Tre poesie

di Lucio Mayoor Tosi

 

’39.

Bar affollato. E’ una bella giornata.
Si sente infagottato, troppi vestiti addosso.
«Due cartine corte, grazie»
«E una lunga. Grazie».

Esce con sorriso di circostanza:
è sabato, tocca al padrone della ferrotubi
tenere riunita la compagnia.
Labirinto. Slalom. Inforca la bicicletta.

Questi sanno tutto. – Muovono la bocca.
Filosofi in Paradiso. – E’ il Missouri.
Mancano poche miglia al deserto.
Controlla l’orologio: i mesi, gli anni.

Conforto o depressione? Conforto.
Quindi a sinistra. Pare di stare in vacanza,
nel ’39. Ragazzi salgono sulle camionette.
Partono per la guerra. Scherzano.

 

La vera vita dei Santi.

E’ bene saperlo:
i miracoli si fanno in due.
Uno non sa dove sbattere la testa
( nel pomeriggio si era guardato il video
di una decapitazione ad opera dell’Isis),

l’altro non ascolta:
so a cosa pensi, sei prevedibile.
Quindi scende la manna dal cielo.
Un miscuglio di telefonate.
Ora si dà da fare. Mentre fa
il tempo si divide, destra e sinistra.

Si accorge del miracolo:
«I miracoli si fanno».
Due universi – Impossibile darsi la mano.
Toccarsi tra gli atomi – Sarebbe andare via.
Dove non si nasce – Bell’e fatti.
Comunque grazie.

Si potrebbe anche vendere
la credenza. E’ fine ottocento.
La mensola con la specchierina.
– Prevedibile. Non c’è altro?
Resto solo io. – Allora datti da fare.
Non sa dove sbattere la testa.
Non è mai stato capace.

 

 

 

Molti sigilli.

Il vento muove le imposte.
Quel palazzo. Da quella parte.
Sono andati tutti via.
Il gatto. Gli amici del gatto.

– Segnalo striscia e stella.
Raccolta dati di attraenza
con annessa interluna.
Operazione quasi ultimata.

Se regge al tempo.
Come costruire una bolla di sapone
iniziando dalle pareti. Arrivati al capogiro
conviene salvare.

Poi tutti al caldo, dentro le baracche.
Formaggio e pane di segale.
Orvieto: la Basilica. Selfie di noi
con Andromeda. Quell’unica volta.

Vento senza cristalli. Il tempo
che si stabilizzi la dilatazione del micron
– luce che non dà ombra –
in zone dove non c’è passaggio.

Ovviamente.
Bambini giocano nel cortile
di un libro di Dickens.
Massima apertura.

Non è per niente facile
mantenersi perfetti sconosciuti.
Alcuni lettori di Matrix sono già
arrivati nello stomaco.

Tenendo l’uomo al centro
dolcemente zumare. Nebulosa.
Perforando l’inquietudine:
alla casetta delle idee.

Sul tavolo un registratore
acceso e in funzione.
Voci di pioggia. Trasmissioni
radiofoniche. Musica leggera.

 

 

Lucio Mayoor Tosi – apr 2018

 

 

20 pensieri su “Tre poesie

  1. Il promemoria.

    La mia massima aspirazione è fare cronaca
    di questo tempo. Sia pure di farla senza volontarietà.
    Mettere insieme cose che neppure riesco a vedere:
    l’epoca, lo svolgersi del tempo confuso nelle circostanze
    di tutti gli abitanti del pianeta.
    Prima scala a sinistra.

    Il cielo sull’obitorio.
    Da quelle parti, tutti quei nomi. Io che non so
    scriverne uno in poesia. Ci siamo quasi.

    L’acrobazia di non esserci più in quanto che si è scritto.
    Di esserci stati solo per momenti. Poesia celere.
    Con la netta sensazione di appartenere a una specie
    prima che a un popolo. Quindi di avere perso strada facendo
    la capacità che hanno le anatre di intendersi quando volano
    nello stormo. Quando migrano. Ma noi senza muoverci.
    Solo con il pensiero.

