Note su «Addio mio Novecento»[1] di Ennio Abate
Per i possibili collegamenti tra la mia critica del libro di poesia di Aldo Nove e gli spunti di discussioni offerti da “L’uomo in ansia” (qui) anticipo la pubblicazione di queste note che usciranno sul prossimo numero di giugno della rivista IL SEGNALE [E.A.]
1. Importante è esaminare con attenzione l’indice dei titoli. Il sintagma ‘Addio mio Novecento’, oltre ad essere titolo della raccolta e della sua prima sezione, torna otto volte nel libretto. Ma anche alcuni titoli delle poesie sono ripetuti: ‘Il tempo’ sei volte; ‘Mito’ tre volte; ‘Lo spazio’ quattro (cinque se conteggiamo anche ‘ Lo spazio spiegato’); ‘Poesia’ tre volte. Sul piano formale la ripetizione pare la figura dominante della raccolta, che presenta in genere versi di varia lunghezza, suddivisi in strofe anch’esse variate con una certa libertà. (C’è un sonetto isolato: «Ferita eterna aperta» a pag. 66. Ci sono alcune inserzioni in pseudo prosa: «Prima dell’infanzia» a pag. 16, «I fiori» a pag. 52, «Piccolo segnalibro occidentale» a pag. 57; e persino, in «Plastic people» a pag. 88, delle terzine iper-rimate e parodistiche, intervallate da un distico fisso). In singoli testi spadroneggia l’anafora (e in qualcuno – nel già citato «Plastic people» – essa è addirittura un mantra). Insistenti sono poi le allitterazioni, anch’esse ipnotiche e fredde (si veda «Il mare», p. 9). E in quella sorta di proemio (p. 4) che precede le due sezioni della raccolta («Addio mio Novecento», comprendente ben sessantatre componimenti; «Un matrimonio», che ne ha soltanto sei) singoli versi o loro parti vengono ripresi sistematicamente, testardamente, nel corso dello stesso testo. Si veda: – «di guerra/ di selce o, silicio vuoto» (due volte); – «generazione su generazione» (tre volte); – «vuoto che si ampia a dismisura» ( cinque volte); – «impassibile della galassia» (due volte); – «nel corpo, innumerevole, del dentro» ( tre volte); – «dentro (nove volte). Una specie di tic nevrotico-linguistico molto esibito.
2. Si leggano poi di seguito i vari componimenti con titoli simili (o quasi). E si avranno chiari i temi-chiave di questa raccolta:
– in ‘Addio mio Novecento’: un sogno (p. 25); la moltiplicazione delle cose (p. 39); una scatola che allegoricamente conterrebbe il «gratificante azzurro mio passato» (p. 41); l’affermazione decisa che «le cose ci piacevano» (p. 60); un immenso giardino (p. 75); i mezzi tecnologici (nastro magnetico, scatola/televisore) che alimentavano o ancora alimentano l’immaginario di massa (p. 87); icone del dandismo odierno (p. 97); un avvertimento di tono biblico ma generico (p. 105);
– in ‘Il tempo’: la negatività del tempo: «Questo, nostro», segnalato in corsivo e in exergo ( p. 12); il suo essere stagnante («se scorre in acquitrini») (p. 21); lo spavento procurato dal fatto che «procede» e «per sempre» (p. 27), associato ora all’ospedale (p. 63) ora alla folla o alla memoria; o che pare sereno solo in un paesaggio «cardiaco e femminile» (p. 40); ma il tempo resta un «Niente» che contiene «un fiume di gente» e «la memoria/ di ognuno» (p. 92);
– in ‘Mito’: l’infanzia delle «scodelline»( p. 15); una fontana dell’infanzia associata alla pioggia (p. 61); una stella di plastica vista, sempre nell’infanzia, in un asilo di suore a Gallarate (p. 85);
– in ‘Lo spazio’: mondo, tragedia e recita (p. 26); assenza di significato (p. 32); metafisica, paragonata a una piazza in espansione (p. 34); «normale spavento» che induce tutti a «parlare o scrivere» (p. 54);
– in ‘Poesia”: la parola è associata (ma non ho capito come e perché) alla divulgazione della meccanica quantistica (p. 17); e ancora all’«eterno spavento», alla mancanza (p. 38) e alle partite di calcio (p. 69).
