Sulle prode di “Domani”

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di Velio Abati

Bisogna riportare l’attenzione critica su “Domani” di Velio Abati. Nel maggio 2014 ne parlai qui ed altri lo fecero sul blog dello stesso autore (qui). Ma il silenzio è caduto su quest’opera difficile, volutamente fuori moda rispetto alla narrativa italiana contemporanea  e sul suo autore, che non ha ceduto né ai pentimenti politici né a quelli letterari. A questo primo rendiconto sull’accoglienza ricevuta dal romanzo, scritto dallo stesso Abati,  seguiranno  alcuni interventi di lettori di “Domani” ai quali ho richiesto una rilettura meditata e critica dell’opera. L’immagine pittorica di Toti Scialoia che accompagna questo post mi è stata fornita dallo stesso Velio.  Ho preferito collocare i brani del romanzo, da lui citati nel resoconto, in una “Appendice” per permetterne una lettura autonoma  ma anche facilmente  riconducibile al suo bilancio. [E. A.]

Una mappa. Forse

All’origine è l’invito di Ennio Abate per “Poliscritture”. Una cronistoria abbastanza vivace del viaggio del romanzo – mi scrive – alcune reazioni dei lettori, qualche rilettura di capitoli o brani.

Mi metto, grato, in cammino. Ma nella scrittura si è sempre sulla strada per Tebe, ben poco, malgrado i vaticini presi con cura, è programmabile, perfino la meta soffre l’incertezza. Ci si affida, senza saperlo, a ciò che fino ad allora si è stati, ci si getta alla cieca secondo il coraggio del momento. Negli stradelli della mia erranza triangolerò, al bisogno, con i materiali visibili a tutti di Domani e altri futuri.

Avevo sufficiente esperienza del mondo, per capire che la domanda di dialogo di Domani non avrebbe trovato facili rispondenze. Così nell’attesa dell’uscita tipografica, da neofita per ragioni anagrafiche, mi sono buttato nella costruzione di un sito, che salvasse dalla dispersione, costruisse qualche eco, raccogliesse frammenti di dialogo, aprisse uno spazio dove sostare per prender parola.

Avverto dunque in anticipo chi mi accompagnerà, che gli incontri nominati e i riferimenti tra virgolette – salvo i testi di Domani, qualche comunicazione privata, le citazioni di Calvino, Fortini, Benjamin e Harvey – rinviano tutti alle due sottodivisioni (Incontri e letture; Lettori) della pagina Domani, cui si accede da qualunque pagina di Domani e altri futuri: www.velioabati.com

Non occorre essere scrittori

Non occorre essere scrittori o poeti per vedere che il nostro è tempo dello sfaldamento. Non è privilegio di chi è figlio della grande trasformazione del secondo dopoguerra comprendere che le forme assunte nel secolo scorso dal bisogno di giustizia, di dignità umana e – usiamo la parola settecentesca – di felicità imputridiscono intorno a noi. Non c’è bisogno di essere temerari estremisti del pensiero, per comprendere che nel travolgimento dei vecchi assetti delle istituzioni e del vivere comune, chi oggi impone un insopportabile ritorno all’ordine non ha nulla da promettere, non ha lena per reggere un decennio, spargendo così, a sua insaputa, semi d’ira che radicano, non visti, fra le due terre.

    1.[Testo: La forza dell’ira, cap.19]

Si scandalizzino pure gli eleganti

Per me la parola è sempre l’ultima carta contro le mani legate, scrivo se non posso dire. Sono dunque riconoscente a Donatello Santarone che nella bella discussione avvenuta alla Casa della Memoria di Roma osserva “è la storia di una violenza, di una ferita profonda”. Si comprenderà allora perché seguo fin che posso il romanzo, lo incito, mi metto in mezzo, mi butto sui marciapiedi, lo leggerei anche in capo ai tignosi. Non temo il ridicolo.

La prima lettura pubblica è stata dal manoscritto. Chiara Riondino mi aveva invitato con i miei genitori, che cantavano e suonavano le loro canzoni. “La Corte degli Accorti” non è un’accademia seicentesca, ma la graziosa corte di casa, dove di tanto in tanto Chiara chiama musicisti, cantautori, artisti, seguendo la sua passione. In quell’angolo di campagna Toscana già linda e civile, a pochi chilometri da Firenze, un pubblico non giovane, non folto – né potrebbe – ma assiduo si reca portando con sé cibo e vini, consumati poi insieme a spettacolo terminato, sul principio dell’imbrunire. C’erano alcuni miei amici venuti da lontano per farmi festa, qualche insegnante, qualche insegnante divenuto funzionario o assessore in forza di quello che una volta si chiamava Pci, un giovane poeta e la sua compagna fotografa, un mio ex alunno ora falegname accorso per mia sorpresa e gioia reciproca. Prudentemente, ho letto un pezzo comico: la caccia al tasso. Mi è sembrato che gli ascoltatori si divertissero, io sicuramente, perché godevo del privilegio di declamare da un leggio che avresti giurato fosse stato preso in prestito dalla chiesetta vicina. Certo hanno divertito le canzoni e le musiche di mio padre, che segretamente avevano tessuto la trama sonora della mia infanzia e delle pagine. Non ci sono state domande. La consuetudine non lo prevedeva.

Prima dell’uscita del volume ho fatto in tempo a organizzare un’altra lettura, di nuovo con mio padre che suonava la fisarmonica e un mio collega, Roberto Bongini, che eseguiva Bach con il violoncello, a sottolineare due registri distanti, due diffrattività. È stata anzi questa l’occasione che ha fatto nascere i “Colloqui del Tonale” nel mio podere paterno dentro il Parco naturale della Maremma. La breve serie l’avevo chiamata, come il sito, Domani e altri futuri. Sono stati ospiti due poeti amici: Giorgio Luzzi e Donatello Santarone. Il pubblico era quello che poi si è andato stabilizzando: miei studenti, colleghi insegnanti, amici. È stata soprattutto una festa d’inaugurazione. Ho letto il funerale di zia Concettina.

Enclosures

“Vengono pubblicati ogni giorno in Italia alcune centinaia di libri; solo una parte arriva in libreria, ed anche di questa alcuni non vendono nemmeno una copia. Il libraio prenota i libri dei quali suppone una vendita cospicua (di giornalisti, politici, uomini dello spettacolo; alcuni scrittori noti; su temi di attualità), ed evita di prenotare libri dei quali venderà una sola copia (preferisce vendere cento copie di un solo libro che cento copie di cento libri diversi, per ovvie ragioni amministrative o organizzative)”. Così il caveat allegato al contratto dall’editore. Ma sappiamo dagli esperti che le condizioni sono ancora più capestro. La grande industria di pasta impone al direttore del supermercato che le riservi lo scaffale ad altezza di sguardo, pretende i metri lineari ritenuti opportuni, detta i tempi di esposizione e di ricambio. E per una elementarissima legge fisica, dove sta un corpo, non può starvi un altro.

È da cretini pensare che l’ultimo libro dell’uomo di avanspettacolo sia un fatto che non mi riguarda, esattamente come ritenere i miliardi guadagnati da Marchionne un obbrobrio morale, invece che la diretta sottrazione a me di ciò che mi serve per mangiare il giorno, curarmi il fegato, comprarmi un libro.

