di Franco Nova
Cip e Ciap appartenevano al genere dei cosini. Questi ultimi, tuttavia, sono in genere furbi e svelti, non si incantano mai davanti a nessun problema della vita. Cip e Ciap, al contrario, erano proprio due esserini sbiaditi in tutto; sia come fisico che come cervello. D’altra parte, erano rimasti orfani assai presto ed una vecchia nonna, discretamente rimbambita, li aveva allevati come meglio aveva potuto. Essi erano anche poveri, pur se dignitosi nella loro quasi miseria (perché si sa che i poveri sono in genere sempre dignitosi, così come i ricchi sono sempre infelici, in preda a continue crisi esistenziali). Possedevano un solo abito; a scanso di equivoci, va chiarito che ognuno dei due possedeva un abito. Erano però estremamente puliti; e, non a caso, il piccolo bagno della loro minuscola casa era un autentico specchio, brillava come una pietra preziosa.
Anche il loro unico vestito era sempre pulitissimo, senza un granello di polvere né la minima macchiolina. Per tenerlo così, essi lo lavavano spesso (ognuno lavava il suo) e così quell’unico abito era lindo, sì, ma frusto, sottile come un velo di garza, anche se stranamente senza strappi e conseguenti cuciture. Al di sotto dei pantaloni, evidentemente, si intravedevano le mutande – essi ne possedevano addirittura tre a testa – e, logicamente, “el ciap” (anche quello di Cip). I due fratelli erano continuamente occupati a scuotere i loro vestiti con le mani onde toglierne la polvere. In particolare, si chinavano senza cessa, con gravi problemi per la loro spina dorsale ormai artrosica, per spazzolare i pantaloni, ma soprattutto per cercare di mantenere sempre ben dritta la piega degli stessi. Bisogna sapere che la nonna rimbambita, quand’era in vita, ripeteva monotonamente ai due bambini: “Rigate dritto”, perché altro non era in grado di pronunciare; ed essi si erano alla fine persuasi che ogni cosa, ivi compresa la piega dei pantaloni, dovesse essere sempre mantenuta dritta.
Questo non era però ancora il peggiore tra gli effetti della “famosa” frase nonnesca. Cip e Ciap abitavano in una strada che, a un capo, era chiusa, mentre dall’altra parte sbucava, ad angolo retto, in una via assai più larga, dove correvano a tutta birra delle più o meno voluminose cosone rombanti, che emettevano un odore mefitico. Ebbene, Cip e Ciap percorrevano in su e in giù la loro strada, da dove era chiusa fino alla grande via, ma senza mai svoltare l’angolo, sempre in omaggio al “rigare dritto”. In genere, rimanevano sul lato della strada ove si apriva la porticina della loro abitazione. Raramente passavano dall’altra parte, e per un buon motivo. Quasi dirimpetto vi era un ristorante, il cui proprietario, anima buona ma timido e timoroso di offenderli, faceva a volte finta di sbagliare e scaricava nel bidone delle immondizie non i semplici avanzi, bensì interi piatti prelibati da lui stesso cucinati. I due poveretti avevano un odorato nettamente superiore alla loro intelligenza, e si precipitavano immediatamente a mangiare fin quasi a scoppiare. Non appena i loro vicini li vedevano attraversare la strada, per prenderli in giro, ben nascosti dietro le imposte delle finestre, o fingevano il verso degli uccelletti: “Cip, cip, cip”; o, più volgarmente, ritmavano all’unisono, e secondo l’aria di una canzone allora molto in voga tra i cosini di basso ceto, un bel “Vaddà’ via i ciap”. Dal che si comprende subito che quella via non era certo abitata dai più furbi tra i cosini. Cip e ciap si sentivano offesi, ma facevano dignitosamente buon viso a cattivo gioco, e mangiavano tranquillamente i presunti avanzi dopo aver frugato, sempre molto dignitosamente, nel cassonetto.
Un giorno, i due, arrivati alla fine della loro via dal lato della grande strada piena di traffico, intesero levarsi, da dietro l’angolo, un pianto lamentoso e insistente, coperto di tanto in tanto dal rombo delle varie cosone in transito. Essi non ebbero subito il coraggio di appurare di che cosa si trattasse; per una buona mezz’ora continuarono ad andare in su e in giù, ma per non più di dieci metri, sostando sempre più a lungo al capo della via. Infine, con un grande sospiro, infransero per la prima volta la vecchia perentoria ingiunzione della nonna rimbambita. Quel che videro li mise subito in confusione, mentre un brivido fece scricchiolare le loro ossa rinsecchite. Una Cosina, che più graziosa non si può, era accovacciata scompostamente sul marciapiedi sì e no un metro appena svoltato l’angolo. Il viso, pur inondato di lacrime, era dorato e roseo insieme, la pelle liscia e profumata (il profumo, veramente, non si sentiva con quel puzzo di cosone in corsa, ma quel tipo di pelle non può non profumare, e comunque bisogna dire così). Occhi grandi e mandorlati (ma non era un’orientale), orecchie piccole e come di madreperla (anche questa è una licenza). Quello che scosse di più Cip e Ciap fu che l’accovacciarsi scomposto aveva fatto salire le gonne sopra il ginocchio, e il pezzo di coscetta che si vedeva era torturante; di un levigato, di un bruno splendente (o di uno splendore brunito, a scelta)! I due non poterono non pensare alle gambe del loro tavolo in cucina; e il paragone era decisamente a favore di quel che stavano vedendo.
Essi, pur timidamente perché di Cosine non ne avevano mai frequentate, le rivolsero la parola e le chiesero perché piangesse. Come sorpresa, la Cosina smise di lamentarsi e, abbassati pudicamente gli occhi di fronte agli sconosciuti, si alzò rapidamente in piedi. Nel far questo, per un attimo la scompostezza aumentò e così pure salì di qualche centimetro la gonna. Cip e Ciap, veri gentiluomini, alzarono subito lo sguardo per dirigerlo sul viso di lei. Purtroppo, tra la gonna e il viso non poterono non intravedere quel che ci sta in mezzo, e che una camicetta sdrucita copriva malamente. La tortura si accrebbe, ma essi erano abituati a ben altre prove di astinenza. Altri motti decisivi della loro vita erano stati: “Guardare e non toccare”; “Considerare attentamente le cose, ma mai prenderle”. Anche se fino ad allora, simili motti non erano mai stati applicati a quel settore di interessi.
Dopo un attimo di smarrimento, con voce tremula e incerta ma melodiosa più del canto dell’usignolo (forse quest’ultimo non è una melodia, ma mi si perdoni la licenza), Cosina raccontò la triste istoria: “Mi sono trovata qui una mezz’ora fa, e non ricordo più nulla. Non so come mi chiamo, né da dove vengo. Mi sono perduta; perduta in tutti i sensi, perché non posso più ritrovare me stessa”. Cip e Ciap ne furono sconvolti, si chiesero come fosse mai possibile. Dopo breve consulto, decisero che non potevano lasciare Cosina in quella grave situazione, con quelle cosone rombanti che, prima o poi, avrebbero cominciato a fermarsi per cercare di far salire la povera smarrita. Del resto, si dissero, Cosina era talmente graziosa che qualcuno, marito padre fratello o….amante (a questo non potevano però credere) che fosse, l’avrebbe cercata, avrebbe messo magari un avviso sul giornale; i due non ne avevano mai letto uno in vita loro, ma qualcuno li avrebbe avvertiti.
Essi, senza più indugio, dissero a Cosina che potevano ospitarla a casa loro per quella notte – in effetti cominciava ad imbrunire e le serate si facevano via via più fredde perché eravamo in autunno inoltrato – e poi, il giorno successivo, con un bel sonno ristoratore alle spalle, essa (anzi “ella”, come dicevano loro che parlavano forbito) si sarebbe ricordato tutto e avrebbe raggiunto il marito padre fratello o…. amante (ma continuavano a non poterlo credere). Così ripercorsero i circa cento metri della via che meglio conoscevano (cioè l’unica) ed entrarono in casa soddisfatti e con la sensazione di star facendo qualcosa di memorabile, che avrebbe per sempre segnato la loro vita, l’avrebbe imbellita del ricordo di quella dolce notte in cui avevano compiuto una buona, meravigliosa, azione, avevano forse salvato una vita, senz’altro una reputazione, l’onore di una fanciulla pura come un giglio (a proposito, perché i gigli sono puri?)….; va be’, avete capito la tipologia dei pensieri dei nostri due “protagonisti”.
Dentro la minuscola casa, però, tutto andò complicandosi. Vi erano solo i due letti in cui dormivano Cip e Ciap, e per di più in un’unica stanzetta, piccola piccola. Essi proposero timidamente a Cosina di dormire in un letto, mentre essi si sarebbero stretti nell’altro. Avrebbero teso anche un lenzuolo (l’unico del letto che rimaneva a loro disposizione) per fare da inframezzo tra essi e la fanciulla. Quest’ultima arrossì, disse che, se non si poteva fare altrimenti, si sarebbe fatto come dicevano loro. Tuttavia, era bene sapessero che “ella” non avrebbe potuto dormire, non per mancanza di fiducia – non fosse mai! – ma perché il suo pudore estremo la faceva sentire a disagio in presenza di cosini così vicini che quasi poteva toccarli (disse proprio così, non, come sarebbe stato più corretto, che essi quasi potevano toccarla; ma Cip e Ciap non notarono questa incongruenza). I due furono subitamente colti da sensi di colpa e, senza pensarci un minuto, decisero di lasciare l’intera stanza a Cosina e di ritirarsi nel bagno.
