Le lucciole

di Angelo Australi

Il tratto di strada tra la chiesa e il punto dove catturavo le lucciole insieme a Dario si percorreva in una manciata di minuti. Tutto si svolgeva nella campagna ai bordi del paese, e il sentiero che tagliava in due la distesa di grano terminava proprio nella piazzetta dove c’era la villa padronale e poco distante la chiesa. Il palazzo signorile era contornato da alcune case costruite molto di recente: piccole abitazioni a un piano, con il giardino sul davanti e su di un lato il garage. Dietro questa pattuglia di abitazioni spuntava un grande olmo che nascondeva in parte la facciata dell’antica pieve romanica. All’orizzonte di quel panorama celato dall’albero gigantesco e dalla facciata della chiesa spuntava l’angolo di un piccolo cimitero, ma il suo bagliore era così modesto che si confondeva all’istante nel profondo buio delle colline.

Quel giorno io e Dario eravamo di turno per assistere il sacerdote durante la funzione del mese mariano, perché altrimenti ci avrebbe ricattato con la minaccia di fare le riserve alle prossime partite del campionato in notturna di calcio giovanile. Don Paolo aveva fatto un calendario ben preciso sui giorni che in coppia, noi della squadra dovevamo fare il chierichetto. Ricordo che il mio ruolo era quello del mediano, giocavo a centrocampo, con il compito ingrato di interdire gli avversari e organizzare le ripartenze della nostra squadra in attacco. Dario era mancino e stava all’ala sinistra, da dove crossava al centro dell’area avversaria per i piedi stregati del nostro amico Ivano, detto Salamandra. Tra tutti i ragazzi che si allenavano in parrocchia, solo un pazzo scatenato come Salamandra poteva permettersi il lusso di non subire il ricatto di don Paolo, perché altrimenti la squadra non era irresistibile. A volte lo invidiavo, per la sfacciataggine con la quale faceva sempre il suo porco comodo. Era l’unico che prendeva sul ridere le minacce del prete che ci allenava, grazie ai suoi goal la squadra aveva vinto per due anni consecutivi il torneo giovanile che si giocava tra la chiusura dell’anno scolastico e la partenza di alcuni per le vacanze al mare. Vinto e stravinto, con uno scarto di otto punti sulla seconda classificata il primo anno, addirittura di dieci nel secondo. E in entrambi Salamandra si era aggiudicato la coppa di capo cannoniere. Non solo evitava le funzioni, ma anche la messa domenicale. In un mobile della sacrestia splendevano le due coppe e la foto della squadra al gran completo, vestita di quei colori fortunati che ci facevano immaginare la vittoria per il terzo anno consecutivo: maglietta bianca, calzoncini verdi.

La caccia alle lucciole ci aveva così eccitati e caricato di allegria che stentavamo a trovare un contegno adeguato, mentre il parroco si affaccendava nei preparativi della funzione in quell’ambiente serio e gonfio di silenzio.

Entrati in sacrestia con il pensiero di come custodire i nostri insetti luminosi durante la funzione, era nato un mezzo dramma scespiriano: se le portavamo all’altare don Paolo avrebbe gridato come un pazzo sulla mancanza di rispetto verso l’Onnipotente e tutto il suo seguito di santi e di beati, mentre tenute in tasca il loro luccichio avrebbe trasformato la nostra entusiasmante avventura in una schifosissima marmellata. Quando ho suggerito di appoggiare i fazzoletti sopra una scansia vicino alla porta che dal corridoio della sacrestia portava all’altar maggiore, a Dario non parve una cattiva idea.

Fu proprio in quella funzione del mese mariano che il parroco organizzò una predica più lunga del solito. Neanche a volerci fare un dispetto, avrebbe scelto una giornata migliore di quella. A stargli accanto mentre parlava mi era venuto un intorpidimento dai ginocchi in giù, proprio come quelle volte che avevo i crampi ai polpacci durante le partite di calcio dove si faceva sul serio e c’era da correre come dei matti, almeno nel mio ruolo di interdizione. In dei momenti alzava la voce chiamando a testimone la vergine Maria, mentre un paio di vecchiette che ascoltavano attentamente sedute in prima fila, quando il prete si avvicinava al microfono per alzare il suo grido di fede, pensando che avesse supplicato la Madonna di correre giù dal cielo per stare insieme a loro, avevano un sobbalzo di gioiosa incredulità.

Alla fine della funzione ci precipitammo in sacrestia, ma tutta la premura di rientrare in possesso delle lucciole fu ridimensionata dall’arrivo di don Paolo, che guardando il suo orologio al polso disse:

– Spengete voi le luci, che io vado di fretta.

Questo contrattempo, piovuto come un ordine, finì per ghiacciare tutti i nostri bollori di ardimentosi cacciatori di lucciole.

