Appunti politici (15): Sinceramente

 

di Ennio Abate

Ai miei interlocutori in questo scambio su POLISCRITTURE FACEBOOK (qui)
e in difesa della verità quando sembra (o è) detta «con le parole dell’errore»
[1].

Non mi travesto da geopolitico, da storico o da politologo, ma col senno di poi vi pongo due domande: – quale altra soluzione sarebbe stata possibile alla crisi vissuta dal movimento e dalle neo-organizzazioni politiche (“nuova sinistra”, “sinistra rivoluzionaria”, “neocomuniste”) che a partire dal ’68-‘69 agirono in Italia per tutti gli anni ‘70; – le spinte in quegli anni ad usare la violenza nella ricerca di una soluzione erano (almeno in parte) endogene ai soggetti sociali e a quelli statuali (e parastatuali) che allora si mossero o del tutto esterne e immaginarie?

Per abbozzare una mia risposta e costruirmi un punto di vista meno appiattito sui rovelli del presente, ho fatto un gioco fantasioso: spostare gli attori degli anni ’70 del Novecento in epoca risorgimentale. Mi sono immagininato le Brigate Rosse nelle vesti di Garibaldi, Negri e l’Autonomia in quelle di Mazzini o Pisacane, il PCI in quelle di Cavour, l‘Urss e gli USA in quelle dell’Inghilterra o delle altre maggiori potenze europee.

Nell’Ottocento il tira e molla tra i vari attori di quello che ancora chiamiamo affettuosamente Risorgimento – a forza di azioni “criminali” o “terroristiche” e tra intrighi, compromessi, complicità, idealismi, interessi vari – portarono, con la complicità dell’Inghilterra, all’«effimero epifenomeno» [2] della spedizione dei Mille, dello sbarco in Sicilia e poi alla riuscita del “compromesso storico” di Cavour con la sconfitta del “sogno di una cosa” mazziniano/garibaldino. Negli anni ‘70 del Novecento si è avuto, invece, un patratac: né il compromesso storico berlingueriano, né l’ autonomia dell’ operaio sociale, né la replica leninista della Rivoluzione del ’17 guidata dall’avanguardia lottarmatista delle Brigate Rosse, né il rinnovamento “progressista” della Sinistra storica, né… non so cos’altro.

E’ possibile ragionare su quel luttuoso e nichilistico patratac, che travolse in una valanga crescente l’avanguardia che volle spiccare il  folle volo contro la montagna bruna, l’ingombrante “padre padrone” PCI coi suoi sogni riformisti, i suoi figli o figliastri prima extraparlamentari e poi un po’ parlamentari che ambivano a sostituirlo? E’ possibile che noi, epigoni di quella storia non quagliata e ammuffita e che non sappiamo più a quale santo votarci, dobbiamo barcamenarci frastornati (a me così pare) tra vari  discorsi – della complessità, delle moltitudini, di un socialismo svanito ma eternamente possibile, di un comunismo interiore o etico – o oscillare tra putinismo, xijngipismo, trumpismo?

Sì, credo. Ed anche a partire da spunti occasionali. Allora perché, appena pubblico un post con un frammento dell’ultimo libro autobiografico, «Galera ed esilio»,  di Negri, la prima cosa che sapete fare è dare addosso all’eretico, al vanitoso, all’ombelicale, che ancora esibirebbe la sua bua (il caso 7 aprile), ridurrebbe il movimento alla sua cerchia di Rosso e Senza tregua  (riviste note solo ai più vecchi tra noi) e autogiustificherebbe i suoi anni giovanili in passamontagna? Sono quasi le stesse reazioni che ci furono un anno fa, quando proposi sempre su Poliscritture Facebook il suo precedente «Storia di un comunista».

Ora il problema di cui vorrei venire a capo lo formulerei così: avete ragione voi a reagire in modi stizziti, sarcastici, sprezzanti, come se vi facessi perdere tempo su cose vane dette da uno sciocco? O ho ragione io, che ho avuto ed ho verso “il professore”, da quando il suo nome è cominciato a diventarmi noto, un atteggiamento di simpatia mai acritica per i problemi che solleva (e ai tempi del caso 7 aprile di solidarietà militante, malgrado varie mie riserve intellettuali e politiche)? ( Lo stesso del resto che ho avuto nei confronti di quanti ho considerato “compagni” o “marxisti” o “marxisteggianti”: Montaldi, Fortini, Bologna, Luperini, Preve, La Grassa).

