Maschere

T. N., Maschera che cancella i desideri nello specchio, 1980

di Ennio Abate

Andavamo in manifestazione verso Roma con giovani compagni. Pozzanghere e grosse lastre di pietre sul cammino. Alcuni ci sguazzavano. Io cercavo di evitarle saltando sulle pietre asciutte. Ho saltato anche un torrente e ho cambiato strada. Ero in campagna. Un casolare. Qui dicevo abitano cent’anni? ( campano cent’anni?). Ho visto un vecchio alto di statura e robusto, ma quasi cieco. Cosa gli era accaduto? L’ho preso per un braccio e l’ho aiutato a sedere. Ma d’un tratto è crollato a terra. Mi son avvicinato al suo volto. Sembrava una maschera di bronzo, come quella di un antico guerriero ( immagini di Micene?). Si sono avvicinati dei passanti. Io singhiozzavo dicendo: questo è Montaldi…

(Diario 9 gennaio 2004, Sogno)

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Alcuni (o molti?) sostengono che certi contenuti non debbano entrare nel “sacro recinto” della Poesia o debbano essere allusi in necessariamente (qui interviene la censura o l’autocensura) in forme mitiche o allegoriche, “mascherati” insomma per non turbare palati delicati o aristocratici o “apolitici”. (Ammetto però, a scanso di equivoci, che il contenuto “civile” non è  di per sé un merito in più di una poesia; e che il valore di un’ opera di Brecht o di Majakowskij  non viene dal fatto che fossero comunisti (nella vita), ma dall’aver trovato  un linguaggio innovativo e incisivo per quel contenuto politico che a loro stava a cuore).

(Diario 15 febbraio 2009)


Cosa c’è dietro la tua maschera di insoddisfazione, di alterigia e di distruttività? A cosa sei “inchiodata”? Cos’è per te quel qualcosa “che è volato via”? Ed è giusto  inseguirlo  a parole? Perché scambi (Ah, Nietzsche!) il nostro essere “troppo umani” (difettosi, inquieti in modi diversi dai tuoi) per pesantezza? Perché soprattutto chiedi agli altri “una riga che vola”, invece di chiederti chi sono singolarmente? Perché tenerli sempre  ammucchiati e distanti da te (dalla tua infelicità, direi), magari provocandoli e beccandoti poi le loro reazioni stizzite? (Diario 20 febbraio 2009)

Un merito (involontario mi pare) però glielo riconosco [alla tua lettera]: mostrare quale vaso di Pandora (malumori, rimuginamenti, non detti) possa nascondere la maschera di poeti/poetesse “dialoganti” che volenterosamente pur indossiamo. Ma, siccome la scommessa fatta sul Laboratorio MOLTINPOESIA ancora mi appassiona, fin quando la mia pazienza reggerà (meglio: fin quando saprò tenere sotto controllo anche il mio vaso di Pandora), continuerò a mettere i puntini sulle i e a ripetere, argomentare, rispiegare. Non è la prima volta che scoppiano fulmini come questi nel nostro Laboratorio. Fin dagli inizi (novembre 2006 per i nuovi arrivati) di tanto in tanto viene messa in discussione (e temo che verrà di continuo rimessa in discussione) la sua (per me feconda) contraddizione, presente nella sua stessa denominazione (MOLTINPOESIA) e che ho ribadito nello slogan del 26 marzo (“Pochi in poesia? No, molti!”). Essere moltinpoesia con tutta probabilità è progetto scandaloso e velleitario. Non solo per quanti (parlo per Milano) operano sui teatrini della poesia (Casa della Poesia della Palazzina Liberty, Casa della poesia (versione “di sinistra” o “di base”) del Trotter, Milanocosa, Il Monte Analogo, La mosca di Milano, ecc.) , ma anche per vari partecipanti (diretti o indiretti..ed io non ho fatto mai distinzione tra gli uni e gli altri) al Laboratorio. (Diario 28 aprile 2009)

