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Il valore universalistico del Giorno della Memoria

Memoriale della Shoah – Berlino

di Donato Salzarulo

1.- Ciò che sta accadendo a Gaza in questi mesi costringe forse tutti noi a celebrare il Giorno della Memoria in modo meno rituale e più problematico, interrogandoci sul senso della commemorazione e sulle sue finalità. Non basta dire o augurarsi “mai più!” se quotidianamente siamo spettatori di massacri, crimini di guerra e/o crimini contro l’umanità. Non possiamo far finta di niente. Non possiamo rimuovere il fatto che in queste settimane il Governo del Sudafrica ha denunciato quello israeliano alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia per genocidio.

So che “genocidio” è un concetto coniato da Raphael Lemkin, un giurista ebreo, polacco; ho letto la definizione che ne dà l’art. 2 della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” («per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religiose, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro»), non sono un giurista e il Governo sudafricano avrà certamente strumenti e avvocati per dimostrare l’atto di accusa. Detto questo, siccome la Corte internazionale di Giustizia, non è la “padrona” delle parole, non mi meraviglio se ognuno/a la usa per ragioni pacifiste o di denuncia della mattanza che si sta consumando a Gaza. Per quanto mi riguarda, seguirò con attenzione ciò che accadrà nel Tribunale dell’Aia.

Detto questo, la situazione è, comunque, allarmante e non ci si può rifugiare nell’indifferenza perché, come lo sterminio degli ebrei ci ha insegnato, alla “soluzione finale” si arriva passando attraverso tappe intermedie (soffocamento della democrazia liberale, approvazione di leggi discriminatorie e razziali, disumanizzazione delle vittime, ecc.) realizzate proprio tra l’indifferenza e l’obbedienza delle popolazioni. Stare allerta, dunque, è un dovere. Per questo ho letto con attenzione partecipe la lunga conversazione pubblicata sul numero 634 (21 gennaio 2024) del settimanale «La Lettura», una conversazione assai interessante fra David Bidussa, Gabriele Nissim e Ugo Volli, curata da Antonio Carioti e intitolata “Vuoti di memoria”.

Sono rimasto particolarmente colpito dagli interventi dello storico David Bidussa.

Alla domanda se ciò che sta accadendo a Gaza contribuisce a mettere in crisi il Giorno della Memoria, la sua risposta è questa:

«Sì, ma solo in parte. Il problema più grave resta la scelta di mettere le vittime al centro del 27 gennaio. Invece di analizzare i progetti e i comportamenti relativi alla Shoah si è privilegiato un dato etico. Poiché abbiamo evitato di porci le domande più difficili, ce le ritroviamo inevase vent’anni dopo e non solo per via di Gaza. Le date dei calendari civili, a parte quelle fondative, hanno un andamento sinusoidale: di volta in volta acquistano rilevanza o la perdono. Così è stato in Italia, ad esempio, per il 4 novembre. Tutto dipende dal linguaggio che in quel momento diventa dominante per costruire un’identità. Da questo punto di vista il 27 gennaio è una data problematica. Perché mette al centro qualcuno che tu hai difficoltà a riconoscere come appartenente al tuo gruppo. È una sorta di concessione, non l’esame di coscienza che sarebbe necessario. Si tratta di un grave limite del modo in cui abbiamo assunto il 27 gennaio. Occorre chiederci con franchezza quanto è stato efficace il Giorno della Memoria, se è entrato a far parte della vita quotidiana o se è stato archiviato. Se non ci poniamo queste domande, continuerà ad essere una concessione a qualcuno. E così non va.»

2.-Nella conversazione si discute prevalentemente della prossima commemorazione relativa al Giorno della Memoria, ma non mancano domande sulla relazione tra la data del 27 gennaio e quella del 23 agosto, votata dal Parlamento europeo come “Giornata di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari”. Questa risoluzione, come è noto, è stata voluta soprattutto dalla Polonia e dagli Stati dell’Est con la motivazione che il patto Molotov-Ribbentrop del 1939 rappresentò un momento determinante per l’invasione e l’occupazione della Polonia da parte della Germania e dell’URSS.

Gabriele Nissim non ritiene che il Giorno della Memoria possa essere messo in secondo piano dalla Giornata di commemorazione del 23 agosto e anche Ugo Volli non vede contraddizione fra le due date. David Bidussa, invece, pur non contestandone la legittimità, osserva che «corrisponde alla riscoperta di identità nazionale, quelle della Polonia e dei Paesi baltici, che fanno i conti con un loro problema interno». Tutt’altra dovrebbe essere la finalità del Giorno della Memoria che dovrebbe avere “un valore universalistico”. Su questo punto lo storico è quanto mai esplicito:

«I calendari civili non servono per stabilire la verità, ma per costruire una sensibilità pubblica. Di solito le feste nazionali sono istituite subito dopo i fatti: vale in Italia per il 4 novembre, fissato subito dopo la vittoria nella Prima guerra mondiale, e per il 25 aprile. Perché invece il 27 gennaio viene istituito a oltre 50 anni di distanza? Perché si cerca di suscitare una religione civica dell’Europa, alla quale serve una data che non sia nazionale, ma abbia un valore universalistico. Il 27 gennaio non è un regalo agli ebrei, si rivolge all’intera umanità.»

I due punti da sottolineare mi sembrano fondamentali: a) suscitare una religione civica dell’Europa; b) non interpretare il Giorno come un regalo, una concessione fatta agli Ebrei. Se lo si interpreta in questo modo, la Shoah, genocidio indubbiamente unico ed eccezionale, rischia, tuttavia, d’innescare una sorta di gara storica a chi è o è stato più vittima. Durante tutta la conversazione, Bidussa ripete più volte questo concetto: è sbagliato mettere le vittime al centro.

«A mio avviso al centro della celebrazione del 27 gennaio non devono esserci le vittime. Come sosteneva lo storico Raul Hilberg, l’attenzione deve piuttosto andare ai carnefici da una parte e dall’altra agli spettatori, alla “zona grigia”: al comportamento delle società europee durante lo sterminio. […] Le celebrazioni pubbliche del 27 gennaio hanno posto in primo piano le vittime, i sopravvissuti ai lager, invece di guardare alle condizioni sociali e culturali che avevano reso possibile la Shoah.»

Bidussa distingue nettamente le celebrazioni o le feste nazionali dal Giorno della Memoria. Le prime hanno un valore nazionale, il secondo ha un valore universalistico. Dovrebbe promuovere una “religione civica” europea per riflettere sul passato delle singole nazioni, per fare i conti con la propria storia e raccontarsi non soltanto i momenti gloriosi, ma anche quelli bui. La Polonia, ad esempio, che è stata “vittima” del nazismo e del comunismo staliniano, non può polemizzare col libro di Jan Tomasz Gross I carnefici della porta accanto, che parla di una comunità ebraica massacrata dai civili polacchi nel 1941, così come la Francia non può glissare sulla ribellione degli algerini nella regione di Sétif, ribellione «repressa – sostiene Bidussa – con un vasto spargimento di sangue nel 1945. Secondo le autorità di Parigi le vittime furono 1.500, secondo fonti algerine 45 mila. Ci sono voluti 60 anni per raccontarci quell’evento.» Il discorso vale per le altre nazioni e ovviamente anche per l’Italia col suo passato coloniale. Tutte le vittime sono uniche e tutte reclamano l’eccezionalità dei massacri o dei crimini subìti. Per questo, insiste lo storico, al centro del Giorno della Memoria dovrebbero esserci i progetti e i comportamenti relativi alla Shoah; occorrerebbe prestare attenzione ai carnefici, agli spettatori della “zona grigia”, al comportamento delle società europee, alla responsabilità collettiva per quanto è avvenuto. Nella memoria pubblica dovrebbe entrare

«un libro come Modernità e Olocausto di Zygmunt Bauman, in cui l’autore sostiene che i genocidi come la Shoah possono avvenire non perché gli uomini sono crudeli, ma perché sono obbedienti. Il punto è se la coscienza individuale avverte la straordinarietà di quanto sta accadendo nel corso delle tappe intermedie di costruzione del nemico […]. In fondo alla base della Shoah come del Gulag sta l’idea che bisogna difendersi da un complotto che vuole sovvertire l’ordine.»

