Vetrine di Pietra Ligure

di Donato Salzarulo

1.
Per un po’ l’ho chiamato pomposamente “paradigma della vetrina”. Classico lampo della mente, l’intuizione è emersa nei circuiti cerebrali, durante una camminata mattutina sul lungomare di Pietra Ligure. Erano le nove e zero otto del sette maggio (tanta precisione è dovuta soltanto al cellulare). Stavo percorrendo la solita strada per andare a comprare i giornali. All’altezza del molo, la luce solare attraversava intensamente le larghe vetrate della giostra permanente per bambini. Attraversava e rifletteva, creando un effetto piacevole, uno spettacolo che attrasse la mia attenzione.

Tirai fuori il cellulare e decisi di fare una foto. «Non male! …» Oltre alla piattaforma girevole – in quel momento immobile – coi suoi autoveicoli e i suoi cavalli – all’orizzonte si vedeva il cielo e il mare, quasi fusi in un azzurro che sembrava diffondersi su tutta la foto. Persino il molo sembrava azzurro. Io ero là, riflesso a destra, in un angolo col mio cappello di paglia e il cellulare vicino agli occhi, che valutavano l’inquadramento.

Non sono un fotografo, né dilettante, né di professione. Sono semplicemente una persona che da circa un anno ha scoperto di poter utilizzare quest’attrezzo, oltre che per telefonare, spedire e-mail ed andare su Internet, per registrare degli appunti visivi – questi sono le mie fotografie – e scrivere eventuali osservazioni nelle note. Ho così quasi abolito i taccuini.

La mattinata finì con un pensiero: nelle vetrate della giostra si rifletteva una buona porzione del mondo circostante, compreso il sottoscritto. Funzionava un po’ come uno specchio, ma, per via della sua trasparenza, non proprio allo stesso modo. Opera d’arte semovente – pensavo a quella senza vetrate, vista a Parigi, ai piedi della Basilica del Sacro Cuore – conservava la sua integrità, ma accoglieva una parte di mondo.

Qualche giorno dopo, tornato a Cologno, non ci pensai più. O, almeno, così mi sembrava.

2.
In verità in quei giorni colognesi parlai spesso con Ennio di Poliscritture 3, del progetto che aveva in testa di allargamento e rilancio del sito. Siccome, chi intendeva collaborare con una certa sistematicità doveva, in qualche modo, animare una rubrica, io fui costretto a pensarne una.

Da diversi decenni, mi definisco con sincera autoironia, l’uomo delle tre P; nel senso che gran parte della mia vita l’ho spesa facendo Pedagogia, Politica e Poesia.

Le prime due si sono cristallizzate in funzioni e ruoli sociali: ho fatto il maestro di scuola elementare, il professore di lettere, il dirigente scolastico, il militante politico, il consigliere comunale, l’assessore alla pubblica istruzione, ecc. Non sempre per mia scelta, ho fatto (e faccio) il figlio, il padre e il nonno. “Mestieri” anche questi afferenti alla Pedagogia e Politica. La Poesia, invece, l’ho tenuta in ombra. L’ho trattata come la “parte femminile” di me. Non l’ho aiutata a liberarsi, a lottare, a chiedere ascolto, dignità, riconoscimento. Non so spiegarmi bene il perché. Per eccessiva timidezza o forse perché non l’ho amata come dovevo. Comunque, curare una rubrica dedicata alla poesia?… Non mi sembrava il caso. C’era già la “moltitudine poetante”.

Pensai allora all’immagine. Negli ultimi anni, andando in numerose classi a leggere poesie, spesso dicevo che, come un Giano bifronte, hanno due facce.  Da un lato, quella oraziana: “Ut pictura poësis”, cioè, la poesia è come un quadro, ha bisogno di immagini; dall’altro occorre costruire un legame musicale tra le parole. E citavo Verlaine: “De la musique avant toute chose”.