  2. [testo: “- Siete un pastore d’anime (p.257)] …il vostro progresso impoverisce i petrai?”(p.260)]

Muoversi rasoterra

Muoversi rasoterra può persino essere euforico, a patto che rientri in quella figura che Bourdieu ha chiamato della degnazione, altrimenti è letteralmente impronunciabile. Dico “rasoterra” e mi accorgo che già l’atto di dirlo è un modo per non esserlo più in parte. E che cos’è la letteratura se non un “dire”? Intorno alla ferita di questa slogatura ho tessuto, giorno dopo giorno, il mio Domani. Come tenere insieme le due schegge del me preso nel mondo descritto, parte di esso e del me che sopra quel mondo sta e descrive? Mai, anche se volessi, potrei dimenticare ciò che Benjamin, nell’Angelus novus, mi ha chiarito una volta per sempre: “Tutto ciò che dell’arte e della scienza il materialista storico può controllare ha sempre un’origine che egli non può considerare se non con orrore. Perché tutto ciò deve la sua esistenza non soltanto alla fatica dei grandi geni che l’hanno creato, ma anche, in maggior o minor misura, all’anonima servitù dei loro contemporanei”.

Mi è stato chiaro da subito che non avrei potuto né amputare, né fondere, ma avrei potuto solo lasciar ardere quella fiamma, badando a non starle tanto vicino da bruciarmi, né tanto lontano da annichilirla.

Ma qui già siamo troppo dentro il Domani, mentre devo perlustrarne le prode.

La condizione rasoterra, dicevo, non è niente di eroico. La sua brutale datità, la sua – posso dirlo? – sgradevolezza riguarda anche le carrarecce sulle quali il romanzo spera d’incontrare il lettore. Così mi sono tirato su le maniche e, direbbe Bianciardi, ho battuto tutti i marciapiedi sui quali potessi vantare o millantare qualche diritto di passaggio, fattomi agente di me stesso. Uscito il romanzo, dal 20 novembre 2013 al 15 febbraio 2014 ho tenuto cinque incontri nella mia città e nella provincia. Poi sono stato a Milano, Torino, di nuovo nella mia provincia, Follonica, quindi Roma e nuovamente Castel Nuovo Val d’Elsa.

Il tempo dello schizofrenico

Un amico intelligente e generoso, per spiegare, mi scrive “Due anni fa mi sono avventurato nella lettura di Vita e destino, di Grossman ed è stata una fatica immane, pur inframmezzata da qualche ora di autentico godimento spirituale. E questo perché non sono riuscito a fare una lettura continuata, ma l’ho dovuta inframmezzare di interruzioni, riprese, distacchi, ecc., così che i personaggi alla fine mi si sono confusi in testa”.

Immagino che tra i miei settanta corrispondenti, reazioni simili le abbiano avute un numero ben maggiore dei due o tre che hanno avuto affetto sufficiente a comunicarmelo.

Ho avuto torto a sorprendermene. Addirittura un’opera di Calvino principia proprio da questo: “Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti, allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: «No, non voglio vedere la televisione!» Alza la voce, se no non ti sentono: «Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!» Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida: «Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino!» O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace”. Cui quel rompiscatole irriverente di Fortini aveva risposto: “mi ricorda la pubblicità di certi biscotti di puro grano e dei brodi col sapore di una volta. Non basta staccare il telefono, caro Calvino, non possiamo tornare alle matinées de lecture di Proust e al sapore del caffellatte materno. Non possiamo fingere che la storia non sia quella che è stata, quella che è, condizionante la letteratura” (p.257).

Quel mio amico è molto concreto: “condizionante”, dice, è “la pressione del lavoro”, “le molteplici pressioni occasionali interrompono di frequente anche la lettura di romanzi che mi appassionano”. Eppure questa volta avverti un cortocircuito forzato tra sogno di plastica da Mulino Bianco e ruvido realismo.

Pubblicato Domani, m’imbatto in una lettura straordinaria: “L’egemonia ideologica e politica in ogni società dipende dalla capacità di controllare il contesto materiale dell’esperienza personale e sociale. Per questo motivo, le materializzazioni e i significati attribuiti al denaro, al tempo e allo spazio hanno un’importanza non trascurabile per il mantenimento del potere politico”, David Harvey, La crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore, 1993, p.278. Se l’arte è, come credo, esperienza conoscitiva, deve poter creare una ruga, un intoppo, uno strappo. E chi lo fugge, peggio per lui. Harvey ci inchioda a uno scorcio che non lascia scampo: “Si può fondatamente sostenere che la storia del capitalismo è stata caratterizzata da un’accelerazione nel ritmo della vita, con relativo superamento delle barriere spaziali che il mondo a volte sembra far precipitare sopra di noi […] Mentre lo spazio sembra rimpicciolirsi fino a diventare un «villaggio globale» delle telecomunicazioni e una «terra-navicella» di interdipendenze economiche ed ecologiche […] gli orizzonti temporali si accorciano fino al punto in cui il presente è tutto ciò che c’è (il mondo dello schizofrenico)”, p.295.

Codesto modello di calzini, signore, non s’indossa più

Sono grato a Filippo Bologna d’aver pianamente espresso ciò che di sicuro altri hanno silenziosamente giudicato. Oltretutto il suo è il primo giudizio, avendo io inviato ad alcuni il dattiloscritto dell’opera: “Nonostante i miei volenterosi tentativi il manoscritto è risultato tetragono alla lettura, respingendo ogni mio assalto. Non so che dire, se dipenda dalla mancanza di ardimento del lettore, o dall’eroica resistenza del libro. Il tuo romanzo ha una tale densità e un ordito così fitto da risultarmi quasi impenetrabile. Mi fa venire in mente un sito archeologico sepolto tra i rovi, o la rievocazione in costume di una grande battaglia. Mi spiego meglio, è come se non tenesse conto di ciò che è avvenuto in letteratura negli ultimi cinquanta anni. Il che non è detto che sia necessariamente un male ma potrebbe anche essere una programmatica condanna all’isolamento”.

È il rifiuto più radicale, sebbene, ad ora, l’unico a questo grado. E certo vorrà dire qualcosa per Domani, se a pronunciarlo è un giovane scrittore finalista al “Premio Strega”, vincitore di un “Donatello” per la sceneggiatura, oltre che di altri premi, a tutto ciò sommando che al suo esordio ricevette un’ampia, consenziente recensione di Alberto Asor Rosa su “Repubblica”.

Narrare non è ricordare

È ricordarsi del futuro. Credo questa la consegna più aspra ricevuta dal lavoro sulla pagina, di cui ho dovuto dar subito conto nel biglietto Al lettore. Più d’uno poi vi si è soffermato, con valutazioni differenti. Se Ennio Abate osserva che oggi i lettori “non possono permettersi le 3-4 riletture che Domani richiederebbe per “entrarci dentro davvero”, Andrea Nuti valorizza invece l’“invito a ‘prendere tempo’, ‘dedicare tempo’, sfuggire ai ritmi frenetici della nostra quotidianità”. Tommaso Di Francesco, che parla di “archeologia del presente”, vede una narrazione che “sente la barra del tempo”, Sandro Portelli sostiene che nel romanzo il passato “è costruzione per il futuro”.

