Riordinadiario 1975

Tabea Nineo, disegno anni ’80

 Stesura del dicembre 2020

di Ennio Abate

Riapro la cartella 1973-1975.  I fogli sono dattiloscritti. Alcuni sono di carta velina. (Allora si usava ancora per ricavare una o più copie di un  documento dattiloscritto, mettendo tra i fogli la carta carbone[i]

 8 settembre 1975

Stavo frequentando i corsi abilitanti per l’insegnamento di Lettere. Rileggo le relazioni dei tre gruppi, in cui ci eravamo divisi: sulla Riforma Gentile (il passato fascista); la crisi del ruolo degli insegnanti (l’esercito dei prof di massa dove mi stavo arruolando); la didattica della ricerca. I primi leggevano il ’68 come una buona occasione per rilanciare la Riforma voluta dal PCI. I secondi erano allarmati dalla deriva della loro pratica quotidiana di insegnanti allo sbando e  si aggrappavano agli esperti. I terzi avevano trovato il salvagente nella pedagogia della ricerca di De Bartolomeis.

Avevo appuntato una citazione da Brecht:

«Il nuovo deve superare l’antico, ma deve comprendere in sé l’antico che ha superato, deve cioè superarlo dialetticamente. Si deve riconoscere che attualmente c’è un nuovo tipo di apprendimento, un apprendimento critico, un tipo di apprendimento rivoluzionario che trasforma ciò che viene appreso».

(Brecht, Scritti sulla letteratura e l’arte, Einaudi, pag. 190)

Stavo leggendo questo suo libro.  Volevo proporre ai miei colleghi corsisti quelle sue parole. (Lo feci?).

E spuntava  il problema io/noi. Pratica sociale. Parlavo di un io che «si mescola agli altri e fa pratica degli altri». (Forse alludendo alla mia esperienza di militante in Avanguardia Operaia). Partivo per la tangente: «ci vorrebbe un’integrazione piena individuo/collettivo». Subito dopo, sconsolato, constatavo:  qui al massimo «uno primeggia col contorno degli altri».

11 ottobre 1975

Ricordi del periodo  in cui vivevo a Salerno (1945-1962). Ricordi sprezzanti e rancorosi: I G. piccoli impiegatucci del cazzo che mio padre mi faceva ossequiare fino al servilismo. O smozzicati: l’odore delle scorze di mandarino abbruciacchiate sulla carbonella accesa del braciere. Ricordo di quando o surde litigava con la moglie e la picchiava, perché lei, impiegata in una autoscuola, lo tradiva. Così dicevano. E del bidone di escrementi che prima dell’alba ogni mattina buttava nel tombino appena costruito davanti allo scantinato in cui abitava con la famiglia: non avevano  il cesso in casa.

5 novembre 1975

In un appunto annotavo con rammarico che «l’arte nel mio caso si è ridotta a fatto privato». Qualche legame con la lettura degli scritti di Brecht. Ma anche con la mia infelice esperienza a Brera, precedente il periodo della militanza in Avanguardia Operia e dell’iscrizione a Lettere indirizzo storico alla Statale di Milano. Notavo una possibile vicinanza  tra la mia condizione di artista frustrato e quella delle compagne che in quel periodo rivendicavano il valore del “privato”.  Accenni  fin troppo  cauti e mascherati al «processo di lotta» che «comporta un ridimensionamento di capacità, attività, emozioni, cose da non buttar via a cuor leggero». E alla «burocratizzazione» (di Avanguardia Operaia, ma senza nominarla). O alla «marginalizzazione» di molti compagni (ma il plurale nascondeva il singolare e si riferiva a me) a cui veniva «resa impossibile di fatto l’espressione, il riconoscimento della loro specificità».

3 dicembre del 1975

Buttavo giù un ritratto (impersonale) della mia famiglia. Ricominciavo a farlo in versi:

Avevamo ben poco.
Un tavolo con cassetto
e dentro quattro sciartapelle[ii]
conservate religiosamente.

Non era ricca quella famiglia,
ma che dico!
Dopoguerra mascherato.

Cimici. Calzini rattoppati.
Impermeabili tre misure in più.
Vivevano al risparmio.

Al mattino zucchero e uovo sbattuto.
Olio di fegato di merluzzo
+ la fetta di mela sbucciata.

E, staccato da questi versi, un grido:

E adesso si sveglia, sobbalza
dichiara a se stesso
nella camera quieta:
Voglio morire.

