2.
“AM STIL HERE”
di Ennio Abate
a Elosia d’Orsi che ha fotografato il cielo di Gaza
Abitare le rovine.
Mangiare defecare dormire tra le rovine.
Conservare negli occhi il dolore di prima delle rovine
e quello di dopo.
Aggiungere il tuo silenzio a quello delle rovine.
Inchinarsi davanti alle rovine.
Appoggiare il corpo dei vivi sulle rovine
come fosse una poesia e una speranza.
Restare caparbiamente
coperta
cucchiaio
pecora
specchio
bimbo
giovane
adulto
anziano
donna
tra le rovine.
Ascoltare il lamento e il suggerimento delle rovine
mentre diventano il nostro passato.
3
SEGNALAZIONE: VARI MATERIALI SUL DRAMMA DI GAZA SULLA RIVISTA “GALATEA”
http://www.galatea.ch/
Ho trasferito qui le segnalazioni dei giorni precedenti inserite sotto il post “Peggio dei nazisti”.
[E. A.]
Ennio Abate
7 settembre 2014 alle 0:28
SEGNALAZIONE: 31 luglio. Nessuno protesta più
( Tratto dalla rivista UNA CITTA’: http://www.unacitta.it/newsite/articolo.asp?id=976)
“Cosa sente un pilota quando sgancia una bomba da una tonnellata su un’abitazione civile?”, “Mah, appena una piccola scossa all’ala del jet”. Così Dan Halutz rispondeva nel 2002, anno in cui era comandante delle forze aeree israeliane, a un giornalista che lo intervistava su un episodio che quell’anno aveva suscitato molto sdegno, in Israele: il lancio sull’abitazione di un capo di Hamas di una potentissima bomba che aveva ucciso quattordici civili, di cui otto bambini. Lo ha ricordato Yuli Novak, che dodici anni fa serviva l’Idf come ufficiale delle forze aeree, in un contributo pubblicato sul Guardian del 28 giugno. “Un’affermazione che a un civile suona fredda e distaccata. Ma per noi, Halutz era un’autorità morale. Lui prendeva le decisioni etiche, a noi spettava l’esecuzione tecnica”. Come tanti coetanei, la Novak si era ritrovata appena ventenne a dover convivere con un fardello di immani responsabilità morali. Come non provare un senso di colpa per quella carneficina? L’Idf aveva provato a difendere la legittimità dell’operazione, ma l’opinione pubblica aveva reagito con orrore all’assassinio deliberato di piccoli innocenti. Infine l’Idf si era anche scusata, riconoscendo l’errore. “Ero assolutamente convinta che l’esercito avesse un fondamento morale e che quello fosse stato un incidente isolato”. Oggi che l’eccezione e l’errore sono diventati la norma, prosegue Novak, è sparita l’indignazione. “In quest’ultima operazione abbiamo già sganciato cento bombe da una tonnellata sulle case di Gaza, ma adesso nessuno, nell’esercito, sente più il bisogno di chiedere scusa”. (theguardian.com)
ro
7 settembre 2014 alle 7:43
«Siamo indisponibili»
La manifestazione del 13 chiederà in particolare che siano sospese le esercitazioni dell’aviazione israeliana in programma a Teulada tra un mese. «Vogliamo — scrivono gli organizzatori — che la Sardegna diventi un’isola di pace e che il suo territorio sia indisponibile per le esercitazioni di guerra, di qualunque esercito (compreso quello italiano) e sia interdetto a qualunque attività o presenza connesse con chi usa la guerra per aggredire altri popoli o per crimini contro i civili, colpendo case, ospedali, scuole, rifugi per sfollati. Chiediamo che la Sardegna sia immediatamente e per sempre interdetta all’aviazione militare israeliana».
*
Sabato della prossima settimana a Capo Frasca, nel cuore del poligono di Teulada, i movimenti sardi hanno convocato una manifestazione contro le servitù militari e per il blocco immediato di tutte le esercitazioni militari nell’isola.
Proprio a Capo Frasca l’altro ieri intorno alle 15, durante uno dei giochi di guerra dell’esercito, lo scoppio di un proiettile di artiglieria ha innescato un grosso incendio che ha distrutto trentacinque ettari di macchia mediterranea di grande pregio. Per spegnere il rogo sono intervenute le squadre a terra del Corpo di polizia forestale con l’aiuto di un elicottero.
Il personale del poligono si è rifiutato di accompagnare le squadre, com’era stato loro richiesto per evitare le aree a rischio. I forestali sono comunque entrati, ma si sono dovuti ritirare quando ci sono state nuove deflagrazioni (proiettili lasciati inesplosi sul terreno) ad appena cinquanta metri dai mezzi di soccorso.
A quel punto, per non correre inutili rischi, il lavoro di spegnimento è andato avanti, ovviamente con ritardo, solo con l’elicottero.La notizia dell’incendio è stata data non
dall’esercito (che anzi ha tentato sino all’ultimo di smentire e di minimizzare) ma su Facebook dal deputato Mauro Pili, ex presidente dirigente di Forza Italia ed ex presidente della Regione, oggi leader di una formazione di centrodestra, Unidos, fuoriuscita dal partito berlusconiano.
Da Roma il governo minimizza
L’episodio ha riacceso la polemica sulle basi (l’isola sopporta il 65 per cento delle servitù presenti nell’intero territorio nazionale). «È inconcepibile — ha detto il presidente della Regione Sardegna Francesco Pigliaru — che la giunta abbia scoperto da fonti non ufficiali che un grave incidente fosse avvenuto a Capo Frasca nel corso di una esercitazione militare. È altrettanto inconcepibile che la conferma reale delle dimensioni dell’incendio sia arrivata solo dopo l’intervento degli uomini del Corpo forestale, e che il ministero della Difesa, da noi interpellato, abbia parlato di un piccolo incendio già domato quando invece l’elicottero del Corpo forestale è stato in azione sino alle 18.30, cinque ore dopo che un proiettile aveva innescato il fuoco». Pigliaruha denunciato, come già aveva fatto nel corso della conferenza nazionale sulle servitù militari che s’è tenuta lo scorso 18 giugno a Roma, gli alti rischi con cui i sardi sono costretti a convivere per della massiccia presenza di poligoni militari. E ha ripetuto che tra le richieste presentate alla Difesa «c’è quella di prolungare il blocco delle esercitazioni, anticipando l’inizio al primo giugno e posticipando la conclusione al 30 settembre. In particolare il problema riguarda proprio il poligono di Capo Frasca, dove il blocco delle esercitazioni è il più breve: solo luglio e agosto».
Troppi silenzi e menzogne
Pigliaru ha poi chiesto al presidente del consiglio regionale una convocazione straordinaria dell’assemblea per discutere del caso.
Dura e allarmata la presa di posizione di Michele Piras, deputato di Sel : «L’incendio a Capo Frasca è la dimostrazione del rischio costante che si corre nelle aree interessate da esercitazioni militari. Mi auguro che sull’accaduto si apra immediatamente un’inchiesta che ne chiarisca le cause e individui i responsabili. Un danno duplice: quello ambientale e quello all’attività turistica».