    Ho viaggiato in molti autobus.
    Esterrefatto. Joaquin Cortes – Cordoba 1969 – venne alla ribalta
    quando i fenicotteri minacciarono lo sciopero della fame.
    Con questo mondo bisogna fare i conti. Mettere insieme
    qualche coccio. Deviare aspettative. Svoltare.
    Si suona alla porta. Si sta lì. Senza dire niente.
    Venerdì 6 aprile.

    Con negli occhi quelli della marmotta
    che sul sentiero ci guardò incuriosita. E noi anche più di lei.
    Non sbiadisce. E’ scritto sulla scatola.

    (Mayoor – apr 2018)

    1. Folgorante, dici? Mi fa piacere. Credo anche in questo caso che tutto dipenda dal frammento, dal fatto che non lo uso per discorrere ma per contenere. Ogni poesia è una battuta di caccia 🙂

  2. …belle queste poesie, testimoni di una solitudine vertiginosa: “…di avere perso strada facendo/ la capacità che hanno le anatre di intendersi quando volano/ nello stormo. Quando migrano…” Resta una segnaletica disorientante: “Quindi a sinistra”, “segnalo striscia e stella”…La mitezza apparente del dopo catastrofe, quando, inebetiti da un colpo in testa, si ringrazia sempre…Sono voli al di sopra dei tempi e degli spazi, voli disorientati, senza approdo mai…

    1. Grazie Annamaria,
      hai colto anche l’amarezza, quella che di solito accompagna gli spiriti liberi. Queste poesie sono scritte di pari passo con la vita, nel senso che ne hanno una loro propria, con tempi e modalità che sto imparando a riconoscere. “Senza approdo mai…”

  3. Caro Lucio, è un bellissimo esercizio il suo!
    I versi meritano di essere recitati separatamente, ma contemporaneamente da ogni singolo corista. Ovviamente ogni corista lo farà con la propria tonalità. Si potrebbe provare a stampare su lucido il gruppo di poesie sovrapponendole una sull'altra. In questo caso ogni corista sarà libero di recitare a piacer suo!

    1. Grazie, caro Gianni.
      E’ il frammento, che non è da confondersi con la scansione ritmica magari dovuta all’uso frequente del punto. Il frammento, almeno così è per me, è portatore di contenuto proprio, finito in sé. Ma credo si avverta anche la coralità di cui giustamente parli. Mi è gradita l’immagine che ne dai, quasi di una interpretazione video; che sarebbe certo condizionata dal tempo di lettura ma non per questo dovrebbe mancare di spettacolarità. Non saprei per la voce, i lettori ne hanno già una propria… (scherzo).

  4. Se mi autorizza, magari fra un po’ provo a farci un video 3d con voci sintetiche, qualche figura…!

  5. “Ogni poesia è una battuta di caccia”… : infatti il Mayoor si muove in orizzontale senza fissare punti nei diversi tratti dell’orizzonte… si muove cercando di catturare tutti (tutti = una illusione) i suoi pensieri-versi girando il capo di 360 gradi, ma mai in su o giù. Il verticale non gli interessa, perché sarebbe come ingannare la visione estesa che in sé contiene ciò che all’artista è più pertinente… possono dirsi queste parole affastellate che da sole vanno a capo senza stabilire alcun ritmo musicale… ma se ci fosse una musica jazz forse si potrebbe comprendere meglio il senso che dà ai suoi concetti… che scivolano via e non danno mai un cazzotto al lettore.