Cip, che si dice fosse un po’ più furbo dell’altro, si accaparrò subito la vasca da bagno. Ciap prese lo sgabello (che fortuna! L’avevano comprato da meno di un mese dopo anni di risparmi), lo situò tra tazza e bidet (come vedete, il bagno aveva proprio tutto, anche se in dimensioni ridotte) e si sistemò in cotal guisa: la testa sulla tazza, i piedi nel bidet, che per fortuna era bello asciutto, e lo sgabello sotto la schiena. Cip non riuscì a chiudere completamente il rubinetto della vasca, per cui tutta la notte cadde la goccia, quella famosa che, nel corso dei secoli, fora la roccia. La notte non durò secoli, pur se poco ci mancò. Dire che i due riuscirono a dormire, sarebbe mentire spudoratamente. Ciap, in particolare, ogni qualche minuto rovinava a terra con grande fragore di sgabello rovesciato; la qual cosa, per un’oretta, provocò anche vive proteste provenienti dalla stanza vicina. Essi anzi crederono, ad un certo punto, di sentire la voce di Cosina che affermava decisa: “Maledetti, che rompiscatole”. Capirono subito che si erano sbagliati, ingannati dal rumore e da quella confusione del cervello che viene provocata dal dormiveglia continuamente interrotto; era fin troppo evidente che la “dolce” Cosina non avrebbe mai potuto definire in quel modo i suoi salvatori.
Venne finalmente il mattino. I due erano stanchi, con le ossa a pezzi, ma comunque il calvario era finito. Bussarono alla porta della stanza, ma non ne venne risposta alcuna. Cominciarono ad immaginarsi la rosea e vellutata Cosina che dormiva con la sua aria innocente di bambina ancora piena di sogni; se la immaginarono con il pollicino tra le labbra, quelle labbra così morbide, ben disegnate e sicuramente tepide. I loro pensieri piegarono verso l’estatico ed essi decisero di aspettare ancora una mezz’ora, cercando di sognare gli stessi sogni di quella “bambina”. Videro una casetta di legno, con un comignolo fumante, situata in una piccola radura circondata da un bosco fitto ma egualmente inondato di luce (non si sa come); e dentro la casa, una vecchietta serena e linda (come sono sempre le vecchiette, anche se non se ne comprende il perché data la morte imminente e i dolori e la cattiva digestione e il resto), che rimestava la polenta in un grande pentolone di rame; e videro formaggio e salumi che attendevano sul tavolo un po’ sbilenco. Una casa ed un pasto poveri, frugali, ma da cui spirava un senso d’intima contentezza, di comunione di spiriti, di amore per le piccole cose che rendono felici i semplici, coloro che non chiedono, anzi non vogliono, nulla più che ….una casa ed un pasto poveri e frugali. Dalla scala (toh, non si erano accorti che vi era anche una scala), facendo scricchiolare i gradini consunti e traballanti, scese Cosina con il sorriso di chi ha appena visto il Paradiso, e se ne stacca per potersi ricongiungere con i suoi due nuovi amici, ormai i migliori della sua vita, e mangiare con loro polenta, soppressa e formaggio. Stranamente, non pensarono al vino, anzi a nessun tipo di bevanda; ma si sa, i pasti frugali hanno degli inconvenienti!
Passata la mezz’ora, bussarono di nuovo; ancora nessun segno di vita. Cominciarono vagamente a preoccuparsi, e tuttavia si ricordarono di dove avevano trovato Cosina, della sua drammatica situazione, dello stress che doveva averle procurato la completa perdita di memoria. Evidentemente, era caduta in un sonno profondo; era meglio darle ancora del tempo. I due erano sempre più inteneriti e continuarono i loro sogni, nei quali però non li seguiremo perché troppo ci commuoveremmo e saremmo poi in difficoltà nell’affrontare la vita di tutti i giorni, così piatta e incolore. No, è decisamente meglio non parlare dei nuovi sogni di Cip e Ciap.
Infine, al loro nuovo busso, una vocina che a loro parve deliziosa, e ancor più melodiosa di quanto non fosse loro sembrata il giorno avanti, rispose: “Chi è?”. C’era tuttavia una nota di irritazione mista a paura in quella voce. Essi chiesero di poter entrare e, interpretando un suono inarticolato come un sì, aprirono l’uscio tra bagno e camera. Videro Cosina, già tutta vestita e ben preparata (dove aveva trovato di che truccarsi?), con un’aria spaventata ma anche fortemente adirata. Essa domandò subito loro chi fossero e che cosa facessero in casa sua; come erano entrati e quando? E chi li aveva fatti entrare? Perche “ella” escludeva di poter aver commesso una stupidaggine simile. Essi la guardarono inebetiti e stentarono non poco a capire la situazione. Farfugliando indecorosamente, tentarono di farle ricordare gli avvenimenti della sera prima, dove l’avevano trovata, come l’avessero accolta in casa loro. “Ella” si arrabbiò tremendamente, affermò che dovevano essere due matti appena scappati dal manicomio. Non ricordava nulla di quanto loro stavano raccontando con grande confusione e incespicando nelle parole, il che dimostrava, quanto più non si può, come fossero degli estranei introdottisi furtivamente in casa sua.
Essi insistettero nel volerle far ricordare tutto il trambusto della sera precedente, la proposta di dormire nella stessa camera – ma, per carità, in letti separati, specificarono subito, rossi e imbarazzati, cosa che accrebbe ancor più la sensazione che fossero essi gli estranei – il suo rifiuto davanti a questa prospettiva – oh, naturalmente essi riconoscevano che aveva avuto ragione, che si era dimostrata pudica – e infine la loro disponibilità a cederle l’intera stanza ritirandosi a dormire in bagno, dove avevano passato una notte non fra le migliori della loro vita. Cosina divenne irridente e affermò che questo era decisivo; due persone con la testa sulle spalle, se fossero state in casa propria, non sarebbero certo finite loro a dormire in bagno in condizioni tanto pietose. “Ella”, per sua comodità, li accreditò di una “testa sulle spalle” e disse che evidentemente non erano loro i proprietari della casa, ma lei; al massimo ammise che forse i due estranei non si erano introdotti di nascosto, come aveva creduto in un primo tempo, erano magari stati accolti da lei per bontà (era sempre stata troppo buona, glielo avevano rimproverato fin da piccola! Strano questo; e la mancanza di memoria, il non sapere chi fosse e donde venisse?). Adesso lei era troppo stanca per ricordare, aveva mal di testa, voleva stare per conto suo perché doveva pensare a certi suoi affarucci; che le facessero dunque il piacere di andarsene fuori dai piedi, dopo averla debitamente ringraziata per l’ospitalità così generosamente offerta.
Cip e Ciap erano ormai nel pallone ma si convinsero presto che Cosina non ricordava più nulla della sera prima. E capirono allora l’arcano, e fu un grosso sforzo per loro: Cosina dimenticava, via via, tutto quello che le era accaduto oltre la mezz’ora o al massimo un’ora prima. Cosina viveva insomma sempre nel presente, il passato veniva cancellato appena era….passato da poco. Disgraziatamente, non dimenticava il futuro; ed infatti annunciò subito che quella casetta, così com’era, non le andava troppo bene e fece capire che stava progettando delle migliorie. Chiese anche informazioni sul vicino per sapere se vi erano possibilità di sloggiarlo in qualche modo dalla sua abitazione, perché la “propria” (cioè di Cip e Ciap) era decisamente piccola per i suoi bisogni.
Cip e Ciap erano disperati. Come sappiamo, non avevano abiti di ricambio, ma qualche paio di mutande, qualche maglia e povere altre cose, le possedevano. Così aprirono l’armadio e fecero vedere questi indumenti a Cosina per convincerla della veridicità della loro versione. Essa si rabbuiò, tornò sospettosa e disse: “Ma allora qui forse ci stava un uomo assieme a me; che cosa ne avete fatto? E’ meglio che confessiate, altrimenti vado alla polizia, visto che avete portato via anche il telefono”; in realtà il telefono non c’era mai stato. “Anzi, non vado affatto alla polizia” – continuò Cosina – “altrimenti mi chiudete fuori; comincerò a gridare aiuto dalla finestra”. Cip e Ciap, impauriti, la pregarono di stare zitta, e smaniarono chiedendole come poteva pensare, pura qual era (sempre come il solito giglio), di poter avere avuto un uomo, e addirittura con lei coabitante. “Forse ero regolarmente maritata” – disse Cosina – “forse lui era un malvivente in combutta con voi, e l’avete fatto fuori durante la spartizione del bottino di una qualche vostra malefatta”.
Cip e Ciap tirarono fuori le chiavi di casa, ma non si trattava affatto di una prova dirimente, perché potevano avergliele sottratte di notte, mentre dormiva. Anzi, la presunta prova si rivolse contro di loro perché, a causa della loro povertà, si erano muniti di un solo esemplare delle chiavi; quindi Cosina si convinse viepiù che il proprietario fosse uno soltanto, cioè lei. Molto fecero Cip e Ciap per convincerla, salvo l’unica cosa sensata da fare: interrogare i vicini che li avevano visti in quella casa tutta una vita – ed in particolare il “buon” proprietario del ristorante di fronte che forniva loro indirettamente alcuni pasti, mettendoli nel cassonetto delle immondizie – mentre Cosina non era certamente conosciuta da nessuno.
Avrebbero dovuto chiamare essi stessi la polizia, e chiedere la testimonianza di almeno una decina di persone che abitavano in quella via da sempre. Si può però chiedere a due cosini tanto gentili, e premurosi verso la povera smemorata, di compiere siffatte azioni tanto indelicate? Non ci pensarono nemmeno, anche perché c’era il rischio che Cosina, così sfortunata e derelitta, finisse di nuovo all’angolo della strada e fosse magari raccolta da qualcuna di quelle orribili cosone rombanti. Che ne sarebbe stato, in tal caso, della sua virginea purezza, del profumo della sua pelle, della melodia della sua voce? No, non potevano assumersi la responsabilità di un simile scempio. Non potevano sciupare così la dolcezza di quel ritorno a casa della sera prima, con la fragranza della buona azione compiuta, con tutti i pensieri e i teneri sogni incastonati nei romantici progetti di un futuro migliore per la vita nella loro casetta e, chissà forse, per quella dell’intera via tristemente percorsa in su e in giù per tanti anni.