22 dicembre del 1975
(quindi sempre nel periodo di pausa e non a caso sotto Natale)

Alcune  generiche accuse contro un me stesso «idealista», «troppo arido, superficiale, ingenuo quando parla della realtà del movimento/ e di conseguenza troppo timido, incomprensibile, intellettualistico quando parla delle possibili trasformazioni della realtà». Un autoincitamento a non fermarmi  ai ricordi di «cose viste, sentite, fatte»  e a fare «uno sforzo di fantasia». Lamento per aver vissuto durante tutto il mio periodo salernitano il capitalismo «miticamente attraverso il cattolicesimo», avendo  da giovane ignorato Marx. Dicevo di oscillare tra marxismo e psicanalisi.

24 dicembre del 1975

Un altro appunto in versi. Forse esorcizzavo un pensiero che mi turbava: la somiglianza fra il periodo  in cui era stato un giovane di Azione Cattolica a Salerno e quello di militante di Avanguardia Operaia ora a Cologno Monzese e nell’hinterland. Avevo trasferito quella confusa sensazione a un noi (plurale):

non vogliamo essere gelidi
nuovi preti
che escono al pomeriggio dalle biblioteche
e come serpi
si muovono in neri e miseri sottoscala
tra negozi disadorni
attorno alle brandine degli immigrati
o ai falò delle fabbriche occupate
e non più nelle cripte delle cattedrali

Un elenco  di persone,  cose e luoghi che riguardavano sempre il periodo di vita passato a Salerno. Ad intervalli riflessioni e autoraccomandazioni (battute con inchiostro rosso per distinguerle dall’elenco).
Ci sono i temi che poi svilupperò  ampiamente nel diario dei decenni successivi; e, tra anni ‘80 e ’90, in «Salernitudine» (poeterie e narratorio). O,(dal 2016?), in «A vocazzione» (narratorio). Era una traccia. Nominavo molte delle persone conosciute a Salerno: ricordi che poi si sarebbero ripresentati con particolari aggiunti man mano che mi tornavano alla mente:

Maria Salvato. La signorina (zitella) Prestifilippo, a casa della quale io e Mario Barletta alcune volte eravamo andati a prendere le ostie che lei conservava in deposito per il parroco. Il barbiere di Porta Rotese, ironico e beffardo nei miei confronti quando andavo a tagliarmi i capelli. Il venditore di erbe mediche che metteva una bancarella vicino al liceo Tasso; e noi studenti, uscendo da scuola, ci fermavamo a curiosare. Ah, se potessi ricordare quel che contava ai curiosi che s’avvicinavano! Ricordo solo che una volta gli si avvicinò timidamente un tizio e sussurrando gli chiese un rimedio per un suo problema. No, non ho rimedi per questo. Non so da cosa capii o credetti di capire che aveva un’ernia (a guallera [iii]). O surde (di cui poi ho detto in «Salernitudine»). E la sua famiglia. C. e sua sorella più piccola L. C. si faceva pagare pochi soldi qualche casetta da presepe o dei dadi di carta, che lui sapeva costruire; e anche per la lettura dei fumetti che mi prestava. Alcuni dei dirigenti o giovani attivisti dell’Azione Cattolica non solo della parrocchia ma di Salerno: Rago, Amedeo Postiglione, Iannuzzelli, Gino Rescigno, il nipote del parroco don Enzo Quaglia, Giògiò Bove. E poi alcuni conosciuti ai campeggi: don Enzo Tortora, don Bucciarelli, Riccardo del «Vittorioso» (soprannome: Cuor di leone?). La famiglia F. (di cui parlo prima in «O presepie e Via Sichegaita» e poi in «A Vocazzione»).

Nel 1975 fermai due particolari, che poi  mi sono rimasti di difficile decifrazione e contestualizzazione: «le visite di cortesia scortesia [?]»; « gli scambi di dolci» tra le nostre mamme, l’«assaggio».

Il pittore (Avallone?) a cui m’indirizzò la professoressa di storia dell’arte del liceo per avere da lui suggerimenti, quando cominciai a pensare di passare alla pittura. (Ancora nel 1960 dipingeva nudi neoclassici – scrissi –  «per le autorità del residuo regime fascista che ancora governavano a Salerno», mentre io mi ero ormai  appassionato all’arte di Picasso, di Klee).

Ogni tanto in questi appunti ho segnato anche espressioni dialettali («cumme site latruse») che stento oggi a decifrare.  Per me ‘latruse’ ha il significato di ‘avido’.