Per affrontare il problema della multietnicità non c’è bisogno di partire da Galli Della Loggia. Si rischia di farsi dare l’imbeccata da lui o comunque di partire col piede sbagliato, trascinandosi ( a meno che non sia scelta consapevole) e trascinando gli amici nella problematica ambigua dei “nuovi italiani” (una sorta di  nazionalismo mascherato, che a priori dà uno sbocco obbligato al confuso e conflittuale processo di rimescolamento di corpi e cultura che per approssimazione chiamiamo ‘multiculturalismo’. Perché per forza “nuovi italiani” e non “nuovi europei” e non “nuova umanità”? Chi conosce il futuro? E, non conoscendolo, perché ipotecarlo con il proprio nazionalismo? (Diario 21 marzo 2009)

Perciò io non inquadro il personaggio B[erlusconi] in questa cornice e vedo la comprovata inefficacia dei suoi oppositori “di sinistra” (per lui addirittura “comunisti”, cosa ridicola), che contrastano – potrei dire – la maschera, ricorrendo appunto alla denuncia del suo comportamento morale o del suo «dominio mediatico» ( sul quale tu pure ti diffondi in questa mail fin troppo), ma non vogliono vedere o temono di vedere o non possono più vedere, quel che la maschera nasconde, avendo rinunciato ad ogni barlume di visione marxiana. Una lettura almeno di matrice marxiana della politica vedrebbe subito che egli è solo la maschera di interessi cultural-politici-finanziari-economici di un settore capitalistico (il blocco della industria pubblica di punta e la media-piccola industria) in “conflitto solidale” con un altro settore (Fiat-Confindustria). ( Diario 26 febbraio 2011)

Mi ha colpito il suo commento sottilmente acido e malizioso (e mi scuserò con lei, se sbagliassi a interpretarlo). Rispolverando la recensione di Antonio Porta a *Una volta per sempre* di Fortini apparsa sul Corriere della sera del 1978, indirettamente lei sembra dire: Le poesie di Fortini hanno qualcosa d’oscuro («si riferiscono quasi sempre a “qualcosa d’altro”») e i suoi stessi «compagni di viaggio» non hanno nascosto «gli ostacoli e l’imbarazzo» nel concedergli l’avallo letterario; tanto che, non potendo dire che erano belle, notevoli, straordinarie, se la cavavano con contorti stratagemmi, del tipo: bisogna «partecipare all’ideologia fortiniana per capire le sue poesie». Non è che voi, qui convenuti a chiacchierare sul Meridiano delle poesie di Fortini, state ripetendo lo stesso giochetto? E perciò giù la maschera: dite «di quale ideologia o ideologie» parlate! Davvero la condividete/la condividevate l’ideologia del comunismo di Fortini? È una domanda scomoda, persino insidiosa, ma va al cuore di un problema: quello del legame tra la forma della poesia di Fortini e la sua concezione del comunismo (o “filosofia della storia”). In termini più semplici c’è chi si è chiesto e si chiede: ma a Fortini ha giovato o no (e non solo nella ricezione del pubblico, ma nell’accertamento da parte dei critici del valore estetico delle sue poesie) l’essere stato comunista e aver voluto dare forma a questo suo “pensiero dominante” anche in poesia? (Diario 23 giugno 2012: a R. L. A LATO DELLA DISCUSSIONE
SU «UN MERIDIANO PER LE POESIE DI FORTINI» su “Le parole e le cose” )

Procedo ancora con una parafrasi esplicativa e rimettendo le virgole: Tu, (che agli occhi altrui, per questo sentimento contrastato che vivevi e – qui il ‘partage’ c’è, ma in senso negativo, non risolto, come dramma interiore – che non sapevi dividere o distribuire il tuo amore tra le persone più vicine e familiare e ‘gli altri’, apparivi come una donna) strana, un po’ diversa (dalle altre), la infelice, (quella) inadeguata (alla vita “normale” e che, in realtà o ai miei occhi, eri) autoingannata ( cioè una che s’ingannava sulla sua vera natura, sui suoi reali desideri; e dunque viveva come se fosse) fasciata [bloccata, come una volta si fasciavano i neonati…], ingessata (dalle convenzioni, dalle regole assorbite; e che, per uscire dalla sua crisi era ricorsa alla psicanalisi, studiando e facendo analisi e credendo di intendersene, ma, in realtà o ai miei occhi, si era semplicemente) agghindata con stracci (con gli scampoli, con lo psicanalismo dilettantesco) del mercatino psicanalitico, (assumendo perciò una nuova) maschera, (dotandosi di un nuovo) amuleto (invece che di un sapere liberatorio e illudendosi di diventare così un) portafortuna per tutti ( cioè di aiutare ancora gli altri ) non per te medesima ( invece che essere portafortuna o meglio aver cura di te stessa), ( e perciò finendo ancora una volta per essere da te stessa) condannata a raccontarti così, con vergogna e danno ( e cioè, esibendo ad altri/e le tue pene e vergognandotene dopo averle raccontate e magari subendo anche un danno d’immagine da questa tua incontinenza esibizionistica, che la cura analitica non era riuscita a placare). (Diario 6 settembre 2012. A P.P. su ” Vecchia madre fanciulla”)