I due lettori che più si soffermano sulla concreta articolazione del tempo lo fanno, sorprendentemente, ricorrendo ad altra arte. Scrive Mavì De Filippis: “è come se il tempo fosse congelato o meglio … circolare … ricorda in particolare la maniera di Straub – Huillet di usare la cinepresa”. Roberto Bongini: “il disorientamento temporale, avvertito dal lettore, mi sembra analogo a quello generato dalla musica modale e da certe opere tonali (per esempio, la n.109 di Beethoven)”.

 3. [testo:  le nozze di Ambrogina, ossia La virtù, cap.3 (pp.110-20)]

La cecità di Farinata

Da discipline diverse che scrupolosamente studiano la nostra specie animale, si osserva la rilevanza in essa del periodo straordinariamente lungo di maturazione all’età adulta. È possibile che derivi, tra l’altro, da questo il bisogno di vestire di vecchi panni le idee più nuove, fatto riscontrabile in mille esempi delle forme culturali. E forse in questo debito di riconoscenza si trova la ragione delle viscosità che esperienze alte delle società umane riversano su aree limitrofe e in epoche successive. Fatto sta che un paradosso eclatante è sotto i nostri occhi. Un’età che tanto potentemente ha affermato la propria supremazia sugli antichi, da produrre una delle più radicali cesure rivoluzionarie con il passato, l’illuminismo, seguita ad alimentare tenacemente nel nostro senso comune il pregiudizio che le civiltà umane si mettono in fila e avendo scritto Marx che dall’anatomia umana si comprende la scimmia, le scimmie sono invariabilmente gli altri.

Ognuno affronta come può l’esilio. Ma si tratta del tema, oggi. Se ne può uscire devastati, agganciati per sempre a un orizzonte concluso che cela la sua definitiva falsità sotto le forme di una realtà tanto più comprovata quanto più irripetibile, da cui il suo fascino potente, che è, propriamente, fascino della morte. Se ne può tuttavia ricevere un altro, opposto: l’inganno della falsa innocenza. Il primo è il fantasma del reazionario, il secondo il delirio del ‘rivoluzionario’.

Ho età e letture sufficienti per comprendere che mai come oggi, per la specie umana sulla terra, la verità non è dei ‘punti alti’; che se i contadini hanno avuto ragione, con i loro forconi, di Carlo Pisacane, non per ciò questi aveva torto; che quanto il senso comune chiama progresso è un volgare tirare avanti. Il compito – non mio, o di altri singoli – ma dell’umanità oggi è guardare con entrambi gli occhi, per cogliere la contemporaneità del tutto.

I lettori di Domani si sono variamente soffermati sull’enormità di proporre nel XXI secolo una vicenda desueta quale quella contadina, con giudizi differenti. Ennio Abate esprime con chiarezza una valutazione negativa: “Detto schiettamente, a me pare che il benjaminiano «balzo di tigre nel passato» senza un saldo aggancio al presente (da afferrare politicamente nel suo orrore storico-politico e non in astratto o con paraocchi etici), sia un’amputazione a cui ci si rassegni”. Opposto mi pare il giudizio di Walter Lorenzoni: “L’autore, insieme al lettore, attraverso il suo coinvolgimento, vuole conquistare il massimo di verità storica possibile sul periodo e sugli eventi via via presi in considerazione. La verità, ricercata assieme al lettore, si colloca al livello della totalità”.

Se il noi è infrequentabile e l’io dà la nausea

Tra i primissimi lettori, meglio, interlocutori nella fase che precede e accompagna la stessa scrittura, Giorgio Luzzi mi scrive: “Chi governa il punto di vista? … Non mi è ben chiaro se è la lingua della sua gente o quella del regista supervisore; direi che si tratta della prima, ma questa mi sembra appunto una contraddizione. Il narratore vive oggi e non si separa dal linguaggio parlato nel mondo messo in scena”. Ennio Abate torna sul punto: “Abati ha voluto marcare le distanze da questo presente anche nella forma, nel modo di narrare. Opera pure in lui, ma in via subordinata credo, l’antipatia (novecentesca) verso il ‘narratore onnisciente’ … Perciò la sua scelta di mettere il lettore in medias res, a cavarsela da solo … col rischio, a mio parere, di accentuare sia l’impressione dei lettori di avere a che fare con un reperto archeologico sia la contraddizione reale in cui di fatto si vengono a trovare … sia l’autore che i lettori”.

Diverso ancora il parere di Walter Lorenzoni: “Il punto di vista … può essere sia esterno che interno, odierno o coevo, individuale o corale. Il fatto è che, però, non c’è mai adesione completa tra la voce narrante e i personaggi – neanche dal punto di vista sociale e politico – e questo perché l’autore intende mettere in atto una tecnica di spiazzamento del lettore, che lo costringa costantemente ad una presa di posizione morale … chi legge deve mischiarsi ai personaggi, alla comunità e, pur non identificandosi con essi, ne deve condividere la storia, gli sviluppi e le evoluzioni, le reti di relazione, le dinamiche inconsce, proprio perché è solo grazie a questa condivisione che può divenire il domani, il domani possibile”.

  4. [testo: L’allegrezza, cap.1 (pp.189-95)]

Computer

“Allora spingi questo”. Non era facile eseguire. Il maestro Ciso sorrideva, ma la direttrice immobile e severa taceva in attesa. Mi sembrava davvero sconveniente soffiare sulle dita profumate del mio maestro. Ma la fiamma bruciava il gambo del fiammifero. “Dai!”. Così pensai di agitare la mano come una paletta davanti alla fiammella, cosicché colpii anche le dita del maestro, facendo andare in terra il fiammifero, con mio grande rossore. “Vede, direttrice, aveva ragione, l’ha spinto”.

Non so ricostruire quanta fatica e quanto dolore ho bruciato per arrivare a scoprire che dietro la sua ragione non c’era il mio torto. La lingua non è il software che si acquista al grande magazzino. In quella mercanzia c’è un’eccedenza, che è insieme meno e più di carne e sangue. Siccome lo scopo immediato di chi parla è farsi comprendere, nel senso comune e nella riflessione teorica siamo prima di tutto indotti a pensare che la lingua sia un utensile: ci sfugge che il significato delle parole lo decide chi comanda. Ossia perdiamo di vista che l’uomo, nel suo lavoro, produce anche se stesso. Per questo fanno sempre tenerezza gli appelli alla ragione chiara e distinta. Chi si lamenta dell’impidocchiamento subito nell’ultimo ventennio dalla lingua italiana non dice cose stravaganti, anche se colpisce un falso bersaglio, quando indica la pigrizia, o l’ignoranza interessate del giornalista di turno. Così come non ha certo torto chi segnala il danno alla lingua italiana per il proliferare recente degl’insegnamenti scientifici in lingua inglese, solo che la sua efficacia non va oltre il sorriso benevolo di chi ha ascoltato.