Essi si guardarono, si scambiarono un furtivo cenno di intesa e, confidando che prima o poi la memoria sarebbe tornata a Cosina, decisero di non insistere oltre. Le fecero però presente che essi non avevano dimora, che doveva essere così gentile da ospitarli per un po’ di tempo, che avrebbero potuto dormire ancora in bagno (lo dissero comunque con un brivido che scosse la loro schiena al pensiero della notte passata in quel luogo). Cosina si intenerì a quella mite e dolente richiesta; essa dimenticò che forse le avevano ammazzato il compagno, anzi il marito, e che quest’ultimo era forse stato corrotto e avviato al crimine da costoro. Essa però fu ferma nel rifiutare loro il bagno perché serviva a lei. Durante quella notte, anzi, aveva avuto bisogno di recarvisi e aveva dovuto soprassedere per la loro presenza. Ancora una volta, i nostri due “eroi” non notarono la contraddizione di Cosina che sapeva della loro presenza in bagno, ma aveva finto la mattina sorpresa e perfino paura nel vederli apparire provenienti esattamente da quel posto. Non le rinfacciarono le sue domande su chi li aveva fatti entrare e quando e come; il suo ritenerli addirittura dei malfattori introdottisi nottetempo per compiere male azioni.
Cosina propose loro lo sgabuzzino. Era piccolo, ma c’era una sola scopa, una scatola di detersivo e qualcosa, ma poco, d’altro. Essi erano in grado di alloggiarvi, appena un po’ sacrificati; potevano appoggiarsi ai muri o mettersi di schiena l’uno a sostegno dell’altro. A dir la verità, se uno apre una qualsiasi enciclopedia alla voce “cosini”, non vi leggerà mai che essi appartengono al genere degli equini. Tuttavia, con un po’ di buona volontà…. E poi, l’amore non compie forse miracoli? Perché non allora il miracolo del dormire in piedi anche se si è sempre stati abituati alla posizione coricata? Ancora una volta essi acconsentirono, in preda alla più perfetta beatitudine alla vista di una Cosina sempre più fresca, rilassata, fulgida nei suoi colori. Ebbero però un altro scossone quando Cosina ricordò loro che non si può dare niente per niente, anche perché lei era sprovvista di denaro – non glielo avevano mica rubato loro due durante la notte, ebbe il coraggio di chiedere – e non poteva certo permettersi regali. Avrebbe loro affittato lo sgabuzzino per una “modica” cifra, che era in realtà almeno il doppio di quella che il loro vicino pagava per l’intero appartamento. Se poi pretendevano anche l’uso del bagno, mezz’ora al giorno come limite massimo, la cifra andava raddoppiata.
Cip e Ciap entrarono nuovamente in agitazione; figuriamoci se avevano cifre del genere a disposizione! “Niente paura” – disse Cosina, conciliante e con un sorriso che trasformava i suoi occhi in un cielo da mari del sud – “qui davanti c’è un ristorante che sembra elegante; guadagnerete il dovuto andando a lavorarci come sguatteri o per scopare per terra, perché di più non credo siate capaci di fare. Ho già visto questa mattina il proprietario dalla finestra della mia camera, gli ho sorriso e lui era ormai in solluchero; metterò quindi io una buona parola. Vedrete che, sapendo che poi darete tutto a me, vi assegnerà un discreto stipendio per il lavoro così dequalificato che presterete”. Detto fatto, Cosina andò alla finestra, chiamò il proprietario – la confidenza era ormai tale che lo apostrofò per nome e gli diede del tu – e combinò l’affare. I due si guardarono ancora e, malgrado tutto, dovettero ammirare la presenza di spirito di Cosina: “E’ proprio una delizia di bambina” – si dissero – “se non ci fosse, bisognerebbe crearla”.
Cip e Ciap uscirono per contattare il proprietario del ristorante – l’avrete già capito, era quel tipo di buon cuore che forniva loro del cibo tra le immondizie – e magari iniziare subito il lavoro. Si erano in effetti convinti che Cosina, così smemorata com’era, aveva bisogno di cure; le abbisognavano dunque molti soldi. E loro avrebbero completato la buona azione iniziata la sera prima, salvandola da un ingrato destino. Cosina restò finalmente sola in casa, tirò un gran sospiro di sollievo, si stiracchiò con voluttà e sentì dentro di sé una profonda soddisfazione; una soddisfazione di quelle che si provano quando si è consci di aver adempiuto un preciso dovere, di aver agito con la profonda consapevolezza dei propri obiettivi e, anche, del proprio destino. Era decisamente contenta di sé; aveva la precisa sensazione di essere “nelle cose”, aderente alla realtà del mondo, in armonia con l’Universo.
Essa andò in bagno e si guardò allo specchio, che era pulito come tutto lì dentro. Osservò con piacere un po’ narcisistico le curve dei suoi fianchi, le vette aguzze dei suoi seni, piccoli ma perfetti; alzò le gonne fino all’orlo delle mutande e, chinando il capo ora a destra ora a sinistra, esaminò quelle gambe ben tornite che, come già sappiamo, erano esteticamente superiori a quelle del tavolo della cucina. Infine disse a se stessa queste storiche parole: “Vorrei vedere la faccia di quel tanghero, di quell’energumeno, che ieri mattina mi ha sbattuto fuori di casa, solo perché, rientrando quando non doveva [si era sentito male mentre era sulla pancia di un’altra donna; ndr], mi ha trovato a letto con quel brutto vecchiotto, ma tanto pieno di soldi. Come urlava il maledetto, mi augurava di crepare di fame sola e raminga per il mondo, prevedeva per me un futuro di battona sballottata da tutte le parti perché priva della protezione di un magnaccia come lui [in effetti, il tizio si era scaldato perché lei aveva tentato di ingannarlo e di trattenere per sé una parte della somma ricevuta; sempre ndr]”.
Cosina tacque un attimo, si protese verso lo specchio ed esaminò il fondo dei suoi occhi, in cui Cip e Ciap non erano stati in grado di vedere nulla che non fosse una celeste meraviglia, mentre essa, con intimo contento, vi leggeva tutto il marcio, tutta la corruzione e putredine della sua anima. “Fin da piccola” – continuò a dire alla sua immagine simmetrica nello specchio – “sono stata una carogna; non c’era nessuno che non fossi capace di mettere sotto con la mia furbizia. Quante compagne e quanti maschietti ho fregato! Sono ben sicura dei miei mezzi e così, ieri mattina, quando il farabutto mi ha cacciato di casa, subito gli ho ribattuto che mi sarebbe bastato poco tempo per trovare un illuso da cui essere mantenuta. Neanche ventiquattr’ore son passate, e ne ho trovati addirittura due. Adesso debbo stare attenta a non recuperare più la memoria, perché prima mi stavo tradendo e solo quei due ingenui non ci hanno fatto caso. Appena saranno di ritorno, dimenticherò anche di averli visti oggi, li tratterò come degli sconosciuti. Impazzire li farò, in mutande a chiedere l’elemosina per me dovranno andare. Ah, che bello; mi farò mantenere e mi divertirò fino a morire dalle risa. Due rintronati così, non immaginavo assolutamente di trovarli. La vita è proprio un’avventura meravigliosa, così imprevedibile, erratica, casuale, un caleidoscopio in cui io mi muoverò con sicurezza e precisione, ottenendo sempre quello che voglio perché sono astuta, priva di inutili sentimentalismi, non avverto nemmeno il più piccolo stimolo al bene; e per di più sono bella, e lo sarò a lungo, ne sono certa”.
Sfogatasi e ammiratasi a sufficienza, Cosina tornò nella stanza e si mise a letto. Accese la luce perché cominciava ad imbrunire. Un giorno solo era passato e ne aveva fatta di strada! Fra una settimana, chissà quali risultati avrebbe conseguito. Lentamente andò appisolandosi e, nel sogno, vide Cip e Ciap trasformarsi in due muli con basto che salivano faticosamente un’erta riva, mentre lei, in groppa ad entrambi (ebbene sì, si stava sognando addirittura sdoppiata), in preda ad accessi di risa stridule e sadiche, li bastonava di santa ragione costringendoli a salire con enorme fatica. I due poveri muli, ex cosini, incespicavano sempre più spesso sul sentiero sassoso, ed infine, giunti in cima al monte, caddero sulle rocce e creparono. Essa – o “ella” come dicevano i due – era però ormai in vetta al mondo, tutto era ai suoi piedi, la vista di cui godeva era totale e assoluta. Era ormai perfetta, praticamente una Dea.
N.B. Vorrei fosse chiaro che, nel racconto, l’ordine dei fattori può essere capovolto senza che il prodotto cambi. Al posto di Cip e Ciap possiamo mettere Tonta e Bamba; e, in quello di Cosina, un “coso” abietto “con due palle così!”. L’importante è che ci siano sempre due poveri esseri completamente rimbecilliti e deboli, ed un essere laido, senza morale, perfetto nella sua assenza di sentimenti, che scala il mondo sulle altrui spalle. Un essere che non ha mai la menoma indigestione, che si sente eterno perché l’essenza di cui è fatto è indistruttibile, non avrà mai fine, chiunque ne sia, di generazione in generazione, il portatore. Non si offendano quindi le donne. Non ce l’ho con loro; anzi, sono pronto ad ammettere che ci sono più “cosi con due palle così” che non “cosine” (ma pure queste, comunque, non sono rare, in specie nei nuovi tempi).
La parte più crudele di questo atroce racconto, sono i discorsi interiori e i commenti dell’autore: diffuse frasi fatte, di buon senso e politicamente corrette, che punteggiano l’iperbolica vicenda. Esempio: “facevano dignitosamente buon viso a cattivo gioco” mangiando tranquillamente *i presunti* avanzi, oppure “la sensazione di star facendo qualcosa di memorabile, che avrebbe per sempre segnato la loro vita, l’avrebbe imbellita del ricordo”, e anche “La vita è proprio un’avventura meravigliosa, così imprevedibile, erratica, casuale, un caleidoscopio”.
E’ la vecchia banalità del male, no?
sì, certo. Ma non lo trovo atroce; ho esagerato (volutamente) nella stupidità dei protagonisti, ma avevo voglia di immaginarmi proprio due poveri cosini. In fondo, c’è anche un po’ di pena per loro.