Posso anche ammettere che voi conosciate Negri e  i suoi scritti meglio di me. Eppure l’ostilità nei suoi confronti a me è parsa in gran parte preconcetta e poco ragionata.  Specie quando è manifestata da esponenti della ex o dall’attuale, residua sinistra. Tanto per capirci, il commento sarcastico di Roberto Buffagni – che da quando ci siamo incrociati dichiara e rivendica lealmente il suo essere cattolico e conservatore – non mi disturba. So da quale pulpito viene la sua predica. Mi disturba, invece, il sarcasmo di chi proviene dalla sinistra degli anni ‘70. Perché   so che, in parecchi casi,  nasce da malafede, da un rinnegamento (alla Pietro del prima che il gallo canti…), da un defilarsi – vile, sfacciato o furbo – dall’album di famiglia della fu sinistra comunista, oggi diventato troppo compromettente. In questi casi la visceralità, con cui vengono scaricate soltanto su Negri e sul lottarmatismo tutte le responsabilità di un fallimento storico, ostruisce la ricerca della verità sugli anni ’70 e costoro mostrano la classica coda di paglia.

Nel caso vostro, invece, sarcasmo e sprezzo a caldo possono avere motivazioni politiche solide e su di esse mi pare utile ragionare anche tra pochi. E, dunque, letti i commenti di Pierluigi Fagan, obietto:

1 – No, la « repressione di parti di un movimenti assai plurale» ci fu e può essere considerata politicamente secondaria solo da chi ritenesse che quella nei confronti dell’Autonomia  fosse politicamente giusta o democraticamente accettabile. I colpi assestati all’Autonomia nel ‘77 ebbero poi una qualità ben diversa da quelli che colpirono Valpreda e gli anarchici nel ’69. Forse in entrambi i casi vennero  bersagliati i più esposti, gli estremisti, quelli con l’inconscio a fior di pelle o magari  i più disperati o i sognatori, mal sopportati non solo dal PCI ma anche dall’area della “nuova sinistra”. Nel ’69, però, contro Valpreda e gli anarchici agirono fascisti e apparati più o meno “deviati” dello Stato,  mentre a “sedare” la  presunta follia degli autonomi fu lo stesso PCI (tramite  il giudice Calogero e  i mass media che l’appoggiarono). Fu, cioè,  la forza allora egemone della sinistra comunista e democratica che si tirò via la spina che lacerava il suo fianco statalista; e  con accuse infamanti, degne dell’epoca stalinista e poi risultate inconsistenti. Pagando, credo, più tardi il disconoscimento del contenuto di verità di quella presunta follia degli autonomi e più tardi delle Brigate Rosse,  non riuscendo a farlo proprio. (Come riuscì, invece, a me pare a Lenin almeno fino a Kronstadt). E aveva ben ragione Fortini a scrivere  che il PCI in quello scontro in effetti interno alla tradizione delle sinistre comuniste aveva vinto ma non aveva affatto convinto.

2 – Non mi va il tuo metterti  quasi i guanti bianchi di fronte a qualsiasi movimento (non solo forse a quello del ‘68- ‘69) considerato a priori «un fugace epifenomeno».

3 – Non dico che, oltre alla repressione dello Stato (appoggiata dal PCI e forse un po’ anche  dalla nuova sinistra), non ci siano stati fattori «endogeni» che condussero al fallimento a catena di avanguardie improvvisate e poi degli stessi partiti di storica esperienza. Ma il problema della cosiddetta dialettica tra spontaneismo e organizzazione  a me pare irrisolvibile teoricamente  e però ineludibile; e temo che si continuerà a doverlo affrontare per tentativi ed errori. Nessuno può sentirsi al sicuro  quando ci mette mano. A qualcuno (singolo o gruppo) potrà capitare di trovare una qualche quadratura del cerchio più o meno miracolosa, ma ho paura che più spesso si finirà o come la Luxemburg o sotto un qualche tallone stalinista. Quel che ho letto di Negri sul potere costituente di un movimento che potrebbe (dico io) esprimerlo e sulla necessità di una organizzazione che non lo comprima o semplicemente lo strumentalizzi, non mi pare affatto sciocco. Credo che egli e altri dell’Autonomia abbiano cercato – senza riuscirci – di tenere aperta la contraddizione tra  il polo Luxemburg e il polo Lenin, rischiando grosso  o finendo  stritolati dalla freddezza calcolatrice sia delle Brigate Rosse che dello Stato (e dalla “fermezza” del PCI). Negri, nel racconto del dibattito interno a Potere Operaio e dello scontro  tra romani e veneti, non sembra essere stato a favore delle spinte  più lottarmatiste, che erano forti nella loro area di riferimento. Dice il falso, dice il vero? Io vorrei capire di più.

