Ancora sul fantasma di Negri

Le lettere del Tonto 3

di Giulio Toffoli

Pubblico questa nuova lettera del Tonto sempre su Negri. Ho, in accordo con Toffoli, corretto il titolo iniziale (“Il fantasma di Negri fra noi”), per sottolineare che per me egli non è un “fantasma” da esorcizzare ma un intellettuale politico da leggere e discutere criticamente evitando atteggiamenti sprezzanti.  Aggiungo anche che ad alcune delle questioni qui riproposte dal Tonto ho – credo – già risposto negli “Appunti” alla precedente “Lettera” (qui). E che insisterò  affinché il ripensamento degli eventi e delle idee degli anni Settanta, conclusisi con la tragica vicenda di Moro, avvenga su tutte le tessere del mosaico rappresentato dalle testimonianze dei vari attori (dalla DC al PCI, ai gruppi (AO, LC, Pdup), all’Autonomia, alle varie formazioni lottarmatiste). A nessuno è permesso “assolversi”. Tutte le responsabilità vanno soppesate per ciascuno in relazione a quelle degli altri, per cogliere i punti, dove sono avvenute le decisioni ultime e maggiori, che hanno condizionato quelle penultime e minori.  So che il dissenso tra me e Toffoli (e altri) riguarda un discorso storico complicato,che interesserà soprattutto  noi pochi epigoni di quella storia. Ma va fatto lo stesso, anche se risultasse  per molti noioso o esaurito. Le questioni che si posero allora ancora si porranno, se davvero si muoverà qualcosa in Italia e  se questi  finti “homini novi” (per me), oggi arrivati al governo, passeranno dalle parole ai fatti. [E. A.]

Il faut regarder plus loing
et avoir soing de la posterité …,
puis que le temps present et ceux
avec qui nous vivons sont si ennemis de la vertu.

Jacques-Auguste de Thou

Leggo e trascrivo l’ultima fatica del mio amico:

“… Cerchiamo di essere chiari, una volta per tutte. Non vi è nessuna ironia quando affermo che Negri e ciò che lui ha espresso sono consegnati alla storia. E’ l’intera fase storica che, a seconda delle interpretazioni, ha inizio con i primi anni sessanta o se si vuole con l’esplosione del movimento del ’68 e poi si è articolata per un decennio che è ormai una pagina storicamente chiusa. Non si tratta perciò di disattenzione nei confronti di Negri e della sua fluviale produzione di questi ultimi anni quanto piuttosto di stanchezza per un modo di articolare un pensiero che, al di là degli sforzi di essere all’altezza dei nuovi tempi, ripete stilemi che sono una malagevole ripetizione di alcuni modelli rintracciabili nella sua produzione degli anni sessanta/settanta.

Negri grande filosofo? Ne ho lette di lodi sperticate oltremisura e mi si consentirà di non aderirvi.

Similmente non ho per nulla liquidato la sua produzione post fine millennio anche se ammetto che l’ho letta con sempre maggiore fatica. A differenza di tanti laudatores fra i suoi colleghi accademici, di tanti giornalisti proni a lodi sperticate nei confronti del fenomeno del momento, del New York Times e dei giornali alla moda che lo intervistano quasi fosse una star, resto convinto che le sue ultime opere tanto decantate siano davvero poca cosa.

Convengo, dopo averlo faticosamente compulsato, con il giudizio che James Petras ha espresso su Impero: «Impero è una sintesi generalizzata delle banalità intellettuali sulla globalizzazione, il postmoderno e il postmarxismo tenute insieme da una serie di argomentazioni e supposizioni senza fondamento che violano seriamente la realtà economica e storica. La tesi del postimperialismo di Impero non è una gran novità né una gran teoria, e poco spiega del mondo reale. Piuttosto un esercizio verboso privo di intelligenza critica».

