La giornata della memoria


Renzo Vespignani, Reliquie ebraiche, 1975

 IL NOCCIOLO DI QUANTO ABBIAMO DA DIRE

di Donato Salzarulo

Questo è il secondo dei due testi pubblicati nel gennaio 2013 sui blog “La poesia e lo spirito” e “Moltinpoesia”. 

«È avvenuto,
quindi può accadere di nuovo:
questo è il nocciolo
di quanto abbiamo da dire.»

(Primo Levi)

La Shoah è la sintesi di tutte le violenze del Novecento. Spesso è difficile trovare le parole per raccontare l’orrore consumato, il livello di degrado raggiunto dagli esseri umani. Incontrano questa difficoltà, innanzitutto, i testimoni, i sopravvissuti. Diversi, infatti, traumatizzati, sono rimasti in silenzio per anni. Temevano di non essere creduti. C’è chi, invece, era spinto a scrivere, a seppellire i propri manoscritti da qualche parte, sotto i forni crematori, pur di far conoscere a chi stava fuori le tante crudeltà, sofferenze, violenze patite. Come dice il titolo di un bel libro di Pier Vincenzo Mengaldo, «la vendetta è il racconto».

Chi desidera conoscere, può farlo. Le fonti e gli strumenti a disposizione sono molti: dai libri di vario genere (memorialistica, storia, letteratura) ai film, ai disegni, alle immagini fotografiche. Anno dopo anno, la spietatezza delle morti porta via i sopravvissuti. La memoria viva, individuale, quella di chi ha visto con i propri occhi i campi di concentramento e vissuto sulla propria pelle la struttura sadica dei lager, s’inabissa. Il testimone passa. Tocca a noi, ai nostri figli e nipoti organizzare il ricordo, tramandare la memoria dello sterminio, dell’esperienza-limite al quale milioni di esseri umani sono stati costretti. Fare storia con la consapevolezza che Auschwitz può avere i suoi cloni. L’orrore è ripetibile. Diceva Primo Levi: «É avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire.»

Ma perché questa possibilità non si ripeta, occorre non limitarsi a descrivere l’inferno, a presentarne i gironi: la designazione della vittima, la ghettizzazione, la deportazione, l’arrivo al campo, la selezione iniziale, la camera a gas, il forno crematorio, il fumo e la cenere…Dalla descrizione è necessario passare all’interpretazione. Occorre capire il perché e il percome. Le condizioni che hanno reso possibile la barbarie. Le tribù umane non hanno ucciso i loro simili soltanto ad Auschwitz. La storia è piena di orrori. Vampira gigantesca, si nutre del sangue di milioni di persone. Le stragi sono il suo forte, gli omicidi di massa, gli stermini. Più progresso, più male. Vuoi mettere ammazzarsi con frecce, spade, catapulte e distruggersi con un missile a testata nucleare, con una bomba atomica capace di togliere il respiro in un sol colpo a tutto ciò che è vivo in vaste aree terrestri?

I campi di concentramento non sono stati inventati dai tedeschi e allestiti soltanto da loro. Non hanno l’esclusiva. Pare che i primi siano stati creati nel 1896 dagli spagnoli a Cuba. E poi gli inglesi, tra il 1900 e il 1902, durante la seconda guerra contro i Boeri, rinchiusero in recinti simili intere famiglie. Morirono di fame e d’inedia non meno di 26.000 donne e bambini. Certo, i campi di concentramento sono diversi da quelli di sterminio. A Treblinka si passava direttamente dalla piattaforma di arrivo alla camera a gas. Ma c’è qualche tratto comune a tutti? Lager nazisti e gulag stalinisti sono equivalenti? Che cosa ha di specifico, di unico Auschwitz? Il suo essere, allo stesso tempo, campo di concentramento e di sterminio? É importante per noi fare paragoni, cogliere analogie e differenze. Proprio per stare in guardia, per vigilare, riconoscere, denunciare e combattere gli eventuali cloni dell’orrore. In fondo, è questo il compito che ci affidano i sommersi e i salvati di Levi: ricordare per rendere omaggio alle vittime, per “vendicarle” col racconto, per elaborare un lutto ma, soprattutto, per evitare che inferni simili si ripetano.

