Letteratura e falsità

di Elena Grammann

Leggendo recentemente Jan Wagner, una delle prime liriche in cui sono incappata è la seguente:

l’uomo dal mare

lo trovano in un frac di sale
e sabbia, un passaporto di alghe, e dietro di lui
un’orchestrina di zafferani. la nebbia.

non parla; però al piano fa saltellare i frangenti sulla sordina,
muove le onde attraverso la cassa
che si rimane a bocca aperta. le pesanti spalline
delle mani che si posano sugli omeri,
l’ora di gloria, il tempo infinito delle pasticche,

le notti d’autunno: lungo i corridoi scivolano gli infermieri
come iceberg. nel giardino della
clinica, sotto i muri di recinzione, un fiammeggiare
di ultime foglie; dalla vecchia rimessa
assalita dall’edera il suono attutito
di un pianoforte. sembrerebbe chopin.

(der mann aus dem meer, in: Achtzehn Pasteten, Berlin Verlag 2007, traduzione mia)

Sul momento ho fatto un po’ fatica a afferrare la situazione. Mi ha soccorso un ricordo abbastanza vago, sufficiente però a illuminarmi. Poi ho dimenticato la lirica e il ricordo. Le bordate di Dario Borso (qui) contro le “lenzuolate” – categoria che comprende, a quel che capisco, interpretazioni, generalizzazioni, assolutizzazioni, concettualizzazioni, ipostatizzazioni e in generale quel che finisce in -zione – costringendomi a un esame di coscienza hanno fatto riemergere il filo del ricordo. Perbacco mi sono detta, ma qui c’è un fatto, anzi ce ne sono tre – fatterelli se vogliamo, ma inconfutabili. Tutta roba buona, merce sana, chissà che non se ne possa cavare qualcosa, una piccola moralité.

Allora, cominciamo dal ricordo. La lirica mi ha fatto venire in mente che diversi anni fa avevo letto un romanzo, abbastanza trascurabile, in cui si parla precisamente di un tizio sbucato dal nulla su una spiaggia, senza identità, senza documenti, che non parla ma suona divinamente il piano. Viene ricoverato in una clinica ecc. Non ricordavo il titolo del romanzo, non ricordavo il nome dell’autrice ma sapevo chi era per la buona ragione che di lei avevo apprezzato, secoli fa, l’opera prima, abbastanza memorabile: La grande Eulalia. Digito ‘la grande eulalia’ e mi compare Paola Capriolo, ma certo, è lei; ha una voce su Wikipedia con l’elenco delle opere, lo scorro e trovo immediatamente: Il pianista muto (2009). Dunque: è chiaro che il romanzo di Capriolo del 2009 e la lirica di Wagner del 2007 parlano della stessa cosa – o dello stesso caso. Che Capriolo abbia “copiato” da Wagner? Possibile. Ma più probabile che ci sia una fonte comune, tanto più che ricordo di avere letto, sulla quarta di copertina o in una recensione, che alla base del romanzo c’è un fatto di cronaca. Capriolo poi aggiunge di suo, delle volte che non ce lo facciamo mancare, l’ebreo scampato allo sterminio e per buona misura anche la guerra dei Balcani. Ma andiamo intanto in cerca di questo fatto di cronaca. Nel commento di una lettrice trovo: “L’autrice, prendendo spunto da un reale fatto di cronaca (ritrovamento nel Kent di uno sconosciuto artista privo di parola ma dotato di incredibili doti musicali), ha realizzato un delicatissimo e toccante romanzo …” (qui). A questo punto basta digitate ‘pianista muto Kent’ e voilà, mistero svelato:

Piano Man ritrova la parola Sono tedesco, non so suonare

FABRIZIO RAVELLI LONDRA – Manca solo di sapere se si sia trattato di un caso psichiatrico, di una mezza truffa, o di una beffa mediatica. Ma il segreto è stato svelato, e la misteriosa favola di Piano Man s’ è improvvisamente sgonfiata. Il ragazzo senza nome, trovato allo sbando su una spiaggia del Kent quattro mesi fa, e per quattro mesi muto ma in grado di «riprendere vita» davanti a un pianoforte, abbandonandosi a virtuosismi fino allo svenimento, ora un nome ce l’ ha. Anche se non è stato rivelato, per le ferree leggi inglesi sulla riservatezza. Venerdì scorso, all’improvviso, ha riacquistato la parola per dire di essere tedesco, figlio di un imprenditore, arrivato in Inghilterra da Parigi in treno. Ultima rivelazione, non sa suonare il pianoforte. E’ stato rispedito in Baviera. Insomma, per l’ ennesima volta la realtà ha rovinato una bellissima storia.” (dagli Archivi di Repubblica, 23.08.2005, qui, consigliata la lettura completa).

Quindi cosa avremmo? Un poeta e una scrittrice che, si immagina indipendentemente l’una dall’altro, si ispirano allo stesso fatto di cronaca rivelatosi poi una bufala, cosa che difficilmente potevano non sapere nel momento in cui hanno scritto (o almeno, nel caso di Wagner, pubblicato). Avremmo una poesia (abile) e un romanzo (deboluccio) che in ultima analisi ricamano su una bufala. E quel ch’è peggio su una bufala romantica.