– Per il portone non vi preoccupate, verrò più tardi a chiuderlo.

Nel momento che il prete si allontanava con una certa premura ci guardammo in faccia scoraggiati, senza riuscire a scambiare due parole. Lo sguardo stralunato di Dario sembrava quello di un ebete, mentre a lui dovevo apparire molto teso e sconsolato.

– Sbrighiamoci, devo ripassare dei capitoli sul libro di geografia e su quello di scienze. Non posso non farlo, domani ho due interrogazioni che, se vanno bene, ottengo il sei in pagella.

– Che ore saranno?

– Mah, forse le dieci e mezzo… – giudicai in modo generico. – … La predica di don Palo mi ha quasi sfondato il cervello.

– Facciamo presto, dai!

Dalla sacrestia filtrava appena un po’ di luce, mentre da fuori, attraverso l’ampio rosone, dalla controfacciata della chiesa giungeva il bagliore dei lampioni della piazza. Le ombre inghiottivano gli oggetti, candelabri e immagini sacre sdoppiandosi proiettavano sul pavimento delle strane macchie. Nel quadro dove c’era raffigurato il fuoco del purgatorio, il gioco di ombre sembrava talmente vero che per un istante ho avuto l’impressione di trovarmi avvampato tra le fiamme del dipinto.

Dario si precipitò a staccare l’interruttore della luce proprio nel momento che finivo di spengere le candele sull’ultimo altare, così il chiarore della sacrestia si smorzò e scomparve. Solo quei fazzoletti pieni di lucciole resistevano al buio che ora regnava nella chiesa, ma non era che uno spento luccichio a materializzare l’ombra dei nostri corpi.

Senza musica e senza preavviso Dario scivolò sul gradino che dalla sacrestia portava in chiesa. Il silenzio fu attraversato da un baccano infernale, mentre il bagliore svaniva nel nulla e in un attimo ricompariva disintegrato in tante briciole. Quelle forme lucenti si posavano su qualche statua di gesso, un quadro, un vaso di fiori, accadeva tutto in un modo così pazzesco che addirittura pensavo di vivere un sogno.

Appena si fu rialzato, Dario tentò di raggiungere velocemente l’interruttore della luce che stava in sacrestia, ma ad un tratto si fermò e disse:

– Porca miseria!!! … Se accendo la luce non distingueremo più tanto bene le lucciole. Dobbiamo prenderle così, al buio. Come se fossimo in un campo di grano.

– E don Paolo? – gli chiesi.

– Ma le lucciole …, io, … io le voglio!

– Là fuori ce ne sono a miliardi, si fa prima a cercarne di nuove. Dai retta, qui finisce che passiamo da fessi – dissi, per rincuorarlo.

– Non importa come ci passiamo, voglio queste! Ho sputato l’anima a prenderle, non mi va di ricominciare daccapo.

– Perché qui che fai, lanci un fischio e ti vengono sulla mano?

– Non essere stronzo, Spartaco.

– Non ci penso nemmeno minimamente, dico solo che se torna prima don Paolo, ci facciamo la figura dei cretini.

Era pressoché inutile tentare di orientarsi. Spesso e volentieri sbattevamo in una panca, si inciampava sulle pieghe del tappeto persiano che stava davanti all’altare maggiore, mentre c’era sempre qualche lucciola che continuava a gironzolare sopra le nostre teste.

Chiamai nuovamente il mio amico con l’intento di convincerlo a rinunciare, ma per Dario, prima di capitolare, valeva la pena fare un altro tentativo.

– Hei! …

– Oh?! …

– Dario.

– Spartaco.

– Qua…, sono qua.

– Che mazzo di nero incredibile!

– Accidenti a te, non lo so dove mi trovo.

– Nemmeno riesco a vedere la tua ombra.

– Fai un fischio, … così vengo dietro al suono.

– Fra poco tornerà don Paolo.

– Oihhh! … Sono inciapato.

A quel punto ero così depresso che avevo smesso di cacciare, perché quei bagliori di luce si moltiplicavano e riducevano a intervalli regolari negli spazi enormi della chiesa riempita dalla notte. Tastando nel vuoto finalmente trovai una panca dove sedersi, così attesi speranzoso che Dario finisse per accettare il mio consiglio.

*     *      *

– Che penserà don Paolo? – chiese Dario, quando fummo nella piazza illuminata.

– Non ne ho la più pallida idea.

– Perché ho l’impressione che quando sono caduto si sia rotta una statua.

– Ne sei certo?

– Le sono finito in braccio.

– Questo però non significa niente.

– Spartaco, non mi sono messo a cercare i cocci, … però quando cadeva in terra lo schianto c’è stato.