La tua stima « verso la crudità dello stile di un Cattaneo» è il sintomo del tuo irrimediabile estetismo. Del «primitivismo» e «cattivismo» di quel giovane cogli solo la superficie; e non la interroghi (eppure sei un critico e un adulto). Non ti chiedi se e quanto «primitivismo» e «cattivismo» fossero posa o maschera (coatta per giunta, come ho cercato di dire); e se quel giovane, poi suicida, chiedesse “altro” (ma non al “sistema”, a quelli che gli stavano attorno e vicini). E non riusciva a dirlo. Né i vicini, respiranti soltanto “l’ideologia dell’antideologia” (anche su questo nella tua risposta sorvoli), furono in grado di capire. Insomma, non vedi, a differenza di P., che su questo almeno è “umano, troppo umano” che Cattaneo «era un ragazzo, fragile, come tanti altri ragazzi»; e avrebbe avuto bisogno di qualcuno che lo aiutasse con la sua critica e non semplicemente lisciasse il suo falso/vero ribellismo. ( Diario 25 luglio 2014. A G. L. sul poeta Simone Cattaneo)

Mìneche e don Antimo, che era appuntato della finanza ed era poi con gli anni diventato maresciallo, avevano invece rapporti freddi. Si salutavano appena quando s’incontravano nelle scale. Il signor Antimo era, a differenza di Mìneche, ben disposto a giocare e a collaborare nei giochi che i ragazzi facevano. Una volta a Carnevale li aveva aiutati a ritagliare le maschere di cartone con il volto de diavolo e a colorarle con dei gessetti. Mineche, sempre in occasione di un carnevale, strappò in strada la maschera che Vulisse s’era comprato di nascosto. (Da ” A vocazzione”, inedito)

2 pensieri su “Maschere

  1. @ Ennio,
    aprendo Poliscritture mi sono imbattuta nel tuo post “Maschere” e sono rimasta particolarmente colpita dall’immagine posta quasi fosse un frontespizio a tutto il testo complessivo. In essa l’autore, Tabea Nineo, rappresenta molto di più di quanto titolato “Maschera che cancella i desideri allo specchio”.
    Soffermandomi sulla ricchezza espressiva di questa raffigurazione, non intendo fare un torto alle altre ‘maschere’ portate nel testo e i loro nessi in prosa, bensì dare un contributo in merito alle suggestioni che ne ho ricavato. Un tentativo di aprire il campo ad altre visioni e, di conseguenza, ad altre letture.
    Ma veniamo al dunque.
    Inizio dal primo impatto visivo emotivo: solo in un secondo momento ho prestato attenzione al titolo.
    E mi sono detta: ecco rappresentato Adamo nell’Eden quando entra in contatto con il proprio desiderio presentatogli da una realtà esterna, in quel caso da Eva. Infatti prima non c’era una realtà esterna configurata nelle sue differenze: ogni cosa forniva piacere, non c’era bisogno di chiedere né di desiderare in quanto la soddisfazione era a portata di mano “E l’uomo e la sua moglie erano ambedue ignudi e non ne aveano vergogna”.