3. Se ora ripercorriamo nuovamente (e con la libertà che un lettore può concedersi a differenza di uno studioso) tutti i testi nella successione voluta dall’autore, ci accorgiamo che, in quella sorta di proemio iniziale (p. 4), siamo assaliti da una molteplicità frammentata e caotica di immagini (cosmiche, naturali, antropologiche, corporee, linguistiche). Poi compare l’immagine del mare («la memoria del mare// che assale, / tutto e/ cancella tutto» (p. 9). Poi una presa di distanza: tutto è stato un sogno («Noi sognavamo che era tutto vero» (p. 11). Chi parla lo fa con uno stile smozzicato e ansioso, in uno stato di smemoratezza, con un tono finto/reale da stordito («-è questo che è accaduto,/non so più in quale giorno» (p. 11). Perché la sua/nostra «non è vita/ che vivo/ che vivi/ né niente»(p. 12). Lascia intendere un suo andare «avanti verso» (p. 13), che però non ha scopo, non ha prospettiva («Come se quello fosse/futuro// E lo sappiamo che non é/ futuro». (p. 13). Di solito quando Nove fa un’affermazione (comunque vaga), subito dopo la smentisce: «Come se quello fosse/ futuro // E lo sappiamo che non è / futuro» (13). Perché – sostiene – c’«è stato tanto tempo fa il futuro/ bambino» (p. 37), ma «tanto il futuro è passato./ È come, si dice,/ già cotto e mangiato (p. 83).
4. La tendenza principale, dunque, non potendo avanzare verso un (vero) futuro, è lo scarto all’indietro, la regressione verso un passato/mito, semiprivato e generazionale, fatto di: «scodelline»/barchette di bimbi al mare (p. 15); una gita forse in montagna fatta sempre da bimbi «con le borracce piene d’acqua» (p. 16); «una foresta che s’inoltra azzurra» (p. 25) e questo «gratificante azzurro» colora tutto il «passato»(p. 41); «una fontana nel mio cortile/ da cui usciva acqua che era stata in tutto il mondo» (p. 61); oppure acqua che era pioggia e che « era stata nelle nuvole e scendeva,/ nel mio paese/ e nel mio cortile» (p. 61); «un giardino pieno di luce» (p. 75), il piccolo Eden personale; una «stella attaccata al soffitto/ di plastica» (p. 85) guardata da bambini insonni in un asilo di suore assenti perché dormienti.
5. Questo mito dell’infanzia appare però freddo, molto prosaico, senza scatto. Anche perché il ricordo è sempre incerto: «È morta un’attrice famosa,/ ma forse era ieri o chissà» (p.81). Non riesce mai a svolgersi, a fissarsi o a sfondare la gabbia del tempo in cui viviamo. Che, si è detto, «non è il nostro» (21) e ci è estraneo. È un tempo che «scorre in acquitrini» (p. 21). Nel quale «non afferriamo più le cose» (p. 22). E che concede al massimo un insensato scrivere o parlare.
6. La reazione che Nove privilegia è quella di proiettarsi in un passato non più storico ma indefinito, quello del c’era una volta delle fiabe. Di conseguenza – e scusandomi di parodiare lo stile “ a ripetizione” di Nova – una volta «c’erano strade su cui andare/ e il cielo da guardare» (p. 24), mentre ora il tempo s’è frammentato («ci basterebbe, credo, nel frastuono/ iniquo d’ore, un giorno solamente» (p. 21). Una volta c’«erano gli anni» (p. 24). Una volta c’era «il significato»( p. 32). Una volta «ovunque cose si moltiplicavano,/ sembrava a tutti che fossero mondi.»( p. 39). Una volta «Le cose ci piacevano./Ce n’erano in un numero dicibile» (p. 60). Una volta «era nostro il tempo/ vivibile. / I confini erano netti,/ c’era la vita,// e poi la morte» (p. 60). Una volta «le stagioni /sul nastro magnetico le registravamo/ miscelavamo i decenni e i nostri nomi/ quelli delle città e delle epoche» (p. 87).