…più che altro mi sembra crudele la visione che Franco Nova ha della realtà e delle dinamiche che, sembra suggerirci, stanno alla base dei rapporti tra poveri-vittime e potenti-sopraffattori…Sembra che a dominare il mondo sia la furbizia in tutte le sue sfumature: da quella di chi deride i poveri, pur essendo povero, sino a quella spietata, cinica e senza scrupoli di “Cosina” e del suo protettore: solo tra loro si possono scalzare, nella logica di chi sa essere più aggressivo e prepotente. Ma ciò che maggiormente colpisce è che, una volta “Cosina” scalzata, saranno proprio i due poverissimi Cip e Ciap a ridarle il vantaggio e il potere perduto… Abbagliati dal suo fascino, accettano di buon grado di annullarsi…in fondo erano sempre vissuti ai margini, di elemosine da parte di un benefattore, seguendo il precetto della nonna “rigate diritto” ed ora che hanno conosciuto “la bellezza” sono felici di cederle il passo…Di rimando la falsa “Cosina” succhia senza pietà la vita degi altri, di quelli che non si sentono un bel niente…Perverse dinamiche complenìmentari. L’autore poi infiocchetta i poveri di colore e di calore, a loro va la sua pietà se non la sua simpatia, ma certo non il suo appoggio…Ma poveri un po’ più lucidi e determinati in queste storie non si affacciano?
@ Fischer
« La parte più crudele di questo atroce racconto, sono i discorsi interiori e i commenti dell’autore: diffuse frasi fatte, di buon senso e politicamente corrette, che punteggiano l’iperbolica vicenda.».
Ma è sicuro che l’autore stia interamente in quei commenti? L’autore *vero* potrebbe divertirsi a rendere ridicola la stessa sua voce narrante, a distanziarsi anche da essa facendone una caricatura eccessiva. Come fa con gli altri personaggi (tutti). Ma certo concede di più a Cosina…
@ Locatelli
Sì, io pure credo che l’immaginazione narrativa di Nova poggi non so quanto consapevolmente e in modo prevalente su una sorta di *darwinismo sociale* ( la vita come lotta e selezione dei “migliori”, i sopraffattori lucidi e diabolici. «Poveri un po’ più lucidi e determinati in queste storie non si affacciano» perché dovrebbe saltare l’impianto di pensiero.
P.s.
Comunque il racconto a mio parere ha una complessità tale che merita ben più approfonditi commenti. Avendolo letto in anticipo e già da molto tempo, mi pare utile rendere pubblica la lettura che ne feci. (Scusandomi se nel testo fosse rimasta qualche citazione che Nova ha eliminato o diversamente rielaborato in quest’ultima versione pubblicata):
Caro Franco,
ho letto e riletto più volte CIP, CIAP E LA COSINA. Lo trovo quasi impeccabile dal punto di vista formale, ironico, amaro come certe caramelle al cynar che mi dava mia nonna quand’ero bambino, ma soprattutto pieno di implicazioni allegorico-politiche complesse e inquietanti. Mi ha messo in discussione anche sul piano personale, specie se penso ai miei rapporti con il gentil sesso. Tanto che, man mano che procedevo nell’analisi, ammettevo, sfuggendo alla presa della voce narrante che sistematicamente abbassa i “cosini” ed esalta la “Cosina”: beh, un po’ nella mia adolescenza (e anche oltre e forse persino adesso) delle somiglianze con questi due “cosini” ci sono state, mentre la determinazione “cattivista” di Cosina mi risulta *quasi* estranea sul piano emotivo e mi coinvolge un po’ soltanto sul piano filosofico-intellettuale. Tralascio per ora un’estesa documentazione, magari interessante, che però mi farebbe deviare troppo dal discorso che voglio qui fare.
Sul piano formale. Il racconto si suddivide in sette sequenze, che così schematizzo:
1) Descrizione di un mondo chiuso: quello di Cip e Ciap e della nonna;
2) Trasgressione che porta alla scoperta dell’”altro da sé”: «infransero per la prima volta la vecchia perentoria ingiunzione della nonna rimbambita», simbolo del “vecchio” e hanno la rivelazione del corpo femminile (o natura) nella forma attraente di Cosina;
3) Tentativo di introdurre l’”altro da sé” nel proprio mondo: Cosina viene ospitata nella casa di Cip e Ciap, penetra nel loro misero mondo e, per giustificare ai propri occhi questa seconda trasgressione, i due ricorrono, inconsapevoli come sono del proprio oscuro desiderio di averla, alla “buona azione”, alla “solidarietà coi deboli”, che è l’unica (pare) iscritta nella loro mente: «una stupidaggine» per il narratore o voce narrante (e i suoi lettori) che conosce già la vera natura di Cosina e parteggia per lei, anche se, quando la vicenda si complica con danni per Cip e Ciap, a tratti sembra quasi voler correggere questo suo sbilanciamento così marcato e sistematico, suggerendo, ad es., ma con un certo sprezzo, una possibile strategia difensiva o di contrattacco ai due e facendogli notare le contraddizioni di Cosina:
«Ancora una volta, i due deboli cervelli dei nostri eroi non notarono la contraddizione di cosina che sapeva della loro presenza in bagno, ma aveva finto la mattina sorpresa e perfino paura nel vederli apparire provenienti esattamente da quel posto».
4) Complicazione (come nella struttura tipica delle fiabe) o collisione o contraddizione tra “sé e “altro da sé”: qui il contrasto è tra morale bacchettona (dell’astinenza, della purezza, del rispetto astratto dell’”altro da sé”, del sacrificio, della castità) e la sensualità a-morale (espansiva o in espansione) di Cosina. Quel mondo chiuso e povero (a prima vista o come ha deciso il narratore) pare non possa accogliere tanta ricchezza e potenza naturale («Vi erano solo i due letti in cui dormivano Cip e Ciap, e per di più in un’unica stanzetta, piccola piccola»). E cede, concede il meglio che ha (la stanza da letto dei due), si ritira (nel cesso, simbolo appropriatissimo nella strategia narrativa del racconto).
5) Preparazione del colpo di scena o della svolta: Cosina pare dormire nella stanza in cui è stata ospitata. Il colpo di scena (il trauma per i “cosini”) viene abilmente rimandato, prolungando le fantasticherie idealistiche dei due (da immaginario maschile cattolico) sulla bontà, purezza, dolcezza della «bambina»-donna e sul mondo idilliaco, campestre, campagnolo, preindustriale, casalingo, semplice, frugale («i semplici, coloro che non chiedono, anzi non vogliono, nulla più che ….una casa ed un pasto poveri e frugali») da Filemone e Bauci.
6) Il colpo di scena: ribaltamento dei rapporti di forza, finora velati dalla furba Cosina e trascurati o completamente ignorati da Cip e Ciap, prigionieri del loro immaginario solidaristico e caritatevole e – si potrebbe aggiungere – del tutto impreparati sia a cogliere il piacere che Cosina poteva procurare sia ad affrontare la violenza di Cosina, che ora esplode. (Forse perché si stacca e davvero bruscamente dalla dimensione del piacere? È un’altra ipotesi – un po’ freudiana? – di lettura…) :
«Essi insistettero nel volerle far ricordare tutto il trambusto della sera precedente, la proposta di dormire nella stessa camera – ma, per carità, in letti separati, specificarono subito, rossi e imbarazzati, cosa che accrebbe ancor più la sensazione che fossero essi gli estranei) e diventa pura sopraffazione(vendetta?).
Cosina ha buon gioco ad appellarsi alla comune logica egoistica (l’unica esistente nella realtà?), ben radicata nella mentalità collettiva («due persone con la testa sulle spalle, se fossero state in casa propria, non sarebbero certo finite loro a dormire in bagno in condizioni tanto pietose»). E da vittima (apparente) si rivela dominatrice, da buona si tramuta in cattiva, da accondiscendente in «irridente», da pudica e santarellina in puttana (come si viene a sapere alla fine: «[in effetti, il tizio si era scaldato perché l’aveva trovata a letto con uno da cui non si era fatta pagare; sempre ndr)». Invece che come persona generosamente ospitata dai due padroni della casa parla da padrona di quella casa:
«Essa domandò subito loro chi fossero e che cosa facessero in casa sua; come erano entrati e quando? E chi li aveva fatti entrare?»)
Anzi degrada al rango di ospiti i precedenti proprietari (in effetti – aggiungo – l’ospitalità è segno *anche* di generosità, ma la generosità –bisognerebbe aggiungere – è esercitabile con un certo agio e minor rischi solo da chi ha davvero più potere). I due non riescono neppure a reagire, ad accusarla, ma vengono posti loro sotto accusa. Si trovano in una difficile situazione e non possono provare a far valere il loro diritto:
«Cip e Ciap tirarono fuori le chiavi di casa, ma non si trattava affatto di una prova dirimente, perché potevano avergliele sottratte di notte, mentre dormiva. Anzi, la presunta prova si rivolse contro di loro perché, a causa della loro povertà, si erano muniti di un solo esemplare delle chiavi; quindi cosina si convinse vieppiù che il proprietario fosse uno soltanto, cioè lei».
Né, isolati come sono dalla comunità che li circonda, possono sperare da essa un sostegno o trovare qualcuno che testimoni a loro favore e dichiari il loro buon diritto alla casa:
«l’unica cosa sensata da fare: interrogare i vicini che li avevano visti in quella casa tutta una vita – ed in particolare il “buon” proprietario del ristorante di fronte che forniva loro indirettamente alcuni pasti, mettendoli nel cassonetto delle immondizie – mentre cosina non era certamente conosciuta da nessuno».
A frenarli poi nel ricorso a qualsiasi atto di difesa è ancora la loro pietà e solidarietà e idealizzazione di Cosina e del mondo:
«Non ci pensarono nemmeno, anche perché c’era il rischio che cosina, povera smemorata e derelitta, finisse di nuovo all’angolo della strada e fosse magari raccolta da qualcuna di quelle orribili cosone rombanti. … No, non potevano assumersi la responsabilità di un simile scempio. Non potevano sciupare così la dolcezza di quel ritorno a casa della sera prima, con la fragranza della buona azione compiuta, con tutti i pensieri e i teneri sogni incastonati nei romantici progetti di un futuro migliore per la vita nella loro casetta e, chissà forse, per quella dell’intera via tristemente percorsa in su e in giù per tanti anni»
E finiscono per subire la violenza di Cosina e identificarsi con il ruolo imposto loro da cosina:
«Le fecero però presente che essi non avevano dimora, che doveva essere così gentile da ospitarli per un po’ di tempo».