Infine, il pressing su Pigliaru: «Chiedo che ora il presidente della Regione sbatta i pugni sul tavolo del ministro Pinotti. La Sardegna dal 1956 ad oggi ha già dato troppo agli interessi della Difesa e dell’Alleanza atlantica. È giunta l’ora di cambiare radicalmente il senso di marcia». L’ex presidente della giunta regionale, Ugo Cappellacci (Forza Italia), ha chiesto le scuse ufficiali del governo e le dimissioni della Pinotti.
Indipendentisti e non solo
La manifestazione di sabato 13 è organizzata da diverse sigle pacifiste e indipendentiste (A manca pro s’indipendentzia, Sardigna natzione, Comitato Gettiamo le basi, Comitato Su giassu e Comitato Su sentidu). «Invitiamo tutto il popolo sardo, le associazioni, i partiti e i comitati — scrivono in un documento diffuso nei giorni scorsi — ad aderire e a partecipare alla giornata di mobilitazione del 13 a Capo Frasca per pretendere il blocco immediato di tutte le esercitazioni militari e la chiusura di tutte le servitù militari, con la bonifica e la riconversione delle aree interessate. L’occupazione militare della Sardegna è un sopruso che dura da sessant’anni e che non siamo più disposti a tollerare. Col passare del tempo lo stato italiano intensifica il ritmo e il peso delle esercitazioni militari. La Sardegna è ridotta ad un campo di sperimentazione militare in cui diventa lecita qualsiasi soglia di inquinamento e viene testata qualsiasi tecnica di sterminio. È giunto il momento di dire basta».
«Siamo indisponibili»
La manifestazione del 13 chiederà in particolare che siano sospese le esercitazioni dell’aviazione israeliana in programma a Teulada tra un mese. «Vogliamo — scrivono gli organizzatori — che la Sardegna diventi un’isola di pace e che il suo territorio sia indisponibile per le esercitazioni di guerra, di qualunque esercito (compreso quello italiano) e sia interdetto a qualunque attività o presenza connesse con chi usa la guerra per aggredire altri popoli o per crimini contro i civili, colpendo case, ospedali, scuole, rifugi per sfollati. Chiediamo che la Sardegna sia immediatamente e per sempre interdetta all’aviazione militare israeliana».
*
Oltre quella del 13 settembre nella base di capo Frasca, altre manifestazioni sono in programma in Sardegna contro le servitù militari. Si comincia oggi alle 10 al poligono di tiro del lago Omodeo, a Sorradile, per contestare le attività di esercitazione del centro di addestramento della polizia che ha sede ad Abbasanta. La manifestazione è organizzata dalle comunità che si affacciano sul lago.
«Parteciperemo insieme ad amministratori e cittadini per chiedere la chiusura immediata di un poligono che ha bloccato ogni tipo di investimento turistico», annunciano gli indipendentisti di ProgReS-Progetu republica sarda, il movimento che alle ultime regionali, quelle del 16 febbraio scorso, ha sostenuto la candidatura a presidente della scrittrice Michela Murgia. «Saremo presenti per difendere il nostro territorio dagli abusi sconsiderati di chi crede di poter disporre a proprio piacimento delle nostre risorse, perché crediamo in un modello alternativo a quello delle servitù, che finora si è rivelato fallimentare, con ricadute negative sia sotto il profilo economico e sia sotto quello culturale».
ProgReS sarà anche alla manifestazione del 13 settembre. «A Capo Frasca metteremo il primo passo di una grande mobilitazione popolare che nessuno potrà più ignorare o far finta di non vedere», avverte ProgReS.
Capo Frasca è un poligono di tiro sulla costa occidentale della Sardegna, utilizzato dalle aeronautiche e dalle marine italiana, tedesca e Nato per esercitazioni di tiro a fuoco aria-terra e mare-terra. Ci sono situati impianti radar, eliporto e basi di sussistenza. Occupa una superficie a terra di 14 Kmq e impegna un’ampia «area di sicurezza» a mare interdetta alla navigazione. Le ricadute sul territorio comprendono il divieto di esercitare la pesca e la presenza di ordigni inesplosi in mare e in terra.
Un’altra giornata di protesta è organizzata dalla rete PesaSardigna, alla quale aderiscono associazioni, partiti e comitati che il 24 agosto scorso si sono riuniti a Cagliari nella sede della Carovana sarda della pace per invitare alla mobilitazione in occasione della prima udienza del processo per disastro ambientale a carico dei comandanti dell’aeronautica militare che si sono alternati alla guida del poligono interforze del Salto di Quirra: un presidio è previsto davanti al tribunale di Lanusei martedì 23 settembre, giorno in cui comincia il processo.
La base di Quirra è la più grande d’Europa. E’ divisa in due sottosistemi: un poligono a terra, con sede a Perdasdefogu, dove si trova il comando, e un poligono a mare, con sede a Capo San Lorenzo. Il primo occupa una superficie di 12.000 ettari per tutta la zona del Salto di Quirra che, dai confini sud orientali del comune di Perdasdefogu arriva sino ai margini della baia di Capo San Lorenzo. Il secondo, invece, occupa una superficie di 2.000 ettari e si estende per cinquanta chilometri lungo il tratto sud orientale della costa sarda compreso fra Capo Bellavista e Capo San Lorenzo.
«Chiamiamo i sardi a dichiararsi contrari all’utilizzo della Sardegna per scopi militari e industriali-bellici, estranei agli interessi del popolo sardo», è l’appello lanciato da rete PesaSardigna. «Chiederemo, attraverso un incontro con il presidente del consiglio regionale della Sardegna, che tutti i consiglieri si costituiscano parte civile al processo di Lanusei, per portare anche davanti ai giudici la posizione di assoluta contrarietà dei sardi alla presenza dei poligoni militari»
Costantino Cossu
In sardegna la guerra è un disastro
Il Manifesto, 6 settembre 2014
Non potendomi permettere un’analisi tecnica nel nostro Ennio Angiolieri rispetto alle correnti dominanti, “come” fu il suo antenato Cecco rispetto ai vari Alighieri, prendo spunto dal nuovo slogan, pardon pardon volevo dire titolo di questa poesia di Abate, per “riprendere” uno dei fili precedenti (e su questi fili e non solo rinnovo in anticipo umile perdono agli avi, nonna in primis, del poeta Ottaviani)…
in apertura e chiusura di questo mio intervento, la domanda può essere identica:
lo slogan precedente “israele peggio dei nazisti”, sarebbe andato ” meglio” nelle nostre (non)conversazioni se quel peggio fosse stato semplicemente “come” i nazisti? parimenti ai nazisti? alla pari dei nazisti? o senza i nazisti, con un come riferito ai mille e più assassini o criminali di Stato?
In fin dei conti, per “come” sono andate (cioè per come non sono andate) le cose fra le diverse posizioni degli intervenuti nelle pagine precedenti, chi voleva sostenere che la Storia ha dato già il suo punto massimo di “peggio”, anche se voleva sostenerlo tirando in ballo argomentazioni solide e fondate su altre questioni dialettiche/retoriche, ha ottenuto il suo arroccamento e tutti gli altri profughi..clandestini della Storia, come uno scudetto di altre serie minori, o in fuori gioco, o espulsi per non rimanere in tema…
A questo punto mancano varie anime e oggetti, fra le quali sicuramente un “transit” che fermamente e/o timidamente si è fatto vivo qui e là con la sua gloria poetica e fra gli oggetti del nostro contemporaneo Angiolieri, non mancano le gemelle del peggio delle rovine, ovvero le macerie.