Invece ora «nessuno, ricorda da quanto,/ né dov’è che parla,/ il significato» (p. 32). Ora «quello che manca alle parole/ è il loro compimento» (p. 38). Ora «non siamo/ capaci di dire che questo:/ che manca l’inglese» (p. 38). Ora «Le solitudini viaggiano accompagnate dalle loro ombre» (p. 43) e tutti siamo «nello stesso condominio di inesausto silenzio» (p. 43). Ora «Non c’è ancora,/ la cosa./ Nessuna cosa» (p. 50). Ora «Abbiamo tutti un tremendo/ bisogno di parlare ovvero scrivere/ che non sappiamo più di cosa parlare/ né di cosa scrivere (p. 54).
Come si vede, il contrasto una volta/ora, passato/presente-Niente è proposto in modi meccanici e con un linguaggio basso, quasi piatto. Non c’è lavorio critico, nessun esigente e insofferente scavo del passato o del presente-Niente. Né interrogazione vera. Solo un sincero/finto spavento. E molta freddezza. E rassegnata ironia. Le scelte lessicali mi paiono generiche o persino sciatte. Siamo fuori dalla storia. L’osservatore che parla è impersonale. Tutto avviene senza che si producano sentimenti. Il tono della descrizione è smozzicato. La ripetizione di parole e concetti è, come detto, ossessiva. Si coglie uno stupore passivo, neutro. I ricordi non sono mai strutturati e approfonditi. Le rime si ripetono anch’esse, addossandosi le une alle altre in un modo convulso, sfiduciato e artificioso.
7. Forse soltanto nella sezione intitolata «Notizie di cronaca» (p. 44) si colgono immagini appena più concrete ma lo stesso anonime e sfumate e qualche volta surreali: arrivo di navi; una ballerina che in punta di piedi avanza sulla spiaggia e depone una corona (di fiori?) sul mare (p. 44); uno su una terrazza che fuma e passeggia senza vedere la gente nascosta tra le piante di un bosco (p. 45); una casa crollata che rimanda – qui almeno un guizzo di tristezza passa – a quanti l’abitarono (p. 46); una donna smemorata, che«non si ricorda il suo nome» e straparla (coi morti) in una stazione tra avanzi di cibo (p. 47); un’auto in fiamme che procede nel traffico serale (p. 48), un cielo che diventa preziosa carta geografica solo per un bimbo (p. 49). L’umanità che Nove si raffigura pare ridotta a «bambini poliziotti» impazziti e nevrotizzati (p. 67).
8. Il vagheggiamento dell’infantile (più che dell’infanzia) è, dunque, insistente; ed è la cifra fondamentale del libro. Sempre picchiando su quest’unico tasto, in alcuni testi Nove, comunque, va verso un’elegia metropolitana che non è poi così male. Non credo però che «la maschera del poeta», che egli si mette e che, a suo parere, ancora «mima la menzogna/ e manifesta il reale» (p. 82) sembra superare la falsità di una moda letteraria. Salverei e rifletterei di più, comunque, su alcuni componimenti, che non a caso sembrano i più elaborati e corposi: «I fiori» (p. 52); «Piccolo segnalibro occidentale» (p. 57), «Ferita eterna aperta» (p 66), «L’azzurro del cielo» (p. 71). Ci vedo un lirismo un po’ finto, ma intenso. Qui mi pare che la fatica di contenere un dolore vero non ricorra solo alla freddezza intellettualistica e iperletteraria. Come accade, invece, ne «L’esplosione della storia» (p. 70) con le solite e troppo esibite ripetizioni e allitterazioni: «un’esplosione rallentata/ arcata/ di ossa, la fossa / la tele,/ le vele le vele le vele/ un freddo come fosse l’Occidente/ se niente,/ cosa dice la gente/ che dice,//Beatrice?». E accetterei anche l’abbandono a una fuga amorosa e paradantesca, convulsa e spaventata (da bimbo) nell’«azzurro del cielo» (71). Mentre gli accenni finali all’Apocalisse (p. 93) e agli angeli (p. 94) svelano un accostamento a una vaga religiosità new age, di cui si parlò, mi pare, quando Nove pubblicò «Maria»[2] e che sembra senza nerbo e un po’ dolciastra.