Un po’ – pare – come i primi uomini, che a dire di Rousseau finirono per sottomettersi a colui che recintò il terreno e inventò la proprietà, rompendo il mitico comunitarismo precedente.
7) Finale: apologia vitalistica e narcisistica di Cosina e sogno (utopico, sadico e onnipotente) di dominio (lei che cavalca i due muli e divinizza se stessa).
La strategia narrativa è tutta affidata a un narratore che muove i fili dei personaggi in vista di una tesi filosofica precisa. (Mi si conferma ancora la tua predilezione per il *conte philosophique*). Egli ha un ruolo decisivo, autorevole, apparentemente oggettivo. Ed interferisce continuamente con commenti laterali riguardanti sia le scelte linguistiche adottate (come se si rivolgesse a un pubblico complice intelligente, letterariamente esigente e si prendesse o lo prendesse anche in giro …) per lo più posti tra parentesi:
– (anche questa è una licenza
un levigato, di un bruno splendente (o di uno splendore brunito, a scelta)
(anzi “ella”, come dicevano loro che parlavano forbito)
– (forse quest’ultimo non è una melodia, ma mi si perdoni; tanto si tratta de¬l¬l’impressione prodotta su due emeriti cretini
(a proposito, perché i gigli sono puri?)….;
– (disse proprio così, non, come sarebbe stato più corretto, che essi quasi potevano toccarla; ma Cip e Ciap non notarono questo lapsus).
– per cui tutta la notte cadde la goccia, quella famosa che, nel corso dei secoli, fora la roccia.
– (come sono sempre le vecchiette, anche se non se ne comprende il perché data la morte imminente e i dolori e la cattiva digestione e il resto),
Coerenti con la strategia narrativa trovo anche le scelte delle immagini: quella del bagno pulitissimo, accennato all’inizio del racconto e che poi torna e diventa elemento fondamentale, simbolo di pulizia morale e purezza; oppure quel “Rigate dritto”, che ha in sé tutta l’astrazione della norma morale rispetto alla realtà, messa tra l’altro in luce, sempre sul piano narrativo, dal contrasto tra la stradina chiusa frequentata dai “cosini” e lo stradone « dove correvano a tutta birra delle più o meno voluminose cosone rombanti», che impedisce di fatto l’esecuzione di quel comandamento.
Sempre sul piano formale l’unica osservazione critica che mi sento di farti è questa: forse le due dinamiche contrapposte ed estremizzate (dei due nel vortice del buonismo e di Cosina nel vortice del cattivismo) a un certo punto del racconto – dopo il colpo di scena, infatti, non avviene più nulla che dia un’altra direzione al racconto o aggiunga nuovi elementi e le due tipologie o allegorie del Bene e del Male vanno avanti rigide come manichini verso il loro destino – ripetono la logica ormai intuita dal lettore e abbondantemente suggerita dal narratore. Insomma tutto fila liscio senza più sorprese verso l’apologia di Cosina.
Pur avendo costruito un’anti-fiaba, il tuo racconto mantiene tutta la fissità e immutabilità dei ruoli dei personaggi del mondo delle fiabe. Sia Cip e Ciap che Cosina appaiono, infatti, catafratti nei loro rispettivi e contrapposti immaginari del Bene e del Male. Ne sono l’allegoria rigida, senza vie d’uscita. Seguono logiche invariabili e immutabili: Cip e Ciap “rigano dritto” verso il fallimento e la servitù; Cosina, anche lei, “riga dritto” verso il dominio e la sopraffazione. Sono tipi “puri”. Riconosco senza esitazioni che in un racconto la cosa funzioni esteticamente ed esso sia godibile, anche da chi come me ne rifiuta la “morale”, che però c’è ed è insistentemente, in mille modi, con scelte lessicali e linguistiche “difesa” dal narratore (ho già detto che egli parteggia sistematicamente per Cosina). Ma quella “morale” finale, con la sua apologia vitalistica, nicciana:
..La vita è proprio un’avventura meravigliosa, così imprevedibile, erratica, casuale, un caleidoscopio in cui io mi muoverò con sicurezza e precisione, e ottenendo sempre quello che voglio perché sono astuta, cattiva, non avverto nemmeno il più piccolo stimolo sentimentale; e per di più sono bella, e lo sarò a lungo, ne sono certa
non ha fondamenta nella realtà, che secondo me è molto più varia, complicata, inafferrabile, irriducibile a logiche così dicotomiche: non esiste una categoria sociale – i poveri, i “cosini” – fatta tutta (o quasi) da sciocchi; non tutti i poveri sono fessi, imparano (facendo bene e male) anche dall’esperienza e dagli scontri della vita; e non tutte le Cosine o i Cosi hanno (per fortuna) “due palle così” ed anch’essi imparano (facendo magari più male che bene?) o hanno lo stesso contraddizioni che li deviano dal loro “retto cammino” (quello “malvagio” nel racconto più che idealizzato). Non ha, del resto, Cosina un bel difetto? «Cosina viveva insomma sempre nel presente, il passato veniva cancellato appena era….passato da poco»; e anche se «non dimenticava il futuro», deve fare attenzione a non cadere in contraddizione e a scoprirsi. Sai che fatica! (In proposito qui ci sarebbe da fare un bell’approfondimento ripigliando in mano il brano quasi leopardiano di Nietzsche sul gregge e il suo problematico elogio dell’assenza di memoria).
Questa “morale cattivista” non è con certezza fondabile sulla realtà o la “natura”. Come – aggiungo – non ha un fondamento la morale cattolica o romantica, che il narratore sbeffeggia – posso dirlo? – *ossessivamente*, cambiandole di segno, mettendo il *meno* o il *negativo* dove preti e umanisti mettevano o mettono il *più* o il *positivo*.
Lo sconvolgimento del mondo dei “cosini”, queste – ripeto – incarnazioni grottesche dei mitici Filemone e Bauci, che (ne lessi nel *Faust* di Goethe tradotto da Fortini) s’attardavano nei valori di in un mondo antico (pre-industriale) sconvolto dall’intervento di un “Cosone” diabolico, è storicamente reale e tu ne sei uno degli studiosi che più l’hanno indagato in modi convincenti, ma *non è sicuro* che si ripeta la storia di sempre. Con la fissità della fiaba. Nel racconto l’impedimento a una trasformazione sembra essere sempre la stupidità (un dato di natura presente solo in certi individui o in certe categorie?) di Cip e Ciap. Ma non mi pare che Cosina sia, anche se lei lo crede (e il narratore “complice” glielo concede senza obiettare, perché il grosso delle sue obiezioni colpiscono i “cosini”!), «aderente alla realtà del mondo, in armonia con l’Universo». A meno di non considerare il solipsismo aderente alla realtà del mondo e in armonia con l’Universo. E se non corrisponde sempre a realtà che «i ricchi sono sempre infelici, in preda a continue crisi esistenziali», non è un caso che l’autoapologia di Cosina debba essere fatta – buona trovata, forse una delle poche che rendono grottesca la “cattiva” – in solitudine (anche lei non ha appoggio da suoi simili in questo suo delirio?) dinanzi «alla sua immagine simmetrica nello specchio» o in sogno.
Infine, il fatto che il personaggio sia Cosina – una donna o femmina – non è irrilevante. Certo, a un ulteriore livello di astrazione del tuo racconto (vi accenni o vi accenna il narratore nel N.B finale un po’ difensivo) potrebbe essere un maschio: entrambi i sessi, infatti, possono essere allegorie dell’idea di Male e rappresentare in astratto «un essere che non ha mai la menoma indigestione, che si sente eterno perché l’essenza di cui è fatto è indistruttibile, non avrà mai fine, chiunque ne sia, di generazione in generazione, il portatore». E, tuttavia, anche se la presenza di allusioni sessuali o erotiche nel racconto tutto sommato sono un buon condimento secondario, mi parrebbe più complicato sostituire Cosina con un Cosone. La strategia narrativa dovrebbe completamente cambiare e non so con quali risultati. Ma ancora una volta, anche sul piano reale, la *petite différence* non è così trascurabile o cancellabile.
Un caro saluto
Ennio
Rileggendomi, ahimè, mi ero accorta dell’eventuale equivoco suscitato dalla frase “sono i discorsi interiori e i commenti dell’autore”, che doveva essere invece scritta “i discorsi interiori dei due cosini e i commenti dell’autore”, ove ovviamente i commenti dell’autore sottolineavano la cecità dei cosini e non la sua adesione ai loro pensierini. Mi è sembrato pedante aggiungere un p.s. con la correzione, invece forse avrei dovuto farlo…
…penso anch’io che in questo racconto, come negli altri letti, la voce narrante corrisponda raramente per convinzioni a quella “vera” dello scrittore, anzi spesso Franco Nova distrae il lettore in vie d’uscita improbabili su mondi paralleli dove presta la voce ai suoi personaggi per mettere in evidenza con ironia e umorismo, ma anche con un certo disprezzo, la loro pochezza di vittime destinate o di astuti prepotenti…Mi sembra anche vero, come dice Ennio Abate, che in questo racconto “… concede di più a Cosina…”, cioè forse l’autore indirizza maggiormente a lei una certa ammirazione in quel suo “cattivismo” che si contrappone al “buonismo” dei Cosini…Forse sarà per par condicio che, viceversa, io come lettrice mi son sentita più portata a capire le ragioni dei Cosini…Cioè a pormi delle domande sulla loro dabbenaggine…Diversamente da Cosina che poggia tutto il suo essere sul narcisismo del presente, cioè il mondo è nato con lei e finisce con lei, loro hanno una memoria storica, grazie alla nonna. Lei trasmette la “saggezza” atavica delle vittime “Rigate diritto”, cioè non mescolatevi con i prepotenti o anche rinunciate alla felicità. Infatti i Cosini vivono in un mondo ristretto e sono bigotti: sottomissione e religione per sopravvivere, certo non vivere…Accettano persino di nutrirsi frugando tra le immondizie… Come si può pensare che, dai servi della gleba ad oggi, come si immagina, loro abbiano potuto tirar fuori la convinzione e la forza per ribellarsi?
