Dialoghetto tra Samizdat e il Poeta
di Ennio Abate
Non è lontano il momento nel quale si comprenderà che ogni letteratura che si rifiuti di camminare fraternamente a fianco della scienza e della filosofia è una letteratura omicida e suicida.
(Charles Baudelaire, 1852)
Poeta – Hai letto? Vedi, lo diceva pure Baudelaire! Sto matrimonio s’ha da fare!
Samizdat – Non dico di no, ma per ora non c’è. Ed è complicatissimo realizzarlo. Tu la fai troppo facile. Innanzitutto la tua poesia continua a intendersela più con la religione che con la scienza. E poi l’altro sposalizio che sembra entusiasmarti – quello tra religione e scienza – è, sì, già avvenuto ma non è ben riuscito.
Poeta – Già avvenuto? Non riuscito? Ma che dici?
Samizdat – Sì, religione e scienza, dopo secoli di battibecchi e dopo il botto della condanna e abiura di Galileo, erano arrivate – diciamo – a un non dichiarato matrimonio bianco. Almeno questo imparai da Lukács.
Poeta – Guarda questo! Tira ancora fuori dalla tomba la mummia di Lukács e me la rimette in cattedra!
Samizdat – Ascolta mister Parnaso Facile, Lukács non era un pivello né un mangiapreti da strapazzo. E in fatto di rapporti tra religione e scienza vide giusto.
Poeta – E cosa disse di così interessante il tuo Lukács? Sentiamo…
Samizdat – Primo: teneva in debito conto la religiosità, che è cosa preesistente ad ogni religione istituzionale. Secondo: spiegava quel sentimento religioso con ragioni ben terrestri. Gli uomini secondo lui, immersi nella vita quotidiana, sono alle prese con «un mondo che non è né sensato né insensato ma indifferente rispetto al senso»; e, per sopportarne il peso, sono spinti a immaginare un mondo sensato, ordinato, finalizzato, armonioso. Quello, appunto, che le religioni istituzionali attribuiscono all’opera di Dio e che – poco o tanto – li rassicura.
Poeta – E allora, se è così rassicurante, che ci sarebbe di male in questo immaginare umano?
Samizdat – Che non trova conferma in quasi tutto quello che la scienza man mano ha svelato. (O, meglio, costruito, ma per ora non affrontiamo questa distinzione). Per gli scienziati la realtà non è – ripeto – né sensata né insensata, né armoniosa o rassicurante. Da qui l’attrito –semplifico – tra altare e laboratorio. (E teniamo fuori per adesso il trono!).
Poeta – Non capisco però perché il sapere della scienza dovrebbe essere superiore a quello della religione o di quello costruito dalla nostra immaginazione?
Samizdat – Non è questione di migliore o peggiore, di superiore o inferiore. Il problema è che i due saperi – religioso e scientifico – hanno fondamenti diversi. E portano a conclusioni e pratiche diverse. Sono – questo il mio parere – abbastanza inconciliabili, specie se studiati sul serio e senza annacquarli.
Poeta – Spiegati meglio…
Samizdat – La religione indubbiamente dà un senso alla vita, offre rimedi o consolazioni nei momenti di sofferenze che inevitabili ci capitano, placa negli individui l’angoscia di fronte alla morte. E poi sembra guardare più lontano, afferrare il Tutto. E però ricorre a una Verità o divinità ordinatrice e provvidenziale indimostrata razionalmente. Ci puoi credere e basta.
Poeta – E la scienza?
Samizdat – Quella si arresta obbligatoriamente (se no, scienza non sarebbe…) a una conoscenza, appunto, razionale. Sembra quasi volontaria miopia. Esclude la possibilità di pronunciarsi sull’“altro” (l’ignoto, il mistero, l’Origine, ecc.). E sul Tutto tace. O affaccia solo delle ipotesi. Sta insomma addosso alla “realtà” che, tra l’altro, le appare in movimento continuo e mai completamente rappresentabile. E a questa “realtà” non ti chiede di credere, te la fa “vedere”, te la dimostra cioè razionalmente. Conclusione mia: non è facile e immediato passare da un sapere all’altro. Come non è facile passare dal polo Nord all’Equatore. Figuriamoci poi arrivare ad integrarli questi saperi o a celebrare il loro sposalizio che tanto ti attira.
Poeta – Uffà, la realtà, la realtà! Quelli come te ci vogliono rendere schiavi della realtà. Non sanno essere liberi! Non li vedi i tuoi scienziati? Ti sembrano loro i paladini della libertà? Non hanno accettato di fare della scienza un instrumentum regni proprio com’è accaduto alla religione.
Samizdat – Toh, cominci a parlare quasi come Lukács!
Poeta- E dalli!
Samizdat – Eh, sì, perché Lukács mise in luce proprio l’ambigua connivenza tra religione e scienza maturata dopo quello scontro frontale pagato assai caro da Galileo (e dalla scienza).
Poeta – E cioè?
Samizdat – Fu da allora – scrisse Lukács – che teologi e religiosi ebbero l’esclusiva sull’amministrazione del sacro e dell’”aldilà” (la «realtà in sé») mentre gli scienziati si accontentarono d’occuparsi soltanto delle “cose terrene”.
Poeta – Spiegati meglio anche su questo…
Samizdat – Si realizzò un compromesso che non solo depotenziò la scienza ma la vincolò strettamente – e qui entra in gioco il Trono! – ad interessi politici, che di scientifico avevano ed hanno ben poco.
Poeta – Allora ho ragione a denunciare gli intrighi col Trono anche degli scienziati!
Samizdat – Forse sì, ma devi ammettere che il danno è venuto proprio dal “matrimonio in bianco” (e d’interesse) con la religione. Una fetta di potere a te, un’altra a me, senza pestarci i calli a vicenda. Accordiamoci tra potenti con un bel divide et impera.
Poeta – Mi fai venire in mente Manzoni, coro dell’Adelchi: «Il forte si mesce col vinto nemico,/ Col novo signore rimane l’antico;/ L’un popolo e l’altro sul collo vi sta./ Dividono i servi, dividon gli armenti/ Si posano insieme sui campi cruenti/ D’un volgo disperso che nome non ha».
Samizdat – Eh, sì! Religione e scienze, in concorde discordia ci guidano. E dovrei aggiungere sotto l’occhio ancora più interessato e gongolante di Das Kapital. Dove? E chi lo sa!
Poeta – Che complicazioni! È per questo che per la mia libertà io punto tutto sulla Poesia. E vadano a quel paese scienza e religione!
Samizdat – Sempre facilone! La Poesia, a cui apri fiducioso le tue braccia, non è la puella che immagini. È stata pur essa implicata in quell’ambiguo matrimonio in bianco!
Poeta – La Poesia ancilla allora?
Samizdat – Fa’ attenzione e vedrai che la poesia è stata “religiosizzata” a lungo e poi s’è anche un po’ (ma solo un po’) “scientificizzata”. E appena spira un qualsiasi venticello di libertà, arrivano i predicozzi. Da una parte i poeti-sacerdoti della Parola (Ermetica, Innamorata, Orfica, Minimalista, Surrealista). Dall’altra quella dei loro concorrenti: i poeti-scienziati con le loro analisi strutturalizzanti.
Poeta – Porca miseria, ma io devo finire sempre in mezzo alle guerre? O di religione o di scienza?
Samizdat – Eh, sì, purtroppo te li devi sorbire ‘sti duelli spossanti tra fratelli Amorevoli e Fratellastri realisti! E tutti i dì assisterai anche ad autodafé spontanei, cambi di casacche, sposalizi, sì, ma osceni.
Poeta – Mi consola che almeno non siamo più ai tempi della Inquisizione, quella vera che bruciava le streghe, squartava gli eretici, torturava o eliminava i dissidenti. Un po’ più civili lo siamo, dai!
Samizdat – Eh, sì, siamo quasi liberi! Anzi liberissimi, transgender e di continuo rivoluzionari! Ma non vedi i polpettoni religio-scientifico-poetizzanti che ti fanno ingurgitare? Tizio alla TV incita a elegiache fughe nel Passato. Caio sui giornali teorizza muscolari Futurismi. Sono mode, caro mio! E debitamente nel recinto del Mercato di Das Kapital.
Poeta – Che mal di testa! Basta! Non ti voglio più ascoltare! E la colpa è proprio di questa tua maledetta realtà! Cambia sempre, cambia troppo, non sta mai ferma, non dà un attimo di respiro. E alla fine dei conti è sempre la stessa: insensata, malefica, mostruosa, terrorizzante. Basta, voglio essere soltanto Poeta! Me ne vado a caccia dei miei Desideri: Pace, Bellezza, Amore. Non mi faccio più rompere l’anima dalla tua maledetta realtà!
Samizdat – Ricordati però che, alla faccia dei tuoi desideri, la natura incontrollata ancora uccide. E poi aggiungici gli scontri tra gli uomini, le guerre, gli inquinamenti. Milioni di uomini, donne e bambini – intere porzioni di società – vengono divorati da Miss Natura e Mister Das Kapital. Vai pure a caccia di Chimere! Inseguili i tuoi desideri – fetali, romantici o futuristici che siano – mentre altri crepano o tentano di fronteggiare questo caos. Buon per te se non sarai travolto subito.