Ebbene, come è stato possibile Auschwitz? Ad una domanda simile cercò di rispondere Hannah Arendt con un libro pubblicato nel 1963 e diventato giustamente famoso: «La banalità del male». È il reportage del processo ad Adolf Eichmann che, in quanto responsabile della sezione IV-B-4 dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, aveva coordinato e organizzato i trasferimenti degli ebrei nei campi di concentramento e di sterminio. Agli occhi della filosofa, Eichmann appariva un uomo comune, mediocre, superficiale. Le azioni erano state mostruose, ma chi le aveva compiute era una persona normale, banale. Non aveva nulla di mostruoso o demoniaco. Egli sosteneva di aver obbedito agli ordini ricevuti e di essersi mosso sempre all’interno dei limiti previsti dalla legge. Sembrava una persona incapace di pensare autonomamente, di giudicare e valutare i contenuti e gli effetti dei propri atti. Un burocrate del male. Lo sterminio, quindi, appariva perpetrato da uno stuolo di obbedienti burocrati, resi tali dalle circostanze e dalle condizioni di lavoro. Il fenomeno scioccò la filosofa. Il male non nasceva da patologie schizofreniche o paranoiche, da malvagi interessi egoistici e personali, da avidità, bramosia, particolari aggressività, sete di potere. Era tutto più banale. Più legato alla rimozione della facoltà di pensare, di giudicare norme prima di applicarle, di valutarne i contenuti morali.

Quasi certamente, pensando a questi impiegati obbedienti, disposti a parteggiare sempre per il potere costituito e a sottoporsi a ciò che è più forte come norma, Theodor W. Adorno, in una conferenza sull’educazione dopo Auschwitz, trasmessa alla radio dell’Assia il 18 aprile del 1966 (si può leggere in «Parole chiave. Modelli critici», Sugarco, 1974), insiste sul promuovere l’auto-riflessione critica, la conoscenza dei meccanismi anche psicologici (cita ripetutamente Freud) che possono produrre tali comportamenti, la necessità di spingere gli educanti verso l’autodeterminazione, il non fare ciò che fanno gli altri, la capacità di liberarsi positivamente dal contesto, dalla “gabbia d’acciaio” che preme invisibile su ognuno di noi. Questo perché Adorno è convinto che fino a quando persistono le condizioni economiche, sociali, politiche, culturali che produssero le fabbriche dello sterminio, la possibilità che Auschwitz si ripeta c’è tutta. È la stessa civilizzazione a produrre, dal canto suo,  il principio anti-civilizzatore e a  rafforzarlo sempre più.

Proprio su questa ambivalenza, su questa moneta a doppia faccia della civilizzazione moderna indaga uno studioso come Zygmunt Bauman in un libro ormai classico del 1989 «Modernità e Olocausto»  (Il Mulino, 1992).

Il sociologo polacco è d’accordo con Adorno. Il campo di sterminio è una possibilità sempre latente delle nostre società moderne. Nessuno di noi può liquidare Auschwitz come un fenomeno superficiale, un’aberrazione, un errore, un incidente di percorso, un drammatico episodio di follia del popolo tedesco o della sua élite dirigente. Il razzismo biologico, l’antisemitismo sono importanti. C’entrano. Conta pure l’ideologia, l’utopia di una “società pura e perfetta”, di un giardino abitato esclusivamente da ariani purosangue, vigorosi, sani e non affetti da patologie varie: malati di mente, disabili, omosessuali, nomadi…Queste sono gramigne, erbe cattive, che un buon giardiniere deve distruggere, sterminare coi disinfestanti (lo Zyclon B). Tutti fattori indubbiamente importanti.  Ma non bastano a produrre le fabbriche della morte. É necessario il “monopolio legittimo” della violenza diretta, la  sua centralizzazione e istituzionalizzazione nelle mani dell’amministrazione statale. Serve un complesso apparato burocratico e la diffusione di quella forma di razionalità che è stata giustamente definita “strumentale”, applicata secondo i ben noti criteri dell’economicità (rapporto costi/benefici), dell’efficienza e dell’efficacia. Ridurre in cenere milioni di persone fu problema risolto a tappe, con approssimazioni successive, secondo la metodologia del problem solving e avvalendosi del contributo di vari esperti e tecnici (ingegneri, chimici, architetti, avvocati, industriali, ecc.). «Sezione amministrativa ed economica» così si chiamava ufficialmente il reparto incaricato, presso il quartiere generale delle SS, della soppressione degli ebrei europei.

Se Bauman spinge la sociologia a confrontarsi con l’imperativo disciplinare e morale di “spiegare Auschwitz”, un filosofo come Giorgio Agamben è impegnato da anni in una ricerca che mira, tra l’altro, ad una sorta di “ontologia della politica”. L’intento è definirne i concetti-chiave: stato, sovranità, potere e bio-potere, nuda vita, potenza, gloria, ecc. I frutti delle sue riflessioni si possono cogliere in libri come: «Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita» (Einaudi, [1995], 2005), «Mezzi senza fine. Note sulla politica» (Bollati Boringhieri, 1996), «Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone» (Bollati Boringhieri, 1998).

