Sull’antologia “Calpestare l’oblio”

di Ennio Abate

Il 5 aprile 2011 allo SPAZIO TADINI in Via Jommelli 24 a Milano, organizzato da Adam Vaccaro di MILANOCOSA, c’è stato un incontro per discutere di “Calpestare l’oblio” un’antologia – così recita l’annuncio pubblicato sulla stampa nazionale – di “Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale, per la resistenza della memoria repubblicana” curata da Valerio Cuccaroni, Davide Nota e Fabio Orecchini.


Intervento di Ennio Abate alla presentazione di «Calpestare l’oblio» allo SPAZIO TADINI  di Milano (5 aprile 2011)

Gentili autori e organizzatori di CALPESTARE L’OBLIO, sono del ’41. Da vecchio, dunque, scrittore quasi clandestino e militante in proprio fuori da qualsiasi partito, ragionando sulla base della storia del Novecento e di quella italiana del dopoguerra (in particolare degli anni Settanta), mi permetto di porvi due domande: 

– quale oblio ha da essere oggi calpestato?

– lo si può calpestare solo in poesia, soltanto con la poesia?

Vi anticipo, in attesa di vostre risposte, le mie:

– in questo Paese l’oblio non è caduto soltanto o soprattutto sulla Resistenza e la Costituzione, come sostenete nell’introduzione del libro e in vari testi antologizzati, ma sulla lezione profonda di Marx e sulla storia del comunismo novecentesco – terribile sì, ma non cancellabile o surrogabile dall’apologia, quasi sempre in piatto “americanese”, della democrazia;

– ad obliare non sono stati solo i poeti o i leader politici e intellettuali viventi (della sinistra in primis), ma anche quella parte della popolazione che una volta poteva ancora a buon diritto essere chiamata ‘popolo’ o ‘di sinistra’;

– se l’oblio è tanto diffuso e generale, non si può semplicemente “calpestarlo”, ma si dovrà capirne  tutti insieme (e non solo i poeti) le ragioni e intervenire – se possibile – sulle cause che l’hanno prodotto: non può esserci nuova “poesia civile” se, come a me sembra, è venuta meno  ogni forma di polis e, quindi, sono venuti meno quegli attori sociali una volta – oggi non più – indicati coi nomi di  ‘citoyens’, ‘popolo’ o ‘società civile.


Pur riconoscendovi, dunque, il merito – non trascurabile in un periodo di coma della cultura – di aver raccolto il grido di dolore  di tanti poeti (da Roversi ai giovani esordienti) e costruito un libro – dico io – di “quasi poesia civile”, non vi nascondo la mia disapprovazione per l’operazione di mero assemblaggio. Non posso qui argomentare  a fondo il mio severo giudizio. Mi limito ad alcuni accenni:

1. Riunendo (non so se una tantum o in modo più continuativo) voci disparate attorno a un discorso di vago antiberlusconismo,  individuando un ostacolo indefinito, che voi chiamate «ideologia della separazione, anche culturale», agitando l’ideale di una mai esistita «officina culturale italiana, fatta di continuo scambio tra libero giornalismo, libero movimento intellettuale e artistico, libero mondo dello studio, della ricerca, dell’università», siete stati e sarete coccolati e applauditi. Oggi essere confusamente antiberlusconiani, plurali o pluralistici, anti-ideologici è quasi d’obbligo. Questi i login giusti per accedere ai giornali “di sinistra”. Questo l’unico dissenso che i sacerdoti della nostra disfatta Cultura  tollerano e, dunque, concedono.

2. Come non vedere, però,  nella vostra scelta la rinuncia a pensare quali debbano essere le condizioni per la nascita di una vera,  non ornamentale e tutta da ridefinire “poesia civile”?  

Io la vedo. Altri – anziani quanto o più di me – tacciono in nome del “largo ai giovani”. Eppure sanno che la poesia (o una possibile “poesia civile”) non si fonda su ragioni contingenti né  può limitarsi a  dire un NO, del resto più moralistico che politico,  unicamente al personaggio-mostro-maschera, che in Italia porta il nome  del signor B.  