4. Non condivido queste due tue valutazioni: – «perdemmo più gente disposta a partecipare alla politica quel giorno (o con l’assalto all’armeria o con Piazza Indipendenza al di là delle infiltrazioni) che con tutto il processo 7 Aprile»; – «C’è più responsabilità sua [di Negri] e di altri in quel fallimento di quanta lui ne veda nella repressione e criminalizzazione che certi comportamenti -da lui stesso ampiamente teorizzati – hanno attirato». Per me è come dire che, se non ci fossero stati loro (Negri e gli autonomi) a predicare e ad avallare certi comportamenti, quella violenza da “assalto ai forni” (“gli espropri proletari”) non ci sarebbe stata o non si sarebbe espressa in quei modi; e forse “noi” avremmo potuto fare grandi cose. Ma è così?  Io mi chiederei prima di tutto se anche le minoranze dell’Autonomia rappresentavano pezzi di società reale (la “seconda società” dell’ineffabile Asor Rosa) o no. E poi mi chiederei: quelle minoranze ( e quei pezzi di società) “impazzirono” forse per conto loro, esclusivamente per “vizi endogeni”; o ci sono state  responsabilità – quelle che meno ti saresti aspettato –  da parte del PCI e della nuova sinistra? Comunque,  non penso che Negri e l’Autonomia in quegli anni caldi pensassero e scrivessero  cose “sovversive” deducendole soltanto dalla loro testa, in uno stato di puro delirio o d’ispirazione dionisiaca. In quegli anni c’erano spinte nella realtà sociale che erano violente e puntavano a soluzioni violente della crisi.  Quella “follia” (tutta irrazionale?) o veniva calamitata all’interno di un progetto razionale di lotta o era destinata ad esplodere per conto suo autodistruggendosi e distruggendo anche  il possibile progetto che allora ancora si chiamava socialismo e si presentava apparentemente più razionale e ancora alternativo al Capitale.

Ci saranno sempre spinte estremiste nei movimenti. E chi sa che gli estremismi sono «una malattia infantile» e danneggiano non solo i loro fautori ma anche gli altri  o è in grado di farsi medico e di guarirla questa malattia o ne diventa indirettamente o direttamente vittima. Chiunque vuole un cambiamento deve assumersi  anche la responsabilità di conoscere questi estremismi, guidarli,  tentare di farli uscire, senza garanzia di successo,  dalla «malattia infantile». E penso che Negri, con tutti i suoi difetti,  abbia cercato di far questo, anche se ne fu travolto. Altri invece liquidarono il problema: le BR? Erano fascisti. L’Autonomia? Erano fascisti.

La domanda che ho fatto all’inizio dunque resta: non essendo stata in grado la “nuova sinistra” di strappare l’egemonia al PCI e avviandosi questo partito sempre più decisamente al compromesso storico (o, come sostiene con buone ragioni La Grassa, allo spostamento di campo dall’Urss agli USA e quindi verso l’uscita definitiva dall’ambiguità togliattiana della via italiana al socialismo), cosa era possibile fare  a quanti erano cresciuti in una determinata storia e in un certo immaginario comunista? A questo punto intervennero i Garibaldi delle Brigate Rosse che i Mazzini dell’Autonomia forse  volevano “pilotare”.  Si poteva, dunque,  non subire il «compromesso storico»  del più grande Partito Comunista d’Europa?  Si poteva non tentare il tutto per tutto, come fecero le Brigate Rosse? Si fosse pure mantenuta, come tu ipotizzi, la « gente disposta a partecipare alla politica» della nuova sinistra, che soluzioni si prospettavano, visto che l’ipotesi di incalzare il «PCI al governo», lanciata – ricordo – da Lotta Continua non aveva più vigore e quelle del Pdup o di Avanguardia Operaia da essa non si distinguevano di molto?