Si dirà: che importanza ha? Non è l’affidabilità del fatto che fa la qualità dell’opera. Fino a un certo punto. Perché una volta saputo come stanno le cose con il non-pianista non-muto, è impossibile che un po’ di impostura, personale e mediatica, non riverberi sulla poesia e sul romanzo e, quanto al romanzo, non lambisca anche lo scampato allo sterminio e la guerra dei Balcani. Anzi – già prima di sapere come stanno le cose. Perché le balle sono balle e hanno il loro alone.

Perciò – e questa sarebbe la moralité – quando si scrive letteratura, soprattutto oggi come oggi e a meno che non si opti decisamente per il fantastico, è opportuno scrivere soltanto di ciò che si sa di primissima mano, rinunciando a accattivanti scorciatoie verso il più vasto mondo, che occhieggiano un po’ dappertutto ma possono poi rivelarsi, e spesso si rivelano, false.

11 pensieri su “Letteratura e falsità

  1. Così, di botto, mi viene da distinguere una letteratura indagatrice della realtà che poi usa delle balle come metafore sbilenche, e una letteratura di invenzione (per dire: la commedia di Dante) che la realtà la radiografa e la superaddobba insieme, con travolgenti effetti di contrasto.

    1. Buona la distinzione. Una domanda: la letteratura d’invenzione (oggi) sarà necessariamente visionaria?

      1. Jakobson io, come credo molti altri, lo ho letto ai tempi in cui ci si formava la comprensione e l’intelligenza. Ma la questione principale riguarda una cultura che disprezzi perchè “fessa in ogni sua parte”, che per me è solo il nuovo linguaggio, come fu ai tempi la scrittura alfabetica e poi la stampa, in cui siamo coinvolti e necessariamente ci esprimiamo. Luciano Floridi e il suo Onlife Manifesto, hai presente? Questione di materialità, così come lo è l’invecchiare, la fame e la sete. Piaccia o no. Ora non accusarmi di lodare il progresso, prego. Solo che il mondo c’è fuori dalla testa, altro che volontà e rappresentazione!

  2. scusate la divagazione…

    Cristiana non uso formulette per annullare a proposito della cultura “digital”.
    Cultura digital so benissimo cosa è: nel 1965 ero a Milano a seguire i primi corsi che si tenevano in Italia sulla cultura digital in una struttura privata….
    insomma quando erano le schede (bucate) elettroniche… e voi dove eravate?
    Ma abbandonai dopo tre mesi ciò che ritenevo priva di fantasia e di immaginazione
    (intendo la “tana vuota”) in questa cultura…
    mi interessava far funzionare il mio cervello con un linguaggio tutto mio, non con quello della cultura digital che è fesso in ogni sua parte e oggi molto più di ieri l’altro…
    in questa epoca dove regna incontrastato il mito della informazione non c’è alcuna informazione; per questo citavo Roman Jakobson – massimo linguista della informazione allo stato iniziale- che già dagli anni ’20 ne prevedeva la degradazione, e non solo lui ovviamente… ma questi “esperti” che Tu invidi almeno lo conoscono?
    Temo di no. a giudicare dalla risposta evanescente.

    Ma mi fermo qui. e non darò risposta alcuna.

    e quanto a Dante (che qui citi) e Mandel’stam vedi il mio ultimo intervento sulla extraterritorialità….
    sono coinvolte: storia, informazione, comunicazione e tanto altro

    grazie

  3. “in questa epoca dove regna incontrastato il mito della informazione non c’è alcuna informazione”: ??? anche come frase ad effetto non ha senso.
    In questo momento sto leggendo 4 libri cartacei, 2 digitali, e una miriade di articoli digitali. Tutti ricchi di informazioni. Che apparentemente sono in grado di comprendere ed elaborare e talvolta anche trasmettere.
    Che poi questo arrivi nelle strade è altro problema.
    Nonostante abbia cominciato nel ’59 a far girare schede perforate all’università non so cosa sia la ‘cultura digital’: ogni epoca ha i suoi strumenti e i suoi supporti. Che siano o meno riproducibili, che siano fatti di dita o cifre non cambia molto.
    Non so cosa sia il mondo esterno di cui parla Fischer: anche lui sembra sia molto meno rigido di quanto sembri (v. relatività e quanti e interpretazione relazionale degli stessi) e molto meno indipendente dalla testa di quanto sembri. E questo vale anche per la memoria lontana (la storia scritta dai vincitori) come per quella vicina.
    Consentiamo al romanzo o alla poesia di vagarvi attraverso senza sapere se attraversano ruscelli reali o solo immaginati. La verità della scrittura credo risieda altrove.

    1. “Mondo esterno”? O mondo fuori dalla singola testa? Anche se ti ammali, quel corpo che sei (non che *hai*) attinge a qualcosa che ti comprende, e che non riduci a logos.