9. Tornando sul titolo e sull’idea “politica” che va considerata di base in questa raccolta. A me pare che Aldo Nove riduca la storia alla sua personale percezione della storia. Solo così può intitolare la raccolta «Addio mio Novecento», dove l’accento va posto esclusivamente su ‘mio’. Non so quanto il titolo sia oggi ancora suggestivo e dove davvero stia l’intreccio di memoria individuale e di storia, come ha sostenuto Roberto Galaverni.[3] A me pare un titolo ormai conformistico e del tutto succube dell’ideologia della fine della storia, che è di moda anche in una certa intellettualità “di sinistra”. (Tra l’altro andrebbe fatto un confronto tra questa raccolta e il film «La grande bellezza» di Paolo Sorrentino. Mi pare che ci siano degli indizi che permettano di farlo e che si respiri una stessa aria di famiglia[4]) . Non vorrei liquidare la questione del rapporto di Nove con la storia ricorrendo a una battuta, ma credo che davvero ce ne vorrebbero ben più di cento di Nove per di dare un addio definitivo al secolo in questione. Trascorso sì, ma che ci ha lasciato irrisolti i suoi problemi, i quali semmai si ripresentano ancora più complicati. Troppi (ricordo Marco Revelli di «Oltre il Novecento», 2001) frettolosamente hanno creduto di poter salutare o oltrepassare il «secolo breve». E anche quello di Aldo Nove, più che un addio al Novecento, che in questi versi è presente in tracce minime e comunque affogate nella elegia e nella mitologia dell’infanzia, mi pare un addio alla storia.
10. In questa raccolta Nove mostra sicuramente un fondo di nichilismo, ma blando; e a mio parere sbrigativo e persino scioccherello, come quando stravolge e banalizza il noto verso, che chiudeva «Traducendo Brecht» di Franco Fortini («Nulla è sicuro, ma scrivi») in questo suo «-ma tu non farci caso, ma tu scrivi» (p.21). Il ribaltamento del senso storico e etico/politico è totale e sintomatico. È come se si dicesse: scrivi, perché non hai più nulla in cui sperare. Una condanna. Molto in «Addio mio Novecento» è farraginoso e fiacco.[5] E credo che neppure i conti con la propria memoria personale vengano davvero fatti. Quella sua infanzia-mito Nove l’ha pur vissuta dentro una storia. Che poco qui s’intravvede ed è rimasta davvero come la stella di plastica, che – immagine questa abbastanza vivida ma triste – da bambino egli aveva contemplato. Crepuscolare allora questo ultimo Nove? Io direi indeciso, piatto, apolitico. Certo esprime uno spirito del nostro tempo, che a me pare soprattutto generazionale e trovare riscontro in altri intellettuali suoi coetanei. Di recente, ad esempio, Daniele Giglioli in un saggio, «Stato di minorità», di cui si legge un estratto su «Le parole e le cose» ha ben espresso questa indecisione, piattezza e apoliticità.[6] Ecco, per concludere, a me a pare che per Aldo Nove questo stato di minorità che Giglioli ancora tenta di problematizzare se non più di denunciare, lo renda permanente e acritico. E pare se ne fregi fin troppo civettuolamente.[7]
28 maggio 2015
[1] Devo dire sinceramente che ho accettato di leggere questo libro di poesie di Aldo Nove, autore di cui posso apprezzare la bravura letteraria ma dal quale mi sento distante (e non solo per questioni generazionali) solo per rispondere all’amichevole sollecitazione de «Il Segnale». Aggiungo che ho comunque costruito le mie note con curiosità diligente e lasciando in secondo piano, per quel che mi è stato possibile, il personaggio Aldo Nove.