Il servizio di Elena d’Orsi potremmo nominarlo, come un Leone a Venezia, “Sacro Pal” tanto come, per compiere un’altra sigizia o coppia o gemellaggio, per queste di Elena mancano invece tutte le foto cancellate di The Indipendent. Quattordici cartelle da un mega ognuna, salvate su un pc di un mio amico, col quale ci chiedevamo proprio ieri, come la nota lobby avesse colpito nella ennesima azione a margine (protettivo?) su tutti i servizi occidentali, vuoi a titolo preventivo (vedi tutti i nostri nuovi eserciti mercenari della società mediatica tradizionale o dei “nuovi” media), vuoi a titolo successivo.
In pratica, “come” esiste il negazionismo, non poteva mancare, sempre per le leggi della sigizia, ciò che ho definito con un mio “slogan” il negasionismo….e chi si è fermato alla storia del passato per individuare il peggio di questa o quella azione criminale, non ha molto compreso che ciò che accade è già accaduto in mille e infinite forme, e che ciò che è accaduto se portato all’assoluto del male si ripeterà in un suo peggio in mille e infinite forme, in palestina e ovunque nella geografia e nella storia.
Ovviamente noi tutti qui siamo mezzi mediterranei e mezzi mittel europei , dunque dovremmo almeno in teoria, se non in pratica (visto che alcuni di questo blog vorrebbero invitare altri a rimanere in tema con argomentazioni mega-logico-intellettuali), ecco dovremmo essere curiosi di tutto per sapere sempre “meglio” come i potenti hanno gettato il mondo nel caos, per poterne ordinare lo schema nella continuità militare-economica- energetica del nostro spazio più vicino (fino anche agli pseudo corridoi umanitari, comprese le migliaia di cadaveri “marini”, tali che né un cristiano né un ateo, né un musulmano né un ebreo, che si dicano tali possano più andarsi a fare un bagno con i morti in una amena vacanza in sicilia o a malta, in tunisia o a pantelleria).
Ma dall’ucraina alla siria, dal libano alla libia, alcuni rivendicano che si è usciti fuori tema, altri cercano di barcamenarsi, e altri ancora stanno in silenzio e chi rimane col cerino in mano, sia esso un razzetto o un profugo in una bagnarola, è il solito Cecco sloganatore.
A volte, questo nostro poeta, laddove stizzito segnalava ai lettori (poeti come lui o più semplicemente suoi “simili”) che nessuno di loro era intervenuto con suoi pensieri o segnalazioni su questa o quella pagina o post o tema, ho pensato che non ne aveva il diritto e che doveva solo regalare, senza alcun cenno o nulla in cambio da parte di tutti gli altri che semplicemente lo leggono o che addirittura si dicono a lui amici, o grati, o riconoscenti. Tuttavia in questo caso non la penso così, perché non è il nostro Ennio Angiolieri ad essere in qestione: questo Cecco (che non è il papa Ceccone con i suoi discorsetti da bacio perugina) , questo Angiolieri, la sua voce o il suo corpo o i suoi scritti, semplicmente incarna un profugo millenario, ebreo errante compreso, di un “immigratorio globale” fra cui Gaza e tutto il vicino mediterraneo è il nostro punto geografico-storico più vicino dallle premesse della prima guerra mondiale al condominio militare globale di oggi. S’io fossi profugo, non è così condizionale.
Siamo macerie con i ricordi delle nostre rovine. Chi nel peggio di queste(gaza), chi nel meglio. Fra questi secondi noi, che abbiamo ancora un acquedotto che ci dà da bere, fra i primi loro che non hanno nemmeno più lacrime per dissetarsi.
SEGNALAZIONE: NOAM CHOMSKY, QUEI CESSATE IL FUOCO INCESSANTEMENTE VIOLATI. COME ANDRÀ A FINIRE PER ISRAELE, HAMAS E GAZA?
E tuttavia si tratta solo dell’ultimo di una serie di cessate il fuoco raggiunti in seguito alle eriodiche escalation nell’incessante aggressione israeliana a Gaza. I termini di accordi come questo restano sempre, essenzialmente, i medesimi. In un secondo momento, lo schema di comportamento seguito di norma da Israele è quello d’ignorare qualsiasi accordo in vigore, mentre Hamas lo rispetta — come del resto Israele ha ufficialmente riconosciuto — fino al momento in cui un’impennata nella violenza da parte di Israele finisce per stimolare una risposta da parte di Hamas, seguita da un ulteriore crescendo di brutalità. Escalation come queste — che in poche parole equivalgono a sparare ai pesci in un barile — nel gergo israeliano vengono normalmente definite “tosatura del prato”. A dire il vero la più recente è stata meglio descritta da un alto ufficiale dell’esercito statunitense — disgustato dalle pratiche adottate dal sedicente “esercito più morale del mondo” — come “rimozione del soprassuolo”.
[…]
Operazione Margine Protettivo
Le cose sono andate avanti più o meno così fino all’aprile del 2014, quando è successo qualcosa d’importante. Le due principali formazioni politiche palestinesi — Hamas, con la sua base politica a Gaza, e l’Autorità Palestinese in Cisgiordania, dominata da Fatah — hanno firmato un’accordo unitario. Hamas ha fatto concessioni importanti. Il governo d’unità non avrebbe ospitato nessuno dei suoi membri o alleati. In sostanza, come osserva Nathan Thrall, Hamas ha affidato il governo di Gaza all’AP. Migliaia di uomini delle forze di sicurezza dell’AP vi sono stati inviati, e l’AP ha disposto le proprie guardie lungo i confini e alle frontiere, senza alcuna posizione di reciprocità per Hamas nell’apparato di sicurezza della Cisgiordania. Infine, il governo di unità ha accettato le tre condizioni a lungo richieste da Washington e dall’Unione Europea: la non-violenza, il rispetto degli accordi passati, e il riconoscimento di Israele.
Questo ha scatenato la furia d’Israele. Il suo governo ha dichiarato d’un tratto che avrebbe rifiutato ogni accordo col governo d’unità, cancellando i negoziati. Una furia accresciuta quando gli Stati Uniti, insieme alla maggior parte del resto del mondo, hanno manifestato il loro sostegno al governo d’unità.
Ci sono delle buone ragioni per cui Israele si oppone all’unificazione dei palestinesi. Innanzitutto il conflitto Hamas-Fatah ha fornito un utile pretesto per rifiutare d’impegnarsi in negoziati seri. Del resto come si può trattare con un’entità divisa? E, cosa ancor più significativa, per più di vent’anni Israele si è impegnato a separare Gaza dalla Cisgiordania, in violazione degli Accordi di Oslo siglati nel 1993, che dichiarano Gaza e la Cisgiordania un’unità territoriale inseparabile.
Uno sguardo alla mappa ne spiega bene il movente. Separata da Gaza, qualsiasi enclave cisgiordana lasciata ai palestinesi non avrà accesso al mondo esterno. Si ritrovano schiacciati fra due potenze ostili, Israele e la Giordania, entrambi stretti alleati degli USA — e per sfatare qualsiasi illusione in proposito, gli Stati Uniti sono molto lontani dall’essere un “mediatore onesto” e neutrale.