La lingua è una cosa troppo seria per lasciarla ai linguisti. Se per indicare la macchina in cui io scrivo questi segni devo dire “computer”, insieme con l’oggetto esibisco l’omaggio ai signori del mondo che ce lo vendono. Lo scambio linguistico, come quello mercantile, non è mai alla pari, né un atto di libera scelta, ma misura sempre le differenze di potere. Le parole, dicevo, non sono macchine. Quando dico “compagno” non attivo solo il lavoro trascorso di centinaia di generazioni contadine che nella parola hanno depositato il loro gesto consueto di ‘mangiare insieme, con-dividere, il pane’. Questo sarebbe appunto l’azione del “lavoro morto”, il puro atto filologico. No, faccio rivivere, da quelle generazioni, nel modo che qualcuno ha chiamato “inconscio collettivo”, la forma di vita socialmente distintiva che la parola sopportava e nutriva. Far sparire quella parola, o vincolarla all’abominio è mutilare o sfregiare la parte di noi che le appartiene.

La particolarissima condizione italiana che dall’età volgare fino a ieri, non avendo avuto né una lingua parlata comune né uno stato unitario, si riconosceva essenzialmente solo nella sua a volte grandissima letteratura, ha il pregio, nella propria condizione radicale, di squadernare a chi voglia vederla la funzione insostituibile della letteratura. Se è vero, come da più d’uno è stato detto, che nella letteratura vengono messe al lavoro le profondità e le vastità di una lingua, essa costituisce prima di tutto un vivaio potente.

Da faglie molteplici rampollano indomite le piante

Nel Proposito, una paginetta inedita inviata prima d’iniziare a scrivere a una sceltissima cerchia di amici, riflettevo sulla lingua. E, dopo aver indicato i rischi plebei di certo toscanismo del secolo scorso, rinverdito dagli usi politici reazionari del nostro tempo, mi proponevo di cercare “per sintassi e lessico, la severità, la sobrietà, volta piuttosto al passato che al presente … un tessuto, aristocratico piuttosto che confidente”. È probabile però che le ragioni della cosa abbiano portato la lingua altrove. Claudia Angeletti sente una “lingua materna, dove la pasta si tira col ranzagnolo, il pane si taglia con la coltella, i bambini sono i citti che non stanno mai boncittini, le teste anche pensanti sono le chiorbe e chi manca di senso pratico è un citrullo, chi insiste nel sapere che cosa stai pensando è un appoioso!”. Andrea Nuti scrive: “La trama linguistica, dei suoni, delle voci genera la comunità. È come se la struttura simbolica venisse ancora prima dei personaggi che essa stessa accoglie; questo campo linguistico dinamico è il vero soggetto e protagonista del romanzo”. E Mario Marchionne: “Ho trovato straordinario il lavoro sulla ricostruzione … linguistica … persone, vissuti, modi di dire e di essere, ripeto, a me non congeniali ma che, in qualche modo, da quando frequento te e la Toscana, mi tornano più familiari”.

Un lettore partecipe e fraterno, Donatello Santarone, mi aveva privatamente consigliato, durante le fasi di correzione delle bozze, di accompagnare il romanzo con un Glossario. La questione riemerge nel confronto alla Casa della Memoria. Dice Tommaso Di Francesco: “La vera provocazione di Velio è il linguaggio usato … nelle parole che potremmo dire desuete, che irrompono con una forza sconosciuta … dissento da Donatello, perché penso che queste parole meno note giocano la loro virtù nel presente”. Mentre Sandro Portelli, nella stessa occasione, osserva: “Un elemento che mi ha particolarmente colpito è la materialità del linguaggio, non solo nelle voci dei personaggi, ma anche in quella narrante … Non c’è il dialetto e non c’è il tentativo di imitare l’oralità, ma … una lingua che può essere pensata solo da chi la relazione con il dialetto e con l’oralità ce l’ha”. Sostiene anzi con forza la sua valenza: “mi fa venire in mente un altro grandissimo testo in cui il linguaggio del mondo rurale extraurbano ha una funzione provocatoria, mettendo in crisi la pretesa egemonica di capire tutto: Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain. È scritto in un linguaggio a cui devi affidarti, perché parla diverso da come parliamo noi. Nel romanzo di Velio ho avuto in certi momenti la stessa sensazione”.

E certo mi conforta non poco l’altra affermazione di Portelli su questo tema: “Uno dei nodi dell’uso del dialetto in letteratura è lo scarto fra la lingua narrante e la lingua dialettale dei personaggi. Per cui l’uso del dialetto diventa in qualche modo o di colore locale o paternalismo. Qui invece è un lessico locale, è lingua!”.

Molti poi, a partire dallo stesso Portelli, si sono soffermati sugli scarti linguistici. Giorgio Luzzi: “una lingua terrorizzata e minata, un tentativo di sottrarre alla comunicazione il suo basamento funzionale, da un lato … e una lingua rivitalizzata, soccorsa, restituita nelle sue componenti a uno scenario di pariteticità e reciprocità, rifunzionalizzata nell’essere estesa ai limiti della rottura”. Mavì De Filippis: “il popolare, il lirico, il tecnico delle culture materiali ed anche il curiale e il cancelleresco … compresenti, fusi insieme secondo le esigenze narrative”.

  5. [Testo: “- Però non ho capito (p.249) … per barare nella conta” (p.251)]

   6  . [Testo: “La busta, riservata, veniva dal brigadiere…, pp-262-69]

  7. [Testo: “Paiese sembrava sentisse la febbre del nuovo secolo (p.305) …l’antico lavoro di carrai” (p.306)]

 8. [Testo: “Si capisce che l’uomo non è una bestia…(p.361)…impegnato lontano da Santa Lucia” (p.362)]

 9. [Testo: “Stato di nutrizione scadente(p.393) … si dimette in data odierna, affidandogliela a custodia” (p.393)]

I panni di festa

All’origine, in vero, c’è una domanda, una denuncia credo. Perché, mi chiede Ennio, questo silenzio del ‘mondo che conta’? Qui la parola o è brutale, o non è: la domanda ha senso, se giudichi che la risposta non è il difetto di valore dell’opera. In quanto responsabile di Domani, dovrei tacere. Tuttavia, come è un dato di fatto che sono stato agente di me stesso, così posso e anzi debbo provare a dare a me e ai lettori risposta di questo. I riscontri immediati delle brevi escursioni rasoterra, i frutti più ragionati che ne sono seguiti me ne autorizzano. Non parlo solo delle occasioni, le più belle, nelle scuole della mia città: gli studenti si sono avvicinati a un testo non facile, curiosi, intuitivi, spiazzanti. Ricordo in particolare gli interventi affollati al mio liceo “Rosmini”, raccolti in filmato nel sito: i ragazzi e le ragazze, i colleghi Angeletti, Benigni, Bongini, Pane, Peri… Ma intendo anche le vive discussioni con Ennio Abate e Massimo Parizzi alla milanese “Utopia”; il biglietto di Maria Jatosti, quello del tutto inatteso di Bàrberi Squarotti; le quasi 3mila visite alle due letture di un grande attore, Alessandro Rossi, di bellezza superba.