    Entriamo nei dettagli supportandoci appunto con la lettura del Genesi.
    Nel disegno, lo specchio a destra rappresenta il prima, il giardino dell’Eden (“E un fiume usciva d’Eden per adacquare il giardino”; un luogo in cui tutto è confuso in quanto anche gli stessi contorni servono solo a ‘definire’ le cose spazialmente e non a dare loro un significato. Esso significato, infatti, appartiene all’Albero della Conoscenza del Bene e del Male a cui ad Adamo è fatto divieto di accedere. Infatti dice il serpente ad Eva “ma Iddio sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri s’apriranno, e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male’”.
    Sempre nel disegno, a sinistra, viene invece rappresentata l’epifania dello svelamento a partire dalla introduzione del desiderio: “E la donna vide che il frutto dell’albero era buono a mangiarsi, ch’era bello a vedere, e che l’albero era desiderabile per diventare intelligente; prese del frutto, ne mangiò, e ne dette anche al suo marito ch’era con lei, ed egli ne mangiò”. Vediamo dunque raffigurato Adamo ignudo, gli occhi che sembrano schizzargli dalle orbite, il coprirsi le parti intime con la mano. Così recita il Genesi: “Allora si apersero gli occhi ad ambedue, e s’accorsero ch’erano ignudi; e cucirono delle foglie di fico, e se ne fecero delle cinture”.
    Ma l’ira divina si abbattè su quel gesto: “… ne mangerai il frutto [della conoscenza] con affanno, tutti i giorni della tua vita”.
    Questa è la condanna che accompagna il desiderio e la conoscenza al punto di farci temere di accedervi pena la condanna all’affanno. Allora meglio rimanere nell’indistinto onde evitare i conflitti che desiderio e conoscenza si portano appresso.
    Essenziale a questo punto è, nel quadro, il particolare del ‘cancellino’ evidenziato con forza di segno quasi a significare che può rappresentare anche altro, secondo la logica magrittiana “ça n’est pas une pipe”. Infatti fa pensare anche ad un libretto, un breviario tascabile, comunque un simbolo di conoscenza, la sola che permetterà di arricchire il senso dell’esistenza cercando di ‘cancellare’ (o almeno ridurre) la confusione legata alla assenza di differenziazione.

    Quanto al concetto di “maschera” e alla sua funzione, ci viene in soccorso il nostro Pirandello che ci fa capire come la “maschera” (impostaci dalla società, dai suoi valori o anche da noi stessi) serve a coprire la nostra parte più profonda che è la parte costitutiva della personalità e ci riduce quindi a ‘persone’, nel senso di rappresentanti di rapporti sociali, e quindi, ‘maschere’. La parola maschera deriva dal greco pròsôpon che in latino si tradusse come persona). In questo modo, attraverso l’uso della maschera (o più maschere) si perde il ruolo dell’identità personale.

    Mentre per quanto riguarda lo specchio, la letteratura al proposito è ampia a partire dall’idea che lo specchio non rappresenti soltanto il nostro aspetto percepito con i sensi ma anche la nostra ‘anima’, la parte genuina profonda. Emblematico il film muto (1913) “Lo studente di Praga” di Hanns Heinz Ewers dove uno squattrinato studente, per ottenere successo presso una facoltosa nobildonna è disposto a vendere la sua immagine riflessa in uno specchio ad un mefistofelico personaggio.
    O, anche, che il ‘dietro lo specchio’ ci porti a contatto con un mondo interno solo a partire dalla realtà esterna, ovvero dalla ‘maschera’, appunto. Questo era l’intendimento che si può estrarre dal libro di L. Carroll “Alice dietro lo specchio”.
    Dietro lo specchio, infatti, Alice trova tutti i personaggi – anche se rappresentati in situazioni paradossali e bizzarre – che erano presenti nelle sue filastrocche.

  2. @ Simonitto

    Cara Rita,

    il discorso sulla maschera o sulle maschere è di una tale complessità (e il tuo commento ne è la dimostrazione) che nel post l’ho appena accennato e anzi ho tagliato molti altri disegni e riflessioni sia per non appesantire il post sia perché nello spessore mitico, che indubbiamente pratico, so di muovermi a tentoni e con una certa riotttosità. Ad esempio, non ho messo questa poesia coeva al disegno da te commentato e che forse esprimeva bene il mio sentire agli inizi degli anni ‘80:

    MASCHERE

    Una maschera quasi qualsiasi
    neppure a pennello
    andai provando
    in lunghi anni
    imparando come
    stare alla larga si debba
    dai loro carnevali
    e spallonarle tutte
    quelle fesse che suggeriscono
    insinuanti
    e sopportarne qualcuna
    tanto per fissar meglio le loro.

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