  4. Credo che ci sia venuta un po’ di confusione perché Antonio ha inserito qui un commento che (secondo me) andava sotto il post di Luca (“La proprietà intellettuale è nemica della libertà intellettuale”), dove appunto si discuteva di informatizzazione della cultura e in generale dell’informazione. A proposito dell’informatizzazione – della cosa e del suo lessico – sono talmente ignorante che mi astengo dal commentare, tranne che per esprimere a Luca apprezzamento per lo stile, e accordo con chi dice che l’attuale “rivoluzione informatica” è paragonabile all’invenzione della stampa. Immagino che anche allora ci saranno stati i nostalgici degli amanuensi, e che qualche ragione ce l’avranno pure avuta, poiché ogni cambiamento epocale ha vantaggi e svantaggi. Ma se c’è una cosa sbagliata è tirare indietro; bisogna invece fare i conti con quello che c’è – possibilmente in modo critico.
    Paolo cerca di ricollegare i due filoni: Cristiana, in polemica con Antonio che vorrebbe ricondurre tutto all’interiorità (“mi interessava far funzionare il mio cervello con un linguaggio tutto mio”), parla dell’esistenza di un mondo “fuori dalla testa”, e Paolo rimarca che questo mondo è probabilmente meno “fuori dalla testa” e meno “rigido” di quel che si pensa. E conclude, con riferimento al mio post sopra: “Consentiamo al romanzo o alla poesia di vagarvi attraverso senza sapere se attraversano ruscelli reali o solo immaginati. La verità della scrittura credo risieda altrove.”
    Il mio articoletto voleva essere semi-serio. Semi-, ma in parte anche serio. Senza voler inchiodare la letteratura a un controllo maniacale delle proprie fonti nella realtà (sarebbe assurdo oltre che impraticabile), mi pare che quando la letteratura prende spunto da fatti precisi (in questo caso di cronaca, ma potrebbero essere anche di altro genere) molto vicini, facilmente rintracciabili o addirittura dichiarati (Capriolo), un surplus di cautela sarebbe opportuno. Prima di dar credito a una notizia circonfusa di romanticismo e mistero che si impianta sul luogo comune di genio e follia, e grazie a questo luogo comune ha una notevolissima eco mediatica (ma soprattutto informatica: da social), e farne comunque e in modo riconoscibile il nocciolo di una propria produzione artistica, bisognerebbe pensarci due volte. Perché se poi salta fuori che del binomio genio-follia nel migliore dei casi solo la follia è autentica, mentre del genio non c’è traccia (il tizio non sapeva affatto suonare il piano, né bene né male: si limitava a pigiare sempre lo stesso tasto), è un po’ tutta la tesi, che si presumeva autenticata dalla realtà, che crolla. Con inevitabile effetto di ridicolo soprattutto se non si è, a propria volta, dei geni.
    Mi rendo conto che il mio discorso mischia indebitamente due cose che dovrebbero rimanere separate: realtà e letteratura. Ma separate non sono, e bene commenta Cristiana che parla di realtà indagata e realtà radiografata e “potenziata” – il che apre all’interrogativo se possa esistere oggi, in letteratura, un realismo realista, o per forza di cose soltanto un realismo visionario. Ma questo porterebbe lontano. Tornando al caso presente, le due elaborazioni letterarie della bufala, a me sono sembrate né questo né quello: come indagine, smentite, come visione, troppo legate a un fatto inesistente (oltre che veramente smunte). Non ci metteremo certo alla ricerca di tutti possibili fatti che hanno ispirato gli scrittori per controllarli. Ciò non toglie che i ruscelli attraversati lasciano il segno.

  5. Gentile Paolo di Marco,
    da salentino sono suo alleato contro i nemici dell’ulivo, che si spacciano per curatori…

    “in questa epoca dove regna incontrastato il mito della informazione non c’è alcuna informazione”: ??? anche come frase ad effetto non ha senso…
    la frase non è mia ma è una citazione già della fine degli anni ’20 dei linguisti e filosofi e filologi del Circolo di Praga del ’29… concetto ripreso anni dopo negli anni ’50 dal New Criticism americano, dalla Scuola di Ginevra… e infine anche da Eco agli inizi degli anni ’60. E non vi è alcun “effetto” in quella frase, se mai il contrario.

    “Consentiamo al romanzo o alla poesia di vagarvi attraverso senza sapere se attraversano ruscelli reali o solo immaginati. La verità della scrittura credo risieda altrove”. Come non essere non contrario!
    E allora, se Poesia, dovrebbe leggere i versi dei miei “Capricci” e può interpellare le signore qui intervenute a proposito… se ha del tempo troverà una risposta in quei versi. Se non dovesse averlo, ha perso una occasione.
    grazie
    A. S.

    1. cercherò Capricci..grato di una sua indicazione, se li trovo qui o altrove..
      quanto all’informazione conosco un poco di quel dibattito, ma l’ho sempre trovata una frase perlomeno ambigua, e che in ogni caso non coglieva il punto…che a me sembra di direzione (o distorsione) piuttosto che di mancanza

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