L’accenno al complotto serve a Bidussa per farci toccare con mano il presente:

«Il complottismo ci parla del 2024, non solo del 1939. E nel 2023 il terzo libro più venduto in Italia è stato quello del generale Roberto Vannacci, che si regge esattamente su una logica cospirazionista. Se non vogliamo evitare una memoria solo celebrativa, ma ragionare sulle falle mentali dei nostri contemporanei, la riflessione sul Gulag e sulla Shoah deve analizzare i meccanismi attraverso i quali, partendo dalla paura del nemico, si può costruire una politica.»

In sintesi, mi pare che nei pensieri e nelle parole di Bidussa siano indicati chiaramente i limiti delle celebrazioni pubbliche del 27 gennaio: mettere in primo piano le vittime, le nazioni e gli Stati non si assumono la responsabilità di fare i conti con il loro passato, non si analizzano le condizioni sociali e culturali, i meccanismi che hanno reso possibile la Shoah: complottismo, vittimismo, costruzione del nemico, suscitare nei cittadini lo spirito servile ed obbediente, ecc.

Concludo con un invito: se un libro come Modernità e Olocausto di Zygmunt Bauman non è entrato nella memoria pubblica perché non prenderne atto, e nelle scuole, nelle università, nelle Biblioteche, nelle associazioni, nelle case, dovunque è possibile, lo si prende in mano e si organizzano dei gruppi di lettura, lo si legge individualmente o collettivamente e lo si discute?…Se ho inteso bene, la posizione di Bidussa: basta complottismo, basta giornate delle vittime, le feste nazionali se le facciano i singoli Stati, la celebrazione del Giorno della Memoria ha senso se s’intende promuoverne una visione civile capace di farsi carico dei momenti gloriosi e di quelli bui della storia di ogni singola nazione. Noi italiani non amiamo la nostra patria se continuiamo a dipingerci soltanto come “brava gente” e dimentichiamo le leggi razziali, il nostro passato colonialista, ecc. ecc.

La storia bisogna studiarla tutta.

24 gennaio 2024

Mi piace scrivere al vento

Giovanni Fattori, La libecciata (1880-1885 circa

di Donato Salzarulo

Mi piace scrivere al vento.
Mi piace scrivere sapendo che non mi leggerai.
Il castagno, che a maggio si colora di rosa coi suoi fiori a grappolo,
alla festa d’Ognissanti non ha più foglie.
È chioma scheletrita, immobile.
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Storia della colonna infame

 IL MANZONI DI FORTINI (II)

    di Donato Salzarulo

Il seguito della nota manoscritta è dedicato quasi tutto a «quelle centoventi pagine di prosa che si chiamano Storia della colonna infame». (pag. 1796)
La lingua di Fortini è precisa e densa. Il pensiero si organizza sinteticamente intorno ad alcuni nuclei tematici: l’origine e redazione del libretto, la storicità dell’episodio raccontato, il giudizio estremamente positivo espresso sull’opera (“è un capolavoro”), l’originalità e la nitidezza del dettato, la tragicità dell’accaduto e l’insegnamento morale che se ne può trarre, la sua attualità, le contraddizioni del Manzoni. Poco più di due paginette straordinarie per dire della straordinarietà di un’opera e dell’intensità di pensiero e di scrittura di un autore. Meglio non perdersele. Perciò le ripropongo al rallentatore, seguendo passo dopo passo le frasi fortiniane per enuclearne i problemi, farne un elenco e tentarne un primo commento. Continua la lettura di Storia della colonna infame

La letteratura è una menzogna che dice la verità

IL MANZONI DI FORTINI (I)

di Donato Salzarulo

É di notevole interesse la nota manoscritta di Fortini aggiunta, la sera del 22 maggio 1973, al testo della conferenza, tenuta all’Istituto Italiano di Cultura di Città del Messico, in occasione delle celebrazioni per il centenario della morte di Alessandro Manzoni. Continua la lettura di La letteratura è una menzogna che dice la verità

La libertà di coscienza e il nichilismo delle gerarchie ecclesiastiche

di Donato Salzarulo

Non ho visto a reti unificate i funerali di stato di Silvio Berlusconi. Non ho ascoltato neanche l’omelia del cardinale Delpini. Mi è capitato di leggere sul Manifesto del 16 giugno una lettera rivolta da Roberta De Monticelli a sua Eminenza.
La sua omelia aveva suscitato nella filosofa «una tristezza che non è solo tale – ma è anche mortificazione e sentimento di profanazione». Partendo dal presupposto che il Duomo ha un senso anche per chi non va a messa e che la parola dell’officiante «si suppone aspiri al vero, che è uno dei nomi di Dio», De Monticelli, dopo aver riassunto i punti salienti dell’omelia aggiungendovi alcune sue domande, sostiene che le parole del cardinale le «paiono blasfeme», proprio perché dimenticano o omettono la verità sulla storia di Berlusconi.
«Ebbene: se pure la verità non fosse uno dei nomi del Dio che lei serve, a noi non è permesso, quaggiù, disonorare il precetto dei filosofi: se cerchi la verità, cercala tutta. “Una mezza verità è la più vile di tutte le menzogne”».
Lo stesso giorno, Isaia Sales, in un passaggio di un interessantissimo articolo di bilancio su ciò che ha significato Berlusconi per la storia d’Italia, scrive: «E resterà scolpita nella storia della Chiesa italiana l’omelia del cardinale di Milano, l’omaggio umano a un grande peccatore, a un potente dei nostri tempi, quasi a legittimare il convincimento che non si può servire la religione cristiana senza tradirne i suoi principi. Una specie di inno alla simpatia amorale, fino al punto di ignorare completamente la concezione mercantile del corpo femminile ammantata da amore per la bellezza».
Sottolineo: non si può servire la religione cristiana senza tradirne i suoi principi…
Mi sono ricordato allora che nel 2009 scrissi per il n. 6 di Poliscritture (qui) un articolo sul nichilismo delle gerarchie ecclesiastiche. Lo ripropongo perché le argomentazioni di fondo mi sembrano tutt’ora valide ed attuali. (D.S.)