Poeta – Ecco il gufo!
Samizdat – Ma va là! Se punti tutto sui tuoi desideri infantili di durare, godere, vincere, sarà barbarie e stop. Solo una scienza sana, una religiosità sana, una poesia sana, capaci tutte di interrogasi sui loro stessi limiti, potrebbero abbozzare un progetto che tenga conto dei processi reali e selezioni e coltivi certi desideri. Magari a lampi, a frammenti. Tu vuoi un Mondo armonioso e ordinato che non è mai esistito? Bene, la tua poesia vivrà all’ombra di élites incontrollate, capaci solo di preparare nuove guerre e, chissà, buttarci addosso qualche bombetta atomica, mentre qualche poeta simpaticamente continuerà a cantare «E lasciatemi divertire…».
Poeta – Che bella lezioncina che mi hai fatto!
Samizdat- Tienila a mente quando abbraccerai di seguito Pace Bellezza e Amore! Qualche volta i nostri antenati si sono avvicinati a un azzurro meno di cartapesta, a una materia meno “materialistica”, a una psiche meno anima bella e pura, a una poesia che non decorava di fiorellini le nostre catene. Eppure erano uomini cresciuti e ribellatisi nella religione. O in mezzo alla ricchezza delle nazioni. O nella scienza dura e positivistica. O nella poesia che contemplava amoretti, misterini, ombelichi. Ma seppero scuotersi da quei torpori (religiosi, borghesi, scientisti, poetici). Pensaci anche tu e datti una mossa!
Dico che ho letto con piacere questo intervento di Ennio , peraltro il primo del nuovo anno, per cui auguro a lui e a noi tutti giorni e mesi molto e molto lontani dalle subdole esposizioni di quest’anno ( e non solo) all’insegna di (bufale sulle) nutrizioni per il pianeta e per la vita…l’esposizione a cui richiama la nuova puntata con Samizdat è un’altra ben diversa e mi piace leggerla connessa con le precedenti ma anche con quella che ha chiuso il dibattito del 2014 sulla “realtà”,letta a vista e scientificamente nella proposta di lettura a cura di Ennio del nuovo saggio del prof La Grassa. Mi è piaciuto immaginare, insomma, che il commento di Lucio sia stato da musa a questa nuova operetta morale, pardon est-etica, di Abate/Samzdat memoria. La “necessità” della sua lezione e autoironicamente lezioncina, dovrebbe ormai essere sempre meno “scomoda” non solo alle/ai poete/i , ma per primo a qualunque essere pensante, se tale vuole essere chi pensa di appartenere alla razza umana. Dopodiché s’aggraverebbe tale densità pensante, se addirittura costui o costei volesse dire o dirsi “poeta”, provetto o allievo o dilettante che sia. Vorrebbe raccontarla, in versi o in prosa? E come potrebbe se vuole leggerla a suo piacimento, consolazione, autosublimazione e chi più ne ha ne metta?
Abbiamo visto nel nostro piccolo microcosmo di letture e dibattiti, quanto e come succeda sempre la stessa dinamica, che si parli di società e sacro, o di società e scienza, o di una poesia o della terra santa:
-1 alcuni prendono la parola , sempre gli stessi ( poeti e non)
1.1 fra questi alcuni fermi nelle loro confusioni , date da decenni di imbuti a pensiero unico mediatico, compreso quello di falsi movimenti di dissenso o alternativi, le ripropongono ogni volta; altri invece cercano di smuoversi in uno spirito critico; altri
-1,2 alcuni si fanno vive/i solo quando c’è da ammirare la bellezza di un verso o di un autore, eludono sistematicamente qualsiasi discorso prepoetico concentrandosi solo sui propri scritti e al massimo su quelli dei poeti a loro piu cari
-1.3 alcuni prendono carta e penna o tastiera, solo per sparare addosso a questo o quel verso, o intervento
– 2 altri, forse i piu, stanno regolarmente in silenzio..
Se occorre intensificare un’attività poetica per il salto verso la mitizzata bellezza, che è e rimarrà quella di dire a se stessi e dire ad altri, anche in versi, anche ambigui, anche estetici, pane al pane e vino al vino, occorre partorirsi con consapevolezze “politiche” assolutamente necessarie, visto che il punto della storia, compresa quella di signorina poesia, è a un punto piu che tragico, che ognuno qui e altrove comunque lamenta. Consapevolezze a prova di bomba anche per il minimo rispetto alla etimologia stessa della parola “poesia”
Mi piace ricordare ogni tanto Gianmario, che per certe consapevolezze “politiche” non era ancora giunto a un certo grado di disvelamento della realtà, non dico completo (perché nessuno mai potrà raggiungere l’essenza del mistero della vita, quanto dei mostri che la dominano), tuttavia partire dal suo impegno concreto di cosa significhi “fare poesia”, può riguardare dal più allergico alla parola “impegno” al più vicino a tale cantate, o canti e disincanti, quindi tesi non tanto alla verità ( religiosa e/ o scientifica) , ma alla sua continua e incessante ricerca rivoluzionaria. Poesia non è un genere letterario
http://www.poiein.it/autori/2006/2006_02/19_LuciniPoesiaEVerita.htm
Mi permetto di segnalare il libro “Letteratura e Scienza” (I Dispari, Milano 1995).
Sono gli “Atti” del convegno omonimo tenutosi a Milano nel 1993.
L.S.
Scienze naturali
Chimicamente
reagì al suo amore
accarezzava al tatto piangeva
annusava e gli occhi chiudeva
dentro il buio lampi di luce
accecavano il sole
al dolce sapore
s’irrigidì la lingua
Fu l’esplosione
che rovinò l’inizio
e forse anche la fine
Il mondo
non se ne accorse.
Emy
Caro Ennio,
ho letto con grande piacere e interesse il tuo dialogo tra scienza e poesia. Tratti un tema da me molto sentito e che, per alcuni versi, è prossimo al tema da me trattato nel racconto “Innovazioni”.[1]
Nella forma, mi pare la prosecuzione di un “dialogo sui massimi sistemi del mondo”. Seguendo questo filone ho avuto peraltro parecchi dubbi su chi affibbiare il personaggio di Simplicio e quelli di Salviati e di Sagredo, perché qui e là mi pare che i tuoi “poeta” e “samizdat” li incarnino alternativamente. Forse il poeta è più prossimo a Simplicio mentre Samizdat raggruppa gli altri due.
Il “racconto”, come quelli che io prediligo, non si limita a raccontare ma affronta un tema e chiama a una riflessione. In un certo senso propone anche una via d’uscita.
Il dialogo, presenta un personaggio, e cioè il poeta, che a volte può apparire come difensore della religione mentre altre volte si esprime quale rappresentante e fautore di libertà di pensiero, della bellezza e del desiderio. Ed ecco allora il fermo richiamo di Samizdat che, di fronte ad una natura nemica, avverte che non ci si può limitare a quello ma occorre agire concretamente; “Solo una scienza sana, una religiosità sana, una poesia sana, capaci tutte di interrogasi sui loro stessi limiti, potrebbero abbozzare un progetto che tenga conto dei processi reali e selezioni e coltivi certi desideri” (mi ricorda quello che dicevi nel tuo testo sulle “Disobbedienze” di Fortini (“non bisogna tagliare il nesso tra scelte politiche ed esigenza quotidiana)
Giusto richiamo a considerare scienza, religiosità e poesia, come espressioni dell’animo umano accettabili tutte se non divengono preda di élites e totalizzanti.
Come ho detto sopra il dialogo pone un tema di grande interesse: la poesia da sola non basta, né è sufficiente la religiosità, quando dà per accertate manifestazioni e credenze non razionali, né lo è la scienza quando procede implacabile verso “Dove? Chi lo sa!”
Se me lo consenti ho un unico possibile rilievo e riguarda il fatto che tu inquadri e sviluppi il tema in modo eccessivo all’interno di una ben precisa area politico-filosofica. A me pare che così facendo, tu corra il rischio di limitare la portata del tema che affronti che invece ha natura e valenza generale. Io penso che se presenti un testo politico o filosofico, un esplicito riferimento alle fonti e alle discussioni nell’ambito del campo filosofico che vuoi rappresentare, sia senz’altro corretto ma, quando scrivi un racconto, l’idea che contiene è già di per sé indicativa di un certo tipo di pensiero senza necessità di esplicitarlo. Non so se mi sono spiegato, e in ogni caso, consideralo un’impressione fatta da un buon lettore.
A margine del racconto, considerando ciò che in esso sostieni, c’è più di un punto che non so risolvere. Si tratta della saggezza e dell’equilibrio che tu auspichi. La poesia, è vero, non è sufficiente. Scrive Italo Calvino che, nell’inferno in cui viviamo, occorre “ricercare ciò che inferno non è…”; frase bellissima ma che vale però per il singolo, non per una comunità; La religione è, per sua natura, totalizzante: o credi o non credi, ma non soddisfa la ragione. La scienza, come dici tu stesso, è un processo in continua evoluzione che, nel bene o nel male, ci porta “dove non si sa”. Il fatto è che su quel processo siamo incardinati e se lo ostacoliamo e lo fermiamo, entriamo in una palude che la storia ha già vissuto più volte.