Come dargli torto dopo aver letto fin dalle prime pagine questa definizione del nuovo Impero che si sarebbe venuto affermando e che in qualche momento mi ha fatto pensare a un Isaac Asimov di Cronache della galassia, senza però la sua fantasiosa genialità:

«L’imperialismo fu una vera e propria proiezione della sovranità degli Stati-nazione europei al di là dei loro confini … mentre al contrario dell’imperialismo l’Impero non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere fisse. Si tratta di un apparato di potere decentrato e deterritorializzante che progressivamente incorpora l’intero spazio mondiale all’interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione. L’Impero amministra delle identità ibride, delle gerarchie flessibili e degli scambi plurali modulando reti di comando. I diversi colori nazionali della carta imperialistica del mondo sono stati mescolati in un arcobaleno globale e imperiale». (Impero, pag. 14)

E similmente cosa dire della sua analisi della realtà sociale dell’inizio del XXI secolo che sembra ripetere, una volta di più e in un’altra versione riverniciata per l’occasione, una modellistica che abbiamo già visto, ad esempio, in Proletari e Stato secondo la quale il proletariato produce se stesso trascorrendo attraverso la figura dell’operaio professionale, che riscattava il lavoro produttivo, quella dell’operaio massa, che osava perfino progettare «un’alternativa reale al sistema capitalistico» per diventare infine, nella fase del lavoro immateriale, il lavoratore sociale. Giunti a questo punto, che si presume finale del percorso, il nuovo lavoratore sociale, afferma Negri, può: «esprimersi come autovalorizzazione dell’umano (realizzando) un’organizzazione del potere produttivo e politico come unità bipolitica gestita dalla moltitudine, organizzata dalla moltitudine, diretta dalla moltitudine – una democrazia assoluta in azione» (cit. pag. 378).

Insomma il comunismo è come se fosse già realizzato, siamo solo noi che non ce ne siamo resi conto. D’altronde il prototipo del nuovo soggetto sociale, la moltitudine dell’età dell’Impero, è Francesco d’Assisi che sottolinea Negri ha opposto alla miseria del potere la sua gioia di vivere.

Quale sia poi stato l’esito dell’avventura di Francesco è cosa che ben poco gli interessa.

«Democrazia assoluta in azione»? Certo difficile affermare che qualcuno l’abbia vista in questi decenni di ferro, sembra più facile affermare che nel suo linguaggio, assertorio e che non ammette dubbi, Negri sia convinto che il nuovo soggetto sociale sia alle porte della Grande Realizzazione.

Un poco come coloro che si avvicinavano al monolito in 2001 Odissea nello spazio.

Un sogno … forse, certo che può apparire pericolosamente vicino ad una allucinazione.

No. Il Negri ideologo dell’Impero e di una improbabile liberazione (fra l’altro da chi e da che cosa?) non mi attira, piuttosto può essere ancora di un qualche interesse, anche per non ripetere gli stessi stupidi errori, ripensare agli anni in cui in Italia sembrava che fosse possibile avviare un processo di reale trasformazione sociale e in cui Negri aveva assunto la caratura di una controversa ma significativa figura politica, il prototipo dell’intellettuale-politico di bolscevica memoria.

La domanda che Ennio ci pone con insistenza è: «esistevano negli anni settanta, in quell’immenso fenomeno di protesta sociale, spinte endogene che portavano verso esiti violenti?» La risposta è assolutamente ovvia: evidentemente tali spinte endogene c’erano e si sono fatte ben sentire, la scia di sangue che hanno lasciato ne è segno inequivocabile. Il problema piuttosto è un altro, ovvero se fosse necessario che si facessero sentire e se dovevano necessariamente assumere quelle forme che hanno condotto all’esito che ben conosciamo, ovvero a una sconfitta storica di quella che genericamente chiamiamo la sinistra.

L’esperienza storica del XIX e quella del XX secolo ci hanno insegnato che nei momenti di più acuta contrapposizione sociale vi è una divisione, all’interno del fronte della protesta sociale, «fra chi aspira al massimo e chi opera nella realtà …».