    1. Sì, amica Paola, io faccio musica raffinata. Non cerco di emozionare, non do cazzotti al lettore. Poi vivo in Lombardia, in mezzo alla risaie: solo orizzonte. Questo non significa che non abbia interesse per la metafisica o la filosofia, ma come dice lei non sono pertinenti con la mia osservazione, che è quella di un religioso materialista, appassionato e praticante di zen. L’alto, il basso, bene e male non mi interessano perché non voglio fare la morale a nessuno. Né mi incuriosisce la spiritualità, l’occulto, il mistero. No, queste cose sono per me assolutamente normali, fanno parte della vita. La mia conoscenza è del tutto empirica, in questo ambito confronto e verifico le verità che di volta in volta mi vengono proposte dai metafisici. Ci sono nelle mie poesie delle novità formali, un particolare uso del frammento, che è spezzare il discorso lineare a cui tutti siamo abituati. Non mi interessa la musicalità del verso ma li suo equilibrio. In fatto di musica, l’unica musica che ad oggi ho approvato, perché bene si accompagna alla mia versificazione, è quella di Arvo Part. Per il resto faccio come Cage, lascio che accada di tutto. Il rumore e la multimedialità sono strumenti eccellenti per ricevere le voci, che nelle mie poesie sono tante e diversificate. Entro ed esco dall’ “io” come potrei farlo anche con lei. Mentre scrivo non ho confini. So di fare esercizio di libertà e ne approfitto.
      Non cerco di catturare tutto il pensabile, solo quello che di volta in volta arriva.
      Ripeto, sono ateo e mi considero un post- nichilista, vale a dire che non considero il vuoto (oggi va molto di moda tra gli intellettuali) una conseguenza della morte di Dio – quindi angoscia, smarrimento, pessimismo – ma uno spazio da vivere. La poesia mi fa questo. Una dichiarazione di poetica l’ho già scritta qui, nel primo commento, con una poesia che ne parla. Vorrei solo aggiungere che il mio ribellismo è principalmente formale, non di contenuto. Sono poeta di fine novecento, scrivo sulle rovine di quello che è stato. Cose nuove.

  6. La signora Antonelli traccia bene i sentieri apparentemente dispersivi dell’autore, che poco si cura della forma del linguaggio poetico, poiché sente troppo l’urgenza di di dettare, e velocemente poi, i suoi appunti… poetici? non so dire, ma certo precisi fendenti contro o a favore della quotidianità: il mondo esterno più che l’interiore che viene in parte compresso poiché da portare alla superficie intatto: lo scopo è questo, non certo creare visioni che sono prerogativa di un altro e superiore suo fare in immagini o illustrazioni…
    Reputo dunque la sequenza delle parole attinenti al solo concetto che vuol dettare, lasciando al lettore di scovare altri intendimenti…
    e definire “bello” o “bellissimo” la composizione n on ha senso. Senso se mai che spetta al lettore cogliere, e non certo all’autore che è cosciente dell’apparato razionale e chiaro che possiede, e nulla hanno di misterico o oscuro le sue parole.
    Grazie, a. s.

    1. Ringrazio Antonio Sagredo per il commento, la sua conoscenza della storia delle avanguardie russe impone che si legga attentamente quanto scrive. Però, caro Antonio, quell’urgenza del dettato è il risultato di una ricerca formale. Non è sempre stato così, ci ho messo molto tempo a capire che potevo trasferire la parte istintiva in un linguaggio adeguatamente strutturato. Solo non esisteva, non trovavo nulla a cui fare riferimento, che potesse farmi da esempio. Nessun apripista. Poi ho scoperto Tranströmer, l’italiano De Palchi e Giorgio Linguaglossa. Ho visto che altri stanno scrivendo in questo modo, così ho preso coraggio. Credo si sia trattato di un percorso naturale, non artificioso.
      Quanto al bello, nemmeno io so dire. Penso che il lettore non sia ancora preparato a questo tipo di estetica. Io quando leggo una poesia di Mario M. Gabriele provo grande piacere, e accade all’istante. Chiaro che non sto dando una valutazione critica, è solo che questa bellezza mi balza agli occhi. E’ quella che ho scelto anche per me.