1. Non sono un esperto né di scienze né di storia delle religioni. Non sono un credente, ma il problema è che milioni di persone mostrano di esserlo con maggiore o minore convinzione; e vanno in chiese, vivono in comunità religiose, frequentano associazioni e organizzazioni che non celebrano soltanto culti o riti cerimoniali, non amministrano soltanto sacramenti privati. Il problema è che sono presenti nella società, influenzano direttamente o indirettamente la mia vita e quella di tanti altri diversamente credenti o non credenti come me. Quando la Chiesa cattolica fa una campagna contro il divorzio o l’aborto, quando si propaganda l’astensione sul referendum relativo alla procreazione assistita, quando migliaia di persone chiamano “assassino” Beppe Englaro, non si sta colloquiando con Dio o con lo Spirito Santo. Non si sta professando liberamente la propria fede religiosa in forma individuale o associata, come recita l’art. 19 della nostra Costituzione. Si sta intervenendo direttamente sulle piazze pubbliche e mediatiche per cercare di persuadere le menti sulla bontà o giustezza delle proprie ragioni etiche e/o morali. Non si sta pregando nei luoghi consacrati né celebrando una messa. Si sta facendo politica. É questo il dato di fondo da cui partire per qualsiasi ragionamento.

2. Da qui una prima serie di interrogativi: quale politica? Su quali contenuti? Per soddisfare quali bisogni? Fin dai tempi del referendum sul divorzio non ho dubbi. É una politica contro le persone, contro le singole persone. É un’imposizione autoritaria e oppressiva di una gerarchia sull’intero corpo sociale. Nel merito: io non penso che il matrimonio sia un sacramento. Credo che sia un evento importante della vita, che riguardi soltanto le persone coinvolte nella loro scelta. Per quale ragione, il Parlamento italiano dovrebbe votare una legge che obblighi qualcuno a diventare credente e quindi a ritenere che l’uomo non debba separare ciò che “Dio unì”? Innanzi tutto non è stato Dio che li ha uniti. Sono stati i due sposi a decidere di unirsi, in un modo che dovrebbe riguardare soltanto loro e non il Vaticano o il Parlamento italiano. Al Parlamento può riguardare nella misura in cui la loro libertà non leda quella degli altri. Capisco che ci sia un diritto di famiglia. Capisco che i genitori abbiano nei confronti dei figli degli obblighi. Capisco tutto questo. Ma perché se un matrimonio è andato a rotoli, uno Stato dovrebbe obbligare due persone a convivere, dal momento che sono diventate reciprocamente sempre più estranee? Il fatto che più non digerisco è proprio questo: il Vaticano con la sua discutibile etica e morale vorrebbe OBBLIGARE a credere nel sacramento del matrimonio, mentre la legge sul divorzio NON OBBLIGA nessuno a divorziare. É soltanto una possibilità. Insomma, fin dal 1974, ho capito che come cittadino italiano oltre ad avere a che fare con il mio Stato repubblicano, tutt’altro che capace di rispondere ai miei bisogni, dovevo vedermela con un altro Stato che, con la scusa della religione e del Magistero morale, interferiva pesantemente sulla vita quotidiana mia e di tutti gli altri.

3. Il sentimento e il pensiero di avere a che fare con una politica e una morale forcaiola, oppressiva e autoritaria, hanno trovato nuova conferma in occasione della legge sull’aborto e del relativo referendum, della legge sulla procreazione assistita, della questione delle coppie di fatto, della vicenda tragica di Welby e di Eluana, ecc. ecc. Il discorso è sempre lo stesso: il Papa e i vari vescovi e cardinali dicono la loro. E per carità, la dicano pure!… Siamo in democrazia! (In verità, sempre meno…ma, facciamo finta). Quello che non capisco è perché, dopo aver dichiarato ai quattro venti la loro rispettabilissima opinione, ci si organizza per imporla. O meglio, lo capisco. Il Vaticano non è espressione soltanto di un “potere spirituale”, ma anche, e forse con più insistenza, tenacia e accanimento, di un “potere temporale” e, come tale, si organizza per imporre le proprie leggi e norme. Conosco l’art. 7 della Costituzione: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Ho l’impressione, tuttavia, che la Chiesa sia più indipendente e sovrana della nostra sconquassata Repubblica. A questo punto, però devo capire di quale Stato sono cittadino e come devo organizzarmi per manifestare liberamente il mio pensiero: io sono una persona capace di pensare, giudicare, ragionare, immaginare, fantasticare, ecc. ecc. Sono una persona capace di scegliere, di valutare il bene e il male, il bello e il brutto, il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto. Accetto volentieri il confronto, la discussione, il dialogo. Ma non accetto che un altro scelga al posto mio. Che sia Papa o Presidente della Repubblica, Concilio dei Vescovi o Parlamento. Io obbedisco alle leggi dello Stato di cui sono cittadino, ma vorrei che esse non avessero a che fare con le mie scelte morali ed etiche. Spero che non sia una legge a dirmi come quando, chi e cosa amare; cosa è giusto e cosa non è giusto per me; cosa è bene che io faccia e cosa non lo è. Non sono un minus habens né un minorenne. Ho raggiunto la maggiore età da molto tempo e se commetto un peccato (morale) o un reato (diritto penale e/o civile), so assumermi la mia responsabilità. Non sono un credente. E allora? Per questo non ragiono? Per questo vado messo sotto tutela?

4. Scrivo questi pensieri e mi pongo queste domande perché sono rimasto sconcertato da un fatto. L’anno scorso ho letto un articolo di una persona che considero stupenda: è la filosofa Roberta De Monticelli. Il 2 Ottobre 2008 pubblicò sul Foglio il suo doloroso «addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica italiana». Motivo scatenante, la dichiarazione di Mons. Betori, riportata su Repubblica, secondo cui «non deve spettare alla persona» malata la decisione relativa alla fine della propria vita, anche quando è in condizione di poter manifestare la propria volontà. «Questa dichiarazione è la più tremenda, la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale», scrive la filosofa. Diversa dal diritto, infatti, la morale può fondarsi soltanto sulla coscienza e la sua libertà. Perciò, «quella che Betori nega è la libertà ultima di essere una persona». Lo Stato con le sue leggi non può sostituirsi alla coscienza morale del singolo che deve poterla esercitare senza ledere diritti altrui. Non si può far finta che non ci siano stati Kant e l’Illuminismo. Non si può tornare indietro rispetto alla nostra «maggiore età morale», al principio, cioè, che non riconosce un’autorità morale a nessuna istituzione come tale, che si chiami Papa, vescovo, medico, Governo o Parlamento. «’Non siamo per il principio di autodeterminazione’, dichiara mons. Betori, e lo dichiara a nome della chiesa italiana. Ma si rende conto, Monsignore, di quello che dice? Amici, ve ne rendete conto? É possibile essere complici di questo nichilismo? Questa complicità sarebbe ormai – lo dico con dolore – infamia.»

5. Parole pesanti e per persone come me allarmanti. Dette da una filosofa cattolica, poi; da una studiosa che sicuramente conosce meglio di me il linguaggio delle gerarchie. Santo cielo!, ma questo Vaticano mi considera una pecorella smarrita da riportare all’ovile, pensai. Il Buon Pastore, dunque, vuole essere qualcosa di più. Oltre che avere relazioni col Sacro e amministrare riti, vuole essere anche il direttore della mia coscienza. Non un Super-Io interiorizzato da consultare all’occasione, ma un Padre severo sempre pronto a dare regole e a fissare norme, a chiedere il sacrificio dei figli, della loro umana dignità. Non so perché, ma mi venne in mente Stalin. Anche a lui si rivolgevano affettuosamente con l’appellativo di “piccolo Padre”. Oh, signori miei, ma io sono già padre e nonno!… Scherzai un po’ tra me e me. Ma c’era poco da scherzare.