Ascolto musica volentieri. Quella classica mi infonde una grande forza. Ma curare una rubrica non era nelle mie possibilità. Con la pittura e i pittori ho avuto, invece, una frequentazione più significativa, testimoniata anche da alcuni articoli apparsi su questo sito. Per carità, non mi sarei messo a parlare di capitoli di storia dell’arte, di gallerie, di mostre, di visite ai musei, ecc. Avrei cercato di comprendere meglio il rapporto tra immagine e parola, il significato di definizioni come “civiltà dell’immagine”, ecc. Ero, infatti, rimasto parecchio impressionato da alcune affermazioni dei fondatori del blog Antinomie e pensavo che, pur non essendo uno specialista, potevo avvicinarmi al campo della “cultura visuale” ed esplorarlo.  La grande importanza che le immagini hanno nella nostra vita quotidiana è innegabile.  Federico Ferrari aveva scritto: «Forse senza averne piena consapevolezza, siamo entrati in una nuova epoca del mondo. Ogni anno, il genere umano produce più di un trilione di immagini. Un trilione significa un miliardo di miliardi, 1. 000 000 000 000 000 000. È un numero che non può essere davvero pensato da una mente umana. Se consideriamo, infatti, che in epoca medievale un uomo entrava in contatto, nell’arco della sua intera esistenza, con circa quaranta immagini artificiali – mentre oggi si calcola che siano circa dodici miliardi – abbiamo la misura di un passaggio epocale senza precedenti. Pare, quindi, del tutto pertinente affermare che la nostra civiltà stia vivendo la transizione da una biosfera fondata sulla materia a un’iconosfera in cui la vita tende a smaterializzarsi nell’impalpabilità dell’immagine. Un’epoca, quella dell’iconosfera, che potremmo definire come l’epoca dell’immagine del mondo, cioè l’epoca in cui non ci facciamo più solo immagini del mondo, ma in cui il mondo stesso diviene un’immagine.»

Condividendo questa consapevolezza, a fine maggio scelsi il titolo della rubrica, “Punti di fuga” e scrissi il documento di presentazione. Work in progress, niente di più. Che, però, col suo richiamo alla prospettiva, riusciva a conservare insieme le tre P.

3. Tornato a Pietra Ligure, il 5 giugno, durante la mia passeggiata pomeridiana, scattai due foto alle vetrine di due negozi di abbigliamento. Nella prima la mia ombra, riflessa frontalmente, si intravede tra i vestiti appesi, dietro il manichino della donna distesa su una sorta di bancale, un supporto espositivo; nella seconda, scelgo un punto di vista laterale e faccio in modo che non ci sia.

Il tema della vetrina ritorna, tra tante altre foto a vari soggetti, dopo quattro giorni e questa volta col mio scatto, oltre al mio corpo, vi vedo riflessi dentro la lunga palma alle mie spalle, l’oleandro, l’agave, la vicina panchina e porzioni significative di cielo e di mondo.

S’avvia in questa fase la riflessione, in parte memoriale, su due argomenti: a) il rapporto tra il corpo-mente (vita) e la sua produzione poetica, letteraria (artistica); b) il rapporto tra l’Io e l’Altro (gli altri, il mondo).

Sul primo argomento sono fermo ad una poesia di Magrelli: « […] La scrittura / non è specchio, piuttosto / il vetro zigrinato delle docce, / dove il corpo si sgretola / e solo la sua ombra traspare / incerta ma reale. / E non si riconosce chi si lava / ma soltanto il suo gesto.»

Sul secondo, scrissi una poesia dieci anni fa, alla morte di Zanzotto, a lui dedicata e intitolata “Macchie di Rorschach”. Le prima due strofe inziali dicono: «Per gli altri ognuno di noi / è una macchia di Rorschach / senza sapere di esserlo. / Più facile immaginarsi / compatto e definito, frammento / di quarzo o cristallo che trapezista / in bilico su decine di corde / di parole, nate da corpi, impiantate / su circoli di energia continuamente / rinnovantesi. / È quando non regge più / la stratificazione, quando i cumuli / di storie si fanno letti per ricci / e scoiattoli che la memoria / cerca l’oblio, la copertura / delle nuvole. // Fa un certo effetto scoprire / che la castagna col buco fuori di te / è dentro di te, nel giro dei tuoi / pensieri.»

Ero ombra più o meno distinta nelle vetrine che andavo fotografando. Esse erano in me.