– Non vuol dire che si sia rotta.

– Si è rotta.

– Se fosse vero, si galleggia proprio in un mare di merda.

– Non ridere, … per piacere.

– E chi ha voglia di ridere. Sembriamo due coglioni di ladri, presi con le mani nel sacco.

– Davvero, che dirà?

– Dario, non lo so, … Ma neanche m’interessa.

– Io invece, ci sto’ proprio male.

Sentivo che Dario stava con l’anima in pena, così per rincuorarlo dissi che prima di tutto il parroco avrebbe visto questi strani insetti a zonzo, se lui aveva rotto la statua se ne sarebbe accorto solo se accendeva la luce, ma a quel punto saremmo stati lontani per poterci interrogare. E con il sole del giorno dopo chi sarebbe risalito a incolpare loro due? Poteva essere stato chiunque a combinare il danno, non necessariamente avrebbero accusato loro. E se lo avessero fatto, alla fine potevamo sempre negare. Se serviva di consolazione, poi gli prospettai l’idea che non saremmo più tornati in parrocchia, anche se questo ci costringeva a restare fuori dalla squadra di calcio, forse si guadagnava sempre un qualcosa a sentirsi senza più legami. Mio nonno Rutilio mi ingiuriava come un cane, se scopriva che non andavo dal suo amico don Paolo, ma questa era un’altra storia, perché il babbo e la mamma non mi avrebbero stressato con delle scenate da fine del mondo. Su dei brutti voti in famiglia ci sarebbe stato un mezzo terremoto, certo non per colpa della religione.

– L’ho rotta di sicuro, la statua – confermò Dario.

– Comunque se accende la luce non potrà distinguere i nostri puntini luminosi che svolazzano liberi nel buio come gli angeli nel paradiso. È sempre divertente, una cosa così. Non trovi?

– Anch’io però vorrei insistere con il calcio. Non mi sento un campione, ma mi piace giocare.

– Gran bella consolazione!

– Posso scordarmi di fare la serie A, ma una partita al pallone ogni tanto la faccio volentieri. Salamandra invece ha classe, hai visto come gioca la palla? Io e te siamo elementi facili da sostituire, anche se mio padre sostiene sempre il contrario.

Alzai il braccio d’istinto, per mandarlo a quel paese.

– Ho rotto una statua di gesso, credo fosse il san Sebastiano alla sinistra del confessionale. Che dici, secondo te è peccato?

– San Sebastiano non è la Madonna, e neanche Gesù Cristo. Questa disgrazia poteva capitargli anche solo a spolverarlo.

– Le lucciole al chiuso moriranno tutte.

– Impossibile! – dissi ridendo come un matto, camminando al centro della strada.

– Sì, invece, me lo sento…

– Vivranno lì dentro in eterno, e faranno la loro luce ogni notte.

– Non respireranno la stessa aria che c’è all’aperto, e poi non avranno di che nutrirsi.

– Per il loro nutrimento ti sbagli di grosso, i cinque altari sono sempre addobbati dai fiori. E poi sarà una colonia di lucciole che neppure patirà il freddo dell’inverno. Non potranno mai morire, vivranno all’infinito, qui nella chiesa.

– Ti si è svanito il cervello, te lo dico con il cuore.

– Invece no, … sono convinto delle cose che ho detto. Dimmi questo, ci sopravvivono le formiche in una chiesa?

– Che c’entrano le formiche!

– Qui non ci sono gli sgomuzzoli di pane o i semi rilasciati dal vento. Per terra e sulle pietre delle pareti, non c’è che della polvere. Se va bene alle formiche, allora possono viverci le lucciole.

– Sei un coglione!

– Invece che sul pavimento come le formiche loro vivranno tra le travi del soffitto. Scenderanno solo per nutrirsi del polline dei fiori, che in chiesa non mancano mai. Andranno avanti così per più di mille anni, di generazione in generazione; … ma forse fino a quando non ci sarà il giudizio universale

– O sei scemo o mi prendi per il culo.

– Se vuoi posso giurarlo.

– Risparmia il fiato, è inutile che parli sofisticato, … intanto non mi puoi convincere.