Non solo, all’interno del fronte determinato a non accettare sic et simpliciter il compromesso socialdemocratico vi è poi una fascia che si distingue per l’estrema radicalità. Determinante in quei casi diventa «l’attività di quella esigua minoranza che prospetta conflitti senza compromessi e considera sconfitte gli accordi con gli avversari e per essere ancora più chiari li condanna come fossero un ritirarsi dal proprio ruolo nei confronti di quelli che hanno scelto di rappresentare … il volontarismo massimalista è essenziale per spingere i propri seguaci anche se poi quasi sempre li vede sconfitti da strategie che sono impossibili da concretizzare.

Racchiusi nella propria visione non guardano alle concrete vicende dei grandi paesi europei, dei vecchi e nuovi capitalismi e a quello americano che smentisce brutalmente le loro certezze».

In queste poche righe viene delineato, con massima chiarezza, quello che è stato l’esito della radicalizzazione della lotta politica negli anni ’70 in Italia e non solo da noi.

Se quello che si voleva era prendere esempio dai Tupamaros e dagli altri gruppi guerriglieri dell’America latina forse si sarebbe dovuto ben trarre una qualche lezione dell’esito tragico del tentativo di Ernesto Guevara di creare un fuoco rivoluzionario in una regione dove pur si poteva credere che vi fossero degli elementi oggettivi favorevoli allo sviluppo di un processo rivoluzionario. Se si voleva prendere esempio dalla tradizione della Terza internazionale forse conveniva che coloro che si assunsero la responsabilità di radicalizzare lo scontro si ricordassero quale fu il tragico esito della storia di quella organizzazione e delle sue brucianti sconfitte.

Indicavo, nel precedente intervento, due avvenimenti, il ‘67 in Grecia e la primavera di Praga del ‘68, che avevano dato un chiaro segnale, a chi non fosse legato a schemi ideologici rigidi, che gli spazi per un’azione politica radicale erano assai ristretti e che in ogni caso altre dovevano essere le strade da percorrere rispetto a quelle tradizionali. Quella di «alzare il tiro», in un improbabile scontro con lo stato, era chiusa in partenza; troppo differente la potenza di fuoco fra le forze in campo.

D’altronde proprio lo sviluppo del movimento del ’68 segnalava che era necessario cercare di farsi portatori di un nuovo linguaggio e proporre modelli politici che non fossero sin dall’inizio caratterizzati da un completo disinteresse nei confronti dei modi e dei tempi di crescita della coscienza dei nuovi militanti, per la più parte giovani con una limitatissima formazione politica alle spalle e che proprio nel corso delle lotte iniziavano a prendere coscienza del loro essere sociale, della loro realtà di miseria economica, sociale, intellettuale …

Perciò nessun romanticismo nel tentativo di rappresentare ciò che è stato il ’68 ma un sforzo di aderire a quelli che erano gli elementi più vivi di quella esperienza che non si esprimevano necessariamente con i gerghi delle ideologie consolidate ma che andavano tentando di costruire un proprio linguaggio, in una ricerca che stava scartabellando fra i bauli della storia, facendo i conti con una varietà di tradizioni teoriche come quella cristiana-evangelica, quella socialista e marxista, la teoria critica, il situazionismo, le diverse esperienze artistiche d’avanguardia e non ultima la tradizione liberale e democratica, che si leggeva attraverso gli scritti del SDS statunitense (Students for a Democratic Society). Un incontro con un amplissimo arco di esperienze intellettuali che servivano per analizzare una condizione esistenziale che a suo modo costituiva una condizione del tutto inedita essendo quella che entrava in scena negli anni sessanta la prima generazione che poteva essere almeno parzialmente libera dalla stretta necessità della lotta per la sopravvivenza, che poteva mettere in discussione modelli di comportamento atavici e sperimentava l’incredibile novità per cui perfino «l’operaio poteva sognare il figlio dottore».

Credo sia difficile pensare, percorrendo la storia dell’Italia degli ultimi tre millenni, a un mutamento storico/sociale così radicale e verificatosi in così pochi anni.