3. I veri nemici o i falsi amici della poesia (o di una possibile “poesia civile”) non sono mai solo i “nemici della cultura”, non sono mai solo televisivi e soltanto “mostri”. Gestiscono affabili e seri, da destra e da sinistra, al livello locale e globale, un sistema che opprime milioni di persone. Li individuereste, se nel vostro lessico quotidiano (e, perché no, nei ragionamenti e poi nei versi) agissero parole-concetti per dire la realtà: come  ‘capitale’, ‘capitalismo’, ‘rapporti sociali capitalistici’, non a caso termini epurati anche dal lessico dell’attuale sinistra che vi ha sponsorizzati.
 
4. Ignorando o rinunciando invece agli interrogativi  più ardui, le vostre poesie oscillano per lo più – questa l’impressione ricevuta leggendole – e oscilleranno  tra un intimismo  dell’io apolitico e una retorica indignazione mutuata dall’antifascismo di nonni e  padri resistenziali, purtroppo diventato mito inerte e  scheletro nell’armadio della cultura italiana, come già denunciò nel lontano 1965  Franco Fortini in «Verifica dei poteri».  

5. Con tale mito in testa  è fin troppo  agevole – come  si può vedere – scorgere reincarnazioni di fascismo  e di Hitler, dove c’è forse tutt’altro. Un “tutt’altro” su cui dovremmo interrogarci  seriamente, senza paraocchi. E che invece gli USA, l’Occidente e l’attuale cultura italiana non vogliono vedere né permetterci di vedere, preferendo seppellirlo in anticipo sotto le bombe “umanitarie” della “democrazia”.

Con tale mito in testa e l’avallo dei grandi nomi della cultura e della politica – ieri di Norberto Bobbio, oggi  addirittura del presidente della repubblica Napolitano – non si ripara lo sfascio dell’Italia, ma lo si prolunga, condannandola a partecipare  – in subordine  e paradossalmente in nome di una Costituzione che ripudia la guerra –  a guerre non chiamate più con questo nome: dalla prima del Golfo del 1991, a quella per spartirsi la Jugoslavia e ora  all’ultima in corso in Libia.  


6. Date tali premesse – esplicite o implicite – del vostro calpestare l’oblio, nessuno dei vostri versi, nessun bello slogan (come quello che dà il titolo alla vostra antologia), nessun «osservatorio sulla questione culturale, scolastica, artistica, giornalistica», pur da voi auspicato, vi permetterà di osservare, fosse pure dalla condizione di testimoni secondari (Cesare Cases), l’orrore del presente – questo, sì, ideologizzato, spettacolarizzato e obliato, ancor più di  quello del passato. Per responsabilità – ripeto –  non solo delle élite culturali e politiche, ma  dei milioni di io/noi atomizzati dalle nuova divisione mondiale del lavoro e che si spappolano ulteriormente  tutte le sere davanti alle TV.

 
Concludo. Vi ho detto qual è  per me l’oblio (di oggi e di ieri) da combattere, per riempire di nuovi significati e non di belle parole il vuoto lasciato  dal Conflitto Sconfitto. Quelli che hanno tuttora qualche suo ricordo, ripartano almeno da alcune delle «nostre verità», come le chiamò Fortini. Gli altri si cerchino altri padri,  diversi da quelli democratici. Recuperino o imparino ad ascoltare voci chiaramente anticapitaliste e anticolonialiste. Ad esempio, rileggano o leggano per la prima volta, l’intervento di un B. Brecht al Congresso internazionale degli scrittori del 1935.
Il poeta tedesco, distanziandosi da un antifascismo anche allora miope sulle questioni essenziali e preoccupato soltanto della “difesa della cultura”, scriveva: «Si abbia pietà della cultura ma prima di tutto si abbia pietà degli uomini! La cultura è salva quando gli uomini sono salvi. […] Compagni, pensiamo alla radice del male!».
Ecco, in questi giorni che stanno sconvolgendo il Maghreb e la Libia, l’invito è a interrogarsi, fosse pure balbettando, sulla «radice del male».
Tentiamo di nominare ciò che oggi manca: a noi poeti, a quelli che  vivono in Italia e a quanti – schiuma di storie a noi sconosciute –  arrivano fino a Lampedusa.
 

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