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Istruzioni per proteggersi dalla vita

di Elena Grammann

Silvio D’Arzo, pseudonimo di Ezio Comparoni, scrittore reggiano scomparso nel 1952 all’età di trentun anni, è noto quasi esclusivamente per il racconto lungo Casa d’altri[1]. Ma quando morì, davvero prematuramente, questo outsider in tempi di neorealismo aveva al suo attivo un romanzo (All’insegna del Buon Corsiero, Vallecchi 1942) e, oltre a Casa d’altri (1952), numerosi racconti e articoli di critica pubblicati in rivista soprattutto negli anni dell’immediato dopoguerra. Nel 1960 il volume Nostro Lunedì. Racconti – Poesie – Saggi, a cura dell’amico Rodolfo Macchioni Jodi, riunisce sempre per Vallecchi gli editi e qualche inedito, fra cui il romanzo breve L’Osteria, anch’esso composto fra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta.

Dopo di che per più di vent’anni Ezio Comparoni/Silvio D’Arzo finisce nel dimenticatoio, complici la scomparsa precoce, una ricerca personale del tutto autonoma rispetto alle mode dell’epoca e, per quel che riguarda la città natale che per decenni lo ignorò, sicuramente la scelta, dopo l’armistizio del ’43 e una fortunosa fuga dal convoglio che lo portava nei campi di prigionia in Germania, di non “andare in montagna” ma di rimanere, semiclandestino, in città. Nel 1976 era stato pubblicato il terzo romanzo breve di D’Arzo: Essi pensano ad altro, coevo degli altri due[2]. Ma è soltanto dopo la metà degli anni Ottanta che edizioni e riedizioni testimoniano della nascita di un interesse duraturo; e nel 1986 Anna Luce Lenzi dedica a D’Arzo un volume[3] in cui, sulla base di testi editi e inediti che interpreta come “capitoli”, tenta di ricostruire il romanzo lungamente meditato Nostro lunedì, che D’Arzo aveva annunciato all’editore Vallecchi e che la malattia e la morte gli impedirono di scrivere.

Questa introduzione per parlare di un racconto del 1947: Elegia alla signora Nodier[4]; meno noto e meno “importante” di Casa d’altri ma senz’altro maturo e ricco di fascino darziano.

 È stato detto che tutti noi, almeno per un certo periodo, viviamo una vita non propriamente nostra: finché, ad un tratto, arriva il “nostro giorno”, qualcosa come una seconda nascita, e solo allora ciascuno di noi avrà la sua inconfondibile vita.

Io ho avuto modo di riscontrarlo in più d’uno. Ma, quanto alla signora Nodier, proprietaria dei campi confinanti coi nostri, mi sembra che essa abbia sempre vissuto la sua.

Nell’incipit il lettore si trova confrontato quasi brutalmente con uno dei temi fondanti, se non con il tema fondante, della narrativa darziana: la “vita non propriamente nostra” e le possibilità di riscattarsene. Immediatamente, già nella terza frase, ci viene detto che la condizione comune, di più o meno lungo soggiorno in una vita impropria, non vale per la signora Nodier, non è mai stata la sua. Vedremo quale sarà il prezzo per questa esenzione dal comune destino. Perché un prezzo, per una vita “propriamente nostra”, c’è sempre, e i protagonisti di un racconto coevo[5] ad esempio, letteralmente non lo possono pagare.

Ma torniamo alla signora Nodier. La sua vicenda ci viene narrata da uno “i cui campi confinavano coi suoi”. La signora Nodier è infatti una proprietaria terriera benestante, “quasi ricca” che vive in un suo podere, non lontano da un paese (o una piccola città). I luoghi, come sempre in D’Arzo, sono al contempo vaghi e precisi: vaghi per quel che riguarda toponomastica ragguagli geografici assenti; precisi nel senso della precisione poetica e narrativa, che con pochi tocchi raggruppa attorno ai personaggi i dettagli necessari a situarli in un determinato contesto storico, geografico e sociale. In questo caso bassa padana, periodo fra le due guerre, riferimento a un’impresa coloniale che si immagina la guerra d’Etiopia.