 4.  Dopo il 5 giugno vado avanti per tutto il mese a fotografare vetrine. Non solo vetrine, ovviamente e non tutte le vetrine della cittadina ligure. Soltanto quelle che, per qualche motivo prevalentemente estetico, mi colpivano. Quelle, insomma, in cui il lavoro di allestimento faceva pensare di più a un quadro, a un’opera d’arte. In una, addirittura, in una sorta di mescolanza di sacro e profano, sembrava esserci un Cristo di legno sul Calvario; in un’altra fra tante “cose & cose” erano esposti disegni di bambini. Un disegno della cattedrale di Pietra, fatto da alunni di scuola elementare, era esposto in una vetrina di un negozio di scarpe. Oltre che tornare a fotografare le vetrate della giostra – in una si riflette quasi totalmente il palazzo di un grande Hotel completamente chiuso – , sono stato attratto anche da un’edicola votiva dedicata a un Gesù Bambino di Arenzano e da due foto incorniciate di Pietra Ligure (com’era nel 1962 e come si presenta nel 2020).

Ecco, devo confessare, che questi miei “appunti visivi” hanno suscitato in me un desiderio di approfondimento della storia di questo territorio: ho pensato allora al libro di Calvino sulla “speculazione edilizia” che investì negli anni del boom questa costa. Non solo. Quando ho letto, il 14 giugno, la presentazione di Antonio Sagredo della sua rubrica “Bottega di cose slave” non potevo non associare i miei oggetti di attrazione all’attività che il nostro valido collaboratore prospettava. Lui parlava, metaforicamente, di “bancone”, “mensole”, “prodotti ‘slavistici’”, di “assaggio della merce…garantito a tutti i palati”, ecc. ecc. Sempre parlando metaforicamente si può sostenere che Sagredo, come tutti gli altri rubrichisti (compreso il sottoscritto), si danno da fare per mettere in vetrina la loro merce.

Mentre rimuginavo su queste associazioni, mi sono imbattuto in una citazione di Lyotard tratta da «La condizione postmoderna»:

 «L’altro principio secondo il quale l’acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione dello spirito e anche della personalità cade e cadrà sempre più in disuso. Il sapere viene prodotto per essere venduto e consumato, valorizzato in un nuovo tipo di produzione…si arriverà alla mercificazione del sapere.»

Osservazione non nuova. Mi pare che Marx, da oltre un secolo e mezzo, abbia chiarito che i capitalisti, pur di far profitti, vendono tutto. Ma noi non vendiamo nulla. Non siamo capitalisti. Noi pubblichiamo su una piattaforma che consente ai capitalisti delle piattaforme o a quelli della “sorveglianza” di sfruttarci senza neanche versarci un centesimo a cartella di ciò che scriviamo. Lavoro gratis, volontario. Neanche lavoro nero. Mettiamo in vetrina sì, stiamo lì a sperare che qualcuno/a ci legga, ma non lavoriamo in una bottega rinascimentale, né in un negozio. Non siamo neanche dei galleristi. Siamo…E qui tornavo con la mente alla piattaforma politico-culturale di Poliscritture 1, 2 ed ora 3.

5. Continuando a fotografare vetrine e ad aggirarmi fra pensieri simili, ho scoperto un libro del sociologo Vanni Codeluppi, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2007. Si intitola: «La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società».

Ecco il libro adatto a me, ho pensato. Me lo sono procurato e così come facevo, quando preparavo i miei esami universitari, ho passato e ripassato l’Indice.

Ci sono quattro paginette introduttive (pag. 7-10), poi una pagina col titolo ripetuto (La vetrinizzazione sociale) e una frase di Elvis Presley per esergo. «Il mondo è un palco». A me è venuto subito in mente il titolo di un libro di Erving Goffman letto in gioventù «La vita quotidiana come rappresentazione» e, saltando alle ultime pagine, quelle dei Riferimenti bibliografici (pag. 97-109), l’ho ritrovata citata. Sempre qui noto anche la presenza di Walter Benjamin: «Parigi, capitale del XIX secolo. I “passages” di Parigi». Si può scrivere di vetrine e vetrinizzazione senza citare questo filosofo? Vedo anche due opere di Foucault: «La volontà di sapere» e «Tecnologia del sé». La vetrina è, in fondo, un “dispositivo” comunicativo …Continuando a sfogliare, registro la presenza abbondante di Bauman (ben sei titoli), di Simmel, di Virilio, di Elias, di Rifkin…«Siamo messi bene…», penso tra me e me.