  7. APRILE 2018. A CHE PUNTO È IL BRANCOLAMENTO IN POESIA.
    APPUNTI.

    1.
    Mayoor è sempre paradossale. Aspira a «fare cronaca di questo tempo» ma «senza volontarietà». E come si fa? Come si fa, ad esempio, a «mettere insieme cose che neppure riesc[e] a vedere»? Vorrei impararlo io pure! Ha poi il gusto dello spiazzamento inaspettato, improvviso. Ti tira fuori un’immagine che dovrebbe colpire per la sua gratuità, insensatezza, illogicità rispetto al discorso avviato («Prima scala a sinistra.//Il cielo sull’obitorio»). L’immagine che miviene di lui che fa il poeta e ci tiene a farlo il poeta e a farsi riconoscere dagli altri come poeta – nel mio modo di vedere il mondo e la poesia un atteggiamento del genere non è scontato, non è ”naturale” ma fatto di cultura, di moda, di frequentazioni di “ambienti poetici” – è quella di uno che, trasognato, pensa e ogni tanto dice qualche parola senza preoccuparsi del legame accertabile con le precedenti («Da quelle parti, tutti quei nomi. Io che non so/ scriverne uno in poesia. Ci siamo quasi.»). Questa è una sua spinta. La segue per un po’ e poi ritorna a frasi più strutturate:

    Poesia celere.
    Con la netta sensazione di appartenere a una specie
    prima che a un popolo. Quindi di avere perso strada facendo
    la capacità che hanno le anatre di intendersi quando volano
    nello stormo. Quando migrano. Ma noi senza muoverci.
    Solo con il pensiero.

    Per riprendere ancora a sorprendere con Immagini surreali: «quando i fenicotteri minacciarono lo sciopero della fame».

    2.
    I commenti. Sì, come scrive Tomiolo, sono delle «istantanee». Ma, gustate al momento, dopo che resta? Cosa ci dicono che possa scuoterci? Le possiamo ammirare – per sintonia, per amicizia, per benevolenza, per desiderio di evasione, magari per sintonia filosofica – ma poi? A me danno un gusto amaro, di dispersione. Locatelli parla di poesie che testimoniano « una solitudine vertiginosa». Colpita dalla bella immagine? Ma cosa ce ne facciamo di una «solitudine vertiginosa»? L’abbiamo provata? Deve diventare una meta, uno scopo di vita? (Sì,sono antipatiche queste domande, ma io le faccio). Paola Antonelli muove una critica direi *di parte*: ai frammenti di Mayoor mancherebbe «il verticale» e il «giù» ( e forse intende ciò che sta sotto la superficie, l’apparente, e magari lo ctonio dei miti…). E del suo muoversi sull’orizzontale ( penso) obietta che Mayoor troppo: « cercando di catturare tutti (tutti = una illusione) i suoi pensieri-versi girando il capo di 360 gradi». Sagredo, infine, contesta proprio a Mayoor la consapevolezza delLa forma a cui lui tanto tiene («il mio ribellismo è principalmente formale, non di contenuto». Mayoor sentirebbe troppo l’urgenza di dettare, di guardare al «mondo esterno». E comprimerebbe «l’interiore». Insomma sarebbe ancora troppo « cosciente dell’apparato razionale e chiaro che possiede, e nulla hanno di misterico o oscuro le sue parole».