Persino nei campi di sterminio recenti qualcuno ha finito per convincersi di meritare quei trattamenti…Per fortuna Cosini e Cosina sono solo degli stereotopi, la Storia ha evoluto personaggi pù complessi, ma il racconto ci fa molto riflettere anche sulle difficoltà psicologiche che possono ostacolare i cambiamenti e non c’entrano nulla con l’intelligenza…
certo sono sorpreso che si sia pensato abbia creato in Cosina una sorta di “eroina” sia pure negativa. E’ non semplicemente cattiva, ma meschina. E inoltre, concedetemi l’intelligenza di non pensare che quella sia intelligente. Non è proprio una vittima, ma comunque una destinata a sfruttare quello che ha, il corpo (e malgrado quel che dice, invecchierà: eccome!), perché di cervello non ne ha più dei cosini. E’ diverso solo il modo di guardare il mondo e, probabilmente, l’educazione pregressa, che balena appena per i cosini, e nulla per Cosina. Comunque, ha un futuro di mantenuta e, se è tanto presuntuosa da credersi sempre in grado di trovare dei cosini, finirà battona; e sempre più in basso man mano che invecchia. Quello che ho aggiunto alla fine non è per “strategia”. Posso assicurare che non ho mai conosciuto una donna come Cosina. Non è un prototipo, è una invenzione per sfogare la noia di una vita che comincia ad essere noiosa. Anche di cosini non ne ho conosciuti. In letteratura (ma quella grande) diciamo Bouvard et Pécuchet, ma – appunto – erano personaggi più complessi e “risolti” nella loro scemenza. Questi sono un puro divertissement. Ho conosciuto invece molti “cosoni con due palle”, ma spesso ottusi e anche cattivi. Le “due palle” erano impegnate non nell’intelligenza ma nella demente cattiveria. Io scrivo racconti per vincere, come detto, la noia e divertirmi un po’. E mi piace molto vedere come vengono “estratti” i significati da quanto scrivo; e di cui io ho solo qualche volta idea. Più spesso li imparo da voi; e questo mi sembra interessante, in fondo rende più vivo il racconto. Ancora: mi si dice che evito di scrivere di poveri, di quelli lucidi e determinati. E’ vero, altrimenti parlo di persone reali, poco divertenti, anche se possono commuovere di più. Certo che ne conosco. Metto qui una poesia non certo bella, disarmonica e tecnicamente fallita. La metto per far capire che conosco personaggi diversi (anzi non conosco affatto cosini, come già detto). Solo che non mi divertirei a parlarne. L’altro ieri ho avuto notizia della morte di uno degli “amici” della “compagnia di Parma” (Università) con cui abbiamo fatto pranzo tutti gli anni fino all’inizio di questo secolo, E poi li ho sentiti sempre per telefono alle “feste comandate”. Ormai siamo ridotti all’osso. Alla mia festa di laurea vennero 43 persone, e facemmo una sbronza “storica”. Quanti ne restano? Siamo sicuramente sotto la decina. Debbo parlare di questi? A volte vorrei, ma non posso, devo scrivere di personaggi talmente fuori della norma che so bene non esistere, e non sono mai esistiti nella mia vita; per questo sono rassicuranti. Della loro morte (che non so come potrebbe avvenire) non mi dorrò, non avrò paturnie di alcun genere. Ne riderò come della loro “vita” di impossibile esistenza.
L’amico (morto da vent’anni e di cui parlo nella pseudopoesia) non era ricco, più sul povero; ma lucidità e determinazione ne aveva. E poiché era degli anni ’20, aveva potuto fare la Resistenza e certamente non tanto male (un fegataccio, come suol dirsi)
Un amico è morto ed è gelo;
sogni d’un tempo svanito
nell’ombra del crepuscolo
che cala pure sul mio destino.
Quanto ardore nella lotta,
ingenuità giovanile di futuri aperti
all’irruzione degli umili nella Storia.
Abbiamo immaginato e sofferto
nella via interrotta dalla frana;
ci siamo sempre rialzati increduli
di contro agli eventi crudeli,
alla viltà dell’ignavo disimpegno.
La morte ha infine vinto,
ma solo nell’individuo,
nel suo corpo disfatto.
Non cesserà la memoria
di ciò ch’egli è stato,
della sua adesione alla luce
contro le tenebre dell’abisso
in cui s’era tutti caduti.
Saremo ancora a lungo insieme,
fin quando durerà lo svolgersi
dell’umano dolore che avanza
verso mete più alte dei singoli.
Il filo s’è interrotto un attimo,
si riannoderà nella memoria
dell’uomo, dell’amico, del compagno.
Giorno di dolore ma non disperato,
la memoria ricucirà lo strappo;
pur con dolore e senza retorica,
sapendo il nostro finito orizzonte,
torneremo fra noi a ragionare,
a ripercorrere il sentiero
di ideali non ancora consunti,
come fosse presente: a lungo!
Non posso scrivere di questi personaggi, non ce la farei. Debbo stare con i cosini.
Vorrei provare a collegare questo commento di Franco Nova ai suoi spietati e assurdi racconti.
In questo commento FN presenta un’altra faccia, la nudità: scrive per “sfogare la noia di una vita che comincia ad essere noiosa”, una nota di sincerità, sembra. Ma poi aggiunge un piccolo veleno, introduce la distanza “mi piace molto vedere come vengono “estratti” i significati da quanto scrivo”, si mette cioè in zona di sicurezza e osserva.
Insomma: cosa c’è di “vero” nei gretti personaggi delle sue storie? Di “vero” nel senso che corrisponde a un giudizio che realmente gli appartiene sulla qualità degli esseri umani. Oppure si potrebbe chiedere: se i suoi personaggi sono “puro divertissement”, perché si diverte proprio in questo modo?
Ma subito ci riporta, con la poesia, alla faccia nuda, con richiami a un luogo- che-non-esiste, la memoria
La morte ha infine vinto,
ma solo nell’individuo,
nel suo corpo disfatto.
Non cesserà la memoria… Saremo ancora … si riannoderà … torneremo tra noi a ragionare …
eppure è un luogo “vero”.
Fino alla confessione finale “Non posso scrivere di questi personaggi, non ce la farei. Debbo stare con i cosini.”
Dirò che leggendo il commento man mano mi tornava in mente la forte impressione che mi avevano fatto le poesie in carcere di Gabriele Cagliari, oggi non le ricordo affatto, ma la sincerità e l’intensità erano portate da un linguaggio scarno e concreto, come questo. Anche nella poesia, rime interne e allitterazioni (giovanile/umili, aperto/sofferti, increduli/crudeli) offrono uno spiraglio su una pienezza emotiva.
Non ho conclusioni da trarre, solo che la scrittura è maschera e specchio. Le facce, di solito, vanno in giro, si vedono e si parlano
…gentile Franco Nova, ringrazio moltissimo per i racconti che sono una trasposizione fantastica e provocatoria della realtà, nella quale è facile perdersi e ritrovarsi, proprio come dice lei, nel tentativo di rimettere insieme i pezzi di un puzzle in disordine di una singola vita, e chi legge non può fare a meno di sentirsi coinvolto in prima persona, o di quella collettiva…Sono racconti al massimo interattivi e buoni per affinare l'”orientamento” e per cacciare la noia di tutti… Per favore, continui a stare con i cosini, ma non lasci neppure la poesia…
Da cosino qual sono, e perché di cosini come me ne ho conosciuti molti (alti, bassi. vincenti e perdenti, furbi e ingenui), devo ammettere che il racconto mi è piaciuto; tanto che l’ho trovato vero, assai più di come sarebbe parso se invece di cip e ciap, i due si fossero chiamati Mario e Andrea, per dire due nomi tra i tanti. Molto meglio così: le fiabe hanno universalità, se tradotte funzionano in ogni luogo e paese; e non c’è motivo di credere che non debba valere anche per le fiabe crudeli, come questa che si è data perfino un lieto fine su misura, per cattivi. Tanto i buoni, buoni resteranno e non cambierà niente: i cattivi li hanno convinti che non è bene munirsi di fucile e sparargli. Da cosino dico la morale non mia: “meglio soli che mal accompagnati”, alla lunga non ci si sente cosini, anche perché mancherà chi ti può far sentire cosino. E sarà come averne uccisi parecchi.
Ho da poco finito di scrivere giustappunto questa poesia, che vi mando scusandomi con Nova se mi prendo dello spazio, e se forse non è ancora a posto. A me sembra che il tema abbia delle somiglianze col suo racconto. Potrebbe averla scritta Ciap, una sera, da innamorato, ma dopo anni di faticoso apprendistato.
Prima del bacio ci sono labbra Che si sfiorano sul lato delle bocche.
Terra e Luna. E sulla Terra una foglia dei rami alla tua altezza che Tocca i capelli
e nei Capelli, circuito di Autostrade per le dita, Il Corpo vestito
di due Scozzesi ballerini, Il Melone Dalla buccia Più liscia, Una tartaruga marina, TUTTI GLI ottoni di Una banda musicale; Il Picchio sul melo, il melo Che Domanda, la Domanda Che piace.
Questo per l’inizio del bacio. Una settimana dopo ci Si Può Toccare, lingua con
Lingua: parola magica Che apre alla curiosità. Il rumore di Una piega del tessuto coprirà Quello della saliva, della curva di un fiume, di una cartolina che cade, di un Raggio dalla finestra; nell’androne della scala deserta, di un cellulare spento, della spesa riposta nel Frigorifero, del morso a Uno spicchio d’arancia, dei mobili quando non scricchiolano.
Un braccio di lingua, lo zecchino delle fiabe, l’ultima Parola di un musicista; le calze di un giaguaro e il ramo del lago di Como. Ma quest’ultimo si sa.
Mesi di carezze per urlare. Questo promette il Pene che sta sull’albero della conoscenza.
Mai fidarsi di quelli che strisciano.
Anche in questo racconto Franco Nova mette a segno la sua bravura e per questo gli rinnovo i miei complimenti per lo stile personalissimo e per la capacità che i suoi racconti, tra cui questo, hanno di ‘catturare’ il lettore. Che è cosa non da tutti, né da poco.