Ormai avevamo raggiunto la piazza del mercato. Nelle case che la delimitavano si distingueva appena una striscia di luce attraverso le persiane. Forse non erano neanche le dieci e mezzo, ma le undici, … mezzanotte. L’ora delle streghe e dei morti viventi. I lampioni proiettavano fasci di colore sopra le facciate delle case e larghi cerchi sul selciato, dove intorno vagavano dei pipistrelli in cerca di cibo. Per un momento invidiai Salamandra, perché sentivo che lui nella vita non avrebbe mai avuto di questi problemi. Aveva due anni più di noi e finita la scuola certi giorni già andava a lavorare in nero, se desiderava qualcosa poteva comprarla senza chiedere soldi ai genitori, non sottostare ad ogni sorta di ricatto. Nell’intimo don Paolo lo disprezzava, Salamandra però lo aveva messo nella condizione di non farne mai a meno, se la squadra aspirava a vincere il torneo. Si gioca anche per questo, non solo per passare due ore al fresco sotto la benedizione di qualcuno che sta in cielo, e lui era diventato una pedina insostituibile per le ambizioni del prete allenatore, tanto che, se durante una partita lo colpivano negli stinchi e bestemmiava come un turco, don Paolo fingeva di non sentire. Immaginai che in quel preciso momento Salamandra fosse alla Casa del Popolo, a gettonare soldi nel juke-box per farsi bello con qualche ragazza che gli stava a cuore, mentre io adesso ero in questa piazza con Dario che affogava nei sensi di colpa per la statua del san Sebastiano rotta nel tentativo di recuperare le nostre lucciole, e fremevo al pensiero delle interrogazioni del mattino dopo come un coglione preso dal freddo.

NOTA: i disegni di Nilo Australi sono tratti dal libro illustrato Il microcosmo degli insetti, realizzato nel 2021

6 pensieri su “Le lucciole

  1. Sono rimaste in tre
    Al borgo della strada
    E diventa proprio borgo!
    Prima erano così tante
    Da dare luce a un motorino…
    Ieri era il 3 luglio
    Per forza erano in tre! Già!…
    Ma ora?
    “Lucciola lucciola vien da me…”

    1. … ti darò il pan del re
      pan del re e della regina
      lucciola lucciola vien vicina…
      Canzoncine come questa si portano dietro una vita. In compenso, nella campagna dove abita il mio nipotino di tre anni, in una casa colonica davanti alla pieve Romanica di Gaville (guardare immagini su Google), ci sono non solo cinghiali e caprioli, ma tante, tante lucciole. E io questa canzoncina la canto ancora.
      Ciao Filippo

  2. Tre storie che si intrecciano: le lucciole con Dario e Spartaco; il calcio con don Paolo e il Salamandra; e, appena accennati, la scuola, il lavoro e la famiglia. Tutte convergono nella chiesa romanica, vicina al palazzo signorile e al paesino, in un’atmosfera che si tinge di magia e mistero. In tale atmosfera tutto è ribaltato: le effimere lucciole, in chiesa, nutrendosi di fiori, potrebbero diventare eterne; don Paolo, stregato dal calcio, pur di far vincere la squadra parrocchiale che allena, deroga alle stravaganze del Salamandra, comprese le bestemmie; ci pensano Dario e Spartaco a riportare alla realtà il mistero e la magia, spezzando l’incanto insieme alla statua del San Sebastiano, che fanno cadere. Tutto torna alla consuetudine: l’ interrogazione del giorno dopo; i sogni di gloria sportiva; l’emancipazione dalla famiglia grazie al lavoro: torna il secolo, dopo l’eternità. Eternità durata il lampo della lucciola.

    1. Daniele, il racconto vive una sua forma di sospensione grazie al contrasto tra il gioco, la caccia alle lucciole, e la realtà così complessa e caotica dei bambini. Il mondo è visto attraverso questi occhi di bambino, che con la realtà non possono che avere un rapporto frammentario.

  3. -Che mazzo di nero incredibile!
    In questo racconto mi giungono, grazie agli amici Spartaco e a Dario, sensazioni di una volta legate all’inizio dell’estate, quindi ai giochi all’aperto, all’oratorio, nei campi, a caccia di lucciole…
    Al crepuscolo che si spegne a poco a poco e filtra dal rosone all’interno di una chiesa dopo una messa obbligata, spente le candele dopo la messa, si materializza per i due chierichetti distratti, il buio piu’ assoluto, con inciampi e suspance tra le sedie di una sacrestia…Inaspettate e meravigliose per noi lettori, nell’oscurità baluginano allora le lucciole discrete ed intermittenti, venute da regioni remote dei campi, dei boschi a rischiarare i contorni di oggetti inusuali, quadri tappeti….Emozioni eccitanti e misteriose che accendono sensazioni e sogni: paure per presenze minacciose e ignote, anche per un rumore improvviso che rompe il silenzio, per spririto d’avventura…
    Mi dispiace per i ragazzi di oggi che spesso hanno bisogno di stimoli ottici ed effetti speciali potenti per emozionarsi e “il buio” del televisore spento genera noia. Grazie Angelo, molto bello, da riscoprire anche per noi gli adulti

    1. Grazie Annamaria, anch’io non riesco ad immaginare cosa ricorderanno i nostri ragazzi, con la memoria così sovraccarica che hanno.

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