    3.
    Risposte di Mayoor e mie obiezioni. Cosa sono questi «spiriti liberi»? Lo sono davvero? Cosa vuol dire scrivere poesie « di pari passo con la vita, nel senso che ne hanno una loro propria»? Dichiaro la mia *rozzezza da polemista*, ma a me paiono frasi ad effetto, suonano bene, sono da “poeti che vogliono essere poeti” ma, per esperienza e mie convinzioni profonde, diffido di un tal genere di poeti. Mayoor in un passo dichiara: «uso [il frammento] per discorrere ma per contenere».Cioè? Io, interpretando “faziosamente”, mi chiedo::non per responsabilizzarsi, dunque, in una conversazione o in una costruzione di discorso poetico con gli altri ma solo per contenere la propria angoscia? O cosa? Dice pure: « Ogni poesia è una battuta di caccia». Sembra suggerire che la “preda” o l’oggetto della ricerca poetica non si sa dove lo si troverà. Può darsi. Ma quelli trovati che effetto hanno (su di lui, sui lettori)? E poi vogliamo tentare di dircelo qual è il «contenuto proprio, finito in sé» del frammento? Invece di esaltarlo a prescindere. E ancora Mayoor insiste: « Ci sono nelle mie poesie delle novità formali, un particolare uso del frammento, che è spezzare il discorso lineare a cui tutti siamo abituati». Già una volta gli avevo obiettato: non mi pare una novità. Si muove così nella * tradizione neoavanguardista*. Sarò cieco, non afferro, ma non vengo sconvolto da tale ricerca. Ancora Mayoor: « Mentre scrivo non ho confini. So di fare esercizio di libertà e ne approfitto». Per me la poesia è un esercizio di *libertà limitata*, se le altre libertà si riducono o non crescono. Ancora: «sono ateo e mi considero un post- nichilista, vale a dire che non considero il vuoto (oggi va molto di moda tra gli intellettuali) una conseguenza della morte di Dio – quindi angoscia, smarrimento, pessimismo – ma uno spazio da vivere». Sia le dichiarazioni di ateismo, che di post-nichilismo che di “moda del vuoto” andrebbero esemplificate, per capire cosa davvero pensiamo/agiamo con tali parole. Invece trovo interessante la risposta che dà a Sagredo: « quell’urgenza del dettato è il risultato di una ricerca formale». Che sottolinea una cosa importante: in poesia anche quello che appare passionale o addirittura in preda al delirio o all’invasamento (come pretendono certe poetiche “irrazionalistiche”) è mosso da un intento artistico più o meno chiaro. Che poi Mayoor abbia, come sostiene, imparato a « trasferire la parte istintiva in un linguaggio adeguatamente strutturato.. .grazie a Tranströmer, l’italiano De Palchi e Giorgio Linguaglossa», mi lascia dubbioso. Ma questo è un discorso che rimando ad altre occasioni.

    1. Faccio appello alle teorie di Jakobson sulla neurolinguistica – patologie del linguaggio, ecc. perché ci sono dentro appieno. Dove non motivo, dove i miei discorsi saltano, è per difetto esistenziale, anche se io vado dicendo che si tratta solo di questione stilistica, o di ricerca formale. Ma non posso farci niente, al massimo posso fare di difetto virtù, quindi arte; e farlo lasciando tracce, spero visibili, di ragionamento poetico; il quale è fatto più di silenzio che di parole. In pratica, nel fare poesia, il linguaggio interviene, per me, in modo non lineare e conseguente. Questo può comportare delle difficoltà per il lettore, abituato com’è a lasciarsi condurre dal discorso, spesso più soggettivo che oggettivo, dell’autore. In realtà, almeno nelle mie intenzioni, il lettore avrebbe l’agio di “vedere” come gli pare. A me basta che ogni verso sia l’imput per un discorso, o per immaginare.
      Non scrivo in una casetta tra i boschi, la mia poesia risente del bombardamento mediatico della comunicazione; ne risentono il linguaggio, le modalità cognitive e la sensibilità esistenziale. Se tento di fare il, e mi dichiaro poeta, è per ragioni di umana sopravvivenza; se n questo non traspare nelle mie dichiarazioni, spero che almeno lo si capisca quando scrivo in poesia.
      Poi, io non sono d’accordo che si dica “sedicente poeta”. Uno deve sapere cosa vuole fare. Tant’è che oggi nessuno è poeta ma tutti sono o vengono detti “sedicenti”. Poeti non ne esistono più? Che cos’è essere poeta, un errore? Anche nelle premesse fondative di Poliscritture è scritto che Poeta non è da considerarsi un mestiere, perché poesia non è merce. Su questo punto io non ero e non sono d’accordo. Bisogna considerare cosa comporta nella vita di chi scrive, quanto tempo e impegno (lavoro) ci mette. E poi se mai, giudicare.