Sulla storia qui proposta mi sento di fare una sola osservazione ed è a proposito del perfetto sincretismo dei due personaggi Cip e Ciap. L’impressione che ricevo dalla lettura è che i due fratelli monozigoti, pur cosini quanto si voglia, siano vittime di sé stessi prima ancora che della signorina Cosina. Vittime intendo della loro piccola vita, perfetta nella sua ‘controllata’ normalità, al punto da sembrare a-normale per la sua perfezione.
Quasi quasi azzarderei l’ipotesi che Cosina rappresenta il loro alter-ego (le fantasie nascoste, o proibite).
…le tue riflessioni, Giuseppina, mi fanno in qualche modo entrare ancora nella storia di Franco Nova…riguardo ai cosini, dici “Quasi quasi azzarderei l’ipotesi che Cosina rappresenta il loro alter-ego (le fantasie nascoste o proibite)” Se si riferisce ad un individuo soltanto (o anche alla società), ho sempre pensato che l’alter-ego potesse avere una funzione positiva, di arricchimento, di completamento, in questo caso invece, nella situazione così come è descritta penso piuttosto ad un rapporto di distruzione reciproca…Anch’io avevo pensato ad una sorta di complementarietà non certo positiva tra i due modi di concepire il mondo, per cui l’uno regge l’altro, ma in effetti le cose stanno ancora peggio: l’atteggiamento servile e di incondizionata ammirazione dei cosini verso Cosina col tempo potrebbe produrre in quest’ultima un eccesso di potere sino a farla scoppiare come un palloncino, e i cosini pur di sostenerla sarebbero pronti a farsi polverizzare…Purtroppo l’idea della felicità
viene ingenuamente consegnata all’idea del potere…
mi pare giusto pensare che i cosini siano anormali nella loro normalità. La troppa normalità è quella dell’uomo medio nella definizione che ne dà Pasolini ne “La ricotta”. E cioè che è un pericoloso “delinquente”, un “mostro” che può condurre alla degenerazione totale dell’umanità. Meno mi convince che Cosina sia il loro alter ego, che rappresenti le loro fantasie. C’è un momento al loro incontro in cui sembra nascere un qualche desiderio, ma la repressione è ben solida e, alla fin fine, non ha crepe. Il “sogno” della casa nel bosco, con tutto ciò che di “pastorale” vi è, non è la fantasia che dovrebbe scatenare la bella (e sensuale) Cosina in un qualsiasi uomo. Comunque, non c’è molto “movimento” nella personalità dei cosini e nella mia descrizione della stessa. Sono “burattini”; e per la verità non commuovono come quelli di “Che cosa sono le nuvole” (sempre Pasolini). Sono monocordi, insensibili, salvo che a pensieri limitati oltre ogni dire.
In effetti, Franco, la staticità dei Cosini, così ancorati al passato, non offre nessuno spiraglio per disancorarsi dalla loro passività. L’idea – un’ipotesi molto azzardata, lo ammetto – di pensare alla rappresentante del gentil sesso come a una proiezione del loro sub-conscio è partita più che altro dalle fantasie nate dall’incontro con quella presenza. Trovo sintomatica la divisione della percezione del tempo che attribuisci ai personaggi. Mi sembra che Cosina abbia qualche vantaggio in più rispetto ai due. Forse Annamaria non sarà d’accordo, ma mi pare di capire che pensare al presente proiettandosi nel futuro, presuppone per lo meno una qualche elaborazione del proprio vissuto, sebbene trovo senza dubbio alcuno detestabile l’utilizzo che Cosina ne fa.
La discussione, grazie anche ai commenti dell’autore, ha chiarito finora diversi punti di questo complesso e intrigante racconto: che il narratore non coincide con la voce narrante e non condivide automaticamente quei suoi giudizi o commenti; che i personaggi non sono realistici ma tipizzazioni astratte (allegorie, “burattini”) e comunque ci parlano e ci mettono in discussione con la forza mitica che emanano; che non si può parlare di intelligenza piena per Cosina, né di sola stupidità per Cip e Ciap, né di bontà da una parte o di cattiveria dall’altra; che se Cip e Ciap sono vittime di Cosina, anche questa è un po’ vittima del suo destino («una destinata a sfruttare quello che ha, il corpo… perché di cervello non ne ha più dei cosini. E’ diverso solo il modo di guardare il mondo e, probabilmente, l’educazione pregressa, che balena appena per i cosini, e nulla per Cosina. Comunque, ha un futuro di mantenuta e, se è tanto presuntuosa da credersi sempre in grado di trovare dei cosini, finirà battona; e sempre più in basso man mano che invecchia.»).
Eppure io vorrei ritornare sulla morale “cattivista” che avevo segnalato nel mio lungo commento. È questa in fondo che prevale nel racconto. E che Annamaria Locatelli ha ben colto quando ha parlato di «“cattivismo” che si contrappone al “buonismo” dei Cosini». Essa spinge i lettori a reagire in qualche modo, ad accettarla o rifiutarla.
Ed, infatti, Annamaria scrive che è « per par condicio che, viceversa, io come lettrice mi son sentita più portata a capire le ragioni dei Cosini», prende le distanze dal «narcisismo del presente» di Cosina e valorizza « la “saggezza” atavica delle vittime» che a Cip e Ciap è stata trasmessa dalla nonna.
Anche Mayoor, nei suoi modi maliziosi e ironici, parteggia per loro («Da cosino qual sono, e perché di cosini come me ne ho conosciuti molti»).
Quindi, al di là della schematicità elementare dei personaggi e che ne sia consapevole o meno Nova, i lettori vengono interpellati a prendere posizione, a parteggiare. O per Cip e Ciap o per Cosina – i due “partiti”, pur stereotipati, che nelle vicende del racconto si contrappongono.
Di quali posizioni storiche sono allegorie questi “burattini”? sono davvero semplici marionette che rimandano solo a se stesse?
Non credo. E mi pare abbia ragione Cristiana Fischer a chiedersi: « se i suoi personaggi sono “puro divertissement”, perché [il narratore, Nova] si diverte proprio in questo modo?».
Tento di rispondere. Non credo affatto che Nova scriva questi racconti soltanto per sfuggire alla noia ( o per “puro divertissement”).
Qui interviene la funzione ambigua della letteratura. Perché sotto la sua copertura, permettendo di non intervenire direttamente nel discorso corrente e diretto che di solito svolgiamo con gli altri, prosegue una riflessione sulla società e le sue dinamiche forse più libera o meno “responsabile” (in apparenza) di quella condotta – che so – con un saggio, un articolo sul giornale, un commento rivolto agli altri, come questo mio. E comunque non del tutto sganciata da quella che si conduce in altri modi e in altre sedi.
Inoltre, di fronte alla poesia per un amico scomparso proposta da Nova, mi azzardo a dire che egli dimostra di fare anche i conti con personaggi reali, conosciuti in carne ed ossa; e non semplicemente di divertirsi con quelli inventati e per questo «rassicuranti». Facendo emergere non solo quella « faccia nuda» (Fischer), che i racconti velano o da cui si distanziano, ma addirittura «ardore nella lotta», «ingenuità giovanile di futuri aperti», speranze nell’«irruzione degli umili nella Storia», permanenza della memoria « fin quando durerà lo svolgersi/ dell’umano dolore», « mete più alte dei singoli».
Che – concludo – sono atteggiamenti più vicini a quelli di Cip e Ciap o a quelli di Cosina?
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&frm=1&source=web&cd=7&cad=rja&uact=8&ved=0CEoQtwIwBg&url=http%3A%2F%2Fwww.dailymotion.com%2Fvideo%2Fxq9w68_furore-the-grapes-of-wrath-il-discorso-di-tom-joad_shortfilms&ei=CvaTVcP6G8q7UbeCg5gK&usg=AFQjCNF6VQ2GJoBSdogBylabHefRQM3yxg&bvm=bv.96952980,d.d24
spero si veda perché è molto imperfetto questo pezzo in youtube (che vada al diavolo questo posto dove tutto è messo così alla rinfusa e senza rispetto dei tempi dei brani inseriti). Non credo alla visione “umanistica” di Tom Joad (e di Ford; e poi è sincero?); tuttavia, che volete che vi dica, malgrado tutto sento trattarsi di un’aspirazione non retorica, di qualcosa da rispettare e per cui provare adesione ed emozione. Sono sentimenti opposti a quelli sordidi o meschini (o al massimo ossessivi) dei personaggi dei racconti. Ma li scrivo proprio perché protesto che non sia così, che questa umanità esprima spesso a parole propositi “alti”; e poi….. persegua ben diversi e “bassi” scopi. Non sempre, certo; ma quando si tenta qualcosa di buono, o muoiono (spesso uccisi) i protagonisti oppure quel che viene realizzato – e che comunque non lo è mai soltanto con i “buoni sentimenti” e le “nobili azioni” – viene alla fine disfatto.
Dannata scrittura! Questa nota di FN è autocontraddittoria al massimo:
“Non credo alla visione ‘umanistica’ di Tom Joad (e di Ford; e poi è sincero?); tuttavia, che volete che vi dica, malgrado tutto sento trattarsi di un’aspirazione non retorica, di qualcosa da rispettare e per cui provare adesione ed emozione!”: non credo, e poi è sincero?, malgrado tutto, sento…
“scrivo proprio perché protesto che non sia così, che questa umanità esprima spesso a parole propositi ‘alti’; e poi….. persegua ben diversi e ‘bassi’ scopi. Non sempre, certo; ma quando si tenta qualcosa di buono”: non sia così, e poi persegua, non sempre certo, ma…
“quel che viene realizzato – e che comunque non lo è mai soltanto con i ‘buoni sentimenti’ e le ‘nobili azioni’ – viene alla fine disfatto”: viene realizzato, mai soltanto, alla fine disfatto…
Che dire? Dannata scrittura, prima ancora che letteratura!, scrittura che può mentire in sequenza senza scandalizzare, senza quasi venire avvertita, lo diceva Platone, mentre lo scriveva…
“Ma li scrivo proprio perché protesto che non sia così, che questa umanità esprima spesso a parole propositi “alti”; e poi….. persegua ben diversi e “bassi” scopi. Non sempre, certo; ma quando si tenta qualcosa di buono, o muoiono (spesso uccisi) i protagonisti oppure quel che viene realizzato – e che comunque non lo è mai soltanto con i “buoni sentimenti” e le “nobili azioni” – viene alla fine disfatto” (Nova)
Alla fine…
Ma, se la storia non ha avuto (per ora) fine, chi può dire con assoluta certezza che la sconfitta di quelli che tentano “qualcosa di buono” e magari muoiono nel tentativo sia LA FINE?
