
di Donato Salzarulo
UOMO DEL SECOLO SCORSO
Sabato. Faccio colazione (un bicchiere di tè e sei frollini), mando giù le medicine che mi portano e me ne sto a letto, bardato con una fascia di cavi ed elettrodi per il monitoraggio continuo del mio cuore.
Marta, la dottoressa d’origine sarda che ieri pomeriggio mi ha spinto in carrozzina, oggi non c’è; ma il suo collega di turno, un medico alto e cordiale, anche lui specializzando, sa cosa deve fare. In mattinata mi pungono il braccio destro per diversi prelievi. Verso le 11, accompagnato da una studentessa, mi visita attentamente.
Rimasto solo, sfoglio i giornali che Giuseppina mi ha portato ieri sera.
Mi rimane in memoria un’intervista assai interessante di Emmanuel Todd a Marco Cicala su Il venerdì del 27 settembre. Il suo ultimo libro s’intitola La sconfitta dell’Occidente (Fazi, pp.354, 20 euro, 2024) e, prendendo le mosse dalla guerra in Ucraina, cerca di capire la fase che stiamo attraversando.
Il libro mette in discussione molti luoghi comuni del sistema comunicativo e mass-mediale prevalente anche in Italia.
«L’economia russa, che in Occidente veniva data per moribonda, è stata di fatto rilanciata dalla guerra. Fallimentari sono state in compenso le sanzioni occidentali contro Mosca.»
«Quello di una Russia conquistatrice, che dopo l’Ucraina si preparerebbe a invadere l’Europa, è uno spettro inventato dalla propaganda occidentale».
Se sono stanco dei giornali mi riposo un po’. E, se sono stanco di ruminare col cervello, apro il libro di Gaeta.
Nel pomeriggio dormicchio. Ogni tanto stacco la spina del monitoraggio e libero le narici dai tubetti di plastica dell’ossigeno per andare in bagno. Verso le 17,30 sorrido all’arrivo di moglie e sorella, delle figlie, dei nipoti, dei generi.
Giuseppina mi porta il computer e lo sistema vicino alla parete dietro al comodino. Siccome arrivano anche i parenti del mio compagno di stanza, tutti i familiari si danno il turno.
Si racconta la giornata. Cosa sta succedendo dentro: «Nulla di sostanzialmente nuovo», dico, «mi hanno fatto qualche prelievo in più, per il resto, le notizie sono quelle di ieri». Loro raccontano qualcosa di ciò che succede fuori. Capita che se la raccontino anche tra di loro.
A sera, le ultime ad andar via sono Giuseppina e Lucia. Mi spronano a mangiare, ma la brodaglia non mi piace e le cotolette neanche. Mangio volentieri una mela.
Prima che cali il buio, moglie e figlia vanno via; io rimango a letto a guardare la televisione, accesa dai familiari per il mio compagno di stanza. Ad un certo punto si spegnerà da sola ed io proverò mille volte a chiudere gli occhi prima che il sonno arrivi.
Domenica. Apro gli occhi. Guardo fuori dalla vetrata. È l’alba. Un’alba cittadina da fotografare, un’alba rosseggiante. Non hanno ancora portato la colazione. Ho fame e l’aspetto con impazienza. Finalmente arriva. Consumo il mio tè coi frollini.
Il rischio maggiore dello stare in ospedale è la pigrizia, il lasciarsi andare all’inerzia, al fiume dei minuti che scorre, alla scena del mondo che passa. Da qui dentro, ciò che succede fuori è rumore, caos, disturbo…
Occorre reagire a questa percezione, a questo sentimento da “Montagna incantata”, al fascino della malattia, della morte. Come diceva Goethe: «Ricordati di vivere». Allora stamattina, finita la colazione, m’installo per un’ora in bagno e mi dedico tutte le attenzioni necessarie per rendermi “corpo piacevole”, capace di generare e stimolare piacere: mi lavo ben bene, faccio la barba, lavo i denti, profumo la pelle. Insomma, mi metto su come se non dovessi tornare a letto, riattaccarmi all’ossigeno e al monitor delle mie aorte; ma come se dovessi incontrare chissà chi, fare una bella passeggiata, come se dovessi sedermi a un caffè e conversare intimamente con una bella signora. Slancio vitale. Ricordo le parole di mia madre: «Cosa devo fare di là?… Sto così bene di qua.»
Stava bene di qua, con noi, dopo aver subito tre interventi al cuore. Io ho messo solo tre bypass e ora mi hanno scoperto fortunatamente un’embolia e una trombosi curabili. Quindi…
Vado verso il computer, lo tiro fuori dalla borsa nera, lo sistemo sul tavolo, attacco la spina nella presa, lo accendo e comincio a pensare all’articolo che devo scrivere per la redazione di Orione. C’è tempo, ma è meglio portarsi avanti. Metto giù una scaletta, mi collego a Internet e, sul sito «L’ospite ingrato», m’imbatto in un articolo di Donatello Santarone su «Cesare Cases e la didattica della letteratura». Comincio a leggere. Sono pagine dense, piene di ottime considerazioni e interessantissimi punti di vista.
Sono a pagina 9, dove l’autore riporta alcuni «Consigli a un giovane docente», quando entra in camera il dottore seguito dalla studentessa. Mi vede al computer.
«Bravissimo…Fa bene a stare in attività. Tutto questo l’aiuta a far funzionare meglio il suo cervello».
