Poliscritture

Poliscritture cambia il pelo ma non il vizio

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di Luca Ferrieri

La rivista Poliscritture compie otto anni e con l’occasione ha deciso di rifarsi il look e di svecchiare (almeno un po’…) il sito. Un cambiamento di forma che, come sempre, è sostanza. E che dobbiamo in gran parte al lavoro del nostro webmaster Domenico Porco (@coreadelnerd). Grazie.

In alto trovate la testata con una nuova rielaborazione del primo logo ideato da Ornella Garbin e successivamente ritoccato da Sara De Vincenzo. A destra un’immagine che periodicamente cambierà, perché il vestito nuovo di Poliscritture seguirà, a modo suo, i mutamenti delle stagioni (politiche e culturali). Si comincia con un disegno di Ennio Abate, che al lavoro di organizzatore e redattore della rivista ha sempre affiancato quello di illustratore grafico e commentatore visuale attraverso i suoi disegni e dipinti. Le “categorie” – elencate qui a destra – sono i contenitori metaforici o visionari in cui incaselleremo i nostri post.  Sono le stesse della rivista cartacea, con gli stessi titoli e sottotitoli esplicativi: le abbiamo lasciate così com’erano, anche se sono poco fotogeniche per il web, e le ragioni forse vi saranno più chiare alla fine di questo post.Questo sito è più social, più leggibile (speriamo), tecnicamente più sgamato, ma non necessariamente “alla moda”. Lo vedete confrontandolo con i vecchi siti (qui e qui).  Poliscritture è nata per seminare e alimentare dei saperi critici, resistenti, a volte inattuali e apparentemente anacronistici. Siamo uomini e donne del nostro tempo, nel nostro tempo siamo immersi e sommersi, ma lo spirito dei tempi non è la nostra religione: lo vogliamo leggere e interpretare contropelo, sapendo che di solito chi lo scrive o cerca di scriverlo è il vincitore di turno. E che la verità e la giustizia sono le “eterne fuggiasche dal campo dei vincitori” (Simone Weil).

Per questo accettiamo volentieri tutte le innovazioni della comunicazione, tutte le diavolerie del mondo 2.0 (e non potremmo non farlo, direte voi), ma tutte le passiamo al setaccio delle nostre petulanti domande e puntiamo il dito su ogni link: e questo a cosa serve, e perché?, a chi giova? e chi paga?, e …”furono proprio i re a strascicarli quei blocchi di pietra?”, come si chiedeva il sempre giovane Brecht nelle sue Domande di un lettore operaio, tradotte dall’indimenticabile (per noi) Franco Fortini.

Pur provenendo – chi più chi meno – dal secondo Novecento, vogliamo essere dei poliscrittori aperti ai problemi del ventunesimo secolo. Pensiamo che chi costruisce la conoscenza, ogni giorno, nei luoghi di lavoro, di transito, di conflitto, di consumo, debba essere proprietario dei relativi mezzi di produzione. Siamo contro la proprietà privata della conoscenza, i lucchetti globali che i padroni del mondo vogliono imporre alla circolazione delle idee, ad esempio attraverso il regime di proprietà intellettuale basato sui brevetti, sul copyright, sui monopoli.

Un numero sempre inferiore di persone, aziende, gruppi finanziari, prende decisioni che coinvolgono ed espropriano una massa sempre più grande di altre persone, in una cornice di democrazia formale che è diventata la pantomima della democrazia reale. E i decisori non sono quasi mai i più competenti e titolati. Mentre la conoscenza, grazie alla grandi battaglie di democrazia e di alfabetizzazione del secolo scorso, si è relativamente diffusa, la ricchezza si è sempre più concentrata. Il neoliberismo ha aumentato a dismisura il processo per cui i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, sbriciolando in questa forbice i cosiddetti ceti medi. Tutti i rapporti sociali e politici del passato stanno cambiando con velocità impensabile e sono da ripensare con nuove lenti. Forse non c’è più una classe che ha da perdere solo le proprie catene, come la classe operaia a cui pensava Marx. E sicuramente non ce n’è più una, una sola, che spezzandole romperà anche quelle degli altri. Ci sono però sempre più persone che sono sfruttate come ai tempi dell’accumulazione capitalistica originaria, o forse più, e che, unendosi, possono cambiare lo stato presente di cose.  Persone spesso ridotte a uno stato di moderna schiavitù. Costrette non solo a subire, ma a scegliere, di propria apparente volontà, un’esistenza in cui la nuda vita prevale in ogni senso sulla vita buona.

Noi che non scaliamo i consigli di amministrazione non scaleremo quindi nemmeno le classifiche dei motori di ricerca (che sono prodotte da un algoritmo nient’affatto neutrale). Ci interessa che quello che facciamo, scriviamo e leggiamo, sia a sua volta letto, riscritto e praticato da altre persone. Queste persone oggi abitano i luoghi di discussione della rete come un tempo si riunivano nelle piazze; comunicano con tweet, post e sms come un tempo con i ciclostili di quartiere. La scomparsa della sfera pubblica ha popolato il web.

Ma non per questo prendiamo per buona la retorica della rete come migliore dei mondi possibili. Non per questo abbocchiamo alla macchina narcisistica del signor Zuckerberg (un altro che, passando dai garage alle suite, ha fatto propria la visione rapace del mondo). Né pensiamo che un “mi piace” o un “non mi piace” sia tutto quello che abbiamo da dire e il resto viene dal demonio. Le origini anarchiche di Internet si sono perse nella notte dei tempi: se vogliamo difendere la libera e critica (due aggettivi per noi indissolubili) circolazione di idee, dobbiamo combattere i veri predoni che oggi infestano la navigazione sulla rete, impongono pedaggi, censurano, truffano, falsificano, sniffano, spammano, bannano, trollano e bùfalano. E che non sono certo i cosiddetti pirati o hacker, portatori al confronto di un’etica quasi francescana.

Per esempio, in questo post ho parlato mille volte di comunismo senza nominarlo mai (anche perché la parola, non la cosa, è finita sotto le macerie del XX secolo). Così i motori di ricerca sono serviti: il comunismo non sarà indicizzato. Ma voi che leggete metteteci un tag, un link, un commento, e questo spettro  gaudente e beffardo si farà un altro giro di danza, e non solo sul web. Grazie a Poliscritture.

 

2 pensieri su “Poliscritture cambia il pelo ma non il vizio

  1. Ciao Ennio (e tutti gli altri),

    I bastioni della città sono anneriti ormai come denti marci, le radici snudate con i colletti esposti alla fastidiosa aria che fa saltare eppure c’è attività febbrile lì intorno. Si raccolgono macerie, le si riutilizzano per costruire altro, un nuovo non ancora organizzato ma che avrà significato solo nel futuro.

    Buon Lavoro!

  2. …condivido del tutto il discorso di Luca Ferrieri, ma vorrei soffermarmi un attimo sulla bellissima immagine di apertura, che mi sprofonda in una realtà così assoluta e primordiale, come il firmamento, la luna, il mare…antichissima, poi c’é l’uomo, realtà recente, e i cellulari che scattano fotografie, realtà recentissima. C’é poi qualcuno che avrà scattato il tutto…realtà che non si disturbano tra loro, coscienze sempre più ampie

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