La visione “umanistica” di Tom Joad può anche essere ambivalente ( predica bene e razzola male: propositi “alti”; e poi….. ben diversi e “bassi” scopi), ma tiene aperto uno spiraglio, non precipita nel nichilismo. E *la tentazione del bene* (Brecht) si ripresenta caparbia.
Quasi per caso in questi giorni sto leggendo un saggio ancora in bozze inviatomi dall’amico Giulio Toffoli E’ un esempio di questa *tentazione*. Ne riporto l’introduzione:
Li Yu e Walter Benjamin
Concluso il secondo grande macello mondiale del XX secolo e liberato il paese, dopo che
il presidente Mao aveva annunciato, dalla Piazza della Pace Celeste, la costituzione di
una nuova libera nazione, Li Yu aveva ripreso la sua modesta attività di maestro. In quel
periodo gli era capitata fra le mani, quasi per caso, una pubblicazione occidentale,
realizzata negli Stati Uniti; si trattava di una rivista accademica in cui erano state per la
prima volta stampate le tesi Uber den Begriff der Geschichfe, l’ultimo scritto, quasi un
lascito testamentario, di quella originale figura di maestro e di uomo di frontiera che era
stato Walter Benjamin. La figura di quell’intellettuale, ebreo tedesco che aveva vissuto fra
la fine di una guerra e l’inizio di un’altra una esistenza così difficile, quasi da apolide alla
continua ricerca di una identità, muovendosi senza tregua di paese in paese in giro per
l’Europa, lo aveva particolarmente intrigato.
Nulla era sembrato più appropriato a Li Yu che Benjamin avesse scelto o forse più
mestamente fosse stato costretto a decidere di suicidarsi proprio su una linea di confine
ed in più un confine fra due forme diverse di barbarie, l’una più manifesta, l’altra forse più
subdola ma non meno feroce. Proprio questo tragico destino gli aveva avvicinato e reso
particolarmente cara la memoria del saggio occidentale.
Lentamente aveva cercato di trovare gli altri suoi scritti, che aveva poi studiato con
passione. Fra tutti però particolarmente caro gli era rimasto proprio quell’antico fascicolo
che aveva conservato nei decenni e con il passare del tempo si era caricato di brevi note
mentre le pagine andavano lentamente ingiallendo.
Con Benjamin e soprattutto con questo scritto Li Yu aveva vissuto una vera e propria
continua lotta, intessuta di momenti alti e altri in cui la disperazione di fronte alle miserie
del mondo lo avevano invitato a lasciare quelle pagine d’un lato, abbandonate a se stesse,
come un caro, ma ormai irrimediabilmente antiquato, relitto di tempi passati.
Il trascorrere dei decenni, l’allontanarsi di quella titanica lotta contro il fascismo che aveva
caratterizzato la metà del secolo XX e il pullulare di nuove e sempre risorgenti ragioni di
conflitto insieme a uno smisurato e imprevedibile sviluppo delle tecnologie sembravano
aver creato una dimensione politica e sociale in cui le tematiche agitate dal saggio tedesco
apparivano del tutto lontane, quasi appassite.
«Che senso può avere per i giovani d’oggi – si chiedeva Li Yu -parlare di materialismo
storico?
Troppo spesso questa pur importante categoria dell’intelletto è stata trasformata in una
vuota formula, una arida dottrina, ripetuta quasi salmodiandola, lontana dal cuore della
gente. Chi ci può più credere oggi a queste teorie, se non piccole sette di fideisti talmente
lontane dal pulsare concreto della vita da far quasi compassione, e forse anche un poco
paura.
Similmente con quale coraggio riprendere e agitare, senza cadere nel ridicolo, concetti
come rivoluzione, lotta di classe, teologia speranza?
Viviamo in una realtà in cui l’abuso delle parole ha logorato questi concetti rendendoli
spesso quasi inutilizzabili o li ha trasformati, il che forse è ancor peggio, in strumenti di
nuove e più subdole forme di manipolazione della gente al servizio di nuove divinità
sanguinarie, non diverse ed anzi spesso peggiori di quelle tradizionali.
Quelle che dovevano essere delle chiavi per una strategia di liberazione degli uomini dalle
proprie catene e dai propri fantasmi sono così divenute strumenti per nuove e ancor più
perverse forme di schiavitù e di barbarie».
Nonostante queste sconsolate considerazioni Li Yu non era disposto ad abbandonare
completamente il suo vecchio compagno. Non aveva detto proprio Benjamin che:solo per i
disperati è data la speranza?
Allora era forse necessario riprendere quelle parole tanto logorate e abusate, ristudiarle e
difenderle contro coloro che le avevano tradite corrompendone il significato. Bisognava
perciò riallacciare, ancora una volta, l’antica consuetudine con Benjamin.
Un giorno del nuovo millennio, quando già molti anni avevano iniziato a scorrere nel
pallottoliere del tempo, Li Yu decise che era proprio il caso, forse per l’ultima volta prima di
rientrare nel grande nulla, di confrontarsi con le parole profetiche del suo antico amico di
frontiera. Nel corso dell’ultimo anno aveva trovato l’occasione di analizzare le diverse tesi
verificandone il valore attraverso una lunga serie di discussioni con gli studenti e con
alcuni amici. Ora si trattava di tirare la fila di quel lungo lavoro.
L’occasione che gli era capitata era davvero ghiotta. Infatti aveva la possibilità di passare
un periodo di riposo sulle rive di un lago dove era già stato molti anni prima, in uno dei
momenti più felici della sua vita. Il clima era invidiabile, l’alloggio ottimo, una occasione
quasi unica per riprendere fra le mani quell’antico scritto e i suoi appunti.
Si preparò con cura, raccolse le carte e quel poco che gli sarebbe stato necessario per la
permanenza, poi un giorno di primavera partì portandosi dietro una leggera valigia.
Li Yu, giunto a Chenyang, iniziò a organizzare il suo lavoro.
La permanenza in quella località sarebbe durata una ventina di giorni.
Il numero giusto per affrontare l’una dopo l’altra le 18 tesi dell’ «Uber den Begriff der
Geschichte». [1]
Giusto una al giorno.
Un tempo incredibilmente breve ma che costituiva una sfida che aveva deciso di vincere e
ora non poteva più tornare indietro.
La mattina del primo giorno si svegliò di buona lena e dopo aver svolto tutti i rituali
mattutini si mise a sedere su una comoda sedia. Di fronte aveva una grande finestra che
gli apriva lo sguardo verso una natura ancora incontaminata, uno specchio d’acqua
d’un azzurro profondo, su uno sfondo verde indistinto di una natura lussureggiante.
Sul tavolo davanti a sé il testo originale, stampato oltre mezzo secolo prima, e un foglio
bianco.
Quello che stava guardando non era certo il Mediterraneo di Portbou, come lo poteva
aver visto Benjamin quella triste mattina del 26 settembre 1940, mé\ il panorama non era
meno bello. Benjamin pur nell’incanto di quel suo estremo approdo portava nel cuore l’incedere
tragico delle armate fasciste che stavano sommergendo l’Europa. Li Yu nel clima incantato
del lago, sia pure come un lontano sottofondo, sentiva il rimbombare tragico di quelle
guerre, violenze ed ingiustizie che non accennano a diminuire ed anzi segnano con un
crescendo di violenza ogni terra di questo pianeta. Una storia che possiamo cercare di
esorcizzare, da cui possiamo cercare di sfuggire ma che inesorabilmente ci coinvolge.
Li Yu allora prese in mano la sua penna …
[1] Tesi sulla filosofia della storia
il pezzo lungo lo leggerò con calma anche perché già non ho combinato un bel nulla oggi con tutto quello che ci sarebbe da fare. Ho ben tre scritti ancora senza finale (complicato invero; solo un racconto fra i tre, specifico). Non ho compreso la contraddizione. Mi commuove lo spirito di Tom Joad; e lo ritengo del tutto sincero, forse perché grosso modo ricordo tutto il film e il personaggio del prete che ha perso (ma non è vero) la fede (un grande John Carradine). E’ a questo personaggio che Tom fa riferimento (parlando con la madre). Se poi anche John Ford crede sinceramente in quello che lo sceneggiatore (non ricordo chi è; in ogni caso, deve anche rispettare un po’ il romanzo di Steinbeck) mette in bocca a Tom, non lo so. Secondo me, tuttavia, la scena stessa (che un po’ ricordo sullo schermo del cinema) suscita emozione. E non irrido affatto chi abbia sentimenti simili, tutt’affatto. Solo, credo di aver imparato che è molto difficile seguire quella via; non mi sembra che, in definitiva, sia quella vincente. E’ ovvio che, finita una speranza (e anche una lotta per realizzarla), nella storia se ne ripropone un’altra. Non muore mai la speranza; e i cambiamenti storici dipendono pure da quella. Solo che poi si ha un “insabbiamento”, un periodo di sconfitta e progressivo imputridimento di quegli ideali. Ciò mi sembra necessario per far capire ai ritardatari che è ora di cambiare speranza e obiettivo della lotta (perché è cambiato il mondo, è mutata la struttura dei rapporti sociali, ecc.). Se non si cambia e si resta per fede all’antico, si rimane insabbiati come in quest’epoca di m…. La storia è un continuo rincorrersi di sconfitte, con fine di una “illusione”, e ricerca di una nuova per cui battersi; e in questa battaglia senza fine consisterà, credo, tutta la storia dell’umanità fino a quando, presumibilmente (ma nessuno sa dire quando né come né se deve avvenire ineluttabilmente), finirà d’esistere.
ho messo “illusione” tra virgolette. Perché non lo è nel senso comune del termine. Però qui s’apre un discorso che non inizio nemmeno questa sera.