Il narratore – poco più di una voce narrante dal momento che di lui non sappiamo nulla, se non che per un certo periodo è stato vicino di proprietà della signora Nodier – continua a seguirne la vicenda anche dopo che quest’ultima, in seguito al matrimonio, si trasferisce altrove. Si sa inoltre che le fa visita almeno una volta e che dispone, per narrare la sua storia, di testimonianze (il giardiniere, la servitù) e di documenti: un diario e una lettera. L’introduzione della figura del narratore e il fatto che egli “citi” quasi sempre le fonti risponde al desiderio di raccontare la storia “dal di fuori” secondo un procedimento “fenomenologico” piuttosto nuovo e assai lontano dai vari naturalismi e psicologismi.

Ma torniamo all’affermazione d’esordio del narratore, secondo il quale la protagonista “ha sempre vissuto la sua vita”. Essa si fonda sul fatto che la signorina Nodier, pur essendo bella e (quasi) ricca, ha superato abbondantemente i trenta “senza sposarsi: non solo, ma senza esser mai stata nemmeno richiesta”; e possiamo aggiungere (perché, pur non essendo detto apertamente, è implicito), senza innamorarsi. Essa, insomma, da sempre e naturalmente ha vissuto nell’autenticità; non è mai uscita da se stessa, non ha mai avvertito quel bisogno di una vita finalmente nostra e autentica che, nella speranza di ottenerla, ci spinge verso le avventure e i compromessi; cioè in definitiva, e per quanto possa suonare paradossale, verso gli altri.

Il suo atteggiamento, in paese, è variamente commentato. Di fatto, dice il narratore, “la trovavano sprezzante. Ma nessuno aveva abbastanza spirito da ammetterlo”. Comunque, giunta a un’età che normalmente la voterebbe allo zitellaggio, la signorina Nodier, inaspettatamente, si sposa. Sposa il generale B.D., personaggio delineato, come sa fare D’Arzo, con pochi tratti, personaggio per molti versi speculare alla protagonista, su cui non ci dilunghiamo se non per dire che è il marito “giusto”, cioè quello che permette alla signorina non solo di non uscire dalla sua vita, ma anzi di continuare a viverne una perfino più sua. “Era perfino il caso di pensare”, commenta il narratore, “che lei si fosse comportata per anni e anni a quel modo, sfidando con inalterabile calma, disprezzo, ironia e l’ombra di un malinconico avvenire, nella certezza di quell’avvenimento.

La felicità coniugale della coppia consiste in una tranquilla quotidianità; lui va a caccia accompagnato dalla cagna scozzese da cui non si separa mai e lei lo saluta dalla finestra o lo richiama talvolta per allungargli qualcosa che ha dimenticato. “Più tardi”, dice il narratore, “seppi anche che essi non fecero mai il minimo progetto sull’avvenire”. Non ce n’è bisogno: la loro felicità, o tranquillità, non ha bisogno di progetti: è data, è spontanea, si instaura semplicemente nel momento in cui essi sono. Soprattutto, essi non costruiscono: non intervengono in nessun modo all’esterno di sé. È significativo, a questo proposito, che vadano a vivere nella vecchia villa del generale.

Fusione perfetta, spontanea felicità a due e, dunque, un po’ egoista. Del che si rende ben conto la signora Nodier, la quale pensa “che era ragionevole quindi l’ostilità e l’antipatia della gente”. Si direbbe che col matrimonio essa abbia raggiunto la perfezione di quella vita “sua” che da sempre la segna, e che questa vita così propria, autentica, comporti una distanza dagli altri, da quello che si dice mondo; una distanza vissuta senza alterigia, ma che insomma c’è, e che gli altri avvertono.

Ma due giornate la rimisero, per qualche tempo almeno, nel mondo, benché poi, di lì a poco, essa riuscisse a farle completamente “sue”: quando il generale, colla sua cagna, partì per la guerra in colonia, e quando, sette mesi più tardi, gliene fu comunicata la morte.

 La partenza del generale per la guerra e la sua morte costituiscono i punti di crisi del racconto. Ciò che è avvenuto prima, matrimonio compreso, non è che un preambolo. Di queste due giornate il narratore dice che “rimisero [la signora Nodier] nel mondo”: la sottrassero, cioè, alla vita “sua” e la scaraventarono in quell’estraneità che le era sempre riuscito di evitare.

