche la Cvetaeva!

   Che per Esenin il treno sia qualcosa di demoniaco non sorprende più di tanto: è visto dal poeta come un bisturi che taglia e sminuzza la sua campagna russa, quindi contro la tradizione rurale-pastorale: è dunque qualcosa che distrugge irreversibilmente, da cui non si può più tornare indietro.

   L’intento  del poeta Pasternàk:” Mi era necessario che soltanto una poesia contenesse la città di Venezia e che in un’altra fosse racchiusa la stazione di Brest, oggi stazione della Bielorussia e del Baltico”. Poi spiega la poesia:”…in lontananza, in fondo a binari e banchine, si levava nelle nubi, nel fumo, l’orizzonte d’addii della strada ferrata, oltre il quale scomparivano i treni; e dentro di sé racchiudeva la storia dei legami degli uomini, e incontri e commiati e avvenimenti di prima e di poi”. In B. Pasternàk-Autobiografia, Feltrinelli, 1967, pp. 67-68.    La quarta strofa forse allude al fatto che alla stazione di Brest avvengono alcune manovre: i binari in Russia hanno una carreggiata più stretta e allora bisogna sostituire le ruote, sollevando uno per uno tutti i vagoni e poi si riparte. /// Nel Corso al secondo verso della seconda strofa è scritto appiantato, che sta per fermato, fissato (da preferire bloccato) come se il convoglio non potesse assolutamente muoversi, andare

(mie note 139,140,141,142,143,144 – p. 37)


Mandel’štam e Pietroburgo

Anna Ostroumova-Lebedeva, “Pietroburgo. Canale Krjukov”. 1910

 

di Antonio Sagredo

   Angelo Maria Ripellino iniziò il corso monografico (1974-75)  su Osip Mandel’štam con la poesia Leningrad (1930), affidando a questi versi un simbolo universale: non solo il destino personale del Poeta e della Poesia stessa, ma la testimonianza di un’epoca sordida, un’epoca di lupi, di sciacalli, di menzogne, di delazioni, di tradimenti… tutto ciò che di terribile dentro vi ribolliva, che le generazioni future avrebbero ereditato fino ai nostri giorni… per ritrasmetterle. Continua la lettura di Mandel’štam e Pietroburgo

Riordinadiario 2013. Una polemica su Tolstoj

di Ennio Abate

Nel dicembre 2013 ebbi modo di leggere questo saggio: L. Tolstoj Le memorie di un folle, nel frattempo comparso sulla Rivista di psicologia analitica  (qui). Me l’inviò, chiedendomi un parere, l’autore, un certo Baio della Porta, pseudonimo di uno studioso che preferiva non rivelare la sua identità anagrafica. La mia reazione fu  di sconcerto, tanto trovai esasperata e ipersoggettivistica la sua dissacrazione del narratore russo. E risposi con questa lettera polemica di cui non mi pento neppure oggi. Non sono in grado di riportare direttamente il saggio su Poliscritture; e, per farsi  un’idea  precisa delle critiche a Tolstoj di Baio della Porta,  il lettore dovrà  andare al link che ho indicato.  [E. A.]
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La disgrazia dell’espressionismo

Intervista di Ezio Partesana a Tiziano Marasco sopra il romanzo di Vladislav Vančura Campi di grano e campi di battaglia

Pubblico questa bella intervista che rafforza l’attenzione verso un autore importante e dimenticato sul cui nome, grazie ad Antonio Sagredo, anche Poliscritture ha cominciato (qui) a togliere la polvere. [E. A.]

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Segnalazione. Poesia e Rivoluzione

 

Per sfuggire ad ogni apologetica, per cogliere la *tragedia*, per non temere i denigratori della Rivoluzione russa pronti ad azzannarci con il loro “avete visto cosa hanno combinato i vostri rivoluzionari?” (qui), per non edulcorare la coppia «poesia e comunismo» cui ha accennato Massimo Raffaeli parlando di Fortini (qui)…Sì, dobbiamo saperlo le rivoluzioni *fanno male*. Ai poeti e non solo ai poeti. Ma anche a voler badare soltanto alla poesia, ci sarebbero stati questi grandissimi poeti senza la Rivoluzione russa?[E. A.]

Poesia e Rivoluzione
Ricordando Mandel’stam, Achmatova, Pasternak e gli altri: un’intervista a Serena Vitale in occasione del centenario.
A cura Nicolò Porcelluzzi
http://www.iltascabile.com/letterature/poesia-e-rivoluzione/ Continua la lettura di Segnalazione. Poesia e Rivoluzione

Letture pubbliche di poesia: servono alla poesia?  

moltinpoesia Laboratorio

Sintesi intervento alla Casa della Poesia Milano 21 marzo 2006

 di Luca Ferrieri

 Pubblico  un’antologia  dei materiali più significativi circolati nel LABORATORIO MOLTINPOESIA. [E. A.] 

 

La domanda a cui vorrei tentare di rispondere, nel breve spazio di dieci minuti, è la seguente: sulla strada di una diffusione della cultura poetica e della ricerca di un pubblico della poesia (con tutta l’ambiguità insita in questa espressione e in questa volontà) le letture pubbliche, i reading, pos­sono essere uno strumento utile? e in questo caso a che condizioni? Continua la lettura di Letture pubbliche di poesia: servono alla poesia?