Inoltre Israele sta sistematicamente prendendo possesso della Valle del Giordano, scacciando i palestinesi, stabilendo insediamenti, costruendo pozzi, insomma facendo tutto il necessario per assicurarsi che la regione — circa un terzo della Cisgiordania, con gran parte delle sue terre coltivabili — finisca per essere assorbita da Israele insieme alle altre regioni di cui il Paese si sta impossessando. Ecco perché i rimanenti cantoni palestinesi finiranno completamente imprigionati. La loro unificazione con Gaza interferirebbe con questi piani, che risalgono agli albori dell’occupazione, e hanno stabilmente goduto dell’appoggio delle principali formazioni politiche, incluse figure solitamente raffigurate come “colombe” del calibro dell’ex presidente Shimon Peres, uno degli architetti degli insediamenti nel profondo della Cisgiordania
[…]
Alcuni commentatori israeliani ben informati, e in particolare l’editorialista Danny Rubinstein, ritengono che Israele si stia preparando a invertire la rotta, allentando la sua presa su Gaza.
Vedremo.
L’esperienza degli ultimi anni sembra prospettarci esiti diversi, e i primissimi segnali non sono certo di buon auspicio. Con la fine dell’Operazione Margine Protettivo, Israele ha annunciato la più vasta appropriazione di terra in Cisgiordania da trent’anni a questa parte, quasi mille acri. La radio israeliana sostiene che l’occupazione è in risposta all’omicidio dei tre adolescenti ebrei da parte di “miliziani di Hamas”. Come rappresaglia per l’omicidio, un ragazzino palestinese è stato bruciato vivo, ma nessun terreno israeliano è stato consegnato ai palestinesi, né alcuna reazione c’è stata quando un soldato israeliano ha ucciso Khalil Anati, dieci anni, lungo una silenziosa stradina del campo per rifugiati vicino Hebron, il 10 agosto — cioè mentre l’esercito più morale del mondo stava facendo a pezzi Gaza — per poi andarsene via a bordo della propria jeep mentre il bambino moriva dissanguato.
Anati era uno dei ventitré palestinesi (inclusi tre bambini) uccisi dalle forze d’occupazione israeliane in Cisgiordania mentre l’offensiva di Gaza era in corso — stando alle statistiche compilate dall’ONU — insieme a più di duemila feriti, il 38 per cento dei quali da colpi di arma da fuoco. “Nessuno di coloro che sono rimasti uccisi stava mettendo a rischio le vite dei soldati”, ha scritto il giornalista israeliano Gideon Levy. Non c’è stata alcuna reazione di fronte a nessuna [di queste morti], così come non ce ne sono state quando Israele ha ucciso, in media, più di due bambini palestinesi ogni settimana nel corso degli ultimi quattordici anni. Nonpersone, per l’appunto.
Ormai da ogni parte si tende a sostenere che, se l’accordo per i due stati è ormai morto in seguito all’occupazione delle terre palestinesi, l’esito finale sarà quello di uno Stato a ovest del Giordano. Fra i palestinesi c’è chi accoglie questa possibilità, in vista di una campagna per i diritti civili sul modello di quella contro l’apartheid in Sud Africa. Molti opinionisti israeliani avvisano che il rischio di un “problema demografico” — rappresentato dal superiore numero di nascite fra gli arabi rispetto agli ebrei, e dalla diminuzione dell’immigrazione degli ebrei — finirà per minare alle fondamenta la loro speranza in uno “stato ebraico democratico”.
Ma questa diffusa convinzione è quanto meno dubbia.
L’alternativa realistica all’accordo per due stati è che Israele continui a portare avanti i piani che ha seguito per anni, appropriandosi di ciò che è di valore in Cisgiordania, evitando concentrazioni di popolazione palestinese, e rimuovendo i palestinesi dalle aree che integra in Israele. E questo dovrebbe impedire il realizzarsi del temuto “problema demografico”.
[…]
Al pari degli altri stati, Israele usa la “sicurezza” come giustificazione per le proprie azioni violente e aggressive. Ma gli israeliani informati sanno bene come stanno veramente le cose. La loro comprensione della realtà è stata espressa chiaramente nel 1972 dall’allora Comandante dell’Aeronautica (in seguito presidente) Ezer Weizmann. Fu lui a spiegare che non ci sarebbe alcun problema di sicurezza, se Israele accettasse la richiesta internazionale di ritirarsi dai territori conquistati nel 1967, ma in quel caso il paese non sarebbe più in grado di “esistere con quelle proporzioni, con quello spirito e con quelle qualità che adesso incarna”.
Per un secolo la colonizzazione sionista della Palestina è andata avanti innanzitutto in base al principio pragmatico di un’azione silenziosa sul campo, che poi il mondo deve abituarsi ad accettare. Una politica di grande successo. Non c’è motivo di aspettarsi che non prosegua fin quando gli Stati Uniti continueranno ad offrire il loro necessario sostegno militare, economico, diplomatico ed ideologico. Per quelli che si preoccupano per i diritti della brutalizzata popolazione palestinese, non può esserci altra priorità che lavorare per cambiare la politica degli Stati uniti, cosa certo non impossibile.
L’articolo si legge per intero qui: http://www.huffingtonpost.it/noam-chomsky/cessate-il-fuoco-violati-come-finira-per-israele-hamas-gaza_b_5810312.html?utm_hp_ref=italy
…a volte non riusciamo a ruotare di tre gradi il nostro pensiero, arroccati a certezze, sostenuti dalla logica, da precise argomentazioni… e poi, ecco, la vita, il destino o, più spesso, altri uomini, ci impongono i trecentossessanta gradi, come fossimo solo delle trottole su perni instabili, e quando riapriamo gli occhi il cosmo “ordinato” é sparito. Restano le macerie. Chi può vederle, come nelle foto mostrate, rivendica il suo esserci,
…ma “é il mio cuore il paese più straziato”…
Non so, Annamaria cara, quanto e come vivermi ” i gradi” del tuo pensiero/ intervento riferibili anche al mio di ieri. Non voglio e non potrei darmi tutta questa controcertezza e importanza… so solo che vivo le cose della storia più lontana, sia nel tempo sia rispetto alla mia personale, fino a quella mediamente recente o più vicina, come la mia più ampia storia; al di là che io sia o non sia stata in un lager passato o contemporaneo, al di là che io sia stata sterminata in un modo o in un altro, cacciata da questa o quest’altra terra o sotto il mare, io sento di essere fatta di tutte queste rovine e macerie. Ritengo che la libertà esterna / sociale / statale / economica non esista , e che sia stata una truffa storica da almeno due secoli, perché l’unica, forse, possibile, è quella interiore, quella stessa che mi fa gioire per un fiore o la musica, l’arte o l’amore e che identica determina l’ascolto di quello “strazio” con cui concludi. Non perché sia importante il proprio sentire rispetto all’infinito crollo della storia sulla testa o il costato di una percentuale quasi vicina al 100 per cento, ma in questo caso perché non vi è bisogno, al nostro sconfinato ego, per quello “strazio”, di aver vissuto tutti i muri e tutte le macerie del mondo. Basta la tua storia, basta il tuo crollo, per vivere addosso al tuo petto, le storie di tutti gli altri. E ancor più dovrebbe bastare sia che il tuo crollo sia meglio, sia a maggior ragione che sia peggio, qualunque sia il riferimento del primo o del secondo.