Questo è il problema che, facendo seguito al tuo racconto, non so risolvere ed allora, io lo pongo a te.
Con grande stima
Giorgio Siena
* Nota di E.A.
Racconto di Siena che sarà presto qui pubblicato
“[…] anche Dante cercava attraverso l’opera
letteraria di costruire un’immagine dell’universo.
Questo è una vocazione profonda della letteratura
italiana che passa da Dante a Galileo: l’opera
letteraria come mappa del mondo e dello scibile, lo
scrivere mosso da una spinta conoscitiva che è ora
teologica ora speculativa ora stregonesca ora
enciclopedica ora di filosofia naturale ora di
osservazione trasfigurante e visionaria […]”.
I. Calvino, Due interviste su scienza e letteratura, in
Una pietra sopra, Mondadori 1968
Proseguo a modo tuo, se permetti, il dialogo tra il poeta – operaio (operaius =lavoro a giornata) e Samizdat l’editore, seppur alternativo (in proprio).
Poeta – M’interesso alla religione perché voglio riprendermi tutte le parole sottratte all’umanità a causa della spartizione tra sacro e profano: devozione, estasi, trascendenza, e anche la parola stessa, religiosità, “che è preesistente a ogni religione istituzionale”. Le parole sono compito nostro, se permetti, o vorresti accontentarti delle brutture create dalla filosofia e dalla scienza?
E poi la realtà è a disposizione di tutti, da sempre. A disposizione perché manifesta, e insegna agli scienziati quanto ai filosofi e ai poeti. Non è un attributo filosofico, è ciò che concilia le scienze tra di loro, nel comune interesse. Mostra, diciamo noi poeti, dimostra, dicono gli scienziati.
Caro Samizdat, però anche tu ti dovresti aggiornare: se non ti basta l’estetica per valutare una poesia, non dovresti collaborare con sociologia e e psicanalisi? ce ne vogliono di scienze per poter sezionare un verso di poesia, e senza ammazzarlo!
E poi ancora, io non ricordo un solo poeta che abbia scritto solo di Pace Bellezza e Amore. I poeti hanno sempre tenuto conto del dolore, se non di tutti almeno del proprio. Non è la realtà che ci manca di conoscere, è la felicità. Bisogna pur tendere da qualche parte se si vuol progredire.
… mettiamo proseguire, va, al posto di progredire. Sul finale.
Direi che il dialogo fissa la ‘concorde discordia’ tra religione e scienza da un punto di vista razionalista, o positivista: conoscenza certa (perché sperimentale e intersoggettiva) per la scienza, che si disinteressa del senso e lo lascia gestire alla religione; gestione secondo interesse e potere da parte della religione, poco interessata all’approccio scientifico alla realtà. (Ma che cos’è la realtà se non un punto di arrivo sempre provvisorio di un processo di costruzione di un ordine possibile del mondo? Ma questo aprirebbe un altro discorso).
Sarà ancora in parte così, e ancor più è stato così a volte e in certi casi.
Ma io preferisco seguire una possibile confluenza, tra ricerca del Senso e del sapere, cioè c’è chi si pone su quel percorso, e mi sembra potrebbe far parte di quei movimenti tettonici profondi di cui scrive Spadoni riportando La Grassa.
Intendiamoci: ‘una possibile confluenza’ non vuol dire volo libero di menti eccelse diversamente abili, vuol dire che, per me, in campo religioso come in campo scientifico ci sono anche autentici “ricercatori” non solo di laboratorio.
Altro discorso per la poesia, e qui concordo con Abate: ci sono stati poeti “uomini cresciuti e ribellatisi nella religione. O in mezzo alla ricchezza delle nazioni. O nella scienza dura e positivistica. O nella poesia che contemplava amoretti, misterini, ombelichi. Ma seppero scuotersi da quei torpori (religiosi, borghesi, scientisti, poetici).”
Personalmente credo che occorra -per ragioni politiche etiche e filosofiche, orientarsi in quel senso.
@ ro
Sì, c’è una connessione tra il dialoghetto del Poeta con Samizdat e la presentazione di«Navigazione a vista» di La Grassa. E c’entra la scienza: il cui linguaggio è rigorosamente presente nella presentazione di Spadoni mentre nel dialoghetto è in compagnia (si spera dinamica) con quelli più colloquiali dei due personaggi.
Eppure i commenti al post dedicato al libro di La Grassa sono scarsi (per ora?).
Perché?
Un’amica in privato mi ha fatto presente che l’articolo è troppo lungo e che non siamo più ai tempi dei Quaderni Piacentini, che sfornavano saggi ponderosi.
Che rispondere?
Un po’ è vero. E non vorrei fare il difensore d’ufficio di scritti lunghi e complessi, ma bisogna pur ricordare che oggi ci stiamo tutti troppo facilmente abituando alla comunicazione breve, frettolosa e quasi sempre superficiale e narcisistica (FB, Twitter).
Sì, la presentazione di «Navigazione a vista» appare, e forse è di ardua lettura, ma sarebbe da capire che con un gigante del pensiero come Marx non ce la possiamo cavare in poche righe; e che il merito di La Grassa è tra i pochissimi ancora in grado di misurarsi con quel pensatore.
Andrebbe persino bene sbocconcellare articoli come questo di Spadoni e ragionare su qualche frase o stralcio.
A me viene in mente la storiella del bimbo che Sant’Agostino vide su una spiaggia e che con una conchiglia attingeva dal mare un po’ d’acqua e la trasportava in una piccola buca scavata nella sabbia con l’intento di svuotare il mare e mettercelo dentro.
Che determinazione, no?
Ma, oltre alla lunghezza e complessità di certi testi, va tenuto presente che abbiamo proprio perso di vista i problemi di Marx e in genere non ne vogliamo più sentire parlare. Né in testi brevi né in testi lunghi.
Questa pure è dura realtà…
La ragione per cui il nostro ego senziente, intelligente e pensante è introvabile all’interno della nostra rappresentazione scientifica del mondo è spiegabile facilmente con otto parole: perché è esso stesso quella rappresentazione del mondo. Il mondo mi è dato in una sola volta, non ve n’è uno esistente e l’altro percepito. Il soggetto e l’oggetto sono una sola cosa. Non si può dire che la barriera tra di loro sia crollata quale risultato delle recenti esperienze, per il semplice fatto che questa barriera non esiste. Il mondo è dato in una sola volta. Nulla è riflesso. L’immagine riflessa e quella originale sono identiche. Il mondo esteso nello spazio-tempo è solo la nostra rappresentazione.
Erwin Schrodinger
@ Mayoor
Mi piace tanto il tuo pensiero. Rappresentare è a volte facile il difficile è capire perché lo facciamo , perché siamo diversi e così importante conoscerci. La scienza sta nel mezzo e forse non andrà oltre. Forse?
La tragica rappresentazione è tutta nostra, purtroppo. E ne paghiamo il prezzo.
…ho letto entrambi gli ultimi due post, che certo mi hanno ispirato molte riflessioni, difficili per me da saldare tra loro…Immagino la mente umana come una stella con tanti raggi, le nostre manifeste esigenze: scienza, religiosità, poesia ( la prima fa capo alla ragione, le ultime potrebbero rientrare nella sfera del sentimento o dell’immaginazione)…La” realtà” che ne esce potrebbe davvero essere una nostra tragica rappresentazione…Ma se il mondo che ci appare e che viviamo è tanto brutto, e qui sembriamo essere d’accordo, e il potere di incidere è sempre più nelle mani di gruppi dominanti criminali che stritolano le menti umane sino alla miseria, alla distruzione o alla pazzia, io mi chiedo questo avviene per un eccesso di scienza- tecnologia al servizio del “Regno”? o per un eccesso di immaginazione accomodante, dispersiva? O perché se matrimonio c’è stato è solo tra queste due espressioni? La propaganda mediatica del capitale ha fatto il miracolo? E vissero felici e contenti come in una fiaba? Chiaro che niente più è chiaro e che la luce di quella stella si è offuscata davanti alle luci artificiose e psichedeliche del nostro odierno mondo…
@ Siena
Sì, credo che il Poeta e Samizdat rappresentino abbastanza bene la scissione o il conflitto ( non si sa più quanto dialettico e quanto risolvibile) tra teoria e politica (vi ho accennato ora qui: https://www.poliscritture.it/2014/12/30/segnalazione-navigazione-a-vista-di-g-la-grassa/#comment-12784) o, in una dimensione più antropologica tra desiderio ( o passione) e ragione. (O, visto il degrado culturale d’oggi, tra pose desideranti e pose ragionanti).
Non so se sia proprio giusto considerare scienza, religiosità e poesia «espressioni dell’animo umano». Preferirei parlare di saperi o pratiche socio-storiche sicuramente interdipendenti ma, come sostenuto nel dialoghetto, non facili da armonizzare o integrare o addirittura unificare (in una sorta di erotico sposalizio!). Diffido delle soluzioni più o meno annacquate alla New age. Una certa opposizione tra loro la vedo. Come vedo i rischi di una pretesa egemonica dell’uno o dell’altro di questi saperi. ( Soprattutto di scienza e religione. La Poesia la vedo fuori gioco in questa lotta “di potere”).