Provo dunque ad articolare il “perché” di Ennio: un tipo di romanzo come Domani trent’anni fa sarebbe stato accolto dal medesimo silenzio degli ‘stati maggiori’ della cultura? Se la risposta fosse “no”, che cosa è nel frattempo cambiato? Non credo di essere lontano dal vero, se cerco la spiegazione in due fatti di ordine generale. Il primo, per precedenza logica e storica, è il dominio divenuto indiscusso e universale dell’“utile”, aspetto mondano di un dio per niente absconditus: il profitto. L’individualismo proprietario del finanzcapitalismo, disarticolando il tessuto sociale, ha liberato vorticosamente la catalizzazione delle élites: economiche, politiche, culturali. La lunga restaurazione della società verticale, che vediamo perseguita con tenacia in campo istituzionale e politico, è in realtà un processo che si dispiega sull’insieme della vita sociale.

Il secondo fatto è la scomparsa dell’intellettuale. Non perché la sua funzione – secondo il sogno d’una breve stagione – sia stata presa da un sapere e da un agire collettivi, ma perché l’esperto e il superesperto hanno ceduto quella funzione – che era di discussione pubblica sui fini e sui valori – all’agire ‘naturale’, istintivo di chi paga le loro prebende e che il movimento mondiale di qualche tempo fa ha indicato con l’espressione 1%. Chi volesse studiare i meccanismi severamente selettivi che presiedono all’operare e alla riproduzione delle élites, può andare a rileggersi Pareto e meglio ancora Gramsci.

All’autore, convinto che le ragioni che lo spingono al tavolo di lavoro sono insieme quelle della sua carne e di una parte tanto più grande della sua minuscola vicenda, risuona ogni tanto il monito di quello della Ginestra: “oblio / preme chi troppo all’età propria increbbe”. Eppure, di fronte alla ferita incomponibile, ogni volta rampolla il non è vero della pagina scritta.

 10. [Testo: “Riposava Mosè, sentendo la pazienza dell’altro (p.385) …della doppia violenza, sull’altro e sulla natura” (p.388)]

APPENDICE

1.[Testo: La forza dell’ira, cap.19]

Gli aghi insostenibili d’agosto non davano tregua, né ripari. Avevano asciugato il sonno e la fame, anche la sete. Ora le strade di Petra erano solo muri. Anna si lagnava insopportabile alla porta. Non smetteva di chiedere d’aprirle. Ma non le rimaneva neppure la forza del vomito.
Vattene, gridò alla fine.
Alle finestre non c’erano più né maniglie né scuri. Bisognava solo chiudere bene il portone, con il paletto, e la finestra di cucina, che comunque non s’apriva mai.
Aveva una testolina morbida, quando l’allattava, con i capelli fini come l’oro. Mamma la guardava con invidia e con orgoglio. Le diceva che somigliava a lei piccola. Speriamo, diceva, che rimangano biondi come i tuoi. Ma non le importava. Sergio aveva invece i capelli neri come il carbone, le ciglia folte, la carnagione scura. L’aveva sposato proprio per questo. Non allontanava mai gli occhi, anche se glielo dicevano, quando la domenica lo vedeva in chiesa.
Anche Renzino era lontano. Giù, da qualche parte nelle prime colline dopo i boschi: le cicale non smettevano mai, né di notte né di giorno. Scoppiavano attaccate alla scorza degli alberi, nel calore che le asciugava subito, come di carta. Stringere forte il fazzoletto sotto il mento non serviva a niente. Ci voleva la lana, biocchi di lana da mettere dentro le orecchie. Ma non c’era più nessun avanzo, aveva frugato dappertutto, anche dentro la madia, dentro il cassetto del tavolino.
Gliela scaldava vicino al fuoco, poi ci metteva una goccia d’olio tiepido, dal cucchiaio tenuto appena sopra la fiamma del lume. Gliela metteva sotto le orecchie e dentro, quando le vennero gli orecchioni e piangeva per il dolore. Sì, ti tengo in braccio, piccina mia, qui, con la mamma. Fate la nanna coscine di pollo.
Nemmeno la tortora riusciva più a cantare sotto la luce che cuoceva la terra. Dalle strade e dagli orti non si sollevava uno stecco.
Bussava alla porta la voce d’un uomo, insisteva. Don Giuseppe chiedeva che gli si rispondesse, che doveva lasciarlo entrare.
– Voglio Sergio!
Oppure le avevano ammazzato anche lui.
«Scivola una barchetta
sembra una navicella».
Quando la prima volta le dette la farinatina tiepida, aveva paura che le scottasse la bocca. Era dolce al punto giusto, l’aveva sentita. Gliela sbruffò tutta in faccia.
«Il sole tramonta».
E lui scoppiò a ridere.
«La luna apparisce
l’amore fiorisce».
Don Giuseppe non diceva le preghiere. Insisteva di lasciarlo entrare.
Gridò forte, allora, gridò che aveva in casa l’accetta.
– Voglio Sergio!
«Il sole tramonta
la luna apparisce».
L’aveva rifatto il letto, perché quando arrivasse potesse subito riposare, come un cristiano. Era pronto sempre, a qualsiasi ora. Anche quello di Nunziatina aveva rifatto, perché lui potesse esserne orgoglioso. Aveva lucidato bene la cartella, pulito il pennino e messi sul comodino con il quaderno che aveva trovato fra i bicchieri.
Il letto di Renzino non c’era stato bisogno di rifarlo, perché non si sapeva neppure se gliel’avevano detto.
Sentì la mamma scarmigliata alla porta. Perché l’avevano fatta arrivare?
– Perché vuoi morire anche te?
Le gridò, disperata.
Aiutatela a ritornare al Cecio.
– Almeno questo.
La luce l’avrebbe uccisa. Chi avrebbe pensato alla povera Petra?
Gliel’avevano portata via di casa che ancora dormiva e lei non era stata buona a difenderla, le grida non bastano. Le zolle erano secche come i sassi. No, gridava, no, la schiacciate, è ancora tanto piccola. Non lo vedete? Ritornerà la primavera, lo sapete.
Ora sapeva tutto.
Qual era il suo dovere, qual era il suo diritto.