Torno allora all’Indice e osservo la distribuzione della materia. I capitoli sono cinque, come le dita di una mano.

Il primo si intitola «La vetrinizzazione» ed è suddiviso in tre paragrafi: Comunicare attraverso la vetrina (pag. 13), L’invasione del privato (pag. 17) e I rischi del corpo «trasparente» (pag.22).

Il secondo si intitola «Il corpo-packaging» suddiviso anche questo in tre paragrafi: Verso il corpo packaging (pag.29), Il corpo sportivo (pag. 34), Contraddizioni del corpo-packaging (pag.39)

“Packaging”[1] è una parola già letta e sentita tante volte. È la modalità di confezionare e presentare il prodotto per la vendita. «L’occhio vuole la sua parte», diceva mia nonna. Ma non pensava certo che dovesse impegnarsi a confezionare e presentare il proprio corpo come se qualcuno/a dovesse comprarlo. Non posso resistere alla tentazione di leggere come anch’io posso diventare un corpo-packaging e salto a pag. 29. Leggo di trucchi, di creme di bellezza, di “facce al botulino” e, a un certo punto, mi soffermo su questo capoverso: «Si potrebbe pensare che le persone decidano di modificare il proprio corpo allo scopo di sedurre; in realtà generalmente esse mirano soprattutto a recuperare le sembianze possedute nella giovinezza. La modificazione estetica del corpo si configura dunque come una pratica autoerotica di seduzione del Sé, anche se, alla fin fine, l’individuo nel cercare di migliorare sul piano estetico non fa che adeguarsi inconsciamente a quei modelli giovanili di successo e di bellezza che vengono veicolati con insistenza dai media e dalla pubblicità.» (pag. 30). Mia nonna sapeva che certi processi sono irreversibili e, se avesse potuto conoscere Paul Nizan, avrebbe forse condiviso il celebre attacco di «Aden Arabia»: «Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.» Oggi, soprattutto.

Il titolo del terzo capitolo sembra quasi un romanzo «Una vita in vetrina» e noto che i paragrafi sono ancora tre. Spingo gli occhi avanti e vedo che il tre si ripete anche nel quarto e quinto capitolo. Quest’autore preferisce evidentemente il numero tre. Chissà se per le stesse ragioni per cui lo preferiva Dante. Comunque, i tre paragrafi sono: Autopubblicità (pag. 48), Tv: la realtà dentro lo schermo (pag. 56), Videogiocare: una seconda vita? (pag. 66).

Il titolo del quarto capitolo generalizza «La città come vetrina» e i paragrafi precisano: Città di moda (pag.71), La città-palcoscenico (pag. 74), Il mondo alla Disney (pag. 79)

Il quinto capitolo, infine, evoca la Signora con la Falce, «La morte: l’ultima vetrina»: La morte innominabile (pag. 83), Lo spettacolo della morte, (pag. 88), La morte mediatica, (pag. 90).

6. Scorrendo l’Indice, in fondo, non ho fatto altro che “vetrinizzare” il libro. Potevo fotografarlo e associarlo alle vetrine di Pietra Ligure. Ma la foto non sarebbe stata bella. Noi oggi bramiamo bellezza, come se essa davvero potesse “salvarci” (non si sa poi da cosa…dal male? Dal capitalismo? …Dallo sfruttamento? … Dalle ingiustizie?… Dalla disoccupazione?…Dalle malattie?…). Comunque, ecco un’altra citazione-assaggio del libro:

«Il risultato finale di questo processo [di vetrinizzazione] è che oggi tutto viene progettato e realizzato per apparire bello e seducente. Dagli alberghi alle confezioni dei prodotti, dalle biblioteche ai piatti dei ristoranti, dalle automobili alle divise dei calciatori tutto quanto viene curato dal punto di vista estetico. Stilisti e designer fanno a gara per ricoprire qualsiasi cosa con la loro creatività e “addirittura i francescani del Terzo Ordine di Assisi, desiderosi di rinnovare la propria veste, alla fine del 2002 sono ricorsi alla stilista Elisabetta Bianchetti” (Verdù 2004, pp. 132-33).