Non ho invece capito perché avrei trattato il tema in questione « all’interno di una ben precisa area politico-filosofica». Penso ti riferisca forse a quella marxista. Eppure, come vedi dal post dedicato a «Navigazione a vista» stiamo qui a fare i conti con i cocci o le rovine di quel pensiero.
Infine anche a me pare estremamente problematico trovare un saggio equilibrio tra le spinte che ci vengono da questi tre saperi storicamente separatisi. Come te vedo le spinte totalizzanti delle religioni, l’insufficienza “pragmatica” e il ripiegamento narcisistico e difensivo della poesia e le tentazioni futuristiche e nichilistiche della scienza. Ma possiamo, come sembri dire tu, aver fiducia nel «processo» in cui «siamo incardinati» (che è poi quello di un capitalismo – o di vari capitalismi a dar ragione a La Grassa – che non ha più trovato ostacoli alla sua pretesa “globalizzante”)?
Ci dobbiamo rassegnare ad esso solo per il timore di rientrare « in una palude [che sarebbe da specificare…] che la storia ha già vissuto più volte»? E se fosse proprio questo processo ad avviarci verso una Grande Palude?
Personalmente sarei ben d’accordo sull’esigenza di un sano equilibrio tra poesia, religiosità e scienza, ma sta di fatto che (parlo semplificando al massimo), la poesia ha in sé i limiti di quel rapporto con la realtà di cui anche tu parli, la religione è chiusa in se stessa, mentre la scienza è un processo aperto e secondo me difficilmente arrestabile. Penso però che ad un certo punto, poesia e religiosità si faranno sentire nei confronti di particolari fughe in avanti. E non dimenticherei la politica con i suoi moti e le sue esigenze di equilibrio sociale ed economico. In sostanza penso che se si volesse fermare il pensiero scientifico e la ricerca in generale, ci si potrebbe presto trovare in una palude autoritaria ed autoreferenziale. (vedi la civiltà egizia, dominata dai sacerdoti, ferma per migliaia di anni; Il pensiero occidentale moderno, bloccato per più di mille anni da un cristianesimo emergente e repressivo. E, nella storia, ci sarebbero parecchi altri esempi). No, sono convinto che il processo nel quale siamo incardinati difficilmente potrà essere fermato, ma sono altrettanto convinto che creerà al suo interno (Su molti punti Marx è assolutamente attuale), i presupposti per il superamento che poi sarebbe la distribuzione a tutti dei benefici ottenuti. Che ciò avvenga pacificamente o a seguito di lotte e guerre, è difficile da preventivare.
Concludo dicendo che hai ben ragione quando dici che il processo in cui oggi siamo incardinati sembra rispondere ad un certo tipo di capitalismo globalizzante, ma è da lì che poi nascono gli anticorpi. Almeno credo e spero. (Ma qui ci sarebbero altre considerazioni da fare, magari in altre occasioni)
@ Mayoor (3 gennaio 2015 alle 10:58 )
Nel tuo dialogo non condivido la difesa unilaterale della poesia/religione contro scienza e filosofia. Cosa non va ( per me)? Per punti:
1. La sotterranea rassegnazione su cui pare poggiare il tuo atteggiamento. Se, infatti, ci hanno strappato il mondo, le cose, le possibilità di costruire altri tipi di rapporti tra gli uomini, riuscissimo pure a riprenderci «tutte le parole sottratte all’umanità a causa della spartizione tra sacro e profano», a meno che questa ripresa di tutte le parole non sia allo stesso tempo ripresa anche del mondo e delle cose (ma tu non lo dici e sembri accettare la scissione tra parole e cose, tra linguaggio e realtà), finiremmo per accontentarci solo di una riconquista di “gusci”, di simboli, di rappresentazioni. Sembri aggrapparti al D’Annunzio, che da bravo esteta vedeva il Tutto soltanto nella Parola (e nella parola poetica: il Verso).
E poi, scrivendo: «le parole sono compito nostro» (dei poeti, mi pare tu intenda), non finisci ancora una volta per sostenere un uso quasi “corporativo” («nostro») del linguaggio, staccando e contrapponendo quello poetico a quello “comune” e a quello degli altri saperi (in particolare scientifico e filosofico, che prendi a bersaglio)? Mi pare proprio di sì. E infatti segue l’affermazione che le «brutture» (del mondo?) siano state «create dalla filosofia e dalla scienza». Perché solo da questi due saperi, verrebbe da chiedere. E aggiungo cadi – ancora una volta – nel facile errore dei “cacciatori dell’autentico” di prendersela coi “termometri” ( in questo caso: filosofia e scienza).
2. L’affermazione che «la realtà è a disposizione di tutti, da sempre». Scherziamo? O sono io a non capire? Lo stesso conflitto tra i tre saperi (poesia, religione, scienza) di cui stiamo discutendo è dovuto proprio al fatto che *dicono diversamente* la realtà o ci *parlano di realtà diverse e in contrasto tra loro*. Perché da tempo è saltata una visione universale e condivisa (o condivisibile) da tutti.
3. La convinzione che «basta l’estetica per valutare una poesia. L’estetica stabilisce al massimo se la poesia sia bella o brutta nella sua veste linguistica con criteri più o meno oggettivi (e quindi scientifici) o con criteri soggettivi (e quindi di difficile condivisione). Essa a me pare lasci fuori un bel po’ di “roba”. Eppure tutti intuiamo che il “pozzo”, in cui cercano di guardare e poesia e religione e scienza, è insondato o (per la religione insondabile). E di ciò siamo insoddisfatti. Far tuo il pregiudizio diffuso tra molti poeti che la critica (sociologica, psicanalitica, letteraria, ecc.) “ammazzi” la poesia perché “sezionerebbe” il verso è squalificare certi saperi (filosofici e scientifici nel tuo caso). A vantaggio della poesia? Non credo proprio. Direi a vantaggio di un poetare più confuso e approssimativo, di cui abbiamo esempi in abbondanza. Il buon critico – sarà anche raro trovarlo ma non per questo bisogna rinunciare alla critica – è come un buon giardiniere: toglie le erbacce, innaffia, mette in risalto lo splendore dei fiori che i poeti riescono a piantare e far crescere.
5. L’affermazione « non ricordo un solo poeta che abbia scritto solo di Pace Bellezza e Amore».
Perché appunto non ci sono in quella forma assoluta che alcuni poeti hanno inseguito e i poeti debbono per forza occuparsi anche d’altro e non solo d’aria fritta. E poi perché anche il più idealista dei poeti ha da tirare a campare e soffre come tutti gli umani e soffrire non produce né pace né bellezza né amore. (Ma ci sono alcuni poeti che idealizzano persino il Dolore…). Pace, Bellezza, Amore e, aggiungiamo visto che l’avevo dimenticata, la Felicità, se non conosciute o provate o assaggiate nella «realtà», restano chimere, desideri, sogni. “Cose” che hanno una loro “realtà” ma più impalpabile e alla fine della fiera insoddisfacente di quella mostrata o dimostrata.
SEGNALAZIONE CIRCA IL DISCORSO DELLA BUONA CRITICA
Bisogna procedere per citazioni. La citazione è l’unica prova tangibile che il recensore ha a sua disposizione. O semitangibile. In ogni caso, senza le citazioni la critica è solo il monologo di un cliente in fila in un negozio. Per quanto tutto ciò possa risultare irritante per gli imperialisti della critica letteraria (I. A. Richards in primis), non c’è alcuna metodologia che permetta di distinguere l’eccellente dal non eccellente. Nemmeno i critici letterari piú nerboruti in circolazione sono in possesso di mezzi atti a dimostrare senza ombra di dubbio che
Thoughts that do often lie too deep for tears
è un verso migliore rispetto a
When all at once I saw a crowd
– e, se volessero provarci, dovrebbero innanzitutto sottolineare che il primo verso contiene un espletivo ridondante («do») inserito a mero supporto della metrica. Eppure la citazione è l’unico strumento che abbiamo. Idealizzando, possiamo dire che in genere scrivere significa combattere contro i cliché. E non soltanto i cliché della penna, ma anche quelli della mente e quelli del cuore. Quando critico, di solito lo faccio citando i cliché. Quando elogio, cito le doti opposte: freschezza, energia e una voce che riverbera.
(Da “La critica letteraria è una cosa morta e sepolta?” di Martin Amis
http://www.leparoleelecose.it/?p=17316)
SEGNALAZIONE CIRCA IL DISCORSO SULL’ELOGIO DI PACE BELLEZZA AMORE E FELICITA’
Caro Ennio,
scusami se rispondo con un po’ di ritardo al tuo post. Che ho potuto leggere solo ora perché questi sono stati giorni molto convulsi.
E ti rispondo, come mi capita spesso di fare, con una mia breve lirica che racchiude, credo, abbastanza bene il mio pensiero sul tema da te sollevato:
La parola delle scienze è una
freccia infuocata scoccata
nel buio
delle cose e degli eventi.
Ci ritorna colma di ore.