Non credo sia questione di cultura in senso lato, non credo sia questione intellettuale. Basta semplicemente la visione e l’ascolto in una mobilità urbana o aerea, extraurbana o ferroviaria, di aspecifica meta-psicomotricità della vita, chiamata trasporto . Abban-doni la tua pelle e a volte il tuo tempo, avanti e indietro, per entrare in quella di un altro e di un altro ancora tastando i muri, o quel che ne rimane in una rovina.
Mi spiace non avere il talento e l’arte di un Transit o di un Leopoldo Attolico ( vedi la sua del post successivo) per dirti, cara Annamaria, in un modo o in un come, che tanto gusto nell’altro proprio, perché a me presente nel ricevere e quasi del tutto assente nel sapermi esprimere. Se puoi immagina ciò che ti ho voluto dire nei loro registri e nella loro arte.
un caro saluto
rò
ec
.. che tanto gusto nell’altro, proprio perché….
…Cara Ro, ti sbagli, ti sai esprimere e come…penso di averti capito fino in fondo, anche se non ho le parole per fartelo capire: a mia volta penso di non sapermi esprimere. A volte un modo così concentrato, intenso e, lasciamelo dire tu che lo neghi, poetico di esprimersi come il tuo può disorientare, ma ho imparato, ed é un po’ che ti conosco, ad andare al nucleo di quanto dici…e sempre mi sorprende per quel nostro incrociarsi di sguardi non facile oggi, di cui parlasti in un intervento precedente. Siamo tutti talmente profughi, e questo crea la nostra, e non solo, empatia…Un caro saluto
Annamaria
Annamaria cara, anch’io all’inizio leggendoti rimanevo disorientata. Non afferravo il tuo stile così equilibrato rispetto al mio, ma soprattutto rispetto alla tua concreta e autentica compenetrazione nei poveri cristi o diavoli che siamo sempre stati. Quando, però, poi, lo specchio, sempre più limpido di te, rimandava queste fughe , tanto come adesso il contrappunto che hai scritto, è emerso tutto il sacro contenuto nel suono profugo che ti portavi addosso come lo strazio del nostro amico Giuseppe. Non ci sono parole per dirti grazie, grazie di aver messo così a fiore e a frutto i paesaggi dello strazio dei nostri cuori. Grazie per l’ascolto che mi hai dato che non credo sia potuto avvenire solo per la mia musica ed è proprio per questo che ti dico grazie. Il tuo orecchio è speciale, dotato di ascolto di vasto repertorio del tocco dell’essere.
un caro saluto ancora…
rò
…ancora più disorientata dai tuoi complimenti, di dico grazie, grazie, ma é troppo…con tutto la mia ammirazione
Annamaria
Oscurata dalle notizie sulla Invencible Armada che si sta costruendo contro lo Stato Islamico, Gaza è sparita dalle cronache e le devastanti conseguenze nella Striscia dei bombardamenti israeliani sono trattate come un disastro naturale al quale si vuole dare una risposta solo in termini umanitari. Eppure si respira ancora il clima pesante di un nuovo conflitto alle porte – ieri il generale della riserva Yaacov Amidror spiegava le prossime mosse contro Hamas sul sito del Centro strategico BESA -, non solo a sud, anche al confine con il Libano. Domenica un anonimo alto ufficiale israeliano, durante un tour per giornalisti nei pressi delle linee con il Paese dei Cedri, ha lungamente descritto la “pericolosità” di Hezbollah e le minacce da eliminare. Le sue parole sono state fin troppo chiare e i media locali e internazionali non hanno mancato di riportarle con evidenza. E quando le guerre sono vicine non si tollerano opinioni diverse, soprattutto se espresse all’interno del Paese. Lo sanno bene i 43 riservisti dell’unità di intelligence 8200 che sono stati sommersi da attacchi giunti da ogni direzione per aver dichiarato in una lettera di non volere più “operare” contro la popolazione palestinese. E lo indica la lista di proscrizione stilata dall’“Iniziativa Amcha”, un’associazione statunitense di sostegno a Israele, che fa nomi e cognomi di oltre 200 docenti di università americane che gli studenti sono chiamati a boicottare ed evitare perchè esprimono posizioni “contrarie allo Stato ebraico”.
«Hezbollah ci pensa da anni», ha detto ai giornalisti l’alto ufficiale del comando settentrionale delle forze armate israeliane, avvertendo che la prossima guerra in Libano comprenderà attacchi transfrontalieri e lanci di razzi contro Israele. A suo dire Hezbollah tenterà di condurre un’incursione di terra allo scopo di prendere il controllo di alcuni centri abitati vicini al confine, forse Rosh Hanikra, anche se solo per un tempo limitato. I combattenti di Hezbollah potrebbero provare ad entrare anche via mare, ha aggiunto. L’ufficiale israeliano ha fatto riferimento a tunnel sotterranei che il movimento sciita potrebbe avere scavato lungo il confine, simili a quelli usati da Hamas a Gaza, anche se poi ha ammesso che ad oggi l’esercito non ha trovato alcuna galleria. «Non sarebbe difficile per (Hezbollah) effettuare un attacco nel nord. Non ha bisogno di scavare tunnel per raggiungere Misgav Am (un kibbutz al confine con il Libano, ndr)…E’un gruppo che ha un totale di 30.000 uomini. Per noi non sarebbe una battaglia contro una divisione dell’esercito siriano, piuttosto ci troveremo di fronte solo a un paio di centinaia di combattenti che effettuano incursioni», ha poi aggiunto per ridimensionare le potenzialità di Hezbollah.
Poi l’ufficiale è arrivato al punto cruciale: l’attacco preventivo per distruggere le armi del nemico e impedirgli di portare a termine i suoi presunti piani di invasione. «Se decideremo di effettuare un attacco preventivo e catturare territori nel sud del Libano – ha avvertito — Hezbollah probabilmente non riuscirà nel suo intento. Se gli ordini saranno di non attraversare la linea blu (il confine Israele-Libano, ndr) Hezbollah potrebbe essere in grado di infiltrarsi in territorio israeliano». La guerra, ha voluto far capire, è solo questione di tempo ma si farà, per distruggere le armi in possesso del movimento sciita contro il quale Israele ha già combattuto una guerra otto anni fa, con esiti disastrosi per il Libano e i suoi cittadini (oltre 1200 morti) dopo la cattura da parte di Hezbollah di alcuni soldati dello Stato ebraico durante una azione lungo il confine.
La distruzione dei razzi è la priorità dichiarata dai comandi israeliani. Hezbollah, dicono, avrebbe aggiunto al suo “arsenale” il Burkan (Vulcano) a corto raggio (7 km) con una testata, anche di una tonnellata, che potrebbe rappresentare una seria minaccia per le postazioni dell’esercito nel nord di Israele e costringere alla fuga le popolazioni dei centri abitati nei pressi del del confine. All’ombra della guerra di Barack Obama contro lo Stato Islamico (e non solo), si prepara la guerra “preventiva” di Israele contro Hezbollah.