A Maurizio Bosco invece dico che la sua posizione mi pare quella di un leninista scolastico. Non fosse prevalso lo “spontaneismo”, che prospettiva si delineava al suo posto? Cosa proponeva in quei tempi una posizione sanamente leninista?  Un durare forse, ma in attesa di cosa? Non do, poi, per niente affatto acquisita o dimostrata «l’etero direzione, per quanto parziale, di gran parte di quelle pratiche».  Una certa etero direzione è scontata (se Freud  vale un po’ anche per i processi sociali). Nessuno – né individuo né gruppo né classe – è interamente autonomo. si lotta in condizioni  servili. I movimenti però hanno (a volte) le loro carte e in certe situazioni possono giocarle bene. Tu, invece, quando parli di «istanze di liberazione ed emancipazione soggettiva delle generazioni che avevano vissuto l’apertura di orizzonte e la modernizzazione», le svaluti, perché le riduci a meccaniche del tutto interne al movimento del capitale (un po’ come faceva Lenin – ma si era ad inizio Novecento –  per il tradunionismo); e le  subordini interamente alla «fase espansiva del capitalismo e dell’accesso al consumo materiale e ideologico che si è esaurita a metà degli anni ’70». E mi pare che ricorri anche tu  troppo volentieri ad un’ottica generazionale. Infine, mi viene da obiettare, se Negri e gli operaisti erano allora così minoritari e marginali, come si fa a imputare loro tutto il disastro finale? Tutto prodotto dai discorsi minoritari sull’«utopia della, finalmente guadagnata, potenziale liberazione dal lavoro» da loro propalata?  Davvero è un bel sopravvalutarli e sottovalutare, invece, l’opera ben più capillare e nefasta (secondo me) del PCI.

Per finire, a me  andrebbe  benissimo se voi riusciste a scalzare la reale o presunta egemonia culturale di Negri, a patto che non ricorriate alla scorciatoia dello sbeffeggiamento. O si danno soluzione diverse ai problemi che gli operaisti posero (e ora, come “postoperaisti” pongono) o si impostano altri problemi in altri modi. Ma accetto la vostra sfida. Ditemi i riferimenti a cui guardate, ditemi se davvero oscurano del tutto quella problematica o permettono di vederla da un punto di vista più valido. E ne discuteremo, Non mi pare, comunque, che Negri abbia “distrutto” lui la sinistra, mentre altri, più a sinistra di lui, l’abbiano conservata o la stiano risuscitando. Per me la critica quasi sempre viscerale a Negri ( ma spesso anche a studiosi su sponde opposte alle sue, come La Grassa) diventa un alibi per nascondere  un vuoto teorico, politico e pratico in cui un po’ tutti si annaspa. Non si può, però, parlare da settari oggi che non ci sono (credo) più sette. Gli scritti di Negri, anche quando discutibili, alimentano la mia riflessione politica e vorrei alimentarla anche ascoltando critiche appropriate alla sue posizioni. Non sono un filosofo ma rispetto la filosofia e non si può negare il valore del Negri filosofo. Né mi va di mettere tra parentesi la persecuzione che ha  subito assieme a tanti. Non è di per sé garanzia di valore delle sue idee, ma  è un sintomo dei tempi che non può essere accantonato come irrilevante.

Note

[1] Citazione da Disobbedienze di F. Fortini.
[2] Espressione usata da Pierluigi Fagan  in un commento su Poliscritture FB

2 pensieri su “Appunti politici (15): Sinceramente

  1. …mi sembra che la reazione di diversi commentatori agli scritti e al pensiero di Toni Negri rientri nella categoria dell’ “indignazione diseguale” ( Judith Butler), per cui si percepisce, nell’analisi dei comportamenti umani, una minaccia diseguale, ma non proporzionata alla realtà dei fatti…Solitamente le ingiustizie, le violenze, le torture, il legame con realtà mafiose, se istituzionali o da partiti affermati suonano meno minacciose, sono in qualche modo “assolte”…Comunque allora come oggi non vedo imminente una rivoluzione, che, quando avverrà, mi auguro il più possibile non violenta, spontanea e sostenuta, non necessariamente guidata, dall’utopia…

  2. Potete leggere gli altri interventi sul tema del post cliccando il link “16 maggio 2018. Appunti politici (15): Sinceramente” di POLISCRITTURE su Facebook nella colonna qui a destra.

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