*
La parola della poesia è uno
scandaglio
affondato nel corrusco cuore
dell’eterno. (da Simmetrie)
Credo perciò, caro Ennio, che scienza e poesia siano due diversi atteggiamenti della mente umana. Da un lato abbiamo il ‘provare e riprovare’ nel senso dato a questa espressione da Galileo Galilei, mentre dall’altro c’è il tentativo di oltrepassare il pensiero logico, intellettivo a patto che la parola poetica sia veramente ispirata, sorta quasi al di là dello stesso poeta.
Naturalmente questi due atteggiamenti dell’intelligenza umana possono tendere ad avvicinarsi in modo alto e quasi a coincidere come è stato per i grandi presocratici, per es. Parmenide che col suo poema scopre e contempla l’Essere. Mentre altre volte tendono a convergere non in modo alto e quindi in fin dei conti, a divergere, come accade oggi. Credo.
Nel senso che più il poeta tende a porsi come si pone lo scienziato e più la poesia potrebbe semplificarsi e perfino a banalizzarsi. E ti concedo anche che potrei essere in errore.
Ma credo fermamente che la poesia sembra sorgere da un ‘io’ che è al di là dell’io concreto. E può presentarsi come in questi altri miei versi (e mi scuso per questi continui richiami).
Daimonion
Sono io la parola abbondante.
Girerò sull’erba per nascondere
La voce che nessuno mi trattiene. (Da Bilico)
Infatti e qui credo che converrai con me, la poesia è quasi scomparsa dall’orizzonte dell’uomo di oggi. Il suo posto sembra essere preso dall’immagine di cui la parola è semplice ‘ancilla’. Posso ammettere che forse non è proprio completamente così… ma i grandi numeri… ci dicono che è proprio così.
Un caro saluto,
Matteo
N. B. Ammetto anche che questo mio modo di vedere la poesia sia parossistico.
…dal dialoghetto di Ennio che già mi alletta perché si parla della possibilità di unire e non di separare, come oggi troppo spesso in tempi di guerra, e dai punti di vista emersi nei vari commenti…Parto dall’idea di scienza come penso fosse presente in Galileo Galilei (la frenesia scientifica-tecnologica di oggi è altra cosa): un viaggio, ad aprire nuovi orizzonti di conoscenza e perciò uno sguardo intenso sul reale, proiettato verso il mistero, che mai tuttavia svelerà per intero, essendo tale, un mistero…sullo stesso percorso, ma proveniente dal mistero e rivolta alla realtà la poesia avanza, incontrando inevitabilmente la scienza (stavo per dire a metà strada, ma l’infinito non ha alcuna metà)…Poesia e scienza si possono salutare, abbracciare, sposare, rimanere a debita distanza o indifferenti…Il crocevia siamo noi
I MATRIMONI DELLA POESIA ( da Giorgio Mannacio )
Chi cammina lungo un’ esperienza poetica ( valida o non valida che sia ) è relativamente
“ indifferente “ al Dialoghetto di E.A che ha “ sapore antico “ e, pignolescamente , si accinge ad alcune banalissime osservazioni.
In primo luogo ( si ) chiede se la sentenza di B. si riferisca anche alla Poesia ( userò la maiuscola non in funzione retorica ma per individuare concettualmente la materia specificamente trattata ). Personalmente credo che se stiamo fermi ai “ generi letterari “ – almeno ai fini di continuare il discorso –le parole di B. si adattino meglio al Romanzo che non alla Poesia. Il Romanzo – almeno nel senso tradizionale del termine – affonda più della poesia nella Storia ( in senso reale ) ed esiga – quindi – più “ attenzione “ ai campi del sapere che chiamiamo Filosofia, Scienze ,Politica , Religione.
Se allarghiamo – del tutto legittimamente – il campo della Letteratura alla Poesia nel senso tradizionale del termine il nostro poeta-esploratore potrebbe avere la tentazione di leggere le parole di B. non come un’esortazione o consiglio quanto, piuttosto, come la costatazione di
un’ unione che è già avvenuta e che avviene con successo. Logicamente , contrasti possono sorgere tra i diversi campi del sapere ricordati ( ed altri ancora ) solo se ciascuno di essi pretende di imporre un proprio punto di vista sull’identico punto di vista di un altro campo del sapere. Gli equivoci nascono, a mio giudizio, allorquando si discute in termini di verità, termini estranei alla Poesia che è pura finzione. Essa non vuole imporre la propria finzione ad alcun campo del sapere diverso da essa e si limita a spigolare in tali campi al fine di raccogliere “ granelli “ necessari per la propria creazione. Scienza, Politica, Religione, Filosofia sono terreni di ricerca di materiali necessari alla sua creazione. Non può fare a meno di essi perché questi ultimi si presentano come “ esperienze umane “ . La Poesia saccheggia questo panorama ad altri fini e, dunque, il suo problema è solo quello di “ costruire qualcosa con quel materiale “, qualcosa che abbia le caratteristiche ( hic sunt leones ) della Poesia.
Si spiega – così – a livello “ critico “ come un credente in un dio unico creatore possa respingere da un lato l’ateismo atomistico di Lucrezio e ammirare – nello stesso momento – la sua potente forza espressiva e specularmente come un ateo possa respingere l’al di là dantesco – con tutte le sue implicazioni teologico/filosofiche – e essere sedotto contemporaneamente dai versi della Divina Commedia.
E si spiega anche come esistano – con pari dignità ( a patto che….) – la Poesia politica, quella religiosa, quella amorosa , quella filosofica e via dicendo.
La Poesia – in conclusione – è un’amante fedifraga che viene vituperata solo criticando il suo
“ saperci fare “.
Ma l’imperscrutabile rinvio ai leoni non ha propriamente il tornaconto di restare impaniati tra i lacci della fedifraga?
FINO A CHE PUNTO È DAVVERO «FEDIFRAGA» LA POESIA?
@ Mannacio
Posso condividere l’affermazione: «Scienza, Politica, Religione, Filosofia sono terreni di ricerca di materiali necessari alla sua [della poesia] creazione ». Domando però: la poesia davvero «si limita a spigolare in tali campi al fine di raccogliere “ granelli “ necessari per la propria creazione»?
Concederei che oggi, essendo abbastanza ai margini (o concentrata nella sua crisi), sia una “spigolatrice”, ma nei secoli passati? Di Dante si può dire che “spigolasse” soltanto nella teologia di Tommaso? E di Leopardi che “spigolasse” nella filosofia antica o dei sensisti?
Io direi, invece, che la poesia quanto meno spigola e più è saldamente “abbracciata” a filosofia, scienza, politica, etc., tanto più produce un risultato imponente e solido.
Tutto sta a vedere quanto gli altri campi siano (come tu pur riconosci) necessari o addirittura indispensabili alla poesia. (Oppure complementari e comunque non accessori o surrogabili da semplici «esperienze umane»).
Se si propende per la tesi del rapporto necessario tra poesia e altri saperi ( fatte salve le differenze e gli attriti tra loro che, come dicevo, spingono la poesia ora più verso la religione ora più verso la filosofia o le scienze e rendono possibile un “abbraccio unitario”…), non mi pare appropriato usare il termine ‘saccheggiare’ né condivido la sottovalutazione dell’operadi assimilazione degli altri saperi che il poeta fa. Non di saccheggio si tratta ma di un lavoro appunto necessario, complementare al successivo lavoro poetico, preparatorio quanto si vuole.
Sarà dunque in parte vero che «il suo [della poesia, del poeta] problema è solo quello di “ costruire qualcosa con quel materiale “» (ma io diffiderei di quest’ansia o preoccupazione del poeta…), ma è forse indifferente quale materiale egli scelga o sia “costretto” a scegliere? Potrebbe forse sostituirlo più o meno arbitrariamente con altro materiale?
A me non pare. E qui si fa evidente la stretta necessità tra le operazioni “preparatorie” o “parapoetiche” e quelle più strettamente poetiche (o anche – detto con formula scolastica – tra contenuto e forma).
Solo se fosse del tutto indifferente la relazione tra le due operazioni (o fosse possibile un taglio netto tra contenuto e forma), potrebbe davvero realizzarsi la neutra operazione per cui « un credente in un dio unico creatore [respinge] da un lato l’ateismo atomistico di Lucrezio e [ammira] – nello stesso momento – la sua potente forza espressiva e specularmente […] un ateo [respinge] l’al di là dantesco – con tutte le sue implicazioni teologico/filosofiche – e [viene] sedotto contemporaneamente dai versi della Divina Commedia».
Succede poi proprio questo? È davvero possibile mettere così facilmente tra parentesi l’ateismo atomistico di Lucrezio o le implicazioni teologico/filosofiche della Commedia?
Credo che così faccia l’esteta. O almeno finge di farlo, si sforza di farlo, tentando di considerare *soltanto* la forma, la “spoglia”; e disinteressandosi o astraendo dal contenuto storico (filosofico religioso o aristocratico, borghese, massificato, ecc.) che ha contribuito più o meno indirettamente a costruire quella forma e non un’altra.