6. Per la cronaca, il Monsignore rispose a De Monticelli il giorno dopo, su Avvenire. Ecco, per punti, i nuclei argomentativi: A) «Nessuno trova in se stesso la spiegazione del proprio essere»; quindi, quando si parla di autodeterminazione, si vorrebbe fare a meno di questa evidenza. B) “Non spetta alla persona decidere” non significa negare la coscienza e la sua libertà, ma semmai negarne l’autosufficienza. C) «Non si può confondere la libertà di coscienza con la possibilità di fare quello che ci pare», possibilità che, secondo il ragionamento di mons. Betori sarebbe contenuta nel principio di autodeterminazione. L’esempio addotto, infatti, è illuminante: «Anche se ragionassi in termini puramente laici, non potrei giustificare un assassinio dicendo che l’ho fatto per rivendicare la mia libertà di coscienza. La legge che punisce l’omicidio non elimina la libertà di coscienza: anzi la piena libertà dell’assassino è il primo presupposto della condanna». Vorrei far notare che questo esempio non viene portato a caso. Ricordiamo tutti l’accusa di “assassinio” rivolta al padre di Eluana Englaro, i cartelli dei manifestanti, ecc. D) Dopo aver distinto e opposto libertà di coscienza e principio di autodeterminazione, che, precisa il Monsignore, «non è mai stato un caposaldo della dottrina della chiesa», si afferma a chiare lettere la tesi che «La coscienza è la sede della nostra scelta, è il luogo dove decidiamo, ma non è il criterio della scelta». Il criterio è esterno, non ce lo diamo da soli: ce lo dona Dio, allo stesso modo della vita che ci viene donata. «Del resto, anche la mia coscienza non me la sono data: genitori, insegnanti, amici mi hanno insegnato a parlare e a pensare.» La vita è frutto di relazioni. Non si può essere buoni in astratto come vorrebbe il principio di autodeterminazione. Nelle circostanze date, bisogna cercare di essere “il più buoni possibile”. Realismo è da sempre il criterio ispiratore della riflessione cattolica. A De Monticelli, che nelle sue sofferte domande finali aveva tirato in ballo il nichilismo delle gerarchie ecclesiastiche, mons. Betori risponde che «nichilismo è credere che non ci sia nulla oltre l’individuo e la disperata coscienza della sua solitudine.»

7. Ho voluto riportare ampiamente le argomentazioni del Monsignore per evidenziarne la capziosità e il pericolo. É chiaro che ognuno di noi non è una monade senza porte né finestre; che la nostra identità è prismatica e relazionale. Gregory Bateson direbbe che siamo dei “sistemi aperti”. Ma scegliamo si o no? Ci capita o no di essere posti di fronte a degli aut-aut? Betori mi riconosce, bontà sua, libertà di coscienza, ma che senso ha riconoscermi questa libertà e poi sostenere che non posso autodeterminarmi? É vero che l’Io, a parere di Freud, è un “lumicino” e che forse la coscienza è soltanto un iceberg fra le varie funzioni mentali, ma questo lumicino e questo iceberg mi appartengono o no? Quando si sostiene che la “piena libertà dell’assassino” è il presupposto che serve alla Corte per attribuirgli la responsabilità e condannarlo, perché a chi si macchia di un delitto gli si riconosce “piena libertà” (compresa l’autodeterminazione, altrimenti non capisco come abbia scelto, sia pure con tutte le attenuanti, di uccidere una persona) e non la si riconosce a chi, di fronte ad una malattia irreversibile, come nel caso di Welby, manifesta la volontà di farla finita con dolori e sofferenze? E quella storia che la morale ha un “criterio esterno” alla coscienza, detta da un Monsignore, non è davvero incredibile? L’uomo non è a “immagine di Dio”? E un famoso Padre della Chiesa come sant’Agostino non invitava a rientrare in sé stessi perché «in interiore homine habitat veritas»?… Mettetevi d’accordo Padri della Chiesa e Monsignori. Io ho sempre pensato che il diventare persona, il farsi persona fosse un processo importante per questa Confessione religiosa; scopro, invece, che non lo è. O, per lo meno, che non lo è pienamente. Seguendo i distingui e le false opposizioni di Mons. Betori fra libertà di coscienza e autodeterminazione, fra libero arbitrio e arbitrio soggettivo, posso tranquillamente mettermi sotto i piedi l’epitaffio kantiano del “cielo stellato sopra di me” e della “legge morale dentro di me”. Grazie al papà, alla mamma, agli amici, agli insegnanti e a Monsignore ho la coscienza come “luogo” e “sede”, ma dentro di me non ho né la “verità” che mi garantiva Sant’Agostino, né la “legge morale” che mi donava Kant. Sono messo male, non c’è che dire!… A scanso di equivoci io non sono un individualista. Penso, però, che un individuo, figlio di una donna e di un uomo, avendo a disposizione un’unica vita, abbia il diritto a una biografia e a considerarsi “assoluto” almeno quanto un Papa, un Re o un Presidente della Repubblica.

8. Qualche giorno dopo, giro per blog e capito su quello di Micromega. Vorrei dire che questo blog e la relativa rivista cartacea conducono in Italia una battaglia laica e anticlericale per molti versi ammirevole. So che le posizioni di Paolo Flores D’Arcais e di tanti altri collaboratori sarebbero per alcuni “laiciste” o affette da una laicità “non sana”. Ma io le trovo interessanti e ciò che più conta aperte al dibattito. Ebbene sul blog leggo una lunga intervista di Emilio Carnevali a Roberta De Monticelli. Gli argomenti sono quelli affrontati nel confronto serrato con mons. Giuseppe Betori. Titolo: «Il nichilismo della Chiesa cattolica». Interessante. Il Papa predica contro il nichilismo degli altri e non presta attenzione a quello presente nella sua ecclesia.

9. Non intendo riassumere, punto per punto, il contributo della filosofa; penso che sia più importante e proficuo concentrare l’attenzione sulla critica, piuttosto inconsueta, di nichilismo rivolta alle gerarchie cattoliche. In che senso si è o non si è nichilista? Per mons. Betori, e forse per tanti altri, nichilista è chi crede che non ci sia nulla oltre l’individuo. Lo è, quindi, quasi per definizione, chi non crede in Dio e nei valori tradizionali della Chiesa; chi non crede in Allah e nelle parole del suo profeta Maometto, e così via. Non è questo il nichilismo, mi sembra di capire, dalle argomentazioni della De Monticelli. Credere o non credere in Dio è un problema di fede. Invece, scelte e comportamenti nichilisti hanno a che vedere con problemi di cuore e di ragione, di sensibilità morale e di giudizio, di percezione dei valori e dei relativi ragionamenti. Insomma, con questioni di logica e di etica per le quali l’essere credenti o il non esserlo è ininfluente. Così, alla filosofa appare un esempio di nichilismo il ragionamento di Mons. Betori che, nella replica su Avvenire, mette sullo stesso piano il comportamento di un assassino e quello di una persona che, dopo aver esaminato fino in fondo la propria coscienza morale, decide di porre fine alla sua vita. In ambedue i casi siamo di fronte a manifestazioni di libertà di coscienza, ma fra i due c’è un abisso, una “differenza essenziale” che non si può non cogliere. A meno che non si voglia cadere nel nichilismo. “Nichilismo pietoso”, incalza la filosofa, ma nichilismo. Simile a quello sostenuto dal protagonista della Leggenda dostoevskiana del Grande Inquisitore che tende la mano agli uomini-bambini, incapaci di distinguere il bene dal male e di sopportare il peso delle proprie scelte.