Come ha ricordato Paul Virilio, persino le opere d’arte sono sottoposte a questo processo: “una potente multinazionale di cosmetici ha stretto accordi con Palazzo Pitti e Palazzo Barberini per coprodurre esposizioni- show e partecipare al ‘restauro’ di opere artistiche che, ci viene spiegato, saranno riportate al gusto dettato dalla moda. Così esposte, dopo décapage e maquillage, le opere magistrali di Tintoretto e Tiziano potranno trasmettere al grande pubblico e agli studenti delle scuole ‘un messaggio pubblicitario deliziosamente efficace, permettendo di intuire il potenziale pop dei capolavori dell’arte antica’, come affermava, a questo proposito, Antonio Paolucci, sovrintendente dei beni artistici e storici della città di Firenze. Le opere di Raffaello o quelle di Velàsquez hanno subito, al Prado, le stesse cure post mortem (2002, pp.64-65).

Insomma, appare sempre più palpabile ed evidente quel processo di estensione della dimensione estetica ai principali ambiti della vita sociale che Michel Maffesoli (1993) aveva individuato già qualche anno fa. Quel processo, cioè, che deriva dalla progressiva diffusione nell’intero sistema sociale della logica di messa in scena della vetrina.» (pp.16-17).

7. Passato e ripassato vicino ad una vetrina di scarpe, dopo averla a lungo osservata e aver individuato quelle adatte a me, sono entrato. Mi ha accolto una signora di mezza età, cordiale e gentile non per posa. Alcuni negozi, anche se dotati di artistiche vetrine, li vedo quasi sempre vuoti. Sicuramente per la scontrosità dei proprietari o dei gestori.

Le ho indicato le scarpe che avrei voluto comprare. Quelle in vetrina non corrispondevano al mio numero e in negozio non ne aveva altre. Me ne ha proposto un paio di un’altra marca. Le ho provate. Mi sembrava di calzarle perfettamente. Le ho comprate. Tra l’altro, costavano meno di quelle che inizialmente avrei voluto.

Il giorno dopo le ho infilate e ho fatto le mie abituali passeggiate. Camminavo meravigliosamente. Così bene da sentirmi in dovere di rimettere il naso nel negozio per ringraziare vivamente la signora. Ma non c’era. Non era il suo turno di lavoro.

Sono tornato quando c’era e le ho espresso i miei ringraziamenti sinceri. Ha sorriso e ringraziato a sua volta. Un guizzo di gioia nei suoi occhi mi ha reso per un attimo felice.

6 luglio 2021

[1] Nel marketing, modalità di confezione e di presentazione di un prodotto, studiate in funzione della vendita. Anche, il settore industriale che produce involucri e contenitori per il confezionamento

8 pensieri su “Vetrine di Pietra Ligure

  1. Un po’ di anni fa, in uno splendido e sontuoso palazzo principesco romano (di quelli che fanno la storia dell’architettura nei suoi diversi stili) vidi, affissa a una qualche parete, una piccola Madonna con bambino di Raffaello Sanzio; il dipinto sarà stato alto non più di quaranta centimetri e largo non più di trenta; niente a che fare, voglio dire, con molti celebri opere d’arte di dimensioni immani dell’epoca presente (esposti poi, magari, in un qualche edificio industriale dismesso e recuperato ad altra funzione); ebbene: quella volta, in quel palazzo, di fronte quel piccolo dipinto ebbi un sobbalzo: tutti quei marmi e stucchi del palazzo mi lasciavano indifferente, ma quel piccolo dipinto era molto di più di “bello”, era assolutamente meraviglioso.
    In che rapporto sta quanto ho scritto appena sopra con queste sette note di Donato sulla vetrinizzazione del mondo? Il rapporto è presto detto: quando ho letto quanto ha trascritto Donato : «Come ha ricordato Paul Virilio, persino le opere d’arte sono sottoposte a questo processo: “una potente multinazionale di cosmetici ha stretto accordi con Palazzo Pitti e Palazzo Barberini per coprodurre esposizioni-show e partecipare al ‘restauro’ di opere artistiche che, ci viene spiegato, saranno riportate al gusto dettato dalla moda. Così esposte, dopo décapage e maquillage, le opere magistrali di Tintoretto e Tiziano potranno trasmettere al grande pubblico e agli studenti delle scuole ‘un messaggio pubblicitario deliziosamente efficace, permettendo di intuire il potenziale pop dei capolavori dell’arte antica’, come affermava, a questo proposito, Antonio Paolucci, sovrintendente dei beni artistici e storici della città di Firenze. Le opere di Raffaello o quelle di Velàsquez hanno subito, al Prado, le stesse cure post mortem (2002, pp.64-65)» ho pensato a quel piccolo dipinto e ho ringraziato la sorte di non averne avvertito minimamente “il potenziale pop”.
    «Noi oggi bramiamo bellezza, come se essa davvero potesse “salvarci” (non si sa poi da cosa…dal male? Dal capitalismo? …Dallo sfruttamento? … Dalle ingiustizie?… Dalla disoccupazione?…Dalle malattie?…).», scrive Donato. Ha ragione a usare la parola : “brama”; pare che sia parente assai stretta, è attendibile, di quel mugghio che fa l’animale selvatico per sfida, avvertimento, affermazione, conquista, desiderio sessuale – ma nell’uomo il ‘bramare’ tocca anche registri differenti (l’intimo e l’alto). Di sicuro e non a caso “brama di potere” e “brama di danaro” dicono perfettamente che cosa è, anche, una “brama” – però nell’uomo il ‘bramare’ tocca anche registri differenti (l’intimo e l’alto).
    Non ricordo esattamente quando Miskin pronuncia la fatidica frase: La bellezza salverà il mondo. Ma un secolo e mezzo dopo appare pressoché certo che quella frase fatidica si stia rovesciando o si sia già rovesciata.
    Un caro saluto