[2] La “Maria” di Aldo Nove secondo me (che non credo nella poesia) Articolo postato lunedì 29 gennaio 2007
da Nevio Gambula.
«Non amo commentare un poema altrui. Se qui, con queste note, lo faccio, è perché il poema Maria di Aldo Nove, pubblicato parzialmente sul numero 212 di Poesia (Gennaio 2007), è destinato ad avere una risonanza che va ben oltre quello che esso effettivamente è. Cominciano a vedersi le prime avvisaglie. Ciò che mi ha mosso a farlo – e a farlo da un punto di vista totalmente soggettivo – è il fatto che trovo esagerata la sua esaltazione; al contrario, lo trovo un poema di basso profilo qualitativo. Non solo. Per me che sono cresciuto con una cultura atea e anticlericale, quel poema contiene tutte le peggiori ossessioni della religione. Invidio – lo ammetto – la sicurezza con cui l’autore esibisce questa «preghiera-invocazione». Io non sarei capace di dire le mie bestemmie con la stessa mancanza di dubbio. Invidio, ma allo stesso tempo mi insospettisce. Una sicurezza molto teatrale. Lungi da me, in ogni caso, giudicare la persona. La mia parzialità di giudizio riguarda le parti del poema pubblicate e il modo in cui è stato presentato (Cfr. Andrea Cortellessa, Lo scandalo dell’amore infinito, Daniele Piccini, Maria, o della necessità della poesia, in Poesia n. cit.»).( da: http://www.absolutepoetry.org/La-Maria-di-Aldo-Nove-secondo-me)
[3] http://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/il-segnalibro/Aldo-Nove-Addio-mio-Novecento-Einaudi-3268410.html
[4] Cfr. per un’impostazione del confronto:
- Franco Nova – Qualche spunto su “La grande bellezza” di P. Sorrentino
(https://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=316:franco-nova-qualche-spunto-su-la-grande-bellezza-di-p-sorrentino&catid=8:zibaldone&Itemid=25) - Rita Simonitto – La Grande Bellezza: dietro i Ray-ban, niente.
(https://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=317:rita-simonitto-la-grande-bellezza-dietro-i-ray-ban-niente&catid=8:zibaldone&Itemid=25)
[5] Come ha notato Gianluca D’Andrea:
http://carteggiletterari.org/2015/01/02/libri-crepuscolari-2-note-ii-addio-mio-novecento-di-aldo-nove-einaudi-torino-2014/
[6] Cfr. Daniele Giglioli, Stato di minorità: http://www.leparoleelecose.it/?p=18914
Riporto un passaggio significativo:
«Se gli esseri umani sono stati definiti da Aristotele animali politici, che ne è della loro stessa essenza nel momento in cui la politica attiva sembra ormai scomparsa dal loro orizzonte? All’interrogazione tra euforica e angosciosa che ha dominato il postmoderno – ma esisterà poi davvero quella cosa che chiamiamo realtà? – ha dato oggi il cambio una risposta sconfortata: la realtà esiste e io ne so qualcosa. Ne avverto tutto il peso, solo non riesco a farci granché, per non dire nulla, col dubbio semmai se non sia io a non esistere davvero, a non esistere cioè in modo significativo. Che io ci sia o non ci sia è del tutto ininfluente. Altri agiscono, altri decidono. Wall Street, Bruxelles, il rating, gli algoritmi. I terroristi, le intelligence, i grandi network. Paura che si trasforma in desiderio nell’aspirazione indotta ma sincera a un demiurgo, a un leader carismatico: qualcuno che decida, almeno lui, e fa lo stesso se non è né una realtà né un simbolo (un rappresentante), ma un simulacro e peggio ancora un surrogato.
L’umano, scriveva Hannah Arendt in Vita activa, è davvero tale quando ha la possibilità di agire politicamente in mezzo agli altri umani; altrimenti è puro «metabolismo», biologia, animalità. Si può discutere su quanto ciò sia vero; non su quanto sia diventato difficile verificarlo. Certo è comunque che l’impossibilità di agire rende meno umani».