10. Il “principio di autodeterminazione”, aveva precisato nella sua replica Mons. Betori, non è mai stato un caposaldo della dottrina della Chiesa. Se è per questo, sostiene De Monticelli, le cose «non sono andate molto meglio con la libertà di coscienza» e la maturità morale dell’uomo, riconosciute soltanto nel 1965, in chiusura del Concilio Vaticano II, nel documento Dignitatis humanae. Il tutto con un paio di secoli di ritardo dalla «dolce luce dei Lumi» e da Kant!… Si sa, l’antimodernismo è posizione culturale, filosofica e religiosa tradizionale della Chiesa. Ma, ecco la novità, quello odierno appare alla nostra filosofa «molto più avvolgente e sinuoso, molto più…avvelenato, mi si perdoni la parola, perché legato a filo doppio con una rinnovata tendenza a sabotare i fondamenti di una cultura della responsabilità personale. Quella che è sempre mancata al nostro Paese, e la cui mancanza produce il disastro civile e morale cui assistiamo quotidianamente. Una tendenza che ha oggi davvero del diabolico, perché – insisto – affonda la sua radice nuova in pieno nichilismo.»

11.  Le azioni morali positive sono quelle dovute a scelte assunte con convinzione, non perché costretti dalla forza o per rispettare una legge. É necessaria una “libera decisione del cuore” perché un atto abbia valore morale positivo. Ebbene, come viene interpretata questa “libera decisione” dalle gerarchie ecclesiastiche? Esattamente come fa il Grande Inquisitore, come la pretesa di creare, con la propria decisione il bene e il male. Posizione volontaristica, scrive la De Monticelli, contraria a quello che ci fa intendere Gesù, quando chiede all’anima-fanciulla di risvegliarsi, «di vedere e sentire quanto belli possono essere i gigli dei campi o quanto male è dare scandalo a un bambino, e di rabbrividire di questi atti perché sente e vede (“Chi ha orecchi per intendere…”), e non perché un altro o la Sharia o una legge dello Stato glielo comanda. Ma oltre al Cristo, è il dolce lume della nostra maturità morale, orrendamente tradito dai relativismi, i fideismi tragici, i nichilismi, i decisionismi, le teopolitiche totalitarie del secolo scorso, che ci chiede di fondare la norma morale sulla percezione di valore, su un vederci chiaro del cuore e della mente, e non sull’autorità di un altro, fosse pure il Papa.»

12. Conosco la critica che potrebbe essere mossa a questa tesi di De Monticelli. É la stessa che le muove Mons. Betori: soggettivismo, mancanza di realismo. Ogni persona è immersa in una rete di relazioni sociali. Il giudizio di valore viene formulato all’interno di dinamiche intersoggettive che “premiano” certe azioni e “puniscono” certe altre. Il capitalista giudica positive e conformi allo scopo tutte quelle azioni che legittimamente gli consentono di raggiungere il massimo profitto. Sull’altare di questa finalità ritenuta sociale, i lavoratori dipendenti, a tempo determinato o indeterminato, precari, flessibili o col “posto fisso”, vengono trattati come mezzi, risorse di cui all’occorrenza disfarsi. Capitale variabile, avrebbe detto Marx. Vero. Ma il bene/male, il giusto/l’ingiusto, la virtù e il vizio, i valori/disvalori non si addensano tutti in un rapporto, in una relazione sociale. Il rifiuto di farsi ridurre a rotelle di un meccanismo impersonale germoglia anche all’interno di una lotta intima che ciascuno di noi conduce nel suo foro interiore. Non si pensa da soli. Ma si sceglie da soli, autonomamente, con maggiore o minore convinzione, se stare o no dentro una decisione collettiva. Chiedere alla propria anima, che si spera non rimanga sempre fanciulla, di svegliarsi, di sentire e vedere quanto male possono produrre certe relazioni sociali oppressive e schiavizzanti, è compito forse soprattutto individuale. Un Io che impari a valutare criticamente l’autorità, che impari a ribellarsi alle ingiustizie e alle menzogne sociali che lo attraversano e lo colpiscono, direttamente o indirettamente, è un Io che può sperare di contribuire a costruire un Noi collettivo in cui ricevere riconoscimento e risposte solidali. Un Noi che liberi e arricchisca l’espressività e la realizzazione dei singoli. In caso contrario, subirà l’autorità più o meno legittima, più o meno buona, giusta, ecc. Impossibile sfuggire alla dialettica libertà-autorità vissuta quotidianamente da tutti noi. In sostanza, fondare la “norma morale su un vederci chiaro del cuore e della mente” da parte di ciascuno, fondarla rispondendo singolarmente alla domanda sul perché è giusto compiere quest’azione piuttosto che quest’altra, mi sembra un modo per giudicare e, se necessario, combattere Autorità personali e impersonali diventate, magari, autoritarie e oppressive. Autorità sono pure leggi, norme e forze politico-sociali che incatenano la soggettività. Autorità sono le idee dominanti prodotte inevitabilmente dalle classi e dai gruppi dominanti. Si pensi, tanto per dirne una, al complesso d’idee diffuse oggi dall’apparato mass-mediale che “comunica” con noi, ma ci soffoca anche: esisti se appari in Tv, nella vita più di tutto conta il successo, ecc. ecc. La democrazia è confronto e, al tempo stesso, conflitto.

13. De Monticelli denuncia anche l’alleanza tra gli uomini di Chiesa e il conservatorismo di Odo Marquard. Questo filosofo tedesco sostiene che se ci riconosciamo come esseri umani libertà di coscienza e di autodeterminazione morale, ciò equivale a bandire il trascendente dal nostro orizzonte. Sostituiremmo il nostro arbitrio soggettivo a Dio. Il filosofo confonde volutamente “autonomia morale” e “arbitrio soggettivo”. Questa tesi, sostiene De Monticelli, è storicamente e filosoficamente falsa. Al contrario, proprio «per liberare dall’arbitrio del potere e dalla sudditanza servile o infantile la coscienza morale – almeno la coscienza morale…abbiamo riconosciuto alla coscienza di ogni persona umana adulta, indipendentemente da sesso religione o non religione, il diritto-dovere di chiedersi in ogni istante della vita: “perché”? Questa domanda è la profonda radice comune dell’etica e della logica: e non è nichilismo quello di chi non ci crede capaci né dell’una né dall’altra?»

14. “Se Dio non c’è tutto è permesso”. Oggi il linguaggio delle gerarchie, a partire dallo stesso Papa, fa leva proprio su questa premessa nichilista del ragionamento del Grande Inquisitore. Il nichilismo, chiarisce la nostra filosofa, «non sta affatto nell’ipotesi che Dio non ci sia – ci mancherebbe! Perché se questa ipotesi, o l’ipotesi che ci sia, qualunque cosa significhino, si potessero confermare o escludere in base alla nostra ragione, non si vede cosa ci starebbe a fare la fede, o la sua assenza – in che cosa si distinguerebbe da opinioni più o meno ragionevolmente ben fondate. Il nichilismo almeno virtuale, invece, sta precisamente nell’intero condizionale.» Da qui l’esigenza di andare fino in fondo al significato di questa tesi, di capirne bene il senso e le conseguenze che se ne traggono. Tre sono le versioni in campo: a) quella di Comunione e Liberazione; b) quella delle gerarchie ecclesiastiche e degli atei devoti alla Ferrara; c) quella di chi si chiede perché mai se Dio non c’è tutto dovrebbe essere permesso.

15.  “Se Dio non c’è tutto è permesso” nella brutale e persino sincera versione ciellina diventa: siccome tu non sei credente (anzi cattolico), sei moralmente incompetente e, allora, sei virtualmente un assassino. Perciò io Chiesa, dato che tu non hai la legge morale, chiederò allo Stato di istituire norme giuridiche che sopperiscano alla tua incompetenza…Conseguenza: le crociate per i ciellini non sono mai finite. Ogni giorno bisogna organizzarne una. Non ci sono terre sante da salvare, ci sono solo dei “primitivi” da sottomettere. Perché un credente (cattolico) dovrebbe godere del privilegio d’essere moralmente competente, un don Giussani redivivo dovrebbe spiegarcelo terra-terra; capisco che forse molti ciellini non amino essere convocati dall’illuministico tribunale della ragione, ma qui si tratta solo di rispondere alla semplice domandina “perché?” Oltre che nichilista, a me questa versione sembra francamente insultante e prepotente.

16. “Se Dio non c’è tutto è permesso” sulle labbra di gerarchie ecclesiastiche e atei devoti si trasforma nella proposizione che “Se Dio non c’è, dio sono io”. E qui il nichilismo, sostiene De Monticelli, appare improvvisamente chiaro. L’auto-deificazione che veniva attribuita all’uomo moderno e che invece «l’uomo moderno ha strenuamente combattuto, fra l’altro con la distinzione fra diritto, religione e morale e la critica radicale di ogni teopolitica […] ora la si vuole rendere addirittura fonte di legislazione, radicando lo Stato e le sue leggi in una confessione religiosa.» Atei devoti e gerarchie vanno in giro allora a sostenere che bisogna fare “come se Dio ci fosse”. Esattamente il contrario del suggerimento laico a organizzare la società aperta “come se Dio non ci fosse”, unica condizione perché, si evitino guerre di religioni, violenze e sopraffazioni.  

17. Perché mai se Dio non c’è tutto dovrebbe essere permesso? Si può affermare una cosa del genere solo a patto che l’esistenza dei valori dipenda da quella di Dio. Ma questo, scrive De Monticelli, «è vero solo se è vero che il bene è tale perché Dio lo vuole, e non invece che Dio (se c’è) vuole il bene perché è bene. Infatti solo dalla prima segue che se Dio non c’è non c’è niente che sia bene o male in sé. Dalla seconda non segue affatto. Dio vuole il bene perché è bene – se c’è. E se non c’è, il bene di un’infanzia felice resta tale, il male di un’infanzia straziata pure. […] Il bene non è tale perché voluto da Dio, ma Dio vuole il bene perché è bene». La tesi qui enunciata è fondamentale. Il bene sta dentro e fuori di noi. E così la verità e il bello. Pensare che un Soggetto con la maiuscola (Dio, Stato, Partito, ecc.) possa crearli è volontarismo. Il Bene c’è, esiste. Continuare a scoprirlo è il compito dei nostri “risvegli di coscienza” e della nostra ricerca conoscitiva. Coscienza e conoscenza sono luoghi e funzioni soggettive e intersoggettive. La fonte di questa posizione della nostra filosofa è Platone, il quale già nell’Eutifrone mostra con chiarezza che l’alternativa, successivamente definita “volontaristica”, conduce al nichilismo. É questa alternativa la rovina dell’etica che, secondo De Monticelli, «è laica o non è, esattamente per questa ragione: che deve essere sottratta all’arbitrio di coloro che parlano in nome di Dio (e ciascuno porta un dio diverso) e all’autorità non criticamente vagliata della tradizione.»

18.  De Monticelli, a questo punto, ricorda i pochi filosofi del Novecento che seguirono questa tesi platonica: Moritz Schlick, Husserl, Scheler, gli altri fenomenologi e almeno due grandissimi cristiani come Albert Schweitzer e Dietrich Bonhoeffer, mentre tutti gli altri presero l’altra via e adottarono le forme moderne del volontarismo: decisionismo, relativismo, fideismo. «Negarono che ci fosse verità o falsità, accessibile alla sensibilità e alla ragione puramente umana, in materia di valori e norme. Legarono il giudizio di valore non all’attenta coscienza e alla (perfettibile ricerca di) conoscenza delle persone, ma alla nuda, irrazionale volontà di un soggetto – fosse un soggetto politico nell’arena di un conflitto o di una guerra, fosse questo o quel dio o destino dell’Occidente o dell’Oriente. O ultimamente, con l’ultima generazione di teopolitici, fosse una chiesa. Si poteva sperare che, con una così forte tradizione anti-volontaristica alle spalle, la Chiesa cattolica non seguisse questa maggioranza. E invece l’ha fatto, e lo conferma ogni giorno di più. Per questo ho detto che l’antimodernismo di oggi, certamente in continuità con quello di ieri, ha però un fondamento diverso e peggiore.»

19. Ho voluto riportare ampiamente le parole della nostra filosofa perché questo è un punto decisivo. É una questione che ci riguarda. I traffici col Sacro e le teologie politiche non sono stati praticati e pensati soltanto dalla Chiesa cattolica. La sacralizzazione della politica non è stato un tratto solo del totalitarismo nazista e fascista. É nota quanta sacralizzazione ci fosse nella “chiesa comunista”. I confini mobili della coppia sacro-profano e la definizione delle modalità di rapporto col sacro, tipologia e caratteristiche della religione conseguente, relazione col potere temporale, ecc. ecc. sono problemi che riguardano credenti e non credenti. Alle spalle della decisione di De Monticelli di congedarsi da qualsiasi forma di relazione con la Chiesa cattolica c’è un grande travaglio intellettuale ed emotivo documentato dal libro «Sullo spirito e l’ideologia» (Baldini Castoldi, 2007), una vera e propria Lettera ai cristiani pubblicata nell’inverno del caso Welby. In questo libro, in cui la filosofa cattolica manifestava i suoi dubbi e le sue perplessità, l’ideologia appare come «l’antitesi dello spirito, e insieme come la sua contraffazione diabolica», una contraffazione che minaccia dall’interno «ogni fede che si fa istituzione terrena». La parola «’chiesa’ ha assunto nel linguaggio comune anche il senso di ‘setta’ o ‘partito’». Non credo abbia torto. Oggi la Chiesa appare soprattutto, e non soltanto a me, come forza sociale e culturale che vuole imporre la sua teologia politica, che fa un uso «sfacciatamente ideologico e politico del nome di Dio». Non è cattivo laicismo questo. É semplicemente osservare con spirito di verità ciò che accade.

20. «Quando Dio entra in politica» (Fazi Editore, 2008) è il titolo di un libro di Michele Martelli, professore di filosofia morale all’Università di Urbino. Più di duecento pagine appassionate e ben argomentate che offrono il quadro presente e passato della questione. Primo capitolo: Ratzinger e la “rivincita di Dio”. Il nostro filosofo illustra con efficacia i Nuovi Dieci Comandamenti che ispirano le scelte etico-politiche della Chiesa cattolica (“Non escludere Dio dalla sfera pubblica”, “La Chiesa non è democratica”, “Non uccidere, a meno che Dio non lo comandi”, ecc.). La Chiesa non è democratica, non è una definizione polemica inventata dal professor Martelli. É una citazione dell’attuale Papa: «La Chiesa non è democratica, ma sacramentale, dunque gerarchica; l’autorità, qui, non si basa su votazioni a maggioranza; si basa sull’autorità del Cristo stesso, che ha voluto parteciparla a uomini che fossero suoi rappresentanti sino al suo ritorno definitivo. » (in Vittorio Messori, “Rapporto sulla fede. Intervista con Joseph Ratzinger”, pag. 49). Il secondo capitolo del libro è relativo alla “storia politica di Dio”, una storia, cioè, dell’uso che i suoi rappresentanti hanno fatto del potere o che i detentori del potere hanno fatto di Dio. Legittimazione e strumentalizzazione reciproca; il sintetico excursus comincia con l’imperatore Costantino, “tredicesimo apostolo”, va avanti con la nascita dei Papa-Re e si concretizza in Crociate, guerre sante e genocidi vari: dei catari, dei dolciniani, dei valdesi di Calabria, ecc. ecc. A leggerle queste pagine c’è da restare inorriditi. Fanno capire il costo umano di “lacrime e sangue” pagato al dogmatismo teocratico di chi, in nome del possesso monopolistico della Verità e ispirandosi a Mosè, si arroga un potere assoluto. Martelli dedica il terzo capitolo del suo lavoro a “Teocon e dintorni”, esaminando le posizioni dei cosiddetti “atei devoti” come Giuliano Ferrara e l’ex Presidente del Senato Marcello Pera. Ultimo capitolo: “Il Dio dei poveri e il Dio del potere.”  Perché non c’è un solo modo di intendere Dio e di parlare in suo nome. Così accanto al Dio del potere illimitato e incontrollato, c’è «il Dio interiore del monachesimo e dell’ascetismo, il Dio nascosto, abissale, ineffabile dell’esperienza spirituale dei mistici. E c’è il Dio consolatorio e misericordioso delle piccole sette religiose, come le comunità cristiane evangeliche delle origini, perseguitate e represse dal potere imperiale romano. O il ‘Dio malato’, fragile e impotente di tante odierne comunità di base e di tanta parte del volontariato sociale cattolico, che della politica hanno un’idea completamente diversa e opposta a quella di tipo mosaico-ratzingeriano.» (pag. 49) Conclusione: è necessario criticare apertamente i discorsi del Papa e delle gerarchie ecclesiastiche, conoscere le loro argomentazioni, valutarle, coglierne le contraddizioni e smontarle. Dico “argomentazioni”, anche se, purtroppo, il più delle volte, si tratta di dogmi o di principi applicati secondo convenienza. Si prenda, tanto per fare un esempio, il principio della sacralità della vita. Un principio “assoluto”, “non negoziabile”, quando si tratta di scendere in piazza contro quel famoso “assassino” che è il padre di Eluana Englaro o contro l’”olocausto” degli embrioni-persona. La pena di morte, però, può continuare ad essere applicata da tanti Stati senza che la Chiesa senta il dovere di pronunciare parole chiare e ferme di condanna.  D’altronde, perché dovrebbe?… I tribunali ecclesiastici storicamente ne hanno fatto largo uso contro eretici, dissidenti, oppositori e infedeli. Uccidere l’infedele per San Bernardo di Chiaravalle non era un crimine, ma un “malicidio”. Non solo. In Africa, decine di migliaia di malati di AIDS potrebbero salvarsi da morte sicura se, insieme ad una buona educazione sessuale, si diffondesse l’uso di profilattici e anticoncezionali contro cui si proclamano Papi, vescovi e, in questo caso, anche Imam. Così la vita appare sacra a seconda dei giorni e delle convenienze politiche. Se non è nichilismo questo!…

21. La Chiesa non è democratica ci assicura il Papa. I principi su cui si regge sono teocratici, esattamente opposti a quelli di uno Stato democratico. La sovranità non appartiene al popolo, ma a Dio; il governo è monocratico, nel senso che il Papa è il monarca assoluto della Chiesa e del Vaticano; il potere è indivisibile ed è nelle sue sole mani; Vaticano e Chiesa, autorità politica e autorità religiosa sono detenute dalla stessa persona che, per quanto infallibile, è un essere umano. La Chiesa non è democratica, però è diversa dalle teocrazie islamiche perché avrebbe accettato le celebri parole di Gesù, date in risposta ai farisei e ai seguaci di Erode. Il passo evangelico è noto: costoro, volendo trarre in inganno il Messia per accusarlo gli uni di disobbedienza (i seguaci di Erode), gli altri di idolatria (i farisei), gli avevano chiesto se era lecito o no versare il tributo a Cesare. Chiese allora che gli portassero una moneta e, avendo fatto constatare ai suoi interlocutori che sopra c’era l’immagine dell’imperatore, Gesù disse: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Questa formula conterrebbe il principio dualistico della separazione del “potere temporale” da quello “spirituale” e sarebbe una caratteristica fondamentale della Chiesa cattolica d’Occidente. Ma è proprio così? Siamo sicuri?  Giovanni Filoramo, professore di storia del cristianesimo all’Università di Torino, ha recentemente scritto un libro su questa questione: «Il sacro e il potere. Il caso cristiano» (Einaudi, 2009). A leggerlo con attenzione, si impara parecchio. Si impara, ad esempio, che già in Gesù la formula conteneva implicitamente un’antitesi. Il pagamento del tributo non rappresentava, ai suoi occhi, un atto idolatrico, ma di lealismo. E, però, essere leali con i rappresentanti dell’Impero romano, non significava rinunciare alla sovranità di Dio sull’uomo. «Il detto, insomma, più che la separazione delle due sfere, vuole sottolineare il primato della signoria di Dio, secondo un’ottica tradizionalmente teocratica, implicita in quello che è il cuore dell’annuncio gesuano: appunto, l’imminenza dell’avvento del regno di Dio.» (pag. 36). Se da Gesù si passa a San Paolo e alle sue due Lettere ai Romani e ai Filippesi, la vocazione teologico-politica del rapporto tra sacro e potere appare accentuata. Tre sono gli elementi che caratterizzano la sua posizione: a) una scelta di lealismo nei confronti dell’autorità politica, tipica del fariseismo per il quale ogni autorità politica va rispettata perché proveniente da Dio ; b) un’attività strettamente politica di promozione e organizzazione di comunità di fedeli, uniti non su base etnico-religiosa (com’era il caso del giudaismo), ma sulla fede nel Cristo risorto e nel suo messaggio salvezza; c) la “doppia cittadinanza” caratteristica di queste nuove comunità, che stanno nel mondo, ma non sono del mondo, perché sono tenute insieme dal vincolo sacro della città celeste: “la nostra cittadinanza è però nei cieli, da dove attendiamo anche come salvatore, il Signore Gesù Cristo.”

22. Lealismo e, nello stesso tempo, proselitismo, evangelizzazione. Doppia cittadinanza paolina e agostiniana. Religione con un Papa-Re che potrebbe amministrare e governare potenzialmente la Terra, sia sul versante “spirituale” (rapporto col Sacro) che “temporale” (rapporto col Potere); versanti che non vengono giudicati in contraddizione e/o antagonisti. Oggi le funzioni di Sovrano temporale del Papa sono esercitate all’interno dello Stato Vaticano, ma sappiamo dalla storia italiana ed europea che non sempre è stato così. Comunque, quando non è esercitato in proprio da un Sacerdote-Faraone, da un Papa-Re, ecc. non vengono meno le funzioni di “fondamento” e/o “legittimazione” che, di solito, le religioni svolgono nei confronti del “potere temporale”. Il fondamento del nostro Stato repubblicano è la sovranità popolare, ma quello di Carlo Magno, dopo le sue campagne militari, lo ricavò da Dio, la notte di Natale dell’Ottocento, nel momento in cui il Papa Leone III lo incoronò imperatore. Sulla funzione di “legittimazione” è inutile dire: ancora oggi decine di Capi di Stato fanno la fila per essere ricevuti dal Santo Padre. Per non dire dei nostri onorevoli, teocon o teodem che siano, pronti a genuflettersi per ricevere la benedizione e far valere norme e dottrine cattoliche contro gli infedeli nei palazzi del potere, nelle piazze e nei salotti televisivi. Nelle prime pagine del suo libro, Giovanni Filoramo propone un triangolo che vede il Sacro al vertice, in alto; e in basso, da un lato la Religione, dall’altro la Politica. Mi sembra un ottimo modello per comprendere la maggiore o minore intensità delle relazioni reciproche, a quanto pare antropologicamente inevitabili, tra questi tre poli. É indubbio, ad esempio, che la Federazione delle Chiese Evangeliche si rapporti allo Stato e alla Politica con minore invadenza delle chiese cattoliche. Ci sono parrocchie talmente politicizzate da designare il candidato sindaco di una città. D’altra parte il vescovo capo della CEI – prima Ruini, felice di essere definito durante un dibattito “abile politico”, ora Bagnasco – viene intervistato dai giornali come se fosse il segretario di un partito. Ho sotto gli occhi il Corriere della Sera del 18 ottobre 2009, con il titolo gridato in prima pagina dell’ultima intervista ad Angelo Bagnasco: «Lo scontro danneggia l’Italia» «Liti alimentate ad arte, ora coesione nazionale». Vado a pagina 5 e leggo. Poi rileggo. Sarà che io non capisca cosa sia “spirituale” e cosa non lo sia (eppure qualche poesia mi capita di scriverla!); ma a lettura ultimata la mia insoddisfazione è totale. Il cardinale non mi ha aperto nessuna finestra spirituale, non mi ha risvegliato nessuna coscienza. Sarà che la mia non è “retta e formata” come la vorrebbe lui!… Sarà che sono preda dell’individualismo!…Sarà quel che sarà, ma…

23. Viviamo “giorni cattivi”, sostiene Enzo Bianchi nel suo ultimo libro, «Per un’etica condivisa» (Einaudi, 2009). Le fede cristiana non viene proposta con la necessaria mitezza e rispettando gli altri, diversamente credenti e/o non credenti. C’è arroganza e intransigenza in tante associazioni cattoliche, più simili a lobby e a gruppi di pressione che a comunità dello Spirito. L’altro, colui che non ha la coscienza “retta e formata”, è per definizione individualista, solitario e amante di monologhi o soliloqui. Situazione ideale, mi verrebbe voglia di dire, perché soffi nella coscienza il famoso Vento. Invece, no. Costui viene ritenuto incapace di etica; gli viene negato, in modo abbastanza contraddittorio, di essere a “immagine e somiglianza di Dio”, cristiano o non cristiano che sia. Il fondatore e priore della comunità monastica di Bose, si sforza di individuare alcune regole per un dialogo fruttuoso fra credenti e non credenti, gli uni e gli altri in transito in questo mondo diventato un “villaggio globale”. Sforzo encomiabile e per tanti versi condivisibile. Ma quanti cattolici leggono Enzo Bianchi? Quanti di loro sono convinti che «il futuro della fede non dipende mai da leggi dello stato»? Non è convinto sicuramente il Sindaco della città in cui risiedo. E con lui chissà quanti altri. Uomo di parrocchia e cattolico fervente, a luglio, appena eletto, uno dei primi gesti che ha compiuto è stato quello di rimuovere la bandiera della pace dall’aula del Consiglio per esporre, al suo posto, il crocifisso. Perfetto. Ha reso così esplicito il suo rapporto con la Croce. É quello che abbiamo imparato sui libri di storia, quello dell’imperatore Costantino che l’avrebbe fatta mettere sul labaro imperiale per vincere contro Massenzio: In hoc signo vinces. La religione come strumento della politica; così la Croce, da simbolo universale della sofferenza umana e della speranza di resurrezione, viene sbandierata come vessillo di guerra, come segno di appartenenza, ideologia, falsa coscienza di una parte della città che sarebbe attenta alle “radici cristiane” della nostra società contro un’altra che non lo sarebbe. L’esperienza religiosa, quindi, ridotta a strumento della politica, insegna di forza, potere. Pensavamo che il crocifisso avesse ben altro da insegnare: la fede, la grazia, l’Essere che ci trascende da non nominare invano, il cuore di un mondo senza cuore. Un’esperienza, comunque, totalmente altra rispetto alla normale attività di un Consiglio Comunale. “La fede opaca di che vivo / è solo mia” come recitano i versi di un poeta che quando parlava di cristianesimo sapeva di che parlava. Questo lo capiranno mai tutti questi cattolici pronti a trasformare i crocifissi in simboli culturali di una “religione civile”? Ovviamente non ho fatto la guerra al Sindaco sul crocifisso. Nessuno di noi l’ha fatto. Chi come me ama la bandiera della pace, non cade in questa trappola. L’uomo buono, pio, caritatevole, cattolico fedele e ottimo “soldato di Cristo” – questa è l’aurea di cui si ammanta questo Sindaco – non ha desistito, però, dall’appendere al muro il vessillo crociato. Non sono un soldato dell’esercito di Massenzio. Sono un cittadino capace di distinguere la religione dalla politica, gli spazi in cui quella Croce merita doverosamente di stare, da quelli in cui non è opportuno. Non perché offenda la mia vista. Anzi, tutt’altro. Semplicemente perché in questo gesto non c’è mitezza. C’è, invece, arroganza, invadenza. Per me un Sindaco è soltanto un primo cittadino, da giudicare non per quante mani stringe o per quante volte s’inginocchia o si confessa. Non è autorità religiosa, né siede sugli scranni consiliari perché cattolico praticante. É organo responsabile dell’amministrazione di un Comune con chiare e definite competenze. Intendo valutarlo soltanto per come affronterà e cercherà di risolvere i tanti problemi della città in cui vivo. Anche questa è cultura della responsabilità.

20 Ottobre 2009

Geno Pampaloni: «I giorni in fuga»

di  Donato Salzarulo

Amo le letture casuali, selvatiche. Amo i libri che mi ammiccano su una bancarella o addirittura per terra, su un tappeto. Impensati e imprevisti. Come questo Geno Pampaloni, apparso sotto i miei occhi sul lungomare di Pietra Ligure, mentre vado a comprare i giornali in quest’ultimo sabato di febbraio. Sta lì per terra, in compagnia di Luciana Littizzetto. Ma cosa ci fa uno dei più autorevoli critici letterari del Novecento con la simpaticissima Lucianina? Cosa ci fa un morto con una viva?
Due passi avanti, cammina una signora col marito. Vede il libro della Littizzetto e per un euro lo tira su e lo porta via. A mia volta estraggo dalla tasca il borsellino, cerco un euro e porto con me «I giorni in fuga», un Coriandolo Garzanti del 1994, quando c’erano ancora le lire.
Acquisto solo libri che mi risuonano dentro per una qualche ragione. Questo ha un’eco nella mia mente perché so chi è Geno Pampaloni, poi perché i nostri sono tempi in cui la critica letteraria se la passa malissimo e, infine, perché non ho letto il libro.
Ora che ce l’ho tra le mani, comincio subito a sfogliarlo. Continua la lettura di Geno Pampaloni: «I giorni in fuga»