Lo ricorda bene Fortini, sempre in quell’intervista su cos’è la poesia a RAI Educational, tante volte da me citata, in questo passo:
« Le verità teologiche, per esempio di Alighieri, le verità filosofiche e antropologiche di Leopardi, la visione dei rapporti umani quali si rivelano per esempio nella poesia di Giovanni Pascoli o in quella di Vittorio Sereni, non sono né da prendere letteralmente e quindi da misurare nella loro verità o parziale o integrale o falsità, né da considerare senza importanza. Ricordiamo che Croce, per esempio, la struttura teologica della Divina Commedia la considerava non poetica, pressoché inutile al suo senso poetico. Noi sappiamo assolutamente che non è così; questo non significa che noi dobbiamo necessariamente condividere fino in fondo il pensiero cattolico dell’Alighieri. Un celebre studioso americano, Singleton diceva: “il lettore non dimentichi mai che il poeta Dante Alighieri è un poeta cattolico”, ed effettivamente l’aspetto in questo caso teologico, di verità teologica, come anche le affermazioni di verità materialistiche in Leopardi, non sono elementi soltanto accessori, sono elementi integranti e integrali della poesia. Questi elementi sono inseparabili dalla rappresentazione, non sono delle verità vestite con un abito diverso, sono inseparabili dalla rappresentazione di questa o di quella situazione immaginaria che si tratti di parlare dell’oltretomba o della sera di sabato in un villaggio italiano, o del raccapriccio di morti in una valle toscana come nel tardo Pascoli o del brivido della trasformazione sociale della morte individuale nella poesia lombarda di Vittorio Sereni. Tutto questo non ci induce a cogliere dei letterari enunciati di verità: se io voglio cercare questi letterali enunciati di verità li troverò piuttosto, per esempio, nelle pagine dello Zibaldone leopardiano, nel De vulgaria eloquaentia o nel Convivio di Dante, o nelle prose di Pascoli o di Sereni che non nei versi; tuttavia mentre sarebbe assolutamente assurdo di prendere alla lettera le affermazioni teoriche o filosofiche di Dante e di Leopardi, il fatto che non si condivida, come ho detto, le idee di Dante sulla Trinità o sulla istituzione del Purgatorio né quelle del Leopardi sul pessimismo cosmico, non vuol dire che debbano essere considerati dei superati, degli inattuali, degli illusi perché quello che essi ci dicono a proposito di cose che noi possiamo considerare superate o false è qualche cosa di non superato e di vero».
Aggiungo che il legame saldo è anche tra pensiero e forma metrica. E, nella mia prima Lezione sulla poesia (incontri a Saronno), avevo ricordato:
«Ramous ricorda opportunamente che Dante pensava in terzine di endecasillabi (e, dunque, che il suo “respiro poetico” s’identificava quasi naturalmente con questa misura, 24). E che, invece, Ariosto lo facesse in ottave di endecasillabi. E lo stesso vale per i contemporanei, che però, a quanto pare, debbono avere respiri più sincopati o affannosi o irregolari».
In conclusione, la poesia è «fedifraga» fino a un certo punto: un occhio attentovede con quale amante sia stata e se l’ha abbandonato/a con un ultimo bacio o uno schiaffo…
P.s.
Nel dialoghetto la citazione di Baudelaire era solo uno spunto.
@ Ennio
Caro Ennio, nelle tue osservazioni sono contenuti alcuni fraintendimenti di una certa importanza e, dunque, contrariamente al mio costume di non replicare se non necessario, debbo risponderti. Non vanno bene i termini “ spigolare “ e “ saccheggiare “ ? Basta un sguardo d’assieme a quanto ho scritto per cogliere il senso concreto e reale di essi. Chi spigola non “ passa da fiore a fiore “, ma cerca di cogliere,in mezzo al loglio, la spiga rimasta e,in essa, il granello. Chi saccheggia cerca un tesoro ( quello che egli crede un tesoro ) necessario a colmare la propria brama di possesso. Si tratta di un’ appropriazione che tu preferisci chiamare “ abbraccio “, come se questo e il “ bacio “ non fossero anch’essi atti di appropriazione ( il bacio secondo alcuni psicanalisti è la vestigia di una incorporazione reale ).
Come vedi sono oltre il pudico abbraccio e tendo a descrivere un rapporto ben più stretto tra autore e i suoi necessari alimenti. Ho usato per ben due volte nel brevissimo spazio di due righe l’aggettivo necessario e il termine costruzione. Come mi si può accusare di
“ indifferenza “ verso il rapporto tra materiali ed opera e tra acquisizione del necessario e costruzione ? Necessario denota ciò senza del quale non è possibile un certo risultato.
Sono d’accordo con la tua opinione che un’opera è tanto più solida e ricca quante più esperienze assimila ed esprime. Ma dove ho sostenuto il contrario ? E cosa veramente vuoi sostenere insistendo su tale punto ? E’- questo – il luogo dove “ stanno i leoni “.
Cosa distingue un saggio meritorio zeppo di “ esperienze “ di vari tipo da una poesia meritoria egualmente zeppa di “ esperienze “ ? Me lo chiedo, ovviamente, non per denunciare una qualche lacuna nel tuo scritto sulla soluzione del problema ( che è millenario ) ma solo per avvertirti che nell’insistenza circa i contenuti si cela il pericolo di privilegiare , in un certo senso, le “ buone intenzioni “ a scapito di un risultato accettabile dal punto di vista estetico. Se si abolisce “ questa categoria “ il discorso fila liscio, se la si mantiene il discorso si complica e lo si deve dire. Mi pare – poi – che tu tenda a confondere il diverso atteggiamento che- rispetto
al c.d contenuto – assumono l’autore e il lettore. Se il primo “ deve abbracciare ciò che lo commuove “ ( non in senso sentimentale ma come esperienza di vita ) il lettore può anche sorridere pensando che Dante creda davvero all’Inferno e “ nonostante ciò “ essere affascinato dalla Divina Commedia. Ciò significa – in parole povere – che l’autore percorre un cammino che è essenzialmente creativo e il secondo un cammino che è essenzialmente estetico e che i due momenti vanno tenuti concettualmente distinti ( con quel che segue in termini di problemi di critica letteraria, mercato delle opere d’arte etc ) . Infine : il termine esperienza – da me usato fin troppo – non individua o non individua soltanto la “ minuta storia “ di ciascuno di noi ( i suoi compagni di strada, i suoi amori e disamori, gli incontri e gli abbandoni e chi più ne ha più ne metta ) ma anche – non vorrei dire soprattutto – il modo di reagire e conformarsi del “ suo pensiero globale “ ( vogliamo dire: personalità ? )alle vicende che vive. Un cordiale saluto. Giorgio.
@ Mannacio
Caro Giorgio,
anche se l’ho indirizzato a te, che hai sollevato certe questioni, il mio discorso non mi pare che eccedesse nella polemica. Forse i termini metaforici (sia quelli usati da me che da te: spigolare, saccheggiare, abbracciare, ecc) ci deviano dalla sostanza. E cerco di spiegarmi meglio.
Io intendo sottolineare con forza che il “lavoro preparatorio” ( lettura, selezione di temi, “esperienze”, ecc.) che fa un poeta non è secondario né casuale («ma è forse indifferente quale materiale egli scelga o sia “costretto” a scegliere? Potrebbe forse sostituirlo più o meno arbitrariamente con altro materiale?»). E fa tutt’uno con quello “autonomo” che il poeta ci mette di suo o sente più suo.
Se siamo d’accordo, e mi pare che lo siamo, insistere a precisarlo (come ho fatto) non mi pare inutile. Cosa veramente voglio sostenere insistendo su tale punto? Non solo che «un’opera è tanto più solida e ricca quante più esperienze [e saperi] assimila ed esprime». Ma anche che un’opera poetica è un tutt’uno, contenuto e forma assieme. E su questi ounto che forse non concordiamo, se tu ritieni necessario avvertirmi che « nell’insistenza circa i contenuti si cela il pericolo di privilegiare , in un certo senso, le “ buone intenzioni “ a scapito di un risultato accettabile dal punto di vista estetico». O addirittura temi che io voglia abolire la categoria dell’estetico. Citando il brano di Fortini io intendo rafforzare un mio scetticismo, che in passato ( ai tempi del laboratorio Moltinpoesia) espressi in una dettagliata analisi di uno scritto di Leonardo Terzo (http://moltinpoesia.blogspot.it/2011/02/ennio-abate-da-quali-nemici-e-falsi.html…). Essa contestava sia certi autori formalisti, che ritengono di riuscire a risolvere interamente in pura forma il contenuto della loro esperienza umana e storica; e sia certi lettori estetizzanti che svalutano o saltano a piè pari o quasi il contenuto (ho sempre in mente le letture sia della Commedia dantesca sia dei Canti di Leopardi da parte di Croce) a caccia appunto della “perla” estetica. Sorridere da parte di un lettore (laico) odierno, pensando che Dante creda davvero all’Inferno, si può. Anzi è di norma. Non si può però trascurare il peso di quella concezione culturale medioevale entrata nell’opera. Il fascino che il lettore ne riceverebbe sarebbe, secondo me, più superficiale, da “turista”.
In sintesi: il mio ideale ( non dico che lo raggiungo) è avere un colpo d’occhio unitario su contenuto e forma. Senza strabismi che privilegiano l’uno o l’altro elemento.
…ma “l’abbraccio” comprende la presenza di quattro braccia e tutto quanto vi sta attorno di consenziente, mentre “il saccheggio”, riguardasse anche un tesoro, comporta solo due braccia più un sacco…E poi solo la poesia è fedifraga? E le altre arti, discipline, religione, politica comprese, no? La fedeltà assoluta è una virtù? Inquieta, si sarebbe mai mossa dalle rime e dagli endecasillabi? Persino il pensiero marxista si muove, lei no? Non dovrebbe anche lei testimoniare una profonda crisi di idee e di sentimenti? Le permettiamo persino di essere confusa? Spesso, arrabbiata?
@Ennio.
Pieno accordo. Mai sostenuto il privilegio della forma; mai sostenuto che il lavoro preparatorio sia secondario. L’ho chiamato ” necessario “; mai sostenuto una distinzione tra contenuto e forma. Per quel che vale il mio cammino poetico è in tutt’altra direzione. Ciao. Giorgio.
1 Sul “contrasto” tra poesia e scienza, e tra religione e scienza, martedì sera ho seguito nella trasmissione Otto e mezzo un’intervista a Fabiola Gianotti, nuova direttora del CERN di Ginevra e coordinatrice del progetto ATLAS che ha permesso la scoperta del bosone di Higgs. La scienziata Gianotti a) si è dichiarata credente b) è pianista e in un’intervista precedente ha detto “Ho sempre pensato che il mestiere del fisico si avvicini a quello dell’artista perché la sua intelligenza deve andare al di là della realtà che ha ogni giorno davanti agli occhi”.
2 Sul “rapporto” tra poesia e scienza, Mannacio scrive: “La poesia saccheggia questo panorama (scienza politica religione filosofia) ad altri fini” perché “il suo problema è solo quello di ‘costruire qualcosa con quel materiale’ “.
Abate non crede che il suo ruolo possa essere solo quello, crociano, di “spigolatrice” ma scrive di un “rapporto necessario tra poesia e altri saperi” “un lavoro … complementare al successivo lavoro poetico, preparatorio quanto si vuole”, poi lo definisce “parapoetico”.
Io vorrei invece parlare del lavoro della poesia come lavoro conoscitivo (Gianotti parlava della teoria della supersimmetria come forma del pensare -la dico così io- comune alla musica e alla fisica). Quando Leopardi scrive “Altissimo possente dominator di mia profonda mente” fa il controcanto a Francesco d’Assisi, per tutti e due è creatura mentale l'”altissimo possente”, l’una divinamente reale e umanamente spirituale, l’altra di realtà umana e sensitiva.
Tutte e due le opere hanno anche natura filosofica e scientifica, rispetto alle conoscenze dell’epoca. Personalmente però non riesco a separare il contenuto superato (per noi) della fisica medievale o settecentesca dalla forma “appassionata” delle due poesie, l’una imperniata su una “passione” celeste e oltremondana, l’altra sofferente per la mancanza di senso dell’essere e dell’essere umano interrogante.
Nell’intervista la signora Gianotti parlava anche di politica e di umanità, credo proprio che la passione celeste non le sia estranea se si dichiara credente, né la passione razionale sul senso dell’essere e del proprio essere interrogante, se è scienziata e fisica, e avrebbe potuto essere in alternativa neuroscienziata. La scienziata Gianotti conosce la passione poetica che san Francesco e Leopardi hanno messo giù “in poesia”.
Non sono forse, quelle di Gianotti, di Francesco, di Leopardi, le stesse passioni conoscitive che danno vita a tre “lavori” diversi?
Poesia è un lavoro di conoscenza che non usa un linguaggio settoriale bensì la lingua comune, più o meno colta, avvertita e interconnessa.
…sono d’accordo su quanto dice Cristiana Fischer, se ho capito bene, cioè che i saperi e le passioni si incontrano indissolubilmente nella nostra mente, non possono esistere compartimenti stagni a coltivare le scienze, come le arti o la religione…nella lontana infanzia è da ricercare questo legame, la scintilla curiosa che poi magari la ragione ha fin troppo indagato, non sempre rispettandone l’unità. siamo diventati maestri ad innalzare muri invisibili, ed è forse la stessa realtà storica di oggi ad aver incoraggiato ciò. vi lascio con un mio esercizio di poesia sulla difficoltà di comunicazione in generale. Un caro saluto a tutti, e ancora auguri di inizio d’anno
L’abbraccio
Isole distanziate da oceani
e compresse nello spazio angusto
di una metropolitana in corsa
il tessuto cittadino di cellule mortificate,
sedute tete à tete
isole linguistiche
cinese sudamericano arabo italiano
in un coro di voci dissonante
isole culturali
l’imam barbuto e le pie consorelle
gli sguardi distanziati spaventati,
e poi isole tetre silenziose
su volti stanchi
d’impoetiche quotidianità
disoccupati, schizzati, emarginati, milano bene,
sguardi di pietra, isole di Pasqua
come la coppia felice in un abbraccio irridente
di gioventù
la metro mai si sofferma
fugge fugge via di destini trattenuti
ignara
qua è tutto e ci parla di tutto
un pianeta inclinato sul suo asse
se la forza di gravità non ci trattenesse
cadremmo gli uni nelle braccia degli altri
finalmente
Fosse così semplice conciliare poesia e scienze (e religione)!
Solo per far sentire una campana dissonante copio questo articolo di Odifreddi passatomi tempo fa da un amico su FB:
Big Bang, l’ultima non-novità di papa Francesco
Bookmark and Share
di Piergiorgio Odifreddi, da Repubblica.it
Finalmente, dopo tanti discorsi vaghi e generici, che permettevano ai media di attribuirgli una modernità inesistente, papa Francesco ha tenuto un discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, ha parlato di cosmologia e di evoluzionismo, e ha sostenuto che le due teorie scientifiche non solo non contraddicono il creazionismo divino, ma lo postulano come principio.
Prima che cominci il rullio dei tamburi, che già si sente nei titoli di agenzia, è bene notare che si tratta di posizioni già dette e ripetute: rispettivamente, da Pio XII e da Giovanni Paolo II, in due discorsi alla stessa Pontificia Accademia delle Scienze, il 22 novembre 1951 e 22 ottobre 1996. Discorsi in cui i predecessori di papa Francesco facevano allora esattamente come fa lui: fingere di accettare le spiegazioni scientifiche sul “come”, ma rivendicando un monopolio teologico sul “perché”.
In realtà, non si tratta che di fraintendimenti. Infatti, l’affermazione che “il Big Bang non contraddice l’intervento del creatore divino, ma lo esige” dimostra che Francesco continua a credere, sessant’anni dopo Pio XII, che il Big Bang sia un evento nel tempo, che permette di domandare cosa c’era prima di quell’evento. Mentre invece si tratta di un limite fuori del tempo, a cui tende il film dell’universo proiettato al contrario: vicino a quell’evento le leggi della fisica oggi conosciute perdono di significato, e con esse appunto anche la nozione di tempo.
La fisica sta cercando di vedere se sia possibile andare al di là di quelle leggi e del relativo Big Bang, ma può farlo solo togliendo a quest’ultimo la caratteristica di singolarità che invece tanto attrae i papi, di ieri e di oggi. Perché nella loro ignoranza essi possono appunto fraintenderlo nell’unica maniera che capiscono, visto gli “studi” che hanno fatto: cioè, come una versione scientifica moderna della mitologia mediorientale antica.
Passando dalle stelle del cosmo alle stalle del nostro pianeta, anche l’affermazione che, per quanto riguarda la vita sulla Terra e l’uomo, “vi è un cambiamento, una novità, perché quando, al sesto giorno del racconto della Genesi, arriva la creazione dell’uomo, Dio dà all’essere umano un’autonomia diversa da quella della natura, che è la libertà” è un totale fraintendimento dell’evoluzionismo, fatto da Giovanni Paolo II e ripetuto da Francesco.
Altro che “il papa rappacifica Dio e Darwin”, come si è già precipitato a titolare qualche ignaro e ignorante giornale! Fin dalla sua prima formulazione da parte di Darwin, l’evoluzionismo non ha presupposto assolutamente nessun meccanismo particolare per la creazione dell’uomo. Al contrario, ha considerato e considera l’evoluzione dell’uomo come un caso particolare di una teoria che rende conto dell’evoluzione di qualunque altra specie vivente.
Continuare ad arrampicarsi sugli specchi per conciliare Dio e la scienza, a proposito della creazione dell’universo e dell’uomo, non è un esempio di modernità da parte dei papi e della Chiesa. Al contrario, è un patetico tentativo di salvare il salvabile, accettando i fatti scientifici fin dove è possibile, per non far la fine dei dinosauri, ma pretendendo di supplementarli con finzioni teologiche non necessarie, per continuare a vivere appunto da dinosauri.
Albert Einstein, ogni volta che gli si nominava il nome di Henri Bergson, che aveva tentato un’operazione analoga con la relatività per salvare la propria filosofia, scuoteva la testa e diceva: “Che Dio lo perdoni”. Lo stesso possiamo dire noi dei papi e dei loro seguaci, continuando a usare scherzosamente quest’espressione metaforica soltanto perché è espressa nell’unico linguaggio che essi possono capire.
Ps. Le lamentele per l’ennesimo post sulle non-notizie del Vaticano vanno cortesemente rivolte, da un lato, al Vaticano che monopolizza i media con queste non-notizie, e dall’altro lato, ai media che si fanno monopolizzare dalle non-notizie del Vaticano. Qui si cerca soltanto di sottolineare che si tratta appunto di non-notizie, soprattutto quando sembra che esse riguardino la scienza.
(29 ottobre 2014)
Ma dov’è il problema? Il big bang non è un evento del tempo che presuppone un prima, e come no? E’ un’idea. La formulazione di un modello. Una religione seria (e bisognerebbe leggere bene le parole dette dai papi, ma non ne ho voglia e in fondo non lo trovo importante) non può che dire che prima di ogni modello fisico, di ogni idea, si può ben porre la questione, squisitamente mentale, del perché l’essere è. I fisici cercheranno di comprendere la natura della materia e quindi anche la sua origine (da altra materia), ma può per avventura capitare loro di chiedersi il senso stesso della materia.
Odifreddi in certe occasioni preferisce attribuire ai suoi antagonisti una certa dose di dabbenaggine, ma con questo non può affermare che la scienza annullerà i pensieri filosofici e teologici. Sono pensieri diversi, che non si elidono, anche se si può decidere di “ignorare” volta a volta la legittimità e la sensatezza dei pensieri appartenenti a un altro ambito.
ciao Ennio, in premessa ti chiedo scusa per l’eventuale fuori tema. Per me non lo sarebbe, visto che in questa pagina convergono una pluralità di argomenti che sarebbe interessantissimo sviluppare su un caso concreto sia di un certo tipo di “ingegneria”, dunque scienza, sia di valenza politica, sia poetica, nonche della mitica bellezza ma anche “liberta”, e tanto per gradire non ultimo il lato religioso presunto (ergo valido per le diverse propagande ben lontane dall’essere spirituale) .
dunque vado al sodo, che ne diresti, Ennio caro, di fare una pagina/post/, abbastanza tanto necessaria per dare dignità “reale” non solo a quei poveracci trucidati a Parigi, sotto il pretesto dell’islam, ma all’intero palcoscenico criminale che va ben oltre i numeri apparenti convolti da questa strage di stato, cioè d’impero ?
potresti fare “scientificamente terrorizzati”, oppure ricalcando un’altra pagina e un altro titolo di questa spazio “islam? ma mi faccia il piacere!”, oppure una delle tue solite proposte in scrap-book…E’ importante che i poeti si rendano conto prima possibile di come cantare queste storie criminali, opponendo a una scienza del terrore, già ben avviata nei nostri collaudatissimi anni di pseudo piombo, un’altra scienza , politica, dissenso, racconto, canto che si stacchi nettamente dalla lagna delle penne rosse, o no? mi perdoni il fuori o meno tema? ciao
@ ro
Sto raccogliendo dal web vari interventi sull’attentato di Parigi e preparando uno scrap-book per aprire la discussione.
Ne proporrò una selezione ragionata appena possibile.
GRAZIE ENNIO! (ritenere che l’argomento sia anche storico, prendendo spunto dalle no(str)e stragi di un primo periodo di tensione a questo 2.0, è necessario e vitale anche per chi si occupa di poesia, compresa quella di autentica “satira” del nostro Francesco di Stefano. Sono contenta che ti stai organizzando per il materiale su cui noi riflettere. Grazie ancora.)
@ Cristiana e Ennio
Ha ragione Cristiana nel dire che il big bang è un eventoi che avviene nel tempo. Ogni evento presuppone un prima e postula un dopo. Resta l’enigma del ” tempo prima del tempo ” che non posso e non voglio affrontare. Nell’arguta battuta di E. io – non credente – vedo più che un motto di spirito. La leggo come una sorta di epochè sulla religione ed un rispetto per la parola altrui. O. – di cui ho letto qualcosa – è sempre stato greve e unidimensionale nelle sue polemiche. Il suo stupore falsamente ingenuo è sconcertante. Cosa si aspetta da un Papa cattolico? Lo si lascia parlare nella sua lingua che per altri versi può essere utile. Per il resto ripeto quanto ho già scritto. Scienza, politica,religione sono lieviti indispensabili per la poesia con quel che ne consegue.
Scusa Mannacio, forse hai digitato male, ma Odifreddi dice e io anche che non è un evento del tempo! ” Si tratta di un limite fuori del tempo” scrive O. E aggiunge “La fisica sta cercando di vedere se sia possibile andare al di là di quelle leggi e del relativo Big Bang”.
Ma se si vuole andare al di là di limiti tipo tempo e creazione, allora anche il papa ha degli argomenti altrettanto “legittimi”!
Cara Cristiana, il tuo incipit terminava con un ? che per me significava mettere in dubbio l’idea che il big bang fosse fuori del tempo. Prendo atto della tua spiegazione. Resto della mia idea. Ogni evento in quanto conoscibile e osservabile ( la rilevazione scientifica è una osservazione ) appartiene ” al passato ” e come evento passato presuppone un prima. Del tempo prima del tempo nulla si può dire prima dell’osservazione scientifica e dunque non ne parlo e non dovrebbe parlarne lo scienziato che si occupa dei dati esperiti. Il detto di A.E suona come un garbato invito a tacere su ciò, invito rivolto sia ai vari papi che a me comune mortale. Un cordialissimo saluto. Giorgio.
Innanzitutto mi associo alla richiesta di rò (e accolgo con piacere la risposta di Ennio al proposito).
Rispetto a:
*Ha ragione Cristiana nel dire che il big bang è un evento che avviene nel tempo. Ogni evento presuppone un prima e postula un dopo. Resta l’enigma del ” tempo prima del tempo ” che non posso e non voglio affrontare.(G. Mannacio)
Non solo è un e-vento ma è pure un costrutto linguistico per cui anche il linguaggio ha avuto un inizio secondo le coordinate temporo-spaziali che lo contraddistinguono. Linguaggio che prenderà le forme del linguaggio scientifico o quelle del linguaggio artistico e/o religioso.
“Adamo, dove sei?” chiede JHV nel giardino dell’Eden dopo che il malcapitato (è il caso di dirlo) si è rosicchiata la mela dell’albero della conoscenza del Bene e del Male.
Essendo JHV senza luogo e in tutti i luoghi, e senza tempo e in tutti i tempi, dovrebbe sapere dove cavolo si è nascosto Adamo [analoga formula interrogativa viene fatta a Caino: “Caino dov’è tuo fratello Abele?”] per cui quella domanda suonerebbe quantomeno pleonastica. E invece è una domanda che istituisce due cose: a) il tempo della coscienza e del dare un nome al comportamento. E dove il nome non è più limitato al nominare le cose – capacità che, al momento della creazione Dio aveva dato ad Adamo – ma contempla aspetti relazionali;
b) istituire il tempo del ‘prima’ (quando Adamo ed Eva disponevano di un sapere assoluto, senza storia e senza futuro, tal quale sapeva il Creatore), e il tempo del ‘dopo’, il tempo degli uomini.
Detta domanda istituisce la scissione per cui l’uomo si colloca in quel ‘dopo’, mentre il ‘prima’ viene rispedito al mittente, al Dio, all’Assoluto che non si è ancora diviso. O, in altri termini, al mistero, all’enigma. Che il mistero si voglia chiamare Dio… o qualcos’altro….
Io credo che il problema non riguardi tanto il far convolare a nozze la poesia con la scienza, ognuna delle quali ha delle peculiari metodiche nell’entrare in contatto con la ‘realtà’ concreta e con quella immaginata, con il rischio, poi, di tradimenti reciproci.
Piuttosto ciò riguarda il poeta o lo scienziato i quali, singolarmente e con il proprio bagaglio storico e culturale, possono avere una ‘disposizione’, una ‘curiosità’ a cogliere ciò che avviene nel mondo e nelle discipline che lo contemplano e lo trasformano. E, se non ce l’hanno, dovrebbero imparare a coltivarla.
Quindi, più che un invito alla Poesia o alla Scienza, sarebbe da fare un invito a chi si dichiara poeta e/o scienziato ad allargare sempre di più i suoi orizzonti e a fare quel lavoro di ‘spigolatura’ nell’accezione spiegata da G. Mannacio.
R.S.
@ Rita Simonitto
La tue osservazioni sono – a mio giudizio – correttissime dal punto di vista speculativo e le condivido in pieno. Un cordiale saluto. G.
@ Giorgio e Rita:
in realtà Odifreddi spiega bene che è il papa a voler considerare il big bang NEL tempo, per poter ipotizzare un “prima” in cui sarebbe avvenuta la creazione.
Il big bang, scrive O., è invece una “singolarità”: “si tratta di un limite fuori del tempo, a cui tende il film dell’universo proiettato al contrario: vicino a quell’evento le leggi della fisica oggi conosciute perdono di significato”.
Non è un evento osservabile anche se è “conoscibile” in quanto “teoria” fisica, per esso valgono dei “teoremi”.
Quello che è certo è che i fisici continuano (con grande piacere) ad aggirarsi intorno a eternità o creazione, siccome però si aggirano e di quel tema non ne “sanno” davvero nulla, allora anche il papa (o i suoi astronomi: che non sono ingenui come O. crede) può dire la sua, questo è, come dire, autoevidente. 🙂