«Certo», gli rispondo. Intanto mi alzo. Vado verso il letto e mi faccio visitare. Colgo l’occasione per dirgli che sul dorso mi sono nate diverse bolle. Me le guarda e decide di sospendere la terapia antibiotica. Da giorni non ho più febbre. La pressione è normale, la saturazione anche…Esce. Guardo l’ora. Tra poco è mezzogiorno. Ho quasi fame, ma qui prima dell’una non arriva niente. Mi riattacco l’ossigeno, la spina del monitoraggio e mi stendo sul letto. Libero le mie voci interiori e una di queste comincia a pensare all’articolo: «Per molti anni ho rivolto alle scuole di Cologno un progetto di didattica della poesia intitolato “Toccata e fuga”…»
Finalmente arrivano i piatti: pasta asciutta, una fetta d’arrosto, dell’insalata e un’arancia. Mangio tutto. O quasi: il panino non lo tocco. Poi faccio due giri digestivi per il corridoio fino al soggiorno. Guardo distrattamente i quadri alle pareti. Torno e mi rimetto al letto. Mando un po’ di messaggi nelle mie varie chat. Rispondo a qualche telefonata di parenti o amici. Successivamente apro il libro di Gaeta. Sonnecchio sulle pagine.
Quando mi sveglio, mi tiro giù dal letto e apro i giornali di ieri.
Leggo sul Manifesto l’addio di Stefano Petrucciani a Bruno Accarino, morto a Firenze.
«Verso la metà degli anni Ottanta, quando, senza aspettare la caduta del muro di Berlino, il marxismo era ovunque dato per morto, le pagine culturali del Manifesto erano uno dei pochi luoghi dove una riflessione critica di ispirazione marxiana potesse svilupparsi e trovare ascolto. Nel folto gruppo di collaboratori “filosofi”, del quale anche io facevo parte, uno dei più acuti e originale era Bruno Accarino […] Napoletano nato nel 1951.»
Più giovane di me, quindi. Filosofo molto prolifico, «cercava gli strumenti per mettere a fuoco, per indagare senza chiusure pregiudiziali, i problemi che, in qualche modo, al marxismo erano sfuggiti. Quei vuoti da cui dipendeva anche una certa debolezza e cecità del marxismo stesso: il problema del male, il demonismo del potere, la questione antropologica, cioè l’interrogazione sulla natura umana, alla quale il marxismo si era sempre sottratto nella convinzione che ciò che importa non è cosa l’uomo è, ma cosa può diventare.»
Poi leggiucchio qua e là, niente che mi suggerisca qualcosa…Mentre sto leggendo si avvicina il medico di turno. Ma non è quello di stamattina. Questo è uno specialista. Sui trent’anni, con la barba, ha il pantalone e la casacca verde.
«Cosa dicono i giornali?» mi domanda con tono scherzoso, empatico
«Mah, tante cose!…» gli rispondo «Dipende un po’ da ciò che si cerca.»
«Lei cosa cerca?…»
«Notizie, riflessioni, recensioni di libri, citazioni che un po’ confermano i miei orientamenti, un po’ mi sorprendono…Insomma, varia umanità…»
«E tutto questo lo trova sui giornali?…»
«Certo…I giornali rappresentano parti di mondo sociale e culturale, politico ed economico. Sono anche strumenti di propaganda, di orientamento. Io distinguo gli articoli…In tanti anni ho imparato. Leggo da quando ero adolescente.»
«Lo sa che è un sopravvissuto? L’ammiro. I lettori di giornali sono drasticamente ridotti.»
«Lo so. Grazie per l’ammirazione. Lei cosa legge?…»
«Siti professionali e social.»
«Anch’io visito dei siti professionali. I social no. Però non riesco a fare a meno della carta stampata. Come sostiene un mio amico, sono un uomo del secolo scorso.»
«Forse è così. Chissà!…Posso visitarla? »
«Certo». Il dottore mi ausculta attentamente il petto e le spalle.
«Tutto a posto. Oggi la trovo particolarmente bene».
«Sì, in effetti, mi sento bene».
In seguito mi chiede di vedere le gambe e, in particolare, di guardarmi quella con la trombosi che ha prodotto, a sua volta, l’embolia polmonare…
Appare dispiaciuto ed è d’accordo con me che nella sfortuna c’è stato il colpo d’ala della fortuna. Oltre alla polmonite, avevo in fondo scoperto un male più antico.
E allora mi ripete che occorre assolutamente capire perché mi vengono queste trombosi.
«Se sono d’ordine genetico, aggiunge, sarà costretto a prendere pillole anticoagulanti fino alla fine dei suoi giorni».
Vabbé. Ripenso subito alla mia poesia «L’esistenza emorragica». Ma non è che il destino ce lo creiamo pure con le nostre poesie, i nostri pensieri, i nostri libri? Mentre il dottore mi saluta e se ne va, con queste domande filosofiche in testa mi metto ad aspettare l’arrivo dei miei familiari.
Clicco su Google parole come “uomo del secolo scorso”, “uomo antico” e viene fuori una sorta di testamento di Pasolini. Lo leggo. Non mi convince del tutto. Ho varie perplessità. Però da giovane sono stato un innamorato di Pasolini.
Io sono un uomo antico,
che ha letto i classici,
che ha raccolto l’uva nella vigna,
che ha contemplato il sorgere o il calare del sole sui campi,
tra i vecchi, fedeli nitriti, tra i santi belati;
che è poi vissuto in piccole città dalla stupenda forma impressa dalle età artigianali,
in cui anche un casolare o un muricciolo sono opere d’arte,
e bastano un fiumicello o una collina per dividere due stili e creare due mondi.
Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo,
ossia da un internazionalismo creato, con la violenza,
dalla necessità della produzione e del consumo.
Detesto tutto di esso: la fretta, il frastuono, la volgarità, l’arrivismo.
Sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con modi sleali e spietati.
E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa,
di considerarla quasi una virtù!