Al di là del dolore per la morte del generale (“Fu”, dice a questo proposito il narratore, “una cosa terribile”; e quasi a giustificare la povertà dello stile aggiunge: “qualche volta la banalità è inevitabile”), e anzi, tutt’uno con il dolore, inscindibile da esso, l’esilio nel mondo consiste, in un certo senso, nell’essere confrontata con gli altri, con gli estranei, nel dover porsi nei loro confronti.

Provò a fare del male e poi del bene, ma l’uno e l’altro con soddisfazioni ben povere; e se alla fine decise di attenersi al bene soltanto, fu perché, dopotutto, la cosa le era molto più facile.

 Dopo un po’ le pare di essere diventata molto buona. Scrive infatti nel diario:

Ah, ma io non son più la stessa. Sono diventata così buona […] Sarei disposta a dare metà di me stessa …”

 Commenta però il narratore:

Essa era, sì, disposta a dare metà di se stessa; ma non certamente ad accettare l’altra metà che la gente necessariamente le avrebbe voluto dare in cambio. E dovette accorgersi molto presto che il dono non sarebbe mai stato accettato, senza accettare, a sua volta, il compenso. Ora, questo era chiederle troppo. Era superiore, realmente, alle sue forze.

 Alla signora Nodier, insomma, risulta impossibile mischiarsi, accettare in se stessa una parte di un’alterità qualsiasi, permettere alla sua vita di decentrarsi, di spostare il suo centro, sartrianamente parlando, verso il centro di altri.

 A questa notazione, diciamo, psicologica ne segue un’altra che è, invece, sociologica o, piuttosto, storica:

Gli stessi contadini, inoltre, non avevano più l’antico rispetto, ma la guardavano con una certa espressione come se lei avesse oscure colpe. […] “Il generale sì che ha capito” li sentiva quasi pensare. “Si è accorto che non ci saranno più tempi per lui … Se ne è andato in tempo … Ha capito … Ma lei, lei cosa aspetta?...”

Ritorna il tema dell’ostilità e antipatia della gente, radicato stavolta in una specie di necessità sociale e storica che ne fa qualcosa di ineluttabile e indipendente, in fondo, dalla volontà della stessa signora Nodier. Ci si potrebbe chiedere che senso hanno queste notazioni di dialettica storica in un racconto che è essenzialmente esistenziale. Situando i protagonisti[6] all’interno di un ceto in declino (la borghesia terriera), sottolineano il loro “essere sulla difensiva”, il progressivo ritirarsi dietro trincee sempre più arretrate nel tentativo, vano, di proteggersi da una vita che prosegue, all’esterno, per cammini incomprensibili e suoi.

Ci dice anche, però, il narratore, che l’esilio nell’estraneità fu di breve durata, e che “di lì a poco” anche queste due giornate – la partenza e più tardi la morte del generale – giornate della crisi e del più grave pericolo per se stessa, la signora Nodier riuscì a farle “completamente sue”. Ciò avviene, si può immaginare, attraverso un paziente, metodico e inflessibile relegare il mondo fuori dal raggio della propria vita:

… si ridusse a vivere quasi senza interruzione nella villa […] Questa specie di isola fu, in definitiva, la sua salvezza: e, a poco a poco, la morte del generale si andò tramutando via via in una sopportabile infelicità.

 E se una “sopportabile infelicità” ci appare un traguardo scarso, il narratore, poco oltre, aggiunge:

Ella se l’era venuta costruendo giorno per giorno, come altri, giorno per giorno, si va costruendo la sua illusione: era, a modo suo, un’illusione, verso il passato anziché verso l’avvenire: le era assolutamente necessaria: era, insomma, se stessa.

 In altre parole: la vita della signora Nodier non si può dire felice, ma è tornata ad essere sua, e questo, si direbbe, è l’importante.

In un certo senso essa vive di ricordi – e ciò sarebbe banale, sennonché:

Ella aveva […] un’inarrivabile cura nell’evitare ogni cosa od incontro che rendesse troppo recente e vivace quei ricordi: perché allora il dolore avrebbe preso di nuovo il posto di quella sua dolce infelicità, e questo non lo voleva in nessun modo. Rifiutò, per esempio, di andare ad assistere a una cerimonia in memoria di lui, e non lesse nemmeno un discorso che ne ricordava la morte. Un giorno, sì, sarebbero diventati ricordi e lei sarebbe venuta di mano in mano riscoprendoli: ma ora erano soltanto vita, era il giorno appena passato: e la vita era troppo forte per lei.