      1. Le mie obiezioni (meditate e comunque *mie*, soltanto *mie*) non sono rivolte a Mayoor come singola persona reale ma alla *maschera di poeta* ( per fortuna con la minuscola) che ha deciso (pure lui) d’indossare.
        Perché dunque appellarsi alle teorie di Jakobson? Lascia perdere. Almeno con me. Anche se venissi in compagnia di Dante, guarderei te e non il tuo accompagnatore. Non m’infastidiscono i tuoi discorsi che «saltano…per difetto esistenziale». Semmai diffido delle teorizzazioni (spesso noiose elucubrazioni) affaticate con le quali tu ( e quelli de L’Ombra delle parole) li appesantite. Preferirei teorie semplici, sintetiche, che vadano all’osso con sincerità. Non lineari e non conseguenti siamo quasi tutti oggi. Ma è l’adagiarsi in questa non linearità e inconseguenza che non sopporto. Meno ancora il decorarla, aggettivarla, pomparla, sorreggerla con glosse intellettualistiche. Non è vero che il lettore ( o tutti i lettori) sia oggi abituato soltanto a « lasciarsi condurre dal discorso». Di discorsi compiuti da seguire ce ne sono davvero pochi. Dominante è proprio lo spettezzamento («A me basta che ogni verso sia l’imput per un discorso, o per immaginare»). E non è affatto vero ( o non sempre accade) che di fronte al frammento o al discorso (volutamente o «per difetto esistenziale») “spezzettato” «il lettore avrebbe l’agio di “vedere” come gli pare».
        Né è scontato che, subendo noi tutti il « bombardamento mediatico della comunicazione», al momento in cui ricorriamo alla poesia per autodifesa o « per ragioni di umana sopravvivenza» dobbiamo frammentare e spezzettare pure noi. Magari in parte questo accadrà inevitabilmente perché non avremo il tempo e il respiro per ricomporre i nostri frammenti. E sicuramente non scriviamo « in una casetta tra i boschi». Né possiamo affatto sottrarci del tutto al suddetto bombardamento. Ma in minima parte, ancora sì. Se vogliamo, se impariamo a desiderare, se ci esercitiamo al *ri-comporre* e al *ri-comporci*.
        Sulla questione dei “sedicenti poeti”. Lo siamo tutti, inutile girarci intorno. Quelli che sono poeti o Poeti per certe cerchie amicali o accademiche o editoriali non lo sono per altre. « Uno deve sapere cosa vuole fare», non significa che, autoproclamandosi poeta, aggiunge qualcosa di più alla propria attività. O si accontenta del *riconoscimento* di una di queste cerchie o manco si pone il problema e lavora. Poi, forse, in altra epoca le cose cambieranno.

        1. A me piace dire “artista” o “non ancora artista”, per indicare chi lavora nelle arti. Ma, ripeto, è lavoro. Non è colpa mia se viviamo in parrocchie, questo appartiene all’aspetto successivo – esterno, o sociale – all’atto del produrre; va considerato, ma come lo si farebbe per qualsiasi altro mestiere. Di questo sono convinto. Dovremmo impegnarci per far sì che l’industria abbia bisogno della poesia; non ridere, il mondo delle immagini ha sempre bisogno di parole: il cinema, ad esempio, ma anche il teatro, comunque le arti visive e lo spettacolo. Certo che se continuiamo a scrivere pensandoci fuori dal tempo…

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