Michele Giorgio
Dopo Gaza il Libano
Il Manifesto, 15 settembre 2014
Quando nel 2008 venne confermata la notizia che Mahmud Darwish era morto a Houston rimanendo sotto i ferri nel corso di una operazione a cuore aperto, lo scalpore per la scomparsa di un poeta che allora aveva poco più di sessantasei anni (era nato infatti al al-Birwa nel 1942) fu tutt’uno con il venir meno, nel senso comune, di una figura che da tempo veniva associata alla tragedia del popolo palestinese e prima ancora a una modalità di canto frontale, magnanimo e pienamente dispiegato, che lo assomigliava volentieri a Neruda o a Garcìa Lorca, dunque a un autore per cui dire «io», modulare la voce secondo un’attitudine lirica, poteva equivalere al «noi» e all’epica di una collettività ferita e umiliata.
Anche in Italia, nonostante venisse recepito in sedi normalmente periferiche (per esempio nella silloge La mia ferita è lampada ad olio, De Angelis 2006, o nel collettivo In un mondo senza cielo: antologia della poesia palestinese, Giunti 2007, entrambe curate da una studiosa benemerita quale Francesca Maria Corrao), la scheda di Darwish poteva dirsi acquisita e si sapeva infatti che egli era uno dei maggiori poeti di lingua araba, che era vissuto a lungo in Israele (nei termini di un sans papiers, subendo a lungo carcere e arresti domiciliari), che era stato membro dell’esecutivo dell’Olp e nel ’67, dopo la Guerra dei sei giorni, un esponente della «letteratura di giugno», nonché, successivamente ai massacri in Libano del 1982, un esule in Francia e in Tunisia. Era anche noto, da una pubblicistica che riferiva delle sue precise e a volte discusse posizioni sulla occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele dopo gli accordi di Oslo, che Darwish, pur essendo divenuta una star internazionale, era tornato a risiedere tra Amman e Ramallah. Ma se pochi erano stati necessariamente i lettori dei suoi versi, non molti di più possono tuttora annoverarsi da noi i lettori della sua produzione memorialistica e pubblicistica che di quei versi medesimi costituisce il sostrato ovvero il palinsesto itinerante.
Per questo è un’ottima notizia, anzi una azione editorialmente esemplare, l’uscita di Una trilogia palestinese(prefazione e cura di Elisabetta Bartuli, traduzioni di Elisabetta Bartuli e Ramona Ciucani, Feltrinelli «Comete») che di Mahmud Darwish raccoglie le maggiori prose di intervento e riflessione. Non si tratta propriamente di scritti politici, se non pensati per via figurata o indiretta, e nemmeno si tratta di semplici digressioni di poetica, ma piuttosto di un personale zibaldone che, muovendosi nello spazio e nel tempo (vale a dire dentro una vicenda segnata prima dalla subalternità reietta poi da una esclusione presto divenuta aperta persecuzione), focalizza sia la mozione sia i tramiti e la destinazione del suo pensiero poetico. Il volume si compone di tre testi in prosa unitamente a una partitura in versi, Il giocatore d’azzardo, che ne rappresenta sia un successo a livello internazionale (perché Darwish da ultimo leggeva negli stadi, essendo ormai incapienti i teatri per la sua ricezione dal vivo) sia un vero e proprio testamento scritto nei modi di un poema autobiografico che ne ritraccia il percorso e, insieme, ne suggella la voce inconfondibile, quella di un bardo suo malgrado o, meglio, di un poeta dai sentimenti lievi e struggenti ma costretto dalla calamità dei tempi a essere un poeta epico.
Accomuna i testi in prosa la traccia autobiografica, ora in evidenza ora invece straniata e tradotta o rivissuta in figure allegoriche. Il Diario di ordinaria tristezza (1973), scritto da un Darwish appena trentenne, è il diagramma di un terribile apprendistato, il curriculo di un figlio della Nakba (la disfatta palestinese che nel ’48 coincide con la nascita dello Stato di Israele), l’apprendistato di un paria e nello stesso tempo di un esule nella sua stessa terra, il verbale di un ragazzo senza patria né destino, di un uomo deprivato persino del sentimento della nostalgia, il quale scrive con grande limpidezza: «La patria non è soltanto terra, ma terra e diritto insieme. Tu hai il diritto, loro hanno la terra. Dopo essersi impadroniti della terra con la forza, hanno cominciato a parlare di diritto acquisito. Il loro ‘diritto’ era storia e ricordi ed è diventato terra e forza. E tu, senza forza, hai perso la storia, la terra e il diritto».
Sono queste le parole di un poeta ancora dichiaratamente engagé ma che si appella tuttavia alle ragioni dell’universalismo illuminista, agli ideali della libertà individuale e della eguaglianza sociale, temendo, o ignorando deliberatamente, i contraccolpi e i contenziosi d’ordine etnico e religioso (vale a dire arabi contro ebrei, il Corano contro la Torah) che oggi schermano la natura del conflitto e spesso lo travisano in una metafisica identitaria.
Accusato da più parti di avere receduto o abiurato dalla sua pratica di militante, il poeta che scrive Memoria per l’oblio (1987), la seconda tranche accolta nel volume di Feltrinelli, è colui che non solo in astratto ma per necessità, avendone pagato il prezzo in prima persona e scrivendo dell’invasione e delle stragi a Beirut del 1982, da un lato mantiene salda la convinzione che quella israeliana sia una politica bellicista e colonialista (con evidenti venature razziste, antiarabe e islamofobe), ma dall’altro distingue nettamente, senza mai confonderle, le nozioni di «ebraismo», «sionismo», «stato di Israele» e «governo di Israele» (proprio quando pochi rammentano che da ormai quarant’anni, con brevi intervalli, a Tel Aviv è egemone una destra sostenuta da ideologie etnocentriche e fanatismo religioso). Darwish peraltro sa benissimo che sono stolti e sommamente pericolosi coloro che gabellano per antisionismo un sottaciuto e sostanziale antisemitismo ma sa altrettanto che non lo sono meno, stolti e pericolosi, coloro che gridano all’antisemitismo ogni volta che sono avversate le scelte rovinose dei governi di Israele che da decenni mantengono il popolo palestinese in regime di cattività e di perpetua rappresaglia militare.
L’ultima stagione del poeta, antipode rispetto alla violenza tellurica ma anche al virtuale ottimismo del suo esordio militante, è caratterizzata dalla introiezione e dalla compiuta metabolizzazione della figura dell’Altro, che è sì l’occupante, il nemico, ma non più soltanto il nemico se non nella misura in cui quest’ultimo rigetta il fatto di essere un uomo senza possibili aggettivi mentre accetta viceversa il ruolo della pedina in armi, della smemorata figura di persecutore, della accecata comparsa e di complice nella disumanizzazione delle vittime designate. In presenza d’assenza (2006), cento pagine incandescenti a sfida della traduzione di Ramona Ciucani che ne insegue il passo precipite e gli snodi repentini, sono di poesia-pensiero allo stato puro, laddove il pensare e poetare si danno come un testamento in cui configgono e si scoprono reciprocamente necessari «ebraismo» e «palestinità», memoria della antica persecuzione e denuncia di un’altra e incombente persecuzione spesso agita come un riflesso condizionato.