 Che quest’affermazione non sia, così, un modo di dire, una frase ad effetto, lo mostra la conclusione del racconto: la svolta inattesa e sorprendente e crudele che lo pone nella tradizione di Maupassant. Prima di passare ad esaminarla, mi preme però chiarire un’ambiguità nei termini.

Il termine “vita” è, in un certo senso, ambiguo: quando è preceduto da un possessivo (la mia vita, la sua vita) indica il modo complessivo in cui si è venuta organizzando un’esistenza; quindi le circostanze, le determinazioni spazio-temporali, i legami, gli affetti ecc. Senza possessivi (la vita) indica invece le condizioni generali e universali all’interno delle quali può organizzarsi un’esistenza particolare qualsiasi. Ora è chiaro che quando si dice che la signora Nodier ha sempre vissuto la sua vita si intende la vita nel primo senso, cioè come esistenza. Quando invece si dice che “la vita era troppo forte per lei” si intende piuttosto qualcosa di esterno, qualcosa che viene da fuori e che minaccia, qualcosa di non veramente nostro e al quale ci tocca adeguarci, e quindi piuttosto la vita nel secondo significato.

Veniamo ora alla conclusione del racconto. Siamo, in un certo senso, alla terza ed ultima crisi: una sera gelida e piovosa d’inverno, un paio d’anni dopo la morte del generale, un soldato suona al cancello della villa. È stato incaricato di riportare alla vedova la cagna scozzese dalla quale il generale non si separava e che è sopravvissuta alla guerra. Il soldato, bagnato e infreddolito, è congedato senza aver veduto la signora e senza nemmeno la civiltà di un piccolo ristoro; e la domestica che ha fatto l’ambasciata è incaricata, nonostante la pioggia, di condurre immediatamente la cagna alla casa del contadino. Dovrà anche, nei giorni seguenti, portare alla posta una lettera nella quale la signora Nodier chiede al più fido dei suoi vecchi contadini di renderle un ultimo, vitale servizio. Il vecchio, ci dice il narratore, risponde alla chiamata.

Che cosa la signora Nodier gli abbia chiesto e in cosa consista il servigio che l’anziano dipendente si affretta a renderle, il lettore lo apprende poco dopo, quando il narratore, una settimana più tardi, fa visita alla signora e fra gli immobili oggetti dell’immobile salotto scorge “nascosta dall’ombra di una tenda, […] una cagna scozzese imbalsamata”.

Effettivamente, “la vita era troppo forte per lei”.

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[1] Dal racconto, Alessandro Blasetti trasse uno degli episodi del film Tempi nostri – Zibaldone n.2 (1954). Non credo esista menzione di Casa d’altri che non sia seguita dalla dicitura “«un racconto perfetto», come lo definì Eugenio Montale” – divenuto vero epiteto omerico. Non mi decidevo né a inserirlo né a ometterlo. Alla fine l’ho messo in nota.

[2] A proposito di questi romanzi che D’Arzo scrisse intorno ai vent’anni la critica parla di “esercizi di una scrittura che va cercandosi fra le maniere letterarie del periodo” (https://www.quodlibet.it/libro/9788886570695). Lo stesso Rodolfo Macchioni Jodi, nell’introduzione al volume del 1960, scrive: “Il Buon Corsiero e l’Osteria, […] sono semplici antefatti, la cui inclusione nel volume, a parte l’interesse retrospettivo, si giustifica con l’intento, sottinteso in un’opera omnia, di storicizzare compiutamente un’esperienza letteraria”. L’osservazione è corretta; rischia tuttavia di avvilire – soprattutto per L’Osteria e Essi pensano ad altro – una certa aria europea difficilmente riscontrabile nella produzione italiana dell’epoca.

[3] Anna Luce Lenzi, Nostro lunedì. Di Ignoto del XX secolo, Modena, Mucchi 1986.

[4] Originariamente pubblicato in «Cronache» n. 3, 18 gennaio 1947.

[5] Cfr. Silvio D’Arzo, Due vecchi, in: id., L’aria della sera e altri racconti, a cura di Silvio Perrella, Bompiani 2002.

[6] Il discorso vale anche per i due vecchi del racconto citato alla nota precedente.