La scelta di alzare il livello dello scontro era fra tutte le possibili opzioni politiche quella più nefasta. Non si tratta di ricondurre il discorso semplicemente a una questione morale intorno al problema all’uso e alla liceità della violenza. Helder Camara, che certo non era un estremista, affermava su questo tema: «Io conosco tre forme di violenza: violenza numero 1, la violenza delle istituzioni, da quelle economiche a quelle politiche; violenza numero 2, quella delle vittime che infine si ribellano e con la forza cercano di sovvertire le istituzioni insopportabili; violenza numero 3, quella della polizia, che al servizio della violenza numero 1, cerca di tener testa alla violenza numero 2». E chiosava Balducci: «Chi può uscire da questa catena? Non possiamo trovare un posto dove essere innocenti. Bisogna scegliere da che parte siamo, e non c’è altra morale se non a favore delle vittime, per liberarle dalla logica della violenza. Non c’è dunque solitudine dove ci sia lecito dire: le mie mani sono innocenti. Quando il mondo si sbrana con la violenza, non è innocenza andarsene via. Occorre starci dentro».

Il problema era di identificare la forma di violenza politicamente più saggia, che non fosse fin dall’inizio una scelta suicida. Il quesito che mi sembra rimanga senza risposta è ancora quello che ho già posto: era ragionevole dal punto di vista politico uccidere Calabresi in quel maggio del ‘72?

E potremmo porre la stessa domanda per una infinita altra serie di casi …

Ben diversa era l’opera di resistenza gestita dai cosiddetti «servizi d’ordine» durante le manifestazioni di massa che costituiva nel complesso un accettabile elemento di autodifesa.

Eppure credo che nei confronti di un tema come quello dell’uso della violenza sia davvero necessario essere infinitamente prudenti, infatti è una caratteristica di tutte le rivoluzioni, borghesi e/o «proletarie», di aver conosciuto una involuzione quando ha preso il sopravvento l’ala che ha fatto propria la scelta di soluzioni armate. L’esito è stato nella maggior parte dei casi il consolidarsi di una gestione autoritaria del potere.

Gli esiti dell’azione dei movimenti degli anni settanta hanno rappresentato un’ulteriore testimonianza della profonda incapacità di sfuggire alla trappola che il potere pone a chi cerca di rivoltarsi: quella del confronto armato.

E’ questo continuo richiamo ad «andare più in là», verso una indefinita scadenza rivoluzionaria, che ha visto Negri e gli altri dell’Autonomia assumersi l’onere di diventare i portavoce di una crescente radicalizzazione del movimento, attraverso una variegata serie di azioni politiche o pseudo tali che andavano dagli espropri proletari fino a azioni di massa più o meno violente, in un rapporto mai del tutto completamente chiaro con le frange armate.

Ennio ci chiede se si può affermare che sono stati «cattivi maestri»? Anche in questo caso rispondere è abbastanza facile. La formula pubblicistica dei «cattivi maestri» è un puro strumento retorico; è servita per sbattere il mostro in prima pagina, secondo il modello già sperimentato con Valpreda nel ‘69. Piuttosto si può dire senza ombra di dubbio che sono stati intellettuali-politici che non hanno mostrato nessuna capacità di leggere la realtà, schiacciati in una astratta modellistica che non aveva fatto i conti con i fallimenti della esperienza sovietica e più in generale con le debolezze del modello di rivoluzione basato sul colpo di mano di una élite che si è assunta l’arduo ruolo di «guidare il proletariato». Come aveva fatto notare per tempo Fortini: «Non si è voluto vedere che quell’esercizio della violenza … è stato un errore di lettura e valutazione dei fattori politici, errore che ha contribuito potentemente alla sconfitta della opposizione di cui era una parte e una conseguenza» (San Vittore, in Extrema ratio, 1977, pag. 77).