 2. [Testo: “- Siete un pastore d’anime (p.257)] …il vostro progresso impoverisce i petrai?”(p.260)]

Siete un pastore d’anime e su questo io non ho alcun diritto. Ma ora parlate del bene materiale del vostro gregge. Cercate la causa della miseria sulla terra.
Fissava diritto con gli occhi inquieti.
Su questo, in quanto uomo di responsabilità, aveva il dovere di parlare chiaro.
– Voi dite consuetudine, diritto. Ma siete sicuro che garantiscano il benessere?
Se i loro nonni, i loro padri avessero seguito questa regola fallace, gli Asburgo con cui si era potuto stringere alleanza –anche il valoroso Crispi aveva avuto le sue debolezze- avrebbero potuto continuare a definire l’Italia un’espressione geografica. Roma, con rispetto parlando, non sarebbe la capitale della patria.
– Guardate qui che bel paradosso.
Si fermò a sorridere come di fronte a un capolavoro dell’arte. Riprese a fumare con soddisfazione.
Nel fondo della propria anima, non aveva mai dimenticato di amare la storia e di coltivarla. Anche don Liberio di certo vedeva che tutto il valore dell’epoca moderna, cioè dell’ultimo secolo, era l’aver insegnato che senza progresso non c’è giustizia, che la giustizia è la faccia morale del progresso economico.
– Dispiace che un pensatore sottile, sebbene alla fine sofistico, come il conte Leopardi abbia preso così a rovescio il pensiero francese, forse per troppo amore di polemica contro il suo tempo.
Dunque, per tornare al merito, se non può esserci giustizia laddove si può spartire solo fame, è stolto rispettare consuetudine e diritto allorché, come nel caso perorato da don Liberio con generosità mal riposta, significa impedire il progresso.
– Codesto rispetto del diritto è contro il diritto.
Il primo impulso fu d’alzarsi. Si faceva beffe. Et qui te percuit in maxillam, praebe et alteram. Se la durezza dei fatti lo scaraventava nel buio della ragione, si rimetteva alla parola di Luca. Si aggrappava all’obbedienza, ma non rinunciava a cercare ancora dio nelle maglie della parola, anche quando gli si sottraeva con uno sberleffo.
– Pretendete troppo.
La voce uscì più secca di quanto volesse.
Di fronte a sé il prete, alto sulla sedia dove era rimasto controllato anche nei momenti più appassionati del proprio discorso, senza mai poggiare le mani sul tavolino, impallidì. Se avesse pronunciato qualche minima offesa, l’avrebbe fatto cacciare. Ma seppe dominarsi. Duro come le sue montagne, rammentate nella sonorità delle sue sillabe, teneva le mani ossute sulle ginocchia. La tonaca lisa di prete di campagna gli pendeva addosso troppo larga. Gli occhi rimanevano immobili, ma nel volto traspariva la tensione.
– Sono solo un prete.
Il marchese aveva senz’altro familiarità con uomini di chiesa ch’egli neppure conosceva. A Petra, non trovava altro tempo che compitare le scritture, decifrare la sofferenza.
– Prima che diventi disperazione.
La luce fuori doveva essere cresciuta, il chiarore era appena meno fioco sui libri che coprivano le pareti. Però nessun’eco veniva dalla fuga di stanze alle spalle, da oltre il muro turrito davanti. Eppure al marchese sarebbe bastato un solo richiamo appena più alto, un colpo di tacco sull’impiantito, perché l’uscio s’aprisse.
– Sua eccellenza il marchese Ildibrandi mi parla del primato del progresso.
Ma era una lingua ignota per il prete. Il compito, semmai, era predicare il ritorno alla parola di dio.
Il volto cavallino era tornato come prima. Un’ostinazione sorda, impenetrabile come il profilo senza età che di nuovo restava in attesa.
Il marchese sorrise con pazienza.
– Come volete, don Liberio.
Accese con calma di nuovo il toscano, che era stato lasciato in disparte.
– Veniamo pure al sodo.
Non c’era bisogno d’essere agronomi, di aver letto i trattati di economia per capire che i lasciti feudali, come i mille usi civici nelle terre di proprietà privata, gli usi comuni dei campi demaniali, la mano morta della chiesa, per esser franchi, erano elementi oramai incompatibili con il progresso agricolo ed economico.
– Non mi avete lamentato la miseria dei vostri parrocchiani?
Si agitava allegro nella grande sedia imbottita di cuoio.
Poteva aggiungere, da parte sua, l’arretratezza della mentalità, l’ostinazione conservativa, i pregiudizi, l’ignoranza delle norme elementari dell’arte agricola razionale e moderna.
– Riconosco a malincuore una cosa.
Abbassò la voce per la confidenza.
– In questo, i de Saint-Phalle hanno insegnato a noi. Ora ho preso io in mano la cosa, con le cattedre.
Aspirò, si concentrò sul toscano. Poi riprese a parlare di slancio.
– Basterebbe che veniste un paio d’ore nel mio scrittoio. Tocchereste con mano.
Ma aveva occhi per vedere quello che i suoi stessi parrocchiani facevano e dicevano.
– Vedete, don Liberio, quegl’intralci sono la causa prima del permanere, del riprodursi di queste lamentevoli condizioni.
S’era cacciato in un tragico paradosso.
– Il vostro slancio generoso e sincero non conta nulla.
Volendo far del bene, alimentava le cause del male.
Sorrise, come chi avesse finito. Poi ci ripensò.
– Voi, don Liberio, avete il dovere d’istruirli.
Pose tutt’e due le mani sul tavolo. Si alzò, lo guardò questa volta dall’alto.
– Non incoraggiateli su di una strada senza sbocco e rovinosa.
Dovette attendere un attimo, prima che anche il prete si alzasse, sembrava volesse ancora dire qualcosa.
Si levò l’orologio dal taschino.
– Don Liberio – erano quasi le otto e un quarto- la nostra mezz’ora è abbondantemente passata.
Prima della porta si voltò.
– Marchese, perché il vostro progresso impoverisce i petrai?

3. [Testo: La virtù, cap.3 (pp.110-20)]

Lo Storiaio lo sapeva che i cani gli ringhiavano e i bambini piangevano, per questo era prudente. Ma non ne aveva paura, né se ne rammaricava, così come non ne approfittava. Sapeva quello che riceveva e quello che dava. D’altra parte, era difficile badare a tutti. Nelle giornate corte perché in casa si litigavano lo spazio, in quelle fitte dell’estate perché non si avevano gli occhi per tutti, malgrado l’aiuto dei più grandetti. Capitava sempre che uno si tagliasse la punta del dito con la falce fienaia appoggiata nella rimessa e accorresse in lacrime perché gliel’aveva mangiato la gallina, che un altro cadesse a sedere nella caldaia ancora non scolata dei maccheroni, il terzo fosse bicciato dal montone. Per questo le donne e i più grandi minacciavano i piccini di stare buoni, se no sarebbe passato lo Storiaio.
– Calmi –continuava a ripetere la ragazzina ai fratelli- vedete, non vi fa niente.
Aspettava seduto sul focolare. Nessuno aveva fretta, perché non era ancora la stagione della semente degli erbai. La Lente, che aveva riattraversato la mattina, sembrava un fossetto morto. Nel frattempo aveva tirato fuori il Barbanera, così anche i bambini potevano guardare le figure.
– Questa sera –disse il capo di casa- vogliamo la più bella.
Chiuse gli occhi per qualche secondo. Tutti i grandi si fermarono in attesa. Principiò. Sbalordì, chi ancora non la conosceva. Lo Storiaio non era più lui, la sua voce s’era fatta leggera, senza età. Cantava con un ritmo lento e sostenuto, che modulava agile le diverse intonature delle parti, ogni volta appoggiandosi alle pause, a scandire ora la fine del verso, ora il procedere della strofe, ora la chiusura del discorso. Anche i piccini s’erano messi ad ascoltare quel canto vario eppure familiare.