  2. Dal punto 1 al punto 4 mi pare che l’articolo di Salzarulo si concentri soprattutto sui riflessi, o comunque sull’immagine composita che risulta da ciò che è dietro al vetro, mischiato con ciò che è davanti e che, qualora la vetrina non sia fortemente illuminata, è trasformato in riflesso ineliminabile. In fin dei conti vetrina viene da vetro.
    Salzarulo parla anche di vetrine “in cui il lavoro di allestimento faceva pensare di più a un quadro, a un’opera d’arte”.
    Ecco, io vorrei aggiungere che il miracolo dell’attrazione e della quasi trasformazione in opera d’arte a me sembra dato in gran parte dal vetro, con o senza riflessi. La barriera translucida fa degli oggetti esposti qualcosa di categorialmente diverso, arte appunto, bellezza, qualcosa che sembra in grado di risolverti i problemi, se non di cambiarti la vita. Se si entra nel negozio e si guardano gli oggetti esposti senza l’intermediazione e i buoni uffici del vetro – oltre che da una prospettiva diversa, laterale – la magia svanisce. L’oggetto diventa un oggetto qualunque – magari bello, magari raffinato, magari costoso, ma che non cambia proprio nulla, non sposta di una virgola. E’ che, senza la separazione translucida del vetro, nulla ormai lo distingue da qualsiasi altro oggetto, dai molti oggetti che possediamo già; nulla ne fa, almeno tendenzialmente, arte.

  3. molto interessante la lunga riflessione di Donato sulle immagini circolari e in mescolanza che il vetro restituisce in trasparenza, quelle poste davanti, e nello stesso tempo riflette, quelle poste alle proprie spalle…L’effetto è certo estetico perchè l’immagine complessiva sfuma i comtorni, li sovrappone e restituisce una sensazione di vortice in movimento. La giostra dei bambini, anche ferma, si muove sullo sfondo del cielo e del mare, in piu’ abbracciata dallo sguardo umano dello spettatore-fotografo…Questo sovrapporsi e, in qualche modo, congiungersi mi ha ricordato la meteria ancora indistinta, una sorta di terra- Pangea e il nostro sguardo un oceano pre-conoscenza, come attraverso il liquido amniotico…Lo scambio finale di sorrisi tra persone reciprocamente gentili puo’ significare bene la gioia e l’enigma suscitati da un travaso di immagini dentro-fuori