Certo ogni volta che ripenso a quella fase non riesco a dimenticare la lunga lista di coloro che sono rimasti vittime di un disegno politico privo di ogni respiro, piuttosto che a Negri e i suoi sodali che essendosi assunti il ruolo dell’intellettuale-politico, portatore di un progetto di sovversione rivoluzionaria, dovevano aver ben messo nel conto i possibili rischi a cui tale scelta li esponeva.

D’altronde domandarsi come si sarebbe sviluppato il movimento nato dal ’68 senza il duplice e concorrente ricatto dei gruppi armati, dell’Autonomia e dello Stato sembra davvero ozioso. Molto probabilmente quasi nulla sarebbe mutato vista la condizione internazionale dell’Italia e la sua intima fragilità. Forse si sarebbe consolidata qualche ulteriore e non disprezzabile riforma, il compromesso storico sarebbe stato dilazionato nel tempo fino a divenire una reliquia senza sostanza e con la fine degli anni ottanta la scomparsa dell’URSS avrebbe avuto quei riflessi dirompenti che abbiamo conosciuto.

Forse semplicemente la coscienza di settori più ampi della popolazione, meno schiacciata dal ricatto della violenza e dal facile gioco della propaganda del potere, avrebbe resistito meglio alla ripresa dell’aggressività politica e culturale del neoliberismo, consentendo di preservare alcune delle conquiste di quegli anni che invece sono state per la più parte smantellate da una abile opera di logoramento da chi si è fatto portatore della logica del: «there is no alternative».

In ogni caso si tratta davvero di un discorso di ieri.

Oggi stiamo vivendo una pagina nuova dove dominano incontrastati i signori della moneta e progetti politici di ampia respiro sembrano del tutto estranei al sentire normale della gente e dei giovani.

Restare legati a una vecchia impostazione ideologica ma soprattutto a un tragico fallimento storico mi sembra non solo una insensatezza ma anche un voler indugiare avvinghiati, come un’ostrica, a una roccia che ormai la storia si è incaricata di disintegrare. Ha indubbiamente ragione Aguzzi quando afferma: «Il mondo è un orizzonte troppo aperto, sebbene l’uomo sia troppo miope per vederlo nella sua interezza. La libertà e il principio di non aggressione mi sembrano elementi fondamentali per ogni tecnica che si sforzi di migliorare e ampliare la visione. Il riferimento al passato è sempre una buona cosa se serve a guardare con più profondità al futuro, ma è una pessima cosa se serve a chiudere il mondo nella gabbia dei ricordi e delle cose che ci sono care solo perché ci siamo abituati ad esse e in esse ci riconosciamo».

Cosa aggiungere? Cerchiamo di fare tesoro di queste parole e liberiamoci da questa folle miopia che ci impedisce di vedere nuovi orizzonti. Forse non sono per noi, ma ci si staglia di fronte un futuro, per quanto possa apparirci oscuro e pieno di incognite, che si può affrontare solo munendosi di nuovi strumenti, gli arnesi che Negri e i suoi amici hanno usato e cercano di rinverdire non servono più.

Ciò di cui abbiamo necessità è una maggiore umiltà e una più attenta lettura della realtà che riesca a liberarci dagli «idola» che ci circondano e ci consenta di scorgere le faglie di nuove contraddizioni e di nuovi processi di crescita di una coscienza critica che, nonostante tutto, emergono intorno a noi. Che si tratti di una coscienza di classe o forse più semplicemente una inedita coscienza umana oggi è difficile dirlo. Ma un dato è certo, abbiamo alle spalle un’intera tradizione, cui siamo legati, ma che va radicalmente messa in discussione, senza cercare di salvare surrettiziamente ciò che è morto.

Come concludere se non riprendendo le parole che Rosa rivolgeva un secolo fa al movimento socialista, in uno dei momenti più bui della sua non lunga storia, e a cui molti fra noi spesso si richiamano per poi beffarsene bellamente: «L’autocritica, un’autocritica spietata, crudele, capace di penetrare fino al fondo delle cose, costituisce l’aria e la luce del movimento proletario»”.

Tontus

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