Giovinetta era bella et infelice
donna sola coi crudi suoi fratelli
ubidiente fa quel c’ognun le dice
ora i panni lava ora vende agnelli.
Ma un gran giorno venne Amor vindice
che i cuori infiamma e abbatte lor castelli.
Oh voi amanti imploro oh confortate
le due sventurate anime affannate.

Sostenuta dall’aiuto delle due donne, infilò le maniche e la testa con gli occhi chiusi. Soprattutto di quel momento aveva avuto paura. Ci si era preparata da tempo, quando le faccende le permettevano di rimanere sola. Nel sonno però lo spavento era senza freni. Anche per settimane intere, le era capitato di svegliarsi di soprassalto, alla stessa ora, in piena notte.
– Guàrdati, come sei bella.
L’avevano portata davanti allo specchio grande dell’armadio. A Rina tremava la voce, mentre le aggiustava le pieghe appoggiate al pavimento.
Dallo specchio fu investita da un fascio bianco che le chiuse la gola. Si smarrì, non riusciva a vedere nient’altro. Non l’aveva immaginato, le volte che l’aveva provato nella bottega stretta della sarta, tra tagli di stoffa e pezzi di carta.
– Prova ora a tirarti giù il velo.
La cognata sapeva sempre che cosa si dovesse fare.
Fece alcuni passi allontanandosi e avvicinandosi. Nel girarsi sui fianchi, per vedersi anche lei, doveva però fare attenzione a non pestarsi le vesti. Le due donne, mentre le tenevano lo strascico, le insegnavano i movimenti dei piedi e del corpo.
Rina, ogni tanto, doveva prendere il fazzoletto, anche se non nominò mai la sua amica, la povera Teresa.
Si rivolse alla cognata.
– Che fa Elia?
– Stai tranquilla. C’è Davide, con gli altri tuoi fratelli.
Rina le aveva ritolto il velo e tutt’e due l’aiutavano a levarsi di nuovo il vestito per pettinarla con agio.
– È un peccato che non possiate fare un’unica cerimonia!
Adele la guardò severa. Non si poteva avere tutto.
– Ambrogina ha ragione di volersi sposare nella sua chiesa madre –la guardò- Così oggi si sposa lei e domenica prossima Elia. Non tirate dunque di nuovo fuori l’argomento, Rina, mi raccomando!
Pietro doveva dirle qualcosa. S’era attardato mentre sparecchiava, dopo aver sollecitato gli altri a tornare al lavoro. Durante il pranzo era stato più pensieroso del solito. Già da quando era entrato evitava gli altri, con aria mesta.
A un tratto l’aveva chiamata perché si fermasse un attimo.
– Domenica ci sarà la messa di suffragio per il povero babbo.
Era il figlio più grande rimasto in casa. Toccava a lui.
– Siccome l’anno di lutto è finito, abbiamo pensato di fissare il matrimonio per la seconda o la terza domenica di febbraio.
La luce del sole entrava ormai persino in cantina. Indugiò ancora un po’, poi dovette muoversi, decise di aprire gli occhi. L’odore fresco del vino, così di prima mattina, gli mise la nausea. Dovette alzarsi a sedere sulla tavola. Sentì freddo e le ossa rotte. La bocca era amara. Aprì l’uscio all’aria fresca. Il suo compagno si lamentò della luce. Anche nella via c’erano qua e là gorate di vino, resti della festa, afrori acidi d’urina.
Dall’angolo sbucò Angiolino con il somaro.
– Allora, Bracala, ce la fai a stare in piedi?
Rideva in cima al basto. Tirò la cavezza. Si fermò per guardarlo meglio.
– Ieri sera Turchetta l’ha mostrato. Nessuno è compagno a lui.
Sbirciava verso la finestra, sopra di loro. Anche lui lo guardò con aria canzonatoria. Qualche giorno prima l’aveva scoperto, proprio lì, a cantare una serenata. Alla fine toccò il somaro.
– Diglielo, a tuo fratello, che è il meglio.
Il carnevale era finito. Si tirò su il bavero contro la tramontana secca che s’imbucava nella via. Sul lato dove batteva il sole, qualche finestra era aperta. Le donne facevano prendere aria alle lenzuola.
Non aveva voglia di tornare a casa. Per le vie non si vedeva nessuno. I passerotti volavano rapidi, bassi tra le siepi. L’aria fredda gli faceva bene. Si trovò per la strada che portava a Paiese. Proseguì.
Il caldo della camminata gli si gelava addosso, malgrado fosse ormai a metà mattinata, così cercava il lato assolato. Sbucò in piazza. Si fermò alla poventa, poggiando la schiena al muro tiepido. Passava solo qualche vecchietto. Non rispondeva ai loro sguardi. Gl’interessava godersi il sole.
A un tratto vide avvicinarsi una figura vestita di nero. Camminava veloce. Non fece in tempo a vederla in viso, quando gli passò davanti, perché teneva la fronte fissa a terra, avvolta nel fazzoletto nero. Aveva dei fianchi agili e rotondi. Era alta. Si mosse per seguirla, ma era già sparita dietro l’angolo.
Tornò a poggiare la testa al muro, con le mani in tasca, chiudendo gli occhi verso il sole. Lo sentiva caldo anche sulle gambe.
– Ragazzo!
Aprì gli occhi. Dentro la tasca strinse il coltello nella destra. Uno alto, più grande, si rivolgeva proprio a lui. Insisteva.
– Sei gracilino, ma sembri sveglio.
Allentò le mani.
– È quasi mezzogiorno –guardò il sole- ma se hai volontà, puoi guadagnarti lo stesso la giornata intera.
Poteva andare anche bene, non aveva nulla da fare. Ma conveniva non rispondere subito.
– Vedo che non sei di qui. E certo non ti sei portato dietro il tascapane.
Lo guardò addosso e ai suoi piedi.
– Ti faremo mangiare.
– Visto che insisti, di che si tratta?
– Seguimi, presto, se no non ce la faremo a macellare la vacca.
Gli andò dietro per spavalderia, ma era un lavoro che non aveva mai fatto, né visto fare.
Fu contento quando ormai era rimasta appesa ai ganci solo la carcassa senza pelle, ripulita da tutte le interiora. Era contento perché era riuscito a non vomitare mai, anche se in certi momenti aveva profittato della confusione per guardare da un’altra parte.
Erano fratelli molto severi. Certo la sera avanti non avevano festeggiato la fine del carnevale e non solo per il lutto. Erano di poche parole. Il più simpatico sembrava Giovanni, un ragazzino più giovane di lui. Spesso veniva brontolato, soprattutto da Elia. Diceva che era lento e sbadato.
– Piano con quell’acqua –raccomandava Geremia al fratello- la fonte è lontana. E tu spazza con forza!
Bisognava spingere sterco e sangue verso l’uscita, ma era difficile evitare di schizzarsi da capo a piedi. Era contento soprattutto che il lavoro fosse solo per quel giorno. Alla fine gli fecero lavare le mani e il viso.
– Venite a sedere anche voialtri. Tra poco ci porteranno da mangiare.