  4. L’effetto-confusione dell’inizio (per caso Donato ha cominciato a fotografare le vetrine), con la sovrapposizione di dentro/fuori, davanti/alle spalle, vicino/lontano, viene via via ripulendosi in successive tappe. La prima è l’incontro con un libro, materia nota per l’autore, in due sole dimensioni: lettere nere su pagina bianca. La seconda tappa sono i numeri, cinque capitoli come le dita della mano, cosa di più proprio di una mano? E poi il tre, che ritorna per l’autore del libro, e -forse- è un segnale simbolico/esoterico: Dante, la Trinità( O luce etterna che sola in te sidi/ sola t’intendi, e da te intelletta/ e intendente te ami e arridi), cioè un ritorno alle proprie tre P, e all’arredamento interiore: la bibliografia apre al consueto, dei libri già letti.
    Ed ecco il quarto passaggio: un tirare le somme raziocinanti. La profondità della foto della vetrina, che comprende l’interno e il fuori, è il contrario di una messa in scena. Il contrario di una estetizzazione adulterante, di un allestimento mercantile. Non è più la confusione iniziale, è la concretezza degli incroci reali.
    Il quinto passaggio, infatti, scioglie emotivamente la narrazione: le belle scarpe, la gentilezza della negoziante, il ritorno a verificare il contatto reale che era avvenuto.

  5. Ringrazio Massimo Parizzi, ar, Elena Grammann, Anna Maria Locatelli e Cristiana Fischer per i loro commenti.
    Sul giudizio di Massimo, non posso dire nulla, se non che sono contento che il pezzo gli sia piaciuto.
    Le argomentazioni di Ar (Adelelmo) le condivido totalmente. Non avrei, quindi, altro da aggiungere se non che “bellezza” e “bruttezza” sono categorie con una loro storicità.
    Sono d’accordo anche sull’importanza del vetro sottolineata da Elena Grammann. È stato, in fondo, questo materiale, con le sue caratteristiche, a consentire la comparsa della vetrina nel Settecento, comparsa che «ha prodotto un fondamentale momento di rottura nella storia della cultura occidentale» (è la tesi di Vanni Codeluppi): modifica del rapporto esistente da secoli tra la bottega e la strada, nascita del negozio moderno, sviluppo dell’arte dello sguardo e “passione voyeuristica che contraddistingue l’odierna cultura occidentale”, spettacolarizzazione delle merci, ecc.
    Molto interessante, a questo punto, la reazione-lettura di Anna Maria Locatelli: «Questo sovrapporsi e, in qualche modo, congiungersi mi ha ricordato la materia ancora indistinta, una sorta di terra- Pangea e il nostro sguardo un oceano pre-conoscenza, come attraverso il liquido amniotico…». Ricordando la mia “Macchia di Rorschach” citata nel testo non so se questa “regressione uterina” (diciamo così) l’abbia vissuta io davanti alle vetrine o Anna Maria davanti alle foto delle vetrine…In ogni caso, il “paradigma vetrina” definisce (o, almeno, allude) a modalità di rapporto (riflessione anche in senso ottico?) Io-Altro.
    Il commento, infine, di Fischer prospetta una chiave di lettura assai interessante dell’intero articolo, visto come sequenze narrative, tappe che da un effetto-confusione iniziale conducono ad uno scioglimento finale. I miei scritti hanno spesso un “tempo interno”, una dimensione narrativa. Ma qui c’è anche altro: il resoconto parzialissimo di un dibattito, un abbozzo di recensione, ecc. Sicuramente la scena finale è, per molti versi, allegorica: la merce (ogni merce) ha un valore di scambio e un valore d’uso. Solo dopo aver fatto le “abituali passeggiate” e aver scoperto che “camminavo meravigliosamente”, l’Io si è sentito in dovere di ringraziare la Signora gentile. Valore di scambio e valore d’uso sono le due facce di una stessa medaglia, ma forse sono anche in contraddizione.
    Ancora grazie a tutti voi.

  6. leggendo delle varie funzioni del materiale vetro, tutte a dimostrare l’importanza di tale invenzione- tra l’altro anche per l’illuminazione e il riscaldamento degli ambienti domestici- per fini conoscitivi, estetici.. mi sembra che il vetro possa diventare anche un ‘raffinato’ strumento di tortura.. un affamato che vede un’esposizione in vetrina di cibi invitanti e non può accedervi se non con il senso della vista, può perderci il senno.. e la vita.. questo può essere anche l’effetto dissociante degli infiniti schermi che la nostra società ci presenta, dove tutto è in vetrina, diventando trappole luccicanti

  7. Cara Anna Maria, condivido la tua osservazione. La vetrina può diventare effettivamente una trappola luccicante.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *