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Nel tunnel di metà settembre (7)


di Donato Salzarulo


UOMO DEL SECOLO SCORSO

Sabato. Faccio colazione (un bicchiere di tè e sei frollini), mando giù le medicine che mi portano e me ne sto a letto, bardato con una fascia di cavi ed elettrodi per il monitoraggio continuo del mio cuore.
Marta, la dottoressa d’origine sarda che ieri pomeriggio mi ha spinto in carrozzina, oggi non c’è; ma il suo collega di turno, un medico alto e cordiale, anche lui specializzando, sa cosa deve fare. In mattinata mi pungono il braccio destro per diversi prelievi. Verso le 11, accompagnato da una studentessa, mi visita attentamente.
Rimasto solo, sfoglio i giornali che Giuseppina mi ha portato ieri sera.
Mi rimane in memoria un’intervista assai interessante di Emmanuel Todd a Marco Cicala su Il venerdì del 27 settembre. Il suo ultimo libro s’intitola La sconfitta dell’Occidente (Fazi, pp.354, 20 euro, 2024) e, prendendo le mosse dalla guerra in Ucraina, cerca di capire la fase che stiamo attraversando.
Il libro mette in discussione molti luoghi comuni del sistema comunicativo e mass-mediale prevalente anche in Italia.
«L’economia russa, che in Occidente veniva data per moribonda, è stata di fatto rilanciata dalla guerra. Fallimentari sono state in compenso le sanzioni occidentali contro Mosca.»
«Quello di una Russia conquistatrice, che dopo l’Ucraina si preparerebbe a invadere l’Europa, è uno spettro inventato dalla propaganda occidentale».
Se sono stanco dei giornali mi riposo un po’. E, se sono stanco di ruminare col cervello, apro il libro di Gaeta.
Nel pomeriggio dormicchio. Ogni tanto stacco la spina del monitoraggio e libero le narici dai tubetti di plastica dell’ossigeno per andare in bagno. Verso le 17,30 sorrido all’arrivo di moglie e sorella, delle figlie, dei nipoti, dei generi.
Giuseppina mi porta il computer e lo sistema vicino alla parete dietro al comodino. Siccome arrivano anche i parenti del mio compagno di stanza, tutti i familiari si danno il turno.
Si racconta la giornata. Cosa sta succedendo dentro: «Nulla di sostanzialmente nuovo», dico, «mi hanno fatto qualche prelievo in più, per il resto, le notizie sono quelle di ieri». Loro raccontano qualcosa di ciò che succede fuori. Capita che se la raccontino anche tra di loro.
A sera, le ultime ad andar via sono Giuseppina e Lucia. Mi spronano a mangiare, ma la brodaglia non mi piace e le cotolette neanche. Mangio volentieri una mela.
Prima che cali il buio, moglie e figlia vanno via; io rimango a letto a guardare la televisione, accesa dai familiari per il mio compagno di stanza. Ad un certo punto si spegnerà da sola ed io proverò mille volte a chiudere gli occhi prima che il sonno arrivi.

Domenica. Apro gli occhi. Guardo fuori dalla vetrata. È l’alba. Un’alba cittadina da fotografare, un’alba rosseggiante. Non hanno ancora portato la colazione. Ho fame e l’aspetto con impazienza. Finalmente arriva. Consumo il mio tè coi frollini.
Il rischio maggiore dello stare in ospedale è la pigrizia, il lasciarsi andare all’inerzia, al fiume dei minuti che scorre, alla scena del mondo che passa. Da qui dentro, ciò che succede fuori è rumore, caos, disturbo…
Occorre reagire a questa percezione, a questo sentimento da “Montagna incantata”, al fascino della malattia, della morte. Come diceva Goethe: «Ricordati di vivere». Allora stamattina, finita la colazione, m’installo per un’ora in bagno e mi dedico tutte le attenzioni necessarie per rendermi “corpo piacevole”, capace di generare e stimolare piacere: mi lavo ben bene, faccio la barba, lavo i denti, profumo la pelle. Insomma, mi metto su come se non dovessi tornare a letto, riattaccarmi all’ossigeno e al monitor delle mie aorte; ma come se dovessi incontrare chissà chi, fare una bella passeggiata, come se dovessi sedermi a un caffè e conversare intimamente con una bella signora. Slancio vitale. Ricordo le parole di mia madre: «Cosa devo fare di là?… Sto così bene di qua.»
Stava bene di qua, con noi, dopo aver subito tre interventi al cuore. Io ho messo solo tre bypass e ora mi hanno scoperto fortunatamente un’embolia e una trombosi curabili. Quindi…
Vado verso il computer, lo tiro fuori dalla borsa nera, lo sistemo sul tavolo, attacco la spina nella presa, lo accendo e comincio a pensare all’articolo che devo scrivere per la redazione di Orione. C’è tempo, ma è meglio portarsi avanti. Metto giù una scaletta, mi collego a Internet e, sul sito «L’ospite ingrato», m’imbatto in un articolo di Donatello Santarone su «Cesare Cases e la didattica della letteratura». Comincio a leggere. Sono pagine dense, piene di ottime considerazioni e interessantissimi punti di vista.
Sono a pagina 9, dove l’autore riporta alcuni «Consigli a un giovane docente», quando entra in camera il dottore seguito dalla studentessa. Mi vede al computer.
«Bravissimo…Fa bene a stare in attività. Tutto questo l’aiuta a far funzionare meglio il suo cervello».
«Certo», gli rispondo. Intanto mi alzo. Vado verso il letto e mi faccio visitare. Colgo l’occasione per dirgli che sul dorso mi sono nate diverse bolle. Me le guarda e decide di sospendere la terapia antibiotica. Da giorni non ho più febbre. La pressione è normale, la saturazione anche…Esce. Guardo l’ora. Tra poco è mezzogiorno. Ho quasi fame, ma qui prima dell’una non arriva niente. Mi riattacco l’ossigeno, la spina del monitoraggio e mi stendo sul letto. Libero le mie voci interiori e una di queste comincia a pensare all’articolo: «Per molti anni ho rivolto alle scuole di Cologno un progetto di didattica della poesia intitolato “Toccata e fuga”…»
Finalmente arrivano i piatti: pasta asciutta, una fetta d’arrosto, dell’insalata e un’arancia. Mangio tutto. O quasi: il panino non lo tocco. Poi faccio due giri digestivi per il corridoio fino al soggiorno. Guardo distrattamente i quadri alle pareti. Torno e mi rimetto al letto. Mando un po’ di messaggi nelle mie varie chat. Rispondo a qualche telefonata di parenti o amici. Successivamente apro il libro di Gaeta. Sonnecchio sulle pagine.
Quando mi sveglio, mi tiro giù dal letto e apro i giornali di ieri.
Leggo sul Manifesto l’addio di Stefano Petrucciani a Bruno Accarino, morto a Firenze.
«Verso la metà degli anni Ottanta, quando, senza aspettare la caduta del muro di Berlino, il marxismo era ovunque dato per morto, le pagine culturali del Manifesto erano uno dei pochi luoghi dove una riflessione critica di ispirazione marxiana potesse svilupparsi e trovare ascolto. Nel folto gruppo di collaboratori “filosofi”, del quale anche io facevo parte, uno dei più acuti e originale era Bruno Accarino […] Napoletano nato nel 1951.»
Più giovane di me, quindi. Filosofo molto prolifico, «cercava gli strumenti per mettere a fuoco, per indagare senza chiusure pregiudiziali, i problemi che, in qualche modo, al marxismo erano sfuggiti. Quei vuoti da cui dipendeva anche una certa debolezza e cecità del marxismo stesso: il problema del male, il demonismo del potere, la questione antropologica, cioè l’interrogazione sulla natura umana, alla quale il marxismo si era sempre sottratto nella convinzione che ciò che importa non è cosa l’uomo è, ma cosa può diventare.»
Poi leggiucchio qua e là, niente che mi suggerisca qualcosa…Mentre sto leggendo si avvicina il medico di turno. Ma non è quello di stamattina. Questo è uno specialista. Sui trent’anni, con la barba, ha il pantalone e la casacca verde.
«Cosa dicono i giornali?» mi domanda con tono scherzoso, empatico
«Mah, tante cose!…» gli rispondo «Dipende un po’ da ciò che si cerca.»
«Lei cosa cerca?…»
«Notizie, riflessioni, recensioni di libri, citazioni che un po’ confermano i miei orientamenti, un po’ mi sorprendono…Insomma, varia umanità…»
«E tutto questo lo trova sui giornali?…»
«Certo…I giornali rappresentano parti di mondo sociale e culturale, politico ed economico. Sono anche strumenti di propaganda, di orientamento. Io distinguo gli articoli…In tanti anni ho imparato. Leggo da quando ero adolescente.»
«Lo sa che è un sopravvissuto? L’ammiro. I lettori di giornali sono drasticamente ridotti.»
«Lo so. Grazie per l’ammirazione. Lei cosa legge?…»
«Siti professionali e social.»
«Anch’io visito dei siti professionali. I social no. Però non riesco a fare a meno della carta stampata. Come sostiene un mio amico, sono un uomo del secolo scorso.»
«Forse è così. Chissà!…Posso visitarla? »
«Certo». Il dottore mi ausculta attentamente il petto e le spalle.
«Tutto a posto. Oggi la trovo particolarmente bene».
«Sì, in effetti, mi sento bene».
In seguito mi chiede di vedere le gambe e, in particolare, di guardarmi quella con la trombosi che ha prodotto, a sua volta, l’embolia polmonare…
Appare dispiaciuto ed è d’accordo con me che nella sfortuna c’è stato il colpo d’ala della fortuna. Oltre alla polmonite, avevo in fondo scoperto un male più antico.
E allora mi ripete che occorre assolutamente capire perché mi vengono queste trombosi.
«Se sono d’ordine genetico, aggiunge, sarà costretto a prendere pillole anticoagulanti fino alla fine dei suoi giorni».
Vabbé. Ripenso subito alla mia poesia «L’esistenza emorragica». Ma non è che il destino ce lo creiamo pure con le nostre poesie, i nostri pensieri, i nostri libri? Mentre il dottore mi saluta e se ne va, con queste domande filosofiche in testa mi metto ad aspettare l’arrivo dei miei familiari.
Clicco su Google parole come “uomo del secolo scorso”, “uomo antico” e viene fuori una sorta di testamento di Pasolini. Lo leggo. Non mi convince del tutto. Ho varie perplessità. Però da giovane sono stato un innamorato di Pasolini.

Io sono un uomo antico,
che ha letto i classici,
che ha raccolto l’uva nella vigna,
che ha contemplato il sorgere o il calare del sole sui campi,
tra i vecchi, fedeli nitriti, tra i santi belati;
che è poi vissuto in piccole città dalla stupenda forma impressa dalle età artigianali,
in cui anche un casolare o un muricciolo sono opere d’arte,
e bastano un fiumicello o una collina per dividere due stili e creare due mondi.
Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo,
ossia da un internazionalismo creato, con la violenza,
dalla necessità della produzione e del consumo.
Detesto tutto di esso: la fretta, il frastuono, la volgarità, l’arrivismo.
Sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con modi sleali e spietati.
E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa,
di considerarla quasi una virtù!

Nel tunnel di metà settembre (1)

 Tramonto ad Agropoli, 1 settembre 2024, ora: 19,29

di Donato Salzarulo

TUTTO BENE…E NON È VERO.

La macchina scivola via sull’asfalto. Dopo Bologna, l’ultimo tratto diventa più scorrevole, meno trafficato. Verso le 11 imbocchiamo l’uscita Cologno est. Siamo a casa. Ci aspetta Giuseppe. Scaricare è più faticoso che caricare. Abbiamo lattine d’olio, bottiglie di salsa di pomodoro, pagnotte di pane, biscotti, mozzarelle, libri e valigie, valigie, valigie…
Al ritorno da Bisaccia, ogni volta è così.

Il viaggio è cominciato verso le tre del mattino. Io sono al volante. Al mio fianco c’è Giuseppina, pronta a vigilare sulla bontà e correttezza della mia guida.
Percorriamo lunghi tratti di autostrada incontrando pochissime macchine. Soprattutto da Foggia a Pescara.
Abbiamo nella memoria i nostri due incidenti di aprile. Non avevo nessuna responsabilità. Lo riconosce anche mia moglie. Ne siamo usciti per fortuna indenni, ma «il cane scottato ha paura dell’acqua fredda», quindi siamo più che mai sul chi va là.
Prima di Pescara ci fermiamo. Pina chiede di andare in bagno. Ne approfitto anch’io. Poi prendo un caffè. Lei non vuole niente e osserva gli scaffali aspettandomi.
Per le sette siamo nell’area di servizio Conero ovest, a pochi chilometri da Ancona. Posteggiamo ed entriamo nell’autogrill. Facciamo colazione con calma e, infine, prendiamo le nostre medicine.
«Conviene rifare il pieno» dico a mia moglie.
«D’accordo. Allora io vado a piedi verso le pompe di benzina».
Mentre vicino al distributore armeggio con la pistola di erogazione, Giuseppina curiosa nel negozio, dove andrò a pagare. Entro e la trovo, fra due signori, con un salvadanaio di terracotta in mano.
«È l’ultimo… Lo compriamo?»
«Certo.»
«Ogni anno ne compriamo uno», dice rivolto al signore con la barba, «Cerchiamo di riempirlo di monete di due euro per le vacanze dei nipoti.»
«Ottima idea», fa il signore e per buon augurio infila una moneta dentro.
Pago, salutiamo e ripartiamo.
Da Ancona in poi, il traffico si fa più intenso, ma si fila via senza grandi difficoltà. Ci fermiamo un’altra volta e poi basta.

Lungo il viaggio chiacchieriamo sui giorni alle spalle. A Bisaccia abbiamo una casa e il soggiorno estivo è cominciato agli inizi di luglio. Non siamo quelli della “restanza”, ci basta il “ritorno”. Puntuale come quello delle stagioni. Fino a quando non so.
L’estate è stata proficua. Almeno per me. Giuseppina ha continuato a desiderare una settimana al mare, in un albergo a ridosso di una spiaggia. «Sola» ha ripetuto. Poi ci siamo andati insieme. Insieme abbiamo vissuto i momenti conviviali con amici e parenti: abbiamo festeggiato il pensionamento di Agostino, il ferragosto da Peppino e Grazia. Insieme abbiamo aspettato ogni mattina l’arrivo di Michele, accompagnato spesso dal nipote Pinuccio, per bere in casa il caffè col cioccolatino. Insieme siamo andati a far la spesa al supermercato o al Piano regolatore, dove ci sono i negozi di Bisaccia Nuova. Insieme siamo andati ad Aliano. Era questo per me il momento più atteso e stimolante dell’estate. Da solo ho fatto soltanto delle quotidiane passeggiate intorno al paese vecchio. Altre le ho fatte in compagnia degli amici. Per lo più da solo ho fatto visita al mio amico Mimmo venuto da Roma e, purtroppo, allettato.
Il mio impegno intellettuale più importante è stato quello di rileggere per l’ennesima volta tutti i miei scritti su Fortini, raccoglierli in un file e uniformare impaginazione, caratteri, punteggiatura, virgolette, citazioni…Affidare il tutto a Gerardo perché preparasse il pdf per la stampa e infine ordinarne centocinquanta copie. Non potevo presentarmi al Festival “La Luna e i calanchi” di Aliano senza un libro sulla poesia di Fortini. Avere qualcosa da offrire rappresentava per me una sorta di biglietto di presentazione, un certificato di garanzia, un attestato di esperienza e conoscenza. Dovevo intrattenere i partecipanti per tre mattinate sul “lavoro del poeta”, il pomeriggio del 23 agosto dovevo presentare e leggere delle poesie del grande autore fiorentino.
La “tre giorni di Aliano” è andata benissimo e l’attenzione del pubblico ha superato ogni aspettativa. Anche Giuseppina e Tina, mia sorella, che ci ha accompagnati, concordano. Ho vissuto, però, un momento di grande stress. Al termine della presentazione e della recita, sono rimasto seduto su una sedia per quasi un’ora. Sentivo addosso una grande stanchezza fisica.
Dopo Aliano, dal 31 agosto al 7 settembre, Francesca, la nipote, ci prenota un hotel sulla spiaggia di Agropoli. Mia moglie può realizzare il suo desiderio. Qualche giorno prima della partenza, per suo e mio dispiacere, si ammala e siamo costretti a ricorrere alla Guardia Medica.
«Non si preoccupi, signora, domenica più di cinque persone sono venute qui. L’ho auscultata, i polmoni sono liberi. Tachipirina e antibiotico, le passerà tutto.»
Due giorni dopo, anch’io mi ritrovo nelle medesime condizioni febbrili. Non vado dal medico e mi curo con le stesse medicine.
Sabato 31 agosto, al nostro arrivo ad Agropoli, sono ancora malaticcio. Domenica, vado avanti a Tachipirina e lunedì la febbre appare domata.
La settimana cilentana, salvo qualche difficoltà nel pranzare, risulta abbastanza soddisfacente. Mia moglie va al mare ed io, che non metto mai piede su una spiaggia, ogni mattina passeggio per quasi un’ora sul lungomare. Destinazione: centro città.
In piazza, di fronte alla libreria Mondadori, incontro il mio amico Michele e Lina, sua moglie. Beviamo il caffè, camminiamo lungo il corso, scendiamo verso il porto e, all’approssimarsi dell’una, mi riportano in macchina all’hotel.
Poi ci vediamo tutti e quattro la sera per un’altra passeggiata sotto le palme del lungomare. Ogni tanto ci sediamo sulle tante panchine a disposizione. Parliamo del più e del meno, di politica, di amici e nemici, fotografiamo i tramonti, osserviamo i negozi sul lato opposto, guardiamo la striscia di terra in cui il centro storico della città diventa penisola, il castello su in alto.
Una mattina andiamo a fare colazione nel primo bar pasticceria che si trova lungo la strada. Ottime brioches. Peccato che non avessero del tè al limone per me. Sempre in Via San Pio X notiamo un caseificio di mozzarelle di bufala. Si chiama “La contadina”. Compriamo una treccia per assaggiarla a cena coi nostri amici. Tutte le sere ceniamo a casa loro. La troviamo buona e prima di partire ne compriamo alcune da regalare.
Belle giornate, momenti lieti.
Scopro, grazie ad un articolo di Paolo Di Paolo su Tuttolibri del 31 agosto, Sally Rooney e, nei momenti di solitudine, mi tuffo nella lettura del romanzo «Dove sei, mondo bello».
Martedì tre settembre incontro le amiche della redazione «Orione». Mentre parliamo, un temporale si abbatte sul mare e sulla città. Ci sono Fanny, Gabriella (la direttrice) ed Alessandra, mi regalano un libro di poesie di Anna Achmatova e mi invitano ad entrare in redazione. Invito che accolgo con entusiasmo…Dedicheranno il prossimo numero monografico alla poesia e si augurano che dia loro una mano.
Nell’ultima settimana bisaccese il cielo regala dei fondali favolosi, rinascimentali. Nuvole bianche di mille forme su sfondo celeste o blu. Grande la mia voglia di fotografare, di riprendere angoli di cielo, di mettersi in tasca il miracolo di un paesaggio vitale, sorprendente. Per il resto, faccio i miei soliti giri con gli amici, passeggio tra piazza Duomo, la Valle, il Convento e la Cavallerizza, vado – ecco una novità – con Agostino e Svetlana a Calitri ad ascoltare un concerto jazz di Pasquale Innarella. Straordinario.
Insomma, l’estate bisaccese non è stato un idillio, ma neanche abbiamo vissuto esperienze negative, respingenti. Siamo stati bene.
Ora tutto questo è passato.

A Cologno troviamo un clima piacevole. Si vedono le montagne. Verso sera scatto cinque fotografie di un tramonto indimenticabile: il cielo sembra infiammarsi, un rosso acceso lo copre nella striscia ampia dell’orizzonte…Mai avrei immaginato che di lì a qualche giorno, tutto quel fuoco si sarebbe trasferito nel mio corpo.
La domenica trascorre serena. Verso le 11 incontro il mio amico Ennio per un caffè d’orzo e quattro chiacchiere insieme tra il Garden City e Vimodrone. Nel pomeriggio faccio il mio giro solitario verso la Guzzina. Mi sembra di entrare nel cortile di un castello. Ci sono muri antichi, macchie di gelsomini, un nespolo, un pioppo alto e possente. Uno scenario vagamente ariostesco. Da un momento all’altro potrebbe apparire il cavallo di un’eroina in fuga…
Tutto bene. Questa è la sensazione. E non è vero, come dicono i versi di Fortini:

Vedo il mare, è celeste, lietissime le vele.
E non è vero.
Il piccolo animale sanguinario
ha morso nel veleno
e ora cieco di luce
stride e combatte e invoca dagli spini pietà.

Il valore universalistico del Giorno della Memoria

Memoriale della Shoah – Berlino

di Donato Salzarulo

1.- Ciò che sta accadendo a Gaza in questi mesi costringe forse tutti noi a celebrare il Giorno della Memoria in modo meno rituale e più problematico, interrogandoci sul senso della commemorazione e sulle sue finalità. Non basta dire o augurarsi “mai più!” se quotidianamente siamo spettatori di massacri, crimini di guerra e/o crimini contro l’umanità. Non possiamo far finta di niente. Non possiamo rimuovere il fatto che in queste settimane il Governo del Sudafrica ha denunciato quello israeliano alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia per genocidio.

So che “genocidio” è un concetto coniato da Raphael Lemkin, un giurista ebreo, polacco; ho letto la definizione che ne dà l’art. 2 della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” («per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religiose, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro»), non sono un giurista e il Governo sudafricano avrà certamente strumenti e avvocati per dimostrare l’atto di accusa. Detto questo, siccome la Corte internazionale di Giustizia, non è la “padrona” delle parole, non mi meraviglio se ognuno/a la usa per ragioni pacifiste o di denuncia della mattanza che si sta consumando a Gaza. Per quanto mi riguarda, seguirò con attenzione ciò che accadrà nel Tribunale dell’Aia.

Detto questo, la situazione è, comunque, allarmante e non ci si può rifugiare nell’indifferenza perché, come lo sterminio degli ebrei ci ha insegnato, alla “soluzione finale” si arriva passando attraverso tappe intermedie (soffocamento della democrazia liberale, approvazione di leggi discriminatorie e razziali, disumanizzazione delle vittime, ecc.) realizzate proprio tra l’indifferenza e l’obbedienza delle popolazioni. Stare allerta, dunque, è un dovere. Per questo ho letto con attenzione partecipe la lunga conversazione pubblicata sul numero 634 (21 gennaio 2024) del settimanale «La Lettura», una conversazione assai interessante fra David Bidussa, Gabriele Nissim e Ugo Volli, curata da Antonio Carioti e intitolata “Vuoti di memoria”.

Sono rimasto particolarmente colpito dagli interventi dello storico David Bidussa.

Alla domanda se ciò che sta accadendo a Gaza contribuisce a mettere in crisi il Giorno della Memoria, la sua risposta è questa:

«Sì, ma solo in parte. Il problema più grave resta la scelta di mettere le vittime al centro del 27 gennaio. Invece di analizzare i progetti e i comportamenti relativi alla Shoah si è privilegiato un dato etico. Poiché abbiamo evitato di porci le domande più difficili, ce le ritroviamo inevase vent’anni dopo e non solo per via di Gaza. Le date dei calendari civili, a parte quelle fondative, hanno un andamento sinusoidale: di volta in volta acquistano rilevanza o la perdono. Così è stato in Italia, ad esempio, per il 4 novembre. Tutto dipende dal linguaggio che in quel momento diventa dominante per costruire un’identità. Da questo punto di vista il 27 gennaio è una data problematica. Perché mette al centro qualcuno che tu hai difficoltà a riconoscere come appartenente al tuo gruppo. È una sorta di concessione, non l’esame di coscienza che sarebbe necessario. Si tratta di un grave limite del modo in cui abbiamo assunto il 27 gennaio. Occorre chiederci con franchezza quanto è stato efficace il Giorno della Memoria, se è entrato a far parte della vita quotidiana o se è stato archiviato. Se non ci poniamo queste domande, continuerà ad essere una concessione a qualcuno. E così non va.»

2.-Nella conversazione si discute prevalentemente della prossima commemorazione relativa al Giorno della Memoria, ma non mancano domande sulla relazione tra la data del 27 gennaio e quella del 23 agosto, votata dal Parlamento europeo come “Giornata di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari”. Questa risoluzione, come è noto, è stata voluta soprattutto dalla Polonia e dagli Stati dell’Est con la motivazione che il patto Molotov-Ribbentrop del 1939 rappresentò un momento determinante per l’invasione e l’occupazione della Polonia da parte della Germania e dell’URSS.

Gabriele Nissim non ritiene che il Giorno della Memoria possa essere messo in secondo piano dalla Giornata di commemorazione del 23 agosto e anche Ugo Volli non vede contraddizione fra le due date. David Bidussa, invece, pur non contestandone la legittimità, osserva che «corrisponde alla riscoperta di identità nazionale, quelle della Polonia e dei Paesi baltici, che fanno i conti con un loro problema interno». Tutt’altra dovrebbe essere la finalità del Giorno della Memoria che dovrebbe avere “un valore universalistico”. Su questo punto lo storico è quanto mai esplicito:

«I calendari civili non servono per stabilire la verità, ma per costruire una sensibilità pubblica. Di solito le feste nazionali sono istituite subito dopo i fatti: vale in Italia per il 4 novembre, fissato subito dopo la vittoria nella Prima guerra mondiale, e per il 25 aprile. Perché invece il 27 gennaio viene istituito a oltre 50 anni di distanza? Perché si cerca di suscitare una religione civica dell’Europa, alla quale serve una data che non sia nazionale, ma abbia un valore universalistico. Il 27 gennaio non è un regalo agli ebrei, si rivolge all’intera umanità.»

I due punti da sottolineare mi sembrano fondamentali: a) suscitare una religione civica dell’Europa; b) non interpretare il Giorno come un regalo, una concessione fatta agli Ebrei. Se lo si interpreta in questo modo, la Shoah, genocidio indubbiamente unico ed eccezionale, rischia, tuttavia, d’innescare una sorta di gara storica a chi è o è stato più vittima. Durante tutta la conversazione, Bidussa ripete più volte questo concetto: è sbagliato mettere le vittime al centro.

«A mio avviso al centro della celebrazione del 27 gennaio non devono esserci le vittime. Come sosteneva lo storico Raul Hilberg, l’attenzione deve piuttosto andare ai carnefici da una parte e dall’altra agli spettatori, alla “zona grigia”: al comportamento delle società europee durante lo sterminio. […] Le celebrazioni pubbliche del 27 gennaio hanno posto in primo piano le vittime, i sopravvissuti ai lager, invece di guardare alle condizioni sociali e culturali che avevano reso possibile la Shoah.»

Bidussa distingue nettamente le celebrazioni o le feste nazionali dal Giorno della Memoria. Le prime hanno un valore nazionale, il secondo ha un valore universalistico. Dovrebbe promuovere una “religione civica” europea per riflettere sul passato delle singole nazioni, per fare i conti con la propria storia e raccontarsi non soltanto i momenti gloriosi, ma anche quelli bui. La Polonia, ad esempio, che è stata “vittima” del nazismo e del comunismo staliniano, non può polemizzare col libro di Jan Tomasz Gross I carnefici della porta accanto, che parla di una comunità ebraica massacrata dai civili polacchi nel 1941, così come la Francia non può glissare sulla ribellione degli algerini nella regione di Sétif, ribellione «repressa – sostiene Bidussa – con un vasto spargimento di sangue nel 1945. Secondo le autorità di Parigi le vittime furono 1.500, secondo fonti algerine 45 mila. Ci sono voluti 60 anni per raccontarci quell’evento.» Il discorso vale per le altre nazioni e ovviamente anche per l’Italia col suo passato coloniale. Tutte le vittime sono uniche e tutte reclamano l’eccezionalità dei massacri o dei crimini subìti. Per questo, insiste lo storico, al centro del Giorno della Memoria dovrebbero esserci i progetti e i comportamenti relativi alla Shoah; occorrerebbe prestare attenzione ai carnefici, agli spettatori della “zona grigia”, al comportamento delle società europee, alla responsabilità collettiva per quanto è avvenuto. Nella memoria pubblica dovrebbe entrare

«un libro come Modernità e Olocausto di Zygmunt Bauman, in cui l’autore sostiene che i genocidi come la Shoah possono avvenire non perché gli uomini sono crudeli, ma perché sono obbedienti. Il punto è se la coscienza individuale avverte la straordinarietà di quanto sta accadendo nel corso delle tappe intermedie di costruzione del nemico […]. In fondo alla base della Shoah come del Gulag sta l’idea che bisogna difendersi da un complotto che vuole sovvertire l’ordine.»

L’accenno al complotto serve a Bidussa per farci toccare con mano il presente:

«Il complottismo ci parla del 2024, non solo del 1939. E nel 2023 il terzo libro più venduto in Italia è stato quello del generale Roberto Vannacci, che si regge esattamente su una logica cospirazionista. Se non vogliamo evitare una memoria solo celebrativa, ma ragionare sulle falle mentali dei nostri contemporanei, la riflessione sul Gulag e sulla Shoah deve analizzare i meccanismi attraverso i quali, partendo dalla paura del nemico, si può costruire una politica.»

In sintesi, mi pare che nei pensieri e nelle parole di Bidussa siano indicati chiaramente i limiti delle celebrazioni pubbliche del 27 gennaio: mettere in primo piano le vittime, le nazioni e gli Stati non si assumono la responsabilità di fare i conti con il loro passato, non si analizzano le condizioni sociali e culturali, i meccanismi che hanno reso possibile la Shoah: complottismo, vittimismo, costruzione del nemico, suscitare nei cittadini lo spirito servile ed obbediente, ecc.

Concludo con un invito: se un libro come Modernità e Olocausto di Zygmunt Bauman non è entrato nella memoria pubblica perché non prenderne atto, e nelle scuole, nelle università, nelle Biblioteche, nelle associazioni, nelle case, dovunque è possibile, lo si prende in mano e si organizzano dei gruppi di lettura, lo si legge individualmente o collettivamente e lo si discute?…Se ho inteso bene, la posizione di Bidussa: basta complottismo, basta giornate delle vittime, le feste nazionali se le facciano i singoli Stati, la celebrazione del Giorno della Memoria ha senso se s’intende promuoverne una visione civile capace di farsi carico dei momenti gloriosi e di quelli bui della storia di ogni singola nazione. Noi italiani non amiamo la nostra patria se continuiamo a dipingerci soltanto come “brava gente” e dimentichiamo le leggi razziali, il nostro passato colonialista, ecc. ecc.

La storia bisogna studiarla tutta.

24 gennaio 2024

Mi piace scrivere al vento

Giovanni Fattori, La libecciata (1880-1885 circa

di Donato Salzarulo

Mi piace scrivere al vento.
Mi piace scrivere sapendo che non mi leggerai.
Il castagno, che a maggio si colora di rosa coi suoi fiori a grappolo,
alla festa d’Ognissanti non ha più foglie.
È chioma scheletrita, immobile.
Continua la lettura di Mi piace scrivere al vento

Storia della colonna infame

 IL MANZONI DI FORTINI (II)

    di Donato Salzarulo

Il seguito della nota manoscritta è dedicato quasi tutto a «quelle centoventi pagine di prosa che si chiamano Storia della colonna infame». (pag. 1796)
La lingua di Fortini è precisa e densa. Il pensiero si organizza sinteticamente intorno ad alcuni nuclei tematici: l’origine e redazione del libretto, la storicità dell’episodio raccontato, il giudizio estremamente positivo espresso sull’opera (“è un capolavoro”), l’originalità e la nitidezza del dettato, la tragicità dell’accaduto e l’insegnamento morale che se ne può trarre, la sua attualità, le contraddizioni del Manzoni. Poco più di due paginette straordinarie per dire della straordinarietà di un’opera e dell’intensità di pensiero e di scrittura di un autore. Meglio non perdersele. Perciò le ripropongo al rallentatore, seguendo passo dopo passo le frasi fortiniane per enuclearne i problemi, farne un elenco e tentarne un primo commento. Continua la lettura di Storia della colonna infame