E, dopo aver citato un lungo elenco di scrittori ( da Philip Roth e Don De Lillo a Saramago e a tanti altri, compresi Adelchi Battista, Alessandro Bertante, Helena Janeczek, Davide Orecchio, Giacomo Sartori, il collettivo Wu Ming) , Giglioli nota problematicamente:
«A nessuno di loro sfugge quanto il Novecento sia stato un secolo di ferro e di fuoco. Ma era anche il secolo dell’azione: lì sì che c’era qualche cosa da narrare. Perfino il dolore più atroce aveva un senso, quel senso che ora sembra evaporato. Agli uomini e alle donne del Novecento era toccato in sorte di meglio, dovesse pure quel meglio essere costato una catena interminabile di lutti. Il vero lutto, si direbbe, è la paralisi di oggi. Non è più in gioco qui l’«effetto nostalgia» che secondo Fredric Jameson è un ingrediente fondamentale della poetica postmodernista. Per questi e altri autori, il Novecento recita un ruolo di kathèkon.
Che cosa è un kathèkon? L’espressione, che in greco antico significava in origine «azione giusta» e che Cicerone ha tradotto con officium, dovere, ha conosciuto nella Seconda lettera ai Tessalonicesi attribuita alla cerchia dell’apostolo Paolo quella torsione angosciosa e un po’ enigmatica che Carl Schmitt ha messo al centro della sua teologia politica. Kathèkon è ciò che impedisce, che trattiene, che ritarda lo scatenarsi di qualcosa. Di che cosa? Dell’Anticristo, pare volessero dire se non Paolo i suoi interpreti, che variamente vedevano il kathèkon come figura della Chiesa o dell’Impero; quell’Anticristo che nella lettera viene definito come «l’uomo dell’anomia» («o anthropos tès anomìas»). Anomia è assenza di nomos, e cioè di legge, senso, misura. Ma quale nome migliore per l’odierno scatenamento senza freni della più cieca e insensata irrazionalità mercantile e finanziaria? Insofferente a regole e frontiere, deriva in apparenza inarrestabile che nessuna morale (la Chiesa, ovvero l’ideologia) e nessuna spada (l’impero, ovvero la politica) riesce più a trattenere. Nel Novecento si lottava ancora. Il politico prevaleva sull’economico. La lotta è persa, l’Anticristo è arrivato? «It is the economy, stupid!», lo slogan della campagna elettorale di Clinton, è il brontolio sordo che continua a riecheggiare a dispetto di tutti i tamburi di guerra richiamati frettolosamente in servizio dopo l’11 settembre 2001».
[7] Si veda in questo stralcio d’intervista:
«Io: Cosa hanno rappresentato per te, nella tua vita, gli elementi di cui parlavo prima? Mi riferisco a cose come la pornografia, la televisione, perfino il cibo industriale, che tornava molto nei tuoi romanzi.
Aldo Nove: Erano cose che mi circondavano.
Io: Ti circondavano o ti facevi circondare?
Aldo Nove: Entrambe le cose. Ero in un acquario e l’acqua era quella.
Io: Li vivevi come elementi ansiogeni oppure ansiolitici?
Aldo Nove: Anche qui, entrambe le cose. La pornografia è sia ansiogena che ansiolitica. Perché crea una sorta di dipendenza masturbatoria e artificiosa, allucinata. A un certo punto, dagli anni ’70 fino agli anni ’90, è esploso tutto questo immaginario merceologico, commerciale, di un benessere fra virgolette alla portata di tutti. Da una parte era fascinoso, dall’altro anche pericoloso. Pericoloso nel senso che la mia generazione, come direbbe il mio amico Danilo Masotti, a cui voglio molto bene, è formata da “adultolescenti”, un termine che ha coniato lui. C’è questa adolescenza da cui non si esce molto bene, anche per via della situazione economica e politica. Siamo adolescenti di cinquant’anni che bazzicano nel caos».
(Da http://www.minimaetmoralia.it/wp/siamo-adolescenti-di-cinquantanni-che-bazzicano-nel-caos-intervista-a-aldo-nove/)