Qui il pensiero della poesia fa tesoro, senza nulla confondere in termini di storia geografia, di una comune humanitas e del fatto che avere subìto violenza e vessazione non immunizza, di per sé, l’ex vittima dal prodigarla altrui con cecità e cinismo. Alla fine, per Mahmud Darwish, il «tu» non è tanto l’istituzione più convenuta della poesia ma il pronome fatale di un riconoscimento compresente, e si direbbe consustanziale, di Sé e dell’Altro. Costoro, entrambi, non possono scampare alla condizione di mutuo riconoscimento, di accettazione della propria specificità e perciò dal computo spietato degli errori e delle colpe rispettive. Tale computo, fra israeliani e palestinesi, non è affatto a somma zero (purtroppo lo sappiamo), ma un passaggio del poema terminale di Darwish, Il giocatore d’azzardo, indica comunque una insperata direzione: «O amore, cosa sei? Quanti tu sei / o non sei? O amore. Scatena su di noi / tempeste di suoni affinché diventiamo / quell’incarnazione celeste che ami per noi, / riversati in un condotto che trabocca da ambo i lati, / poiché tu – evidente o latente – non hai forma / e noi ti amiamo quando amiamo per caso. / Tu sei la fortuna degli infelici».
Massimo Raffaeli
Zibaldone Palestinese
Alias,21 settembre 2014
…cara Ro, mi sembra notevole che i due ultimi poeti da te segnalati: Mahmud Darwish, di cultura araba, e Lars Gustafsson, di cultura ebraica, indichino la stessa insperata direzione a chi é solo, disperato e perseguitato…il primo suggerisce di immettersi in quella corrente ascensionale di amore( “quanti tu sei?) che “scatena su di noi /tempeste di suoni…/riversati in un condotto che trabocca da ambo i lati…amiamo per caso/tu sei la fortuna degli infelici…
Il secondo poeta ci suggerisce uno “strano esperimento”: più persone dovranno porsi a distanza sulle rive di un lago perfettamente calmo e gridare”qui” a più voci distinte , sinchè non diventeranno una voce sola…il suono, in questo caso, diventa una vibrazione tutta interiore che trapassa la campana di metallo e spezza il ghiaccio…
Sì Sì Sì !, Annamaria cara…come al solito nel tuo pieno ascolto di ogni voce, hai sentito la polifonia delle due diverse traiettorie portate dal vento, senza il quale il suono non poteva raggiungere a più voci, un solo bersaglio: la tua, la mia o altrui conchiglia laddove non venga ridotta, da una partigianeria integralista, a semplice e tecnico apparato uditivo senza cassa di risonanza del (a)mare …in poesia è necessario prendere posizione, altrimenti la stessa morirebbe, così come infatti seguendo le regole del mercato e dei facili ascolti, è avvenuto. Ciò, peraltro non significa, almeno a mia opinione, non seguire i temi principali, che in musica sono semplicissimi, fatti al massimo di due o tre note, nonostante gli spartiti sembrino talmente affollati di note tempi e modi, da risultare quasi indecifrabili . In parallelo , nell’accostamento dei due autori in questione, su registri diversi, la conchiglia viene colpita e immagazina identico (a)mare…
appoggiando la tua madreperla alla mia, ti saluto caramente…buona settimana
rò
ps
è per lo stesso opposto “motivo”, che ho detto la mia nei post precedenti su Gaza. Chi non ha ancora compreso che la questione palestinese è identica a quella ebraica, come ma anche peggio(visto che i senza terra avevano avuto tutti i secoli per imparare a non toglierla ad altri e a non produrre su altri gli stessi tormenti in forme e lager diversi), non ha purtroppo ancora afferrato fino in fondo le atrocità fatti agli ebrei come a tutta l’umanità, quindi non è ancora pronta ad afferrare come si è ripetuta questa Storia, nelle varie “minoranze” eliminate prima o da eliminare adesso e dopo ancora, come ai Palestinesi così ad altri come a tutta l’umanità. Il mare di cui al precedente commento deriva da indentici “laghi”(fondali, onde, sale, scogli e spiagge, etc tutto compreso).
…telegrafo senza fili…lentissimo.
Ro, dal fondo del(l)'(a)mare ricambio bacio conchiglia…Annamaria
…SEGNALAZIONE: 31 Luglio Nessuno protesta più…
I militari sono divenuti insensibili
all’orrore di compiere stragi
su obiettivi civili?
Nessuna briciola di umanità?
Ma certo la solidarietà va alle sorelle armi,
impugnate, abbracciate, sposate…
Così avviene la conversione
in uomini-robot,
corpi carne e ossa mutanti
in metallo pesante e piombo fuso,
il guscio coriaceo di anime svaporate.
Buono per l’industria delle armi
le mani senza tremore…
ciao Annamaria, innanzitutto complimenti per il testo di forte denuncia perché è proprio questo il punto “industriale” del tutto, che non dovrebbe per nulla dividere, ma unire come minimo comune denominatore su cui, con alcune/i,non siamo riusciti a intenderci . E’ strano davvero che dopo almeno due decenni ( ma anche prima c’erano le avvisaglie) in cui la storia ha dimostrato la finzione del dividersi in una barricata destra e nell’altra cosiddetta sinistra, così via altre ancora e infinite barricate, debba ripetersi questa divisione di tutti contro tutti, profittevole e redditizia solo per chi in alto conduce certe danze, perrennemente soddisfatto del divide et impera alimentato in basso dalle stesse pecorelle….E’ molto molto “politica” la tua apertura o titolo che dir si voglia, una segnaletica peggio di un semaforo gigantesco che ti costringe a fermarti senza nemmeno avere il rosso o l’arancione. Eppure, se ancora non abbiamo imparato che abbiamo regalato la nostra terra agli americani, vuoi che al volo ci capiamo su chi l’ha rubata ad altri?
Ti faccio un altro parallelo , sempre centrando il tuo bersaglio, perché è sempre dello stesso tipo. Pensa a chi in questi giorni sta occupando il suo tempo, nelle metro o nei bar, in famiglia o in ufficio, parlando con terrore dei nuovi terroristi. Pochissimi hanno imparato che tale “novità” è solo per rendere ancor piu docili le pecorelle . Il loro “assenso ” ad essere protette da questo o quel cattivone, è facile ottenerlo. E armati fino ai denti, per proteggerti, oltre che rendere obese sempre le stesse d’industrie di morte, segnano anche la tua morte…perché basta ripetere un giorno si e l’altro pure che i terroristi sono fra noi, o che si arruolano dalla scozia al veneto, per andare a combattere in questa o quella siria o iraq, che autorizzi ” il potere”, di questo o quello stato del far west europa, a sospettare di tutti, a dare un ‘accelerata alla disintegrazione sociale gia in corso dagli anni 70 a oggi, a poter reprimere le più legittime manifestazioni ( da quelli rimasti senza niente a no muos o no tav etc etc) in nome della sicurezza contro il terrorismo . Però, gli stessi che anche qui fra noi, magari firmano appelli o vanno in manifestazione contro gli f35 e si sono divisi sempre qui fra noi rivendicando non si sa bene più quale nazismo maggiore di altri che non lo sarebbero , oppure non si sabene quale costituzione, quale democrazia, ebbene con tutta la conoscenza della letteratura o della Storia che hanno , vogliono rimanere ciechi anche a questo tuo (ultimo?, penultimo?) “segnale”..e i signori della morte andranno avanti aiutati da quelli che fischiettano ritornando dallo zio tom o da quelli che mentre recitavano il mitico compromesso storico, andavano meglio a svendere il nostro paese ai signori della morte. E sono stati pure premiati, visto che come capo della difesa (nonché della colonia) nessuno aveva potuto avere il grande colle per due volte sette.