Poi nominavo, tra i vari luoghi sui quali volevo scrivere, le chiese di Salerno. Oltre a quelle che avevo più frequentato: di San Domenico, di San Francesco, della Madonna del Carmine e del Duomo, mi ripromettevo di cercare i nomi delle altre visitate più raramente: O Crucifisse, Annunziata, San Pietro su corso Vittorio Emanuele.

Un altro scantinato in Via Sichegaita. Ci abitava la famiglia I. Nel mio fervore di ragazzo dell’Azione Cattolica, che alla domenica mattina andava a raccogliere gli amici delle case vicine per portarli a messa, avevo incocciato questa realtà di poveri. Ho ricordato la voce querula della madre quando mi mostrava l’umido dei muri vicino ai lettini dei due figli. Il padre di S. (e l’altro fratello come si chiamava?) era un uomo magrissimo, forse tisico. Non so se facesse il muratore.

Il Teatro Verdi di Salerno. Una volta al ginnasio il professor Donadio accompagnò la nostra classe per assistere a «Giovinezza», un dramma teatrale di cui non ricordo né l’autore né la trama. In quello stesso teatro, attorno al 1961, prima di andarmene da SA, lavorai una notte intera con F. M. (Framas) a preparare la sceneggiatura per una recita di liceali. Ritagliai con le forbici non so quanti cartoni.  E senza ricevere poi nessun compenso.

La caserma dell’esercito di fronte alla chiesa di S. Domenico. Ci entrai alcune volte grazie all’amicizia coi due fratelli P. Il padre era maggiore (?) e frequentava  la parrocchia  la domenica. Avevano una sorella più piccola. Seppi da Mario Barletta, che a volte andava a giocare a tennis con loro  sul campo all’interno della caserma) che una volta l’avevano legata ad un albero e tenuta lì per ore. Il fratello minore  si era avviato alla carriera militare.  Una domenica era arrivato a messa con la divisa di allievo della Nunziatella.

– Il convento di Montecorvino Rovello, dove partecipai (due volte?) alle “tre giorni” per giovani di A.C.  Una volta era l’anno del lancio del primo Spuntnik (4 ottobre 1957). Eravamo in giro per il paesino ed entrammo in un bar con un televisore che annunciava il fatto.

– Il seminario arcivescovile di SA (Largo Plebiscito) dove passai la mia settimana di “prigioniero della mia vocazione”. Nel 1975 la traccia che svilupperò in “A Vocazione” è la seguente: l’accompagnamento come in prigione. La “protettrice” zia Adelina. L’angoscia. Lo spiare dalla finestra come da una prigione. Le  passeggiate coi seminaristi e la mia vergogna. Le pulci. La diarrea. L’odio per il capocamerata. La fuga di un seminarista.

Questi i luoghi della mia infanzia e adolescenza, la cui storia sociale vado scoprendo adesso…tardissimo.. come storia non mia…

A Salerno l’unico evento politico a cui partecipai (passivamente) da studente fu lo sciopero  per Trieste organizzato dalla Destra. Doveva essere il ‘52-’53? Ero in prima ginnasio. Nel 1975 ricordai che gli studenti più grandi facevano la spola tra il gruppo dei professori, che stava fermo con aria severa davanti al portone secondario del liceo Tasso, e i crocchi di noi studenti incerti se entrare o no. Il terribile professore di fisica Fimiani sorrideva benevolo. Poi ci si diresse in corteo scendendo per Via dei Principati e passammo sotto le finestre della sezione del PCI. C’erano attivisti affacciati che urlavano e venivano fischiati.  Anche a sforzarmi, non ricordo che cosa afferrai di quella manifestazione. Nel 1975 pensavo ai miei studenti del biennio trascinati fuori dalla scuola allo stesso modo per scioperi  di cui non capivano le ragioni. E recuperai qualche altro ricordo che avesse a che fare con la politica, che nel 1975 occupava tanta parte dei miei pensieri e condizionava le mie scelte. Ma erano ricordi di poco conto:

– un volantinaggio a favore della DC in cui ci aveva coinvolto – casualmente e come fosse un gioco – Michele, il figlio più giovane del sindaco Buonocore (qualche anno prima che andassi via da Salerno). Il volantino di propaganda era a favore di Mario Valiante, il marito avvocato che aveva sposato sua sorella e che poi fu deputato in Parlamento dal 1958 fino al 1983;

– un comizio a Porta Rotese del sindaco democristiano Buonocore. Ci aveva portato la signorina D’Agostino. Poca gente. L’inno di Biancofiore.

– il racconto anni prima [?] che ci fece un missionario che era stato in Cina ( di cui nulla ricordo).

– La mia attenzione ansiosa ai fatti d’Ungheria del 1956 seguiti attraverso la radio, le foto di Epoca (e forse gli articoli di Guerriero su Il Mattino).

Intervallati ai ricordi  che registrai nel 1975  ci sono delle riflessioni. Puntavo a capire «quello che ero stato con precisione», ma mi sentivo ostacolato in questa ricerca dai «discorsi del presente». Non sapevo come «giustificare» (a chi?  a chi mi viveva accanto?) quella ricerca sul mio passato. Sentivo la difficolta di «scavare artigianalmente e da solo» e soltanto «durante i ritagli di tempo e le vacanze» (dal lavoro d’insegnante, dalle attività di militante di Avanguardia Operaia, dagli impegni in famiglia). Parlavo (in versi) di un «muro invalicato/ fra privato e pubblico/ che ogni volta va scavalcato/ in un senso e nell’altro». Miravo ad  uscire da una raccolta di «frammenti».

Riconoscevo dolorosamente  che quelle mie esperienze di ragazzo erano state  di subordinazione rispetto ad altri (i preti, il sindaco Buonocore, i padri  militari   o medici o avvocati di alcuni miei amici). E ora le trovavo umilianti: «manovalanza infantile di preti e consociati/eravamo volenterosi, servizievoli/ andavamo a ordinare la brioche fresca per il parroco dopo la messa/ a prendergli le ostie prima della messa (dalla signorina Prestifilippo)/ eravamo spesso in casa ora dell’uno (il parroco?) ora dell’altra (la signorina Dag?) a disposizione/ timidi osservatori delle beghe  familiari/ (della sorella della signorina Dag col marito? della famiglia B.? di quella di R. o pisciottese?  di C.? di I.? di M.? di F.? di I.? di quella della signora Marcella? dei familiari di Zia Adelina?)/ increduli per come le loro immagini pubbliche di adulti (austere, serie, che m’intimidivano) si disfacevano nell’olio- grasso nauseante delle loro famiglie/ [qui alludevo a comportamenti più rilassati, meno controllati, più ambigui, più sensuali, che forse coglievo quando entravamo nella case altrui…]/ così terrestri, beghine/ dolciastre mamme di parroci/ distratte sorelle di parroci/ destinate al convento / rapporti  così poco spirituali/ fra coniugi petulanti/ con codazzo di figli da beneducare/ e zitella maestra elementare / tutto in un guscio [il senso di chiusura, di doversi sviluppare in qualcosa che stringeva]/ morbidi drammi ancora uterini [il femminile  materno meridionale]».

Il linguaggio con cui registravo nel 1975 questi ricordi è impacciato. Svelava ambivalenza rispetto alle autorità. E il renderli più precisi o documentarsi con tanti anni di ritardo sulla storia dei politici democristiani o dei preti, che allora ignoravo, non cancellava il sentimento di umiliazione. Cercavo di trovare in quei ricordi qualche elemento di bellezza o i segni di una resistenza attiva,  un qualche scatto di ribellione o di curiosità da parte mia o dei miei amici, ma non ne trovavo. Anche dal seminario era stata una mia zia a tirarmi fuori. Potevo vantarmi di essere uscito da quella miseria, andandomene a Milano o per aver  scelto la militanza in Avanguardia Operaia al posto dicontinuare quella nell’Azione Cattolica? Ero, insomma, guarito dalla “salernitudine”? Quella mi aveva segnato come una ferita. E io  continuavo a guardarmela e a sentirne ancora il morso,. Anche se ora agivo in mezzo ad altri che non l’avevano la mia (ma forse ne avevano altre).

[Nel riordinare oggi (2020) questi appunti mi accorgo di quanto erano schematici (quasi dei titoli che dicevano qualcosa solo a me). Non ero allora quasi più nelle condizioni di scrivere su queste cose o di sviluppare distesamente un ricordo. Potevo solo registrarne qualcuno in fretta. Per evitare – mi dicevo – di perderlo. E con la paura che non mi si ripresentasse più. Le riflessioni (in rosso) svelano dubbi e incertezza. E anche la pressione indiretta o l’indifferenza di quelli (moglie, figli, amici, compagni, insegnanti) con cui allora vivevo, non certo favorevoli o attenti – ma perché avrebbero dovuto esserlo? – a quella mia esigenza di recupero del senso di quel mio passato salernitano.]

Note

[i] La carta carbone o carta copiativa è stata croce e delizia di innumerevoli segretarie e dattilografe alla Mad Man, impegnate a trascrivere a macchina decine e decine di documenti al giorno. Grazie alla carta carbone riuscivano a ottimizzare il proprio tempo, replicando lo stesso testo in tempo reale fino a cinque, sei volte. Il segreto era scegliere una carta sufficientemente sottile (la famosa carta velina) che permettesse alle lettere battute a macchina di passare sul lo strato inferiore, uno strato dopo l’altro, un sandwich multistrato di carta velina e carta carbone e carta velina e carta carbone e carta velina (e così via).

( da https://www.flexprint.it/da-carta-carbone-a-blocchi-in-carta-chimica)

[ii] In origine lo sciartapelle era colui che scartava e selezionava le vecchie carte, distinguendo quelle consultabili da quelle ormai deteriorate dal tempo e dall’usura. L’etimologia, infatti, risale al latino scapus chartarum, ovvero fascicolo di carte. Con l’avvicendarsi, in seguito, delle lingue neolatine l’espressione è stata trasferita anche al francese e allo spagnolo. Con il passare del tempo, però, oltre a cambiare lingua il termine ha in parte modificato anche il proprio significato, o meglio lo ha esteso in generale non solo alle vecchie cartacce ma a tutti gli oggetti in pessimo stato. Oggi, infatti, sciartapelle indica proprio l’insieme degli oggetti di cui le persone si disfano, perché non più in condizione da poter essere utilizzati.

(da https://www.leggimigratis.it/it/sai-perch-e-eureka/1720-perch-le-cose-inutili-in-napoletano-si-chiamano-sciartapelle)

[iii] La guallera è il sostantivo napoletano che sta ad indicare l’ernia inguino-scrotale giunta nella sua fase più avanzata e grave, quando provoca il rigonfiamento abnorme dello scroto, ossia della sacca che contiene i testicoli, provocando vari fastidi alla persona che ne fosse affetta, in certi casi addirittura invalidante. Il termine guallera spesso viene erroneamente scritto “uallera”, o reso con un “wallera” che fa accapponare la pelle per quanto è orrendo e, consentitemelo, ignorante: la lettera “g” in Napoletano è infatti spesso muta o semimuta, fattore che porta le persone a scrivere con errori di ortografia, tra cui l’utilizzo di lettere – come la “w” – che non appartengono nemmeno al nostro alfabeto.

( da https://www.vesuviolive.it/ultime-notizie/136046-guallera-napoletano-significato/)

2 pensieri su “Riordinadiario 1975

  1. COME TI CAPISCO!

    E che dirTi, caro Ennio, in certe situazioni mi ritrovo coi Tuoi ricordi…
    come di un certo dolore che ti rode dentro è fatto la natura di questi ricordi, come quello di vedere alcuni parenti miserabili in tutto versare gli escrementi dal “cantaro” fatto di terra cotta lucidato nel grande bidone della “caratizza”: chiamato così questo traino tirato da un mulo (in Brindisi) in giro per tutto il quartiere periferico e che sballottando il bidone faceva fuoriuscire materia escrementizia fuori spandendola sull’acciottolato… e siamo alla fine degli anni ’40 e primissimi anni ’50… e le acque feniche ogni sera prima del tramonto per “purificare”..
    POI I LUOGHI DEI RELIGIOSI E QUESTI STESSI sempre di corsa tra un confessionale e un altare… e dietro quinte nere misteriose….
    e poi un parente di mio padre (di Cava dei Tirreni) dal cognome Avallone…
    e tant’altro che ho immesso nel mio racconto picaresco “l’Arrabìco”, …

    TI SALUTO CON AFFETTO DL SALENTO
    ANTONIO

  2. trovo coraggioso entrare in un tempo, chissà se davvero passato, rievocando persone, situazioni, intrecci perversi che hanno portato a “scelte” assurde e dolorose nella vita di bambini e adolescenti…eppure in quel contesto si è fatta anche l’esperienza della tenerezza, che ha reso ancora piu’ amaro il tradimento…è come scendere in una voragine e cercar di districare fili intricatissimi che riaprono ferite antiche…eppure sempre li’ ci siamo formati i nostri valori, soprattutto, nella trasgressione, nelle fughe…Anch’io posso dirti: COME TI CAPISCO! dal mio profondo nord di un’osteria tranese, in una cittadina di provincia fortemente clericale…

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