Per Agamben, Auschwitz è il paradigma esemplare, la “matrice nascosta”, il Nómos dello spazio politico in cui ancora viviamo. Che cos’è un campo?,  si domanda in un capitolo di «Mezzi senza fine. Note sulla politica». Invece, di ricavare la definizione dalla quantità di barbarie perpetrata, propone di invertire l’orientamento prevalente e cerca di ricavarla dalla struttura giuridico-politica che l’ha reso possibile. Tale struttura è quella dello «stato di eccezione e della legge marziale» sulla cui decisione si fonda il potere sovrano. Sovrano, infatti, – e qui Agamben segue il teorico del decisionismo Carl Schmitt, – è colui che può dichiarare lo “stato d’eccezione”, decidere la temporanea sospensione del normale ordinamento (che sia diritto civile, penale o carcerario) e mettersi, per così dire, al di “fuori della legge”. É un tale stato che ha consentito la disumanizzazione delle persone, la loro riduzione a nuda vita: corpi, nient’altro che corpi, o “pezzi” come venivano chiamati dai guardiani deportati nei lager. La definizione, a questo punto, proposta è la seguente: «Il campo è lo spazio che si apre quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola.» (pag. 36). Trattandosi di una zona posta fuori dal normale ordinamento giuridico, diventa uno spazio di eccezione in cui «tutto è possibile». Secondo Hannah Arendt è questo il principio del dominio totalitario.

Campo e stato d’eccezione risultano costitutivamente connessi. Il prigioniero, il catturato, l’internato che lo abita è una persona spogliata di ogni statuto politico, è un custodito ridotto a nuda vita. Secondo la terminologia di Agamben è “homo sacer”, una persona, cioè ritenuta responsabile di un “delitto” (nel caso degli ebrei, il solo fatto di essere ebrei…), che non può essere offerta in sacrificio a qualche divinità, uccidibile da chiunque, senza che il suo assassino venga condannato per omicidio. Il “musulmano” è la figura limite che incarna nel campo l’homo sacer. É il prigioniero che ha perso ogni speranza, privo ormai di consapevolezza, “cadavere ambulante” ridotto al solo fascio di funzioni fisiche in agonia. Lo scheletro in piedi, il sommerso. Per Levi è il “testimone integrale”, colui che ha vissuto fino all’ultimo grado il processo di disumanizzazione. Cogliere quella che Agamben chiama “l’essenza” del campo, isolare ed evidenziare la presenza giuridico-politica di una relazione (campo-stato d’eccezione) non significa ovviamente che tutti i campi siano stati uguali. Si rischia così di non tener conto delle ricerche degli storici. É vero che lager nazisti e gulag stalinisti possono essere il risultato di uno stato d’eccezione diventato la regola. Ma ci sono differenze? E, se sì quali? L’unicità, la specificità, l’esperienza-limite dei campi di sterminio nazisti è sostenuta, a ragion veduta, da molti autori, a cominciare da Primo Levi. Questo non significa dimenticare le sofferenze, le violenze, le torture patite nei gulag, né dimenticarne i morti. Da qui il limite della riflessione filosofica di Agamben. Molto utile e stimolante per cogliere l’attualità di certi fenomeni, a rischio di eccessive semplificazioni quando si tratta di entrare nel merito delle differenze storiche.

In conclusione, sono d’accordo con uno storico come Enzo Traverso. Se proprio vogliamo trovare un tratto comune tra i molti orrori e le diverse violenze di quel “secolo armato” che è stato il Novecento, possiamo individuarlo nell’agente principale di queste violenze: lo Stato. Mi permetto, a questo punto, una lunga citazione:

«È questo il legame che unisce vicende così eterogenee come il massacro di Verdun, la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, le camere a gas di Auschwitz, il gulag siberiano, le risaie cambogiane e le epurazioni etniche compiute in Bosnia o nel Kossovo. Studiare queste violenze significa inevitabilmente prendere in esame le aporie di un processo di civilizzazione che le scienze sociali, da Weber a Elias, hanno sempre identificato con la costruzione del monopolio statale dei mezzi di coercizione. In tempi normali, questo monopolio libera la società dalla violenza, ma in tempo di crisi crea le premesse dell’eruzione di una violenza di stato ben più mortifera dei conflitti delle società arcaiche. Le macchine statali che permettono il buon funzionamento delle società fondate sulla regolazione razionale e legale dei conflitti si rivelano spesso perfettamente compatibili con la violenza estrema che cancella le conquiste del processo di civilizzazione.» (Enzo Traverso, «Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento», Feltrinelli, 2012, pag. 140).

Si torna così alle riflessioni di Bauman, al suo mettere in relazione la Shoah con la razionalità strumentale e la dimensione burocratica e industriale della modernità.

Dopo Auschwitz, aveva detto Adorno, nel 1949, scrivere una poesia «è un atto di barbarie». Il filosofo, è noto, in «Dialettica negativa» nel 1966 corresse tale affermazione e la precisò meglio: «Il dolore incessante ha tanto diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare. Perciò forse è falso aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia… È però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un’arte serena.»

Credo che meriti di essere ricordata anche la replica di Primo Levi alla prima affermazione di Adorno: «La mia esperienza è stata opposta. Dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz.»

18 gennaio 2013

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