Un abbraccio grande
rò
sempre per Annamaria…
posso lasciarti una lettura? non so se ricordi che avevamo citato un grande jazzsita “ebreo”, che è Gilad Atmon. Prova a leggere questo suo ultimo scritto, poi se vuoi ne riparleremo o parleremo anche d’altro 🙂
in italiano il suo ultimo lo trovi qui:
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=13964
tutti i suoi testi in inglese, qui
http://www.gilad.co.uk/
sempre per Annamaria…
posso lasciarti una lettura? non so se ricordi che avevamo citato un grande jazzsita “ebreo”, che è Gilad Atmon. Prova a leggere questo suo ultimo scritto, poi se vuoi ne riparleremo o parleremo anche d’altro 🙂
in italiano il suo ultimo lo trovi qui:
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=13964
tutti i suoi testi in inglese, qui
http://www.gilad.co.uk/
…grazie Ro, ho letto con attenzione il testo, quasi copernicano, da te segnalato…certo non so quanto l’abbia capito, ma sono giunta ad alcune riflessioni sul rapporto tra un soggetto pensante (sempre plurimo) e il gruppo cosidetto di riferimento, a cui in qualche modo la società ci obbliga ad identificarci, negando la nostra complessa autenticità. E non solo: allontanadoci dai problemi reali e universali che ci attanagliano. Sì, penso che abbia ragione Gilad Aztmon, spesso in un gruppo ci parcellizziamo, ci tradiamo, ci allontaniamo da noi stessi, ci confondiamo…Ma può forse succedere(?) che più autenticità si uniscano per formare un gruppo, con un nucleo di valori condiviso, ma nello stesso tempo molto sfrangiato, che infine contempli una gran varietà di modi di essere…Tra le possibilità…
Grazie della tua lettura e delle tue riflessioni, Annamaria cara. Il problema del soggetto “pensante” a più livelli e dunque sfaccettato e molteplice, se comprendo anche poco poco la tua riflessione, riguarda tanto il singolo quanto poi il singolo con gli altri singoli che diventerebbero una dinamica energetica di vero e proprio scambio, forse solo utopica a questo punto ( vedi come sono andate le cose in questo gruppo su certi temi…non solo quello palestinese e/o israeliano) . Tale dinamica sarebbe distruttiva ma al contempo costruttiva, tanto come avviene nel singolo, quando sa fare e soprattutto desidera superare il rischio della cristallizzazione delle conoscenze acquisite, dunque cerca di espandere le sue convizioni ( altrimenti si finisce per farsi ingabbiare in uno stato teologico della propria mente, coi nazisti o i sionisti nel cuore o nel cuore dellla propria mente).
E’ l’esperienza pratica con le cose del mondo che dovrebbe dare questa spinta a uscire e rientrare in un continuo procedere dell’evolversi della nostra esperienza , altrimenti il pur grandissimo piano teorico del proprio pensiero rimane fermo e si congela come il cuore dei nostri amici, fuggiti tutti al riparo del proprio muro… come del resto noi tre, qui fuori, col muro di fronte… se però il pensiero è rimasto pensiero, ergo la sua trasfigurazione e /o messa in pratica è più importante di qualsiasi singolo, branco o gruppo o vera e propria comunità, sarebbe bello pensare che prima o poi Simonitto o Partesana, o altri costretti a una difesa con una ritirata, riappaiono con la stessa forza (di pensiero) tramite la quale hanno sostenuto letture sulla storia del genocidio “maggiore” o “peggiore” o semplicemente “uguale” a quello di tutti gli altri, compreso quello in corso da 70 anni in Palestina. E che ciò avvenga può essere nei fatti incontestabili di un altro “slogan”, per ampiezza di ascolto geopolitico ben più grave di quello di Abate da cui partirono le loro riflessioni. Mi riferisco ai recenti discorsi di Benyamin Netanyahu, un signore che, se in italia quelli che si dicono di sinistra ( non credo che Partesana o altri sia mai stato di destra o exfascista come Napolitano) fossero rimasti tali, dovrebbe far orrore come Hitler o Mussolini e loro eredi parlamentari ed extraparlamentari, in europa o in ucraina etc…..Tale capo di stato, incontrandosi col mitico premio nobel piu famoso dell’impero, il 30 settembre ( cioè in pratica ieri ) dice a un certo punto qualcosa che ricorda per opposto , senza margine e protezione, ciò che aveva allertato alcuni di noi, tanto da far spremere le meningi, con inutili dispersioni di energia cerebrale, per smontare pezzo a pezzo lo sglogan di Abate.
Insomma mi/ti/ vi chiedo che differenza passa fra “Peggio dei nazisti” e quanto sdoganato o “sloganato” da suddetto capo di stato $ioni$ta, che mentre era tutto infervorato a fare rete con alcuni dei peggiori stati “arabi” delle petromonarchie ( per il noto cavalcare insieme al carro delle altrettante note energie), ha detto testuali parole: “Abu Mazen è peggio di Arafat”.
Ovviamente “noi” (pochi o molti che vogliamo pensarci) sappiamo anche l’agonia, il veleno e la fine che hanno fatto fare ad Arafat.
…….
Non solo in teoria, ti abbraccio, ciao
rò
…cara Ro, tu lo sai che vi seguo a fatica, ma con molto interesse…se un poco poco anch’io ti ho capita: perchè mai scorticarci tra noi quando sono in circolazione i cannibali? Anche a me piacerebbe risentire Rita, Partesana ed altri “che il canto suso appella…” (non mi ricordo in quale punto della Commedia, ma mi suona così…
SEGNALAZIONE: Margine criminale a Gaza
— Luisa Morgantini, Luigi Daniele, Emanuele De Franco, 30.9.2014
http://ilmanifesto.info/margine-criminale-a-gaza/
Politica dell’identità ebraica
Un incontro per chi vuole capire le differenze tra ebraismo, ebraicità e sionismo.
Gilad Atzmon è autore di “L’ERRANTE CHI?” un magistrale testo filosofico scritto da un individuo eclettico,
un brillante artista e musicista jazz e autentico amante della giustizia,
Gilad Atzmon è convincente, appassionato e provocatorio.
Il suo pensiero è affascinante.
Le sue considerazioni importanti e coraggiose.
INCONTRO-CONFERENZA
MARTEDì 7 OTTOBRE – H 18.00
Ex Fornace
Alzaia Naviglio Pavese 16, Milano
(MM p.ta Genova)
entrata libera
CONCERTO
MARTEDI’ 7 OTTOBRE – H 21.00
CAM Garibaldi
Corso Garibaldi, 27, 20121 Milano
(MM Lanza)
entrata libera