Nella stanzetta dietro il mattatoio c’era un tavolo con una panca e qualche sedia. Aspettò che fossero seduti. Erano tutti uguali. Alti, gli occhi chiari, i capelli biondi. Di Geremia, che aveva ancora una peluria non ben definita, si vedeva bionda anche la barba. Entrò con il pranzo. Era lei. Ora poté vederla in viso.
Cadde a sedere in fondo alla panca. Lei neppure lo vide.
Mangiava ma non aveva fame, neanche sapeva che cosa ci fosse. Gli occhi, erano gli occhi strani. Del tutto diversi da quelli dei fratelli. Non rotondi, ma lunghi, come le ali del falco. Intorno parlavano, forse dicevano proprio a lui, ma badava solo a mangiare. Riuscì a vedere anche il colore, in un movimento che poté cogliere quando si rivolse a uno dei fratelli. Erano verdi. Verdi, come i prati di maggio, come il grano delle colline. Anche i capelli erano diversi. Vide un ciuffo, di sfuggita, tra la guancia e il fazzoletto nero stretto al mento, come un orlo strappato dalla marruca. Una ciocca nera, lucida.
– Non bevi, Bracala?
Era un altro fratello. Più grande. Non sapeva quando fosse venuto. Ma non ce la faceva a muoversi. Sperava solo che non gli finisse il cibo per continuare a mangiare.
Finalmente se n’andò.
Improvvisamente si sentì bruciare dalla sete. Cercò sul tavolo la fiasca e bevve a lungo, a garganella. Il gorgoglìo dell’acqua nella bocca, nella gola gli faceva tornare il vigore nelle gambe e il fiato nei polmoni.
– Vuoi tornare domani?
Elia aspettava una risposta. Si sentì di nuovo senza forze. Il rifiuto gli sembrò la salvezza più a portata di mano. Ma non riuscì a parlare.
– Pietro è tornato con un altro ordine per domani.
Lo guardò, toccandolo su una spalla in un modo irritante.
– Sei a digiuno di tutto. Ma mi sembra che tu abbia bisogno. E in fondo, forse, il tuo pane te lo guadagni.
Domandò a che ora doveva presentarsi.
Pietro lasciò Elia ad aprire la bottega e andò con gli altri fratelli al Saragiolo. Era ancora la mattina buia del febbraio. La notte aveva gelato. La bestia macellata il giorno avanti sarebbero venuti a prenderla tra non molto.
Cominciarono a preparare nella luce ancora livida dell’alba. Si sentì chiamare. Era Bracala, malvestito e con l’aria di chi non ha finito il sonno, come il giorno prima.
– Stai qui, aiuta Geremia. Io vado con Giovanni a prendere la bestia.
Nel mandriolo, il bove ruminava pacifico. Era un animale magnifico, per le corna composte e la forza, bene in carne. Giovanni s’era fermato davanti il cancello, con la morsa e il paiale in mano.
– È davvero peccato, macellarlo.
Quell’affare era stata una fregatura. Per quello aveva fatta l’ultima litigata con babbo.
Aveva avuto ragione lui.
Babbo già non poteva più andare a vedere la bestia. Ma la descrizione e il prezzo per lui erano sufficienti. Il bove era viziato, non l’avrebbero rivenduto. Saremo costretti a macellarlo, disse.
Giovanni, che continuava a rimanere in silenzio, aveva parlato senza intenzione, lo sapeva. Ma l’aveva fatto a sproposito.
– Vai a prenderlo tu, che sei più svelto.
Era l’animale più tranquillo che avesse visto. Anche per questo si era fatto fregare. Solo quando gli mettevi la morsa dava una cornata, un sola, dal basso in alto, come se dovesse scacciarsi una mosca. È ancora giovane, gli aveva detto il commendatore, vedrai che basta qualche altro giorno di doma. Invece si doveva essere parecchio svegli. Giovanni aveva imparato bene la mossa. Bisognava andare sotto il muso dell’animale, di lato, poi, una volta messa con un unico gesto la morsa, già infilata nel paiale, al naso, ci si doveva quasi contemporaneamente buttare in terra, supini, a evitare la puntata del corno, senza lasciare la morsa. Dopo si rimetteva tranquillo e potevi farlo lavorare quanto ti pareva.
Giovanni l’accarezzava vicino alla testa, parlandogli. Il bove piegò appena il collo verso di lui. Ruminava pacifico. Agganciò veloce e si scagliò nella terra ghiacciata. La massa grigia fece un piccolo movimento indietro, poi rapido piantò il corno. Il corpo di Giovanni rimbalzò appena, subito il sangue schizzò sul muso dell’animale, in terra. Si squarciò un grido, lo spinse indietro d’un passo. Si gettava nelle scaglie di ghiaccio. Gridò e gridò. Gli sollevò la testa scavata fino alla bocca. Gridò ancora. Respirava. Con le dita cercò piano, nel collo, sotto il bavero della giacca, fra la camicia, sentiva la vena. Pulsava regolare. Chiamò. Il sangue colava ma non vedeva fiotti. Gli occhi lo guardavano stupiti.
– Geremia. Il dottore!
Ma era già volato a pelo sul cavallo.
– Che fai costì impalato? Strappa un pezzo della tua camicia!
Alla fine non aveva più saputo prendere una decisione. Si sorprendeva d’essere rimasto. Non aveva simpatie per i Mosè. Ma le disgrazie erano venute a grappoli.
– Noi abbiamo bisogno –gli disse Pietro- Già con la malattia e poi la scomparsa del povero babbo ci siamo trovati in difficoltà.
Tacque. Forse per una preghiera, i Mosè erano molto religiosi.
– Ora non sappiamo per quanto Giovanni starà via.
Davide si vedeva poco, ma senza l’aiuto che egli aveva ottenuto dal marchese, il più giovane non ce l’avrebbe mai fatta.
– Ci vorranno parecchie operazioni.
Gli avevano dato una sistemazione nella stanzetta dietro il mattatoio, perché non era possibile, alla lunga, andare tutti i giorni avanti e indietro da Petra. Ma non sempre si macellava, così si occupava delle bestie che spesso si trovavano nella stalla al Saragiolo e andava a prendere quelle che Pietro comprava nelle campagne. Ogni tanto, il fratello più grande doveva partire per la capitale, da Giovanni, così era Elia a sostituire Pietro, lasciando Geremia da solo. In queste occasioni, lo mandavano anche ad aiutare in bottega.
Ma era al pranzo al Saragiolo che ogni volta avrebbe voluto sprofondare via. L’angoscia principiava già quando capiva dalle occupazioni della mattina che sarebbe stato inevitabile mangiare tutti insieme nella stanzuccia dietro il mattatoio. Lavorava dunque fuori di sé, nell’assillo d’una scusa per alzarsi presto, o addirittura di non sedersi, anche se sapeva che girava a vuoto, come una macina rotta. Provava a ripetersi mille volte le parole per lasciare subito, per riprendere le strade che portavano a nuovi campi e paesi. L’ora invece arrivava improvvisa, senza neppure accorgersi se qualcuno gli aveva detto o comandato qualcosa. La vedeva sempre dal proprio posto, in fondo alla panca. Gli passava davanti una sola volta, silenziosa, senza mai volgere lo sguardo. S’era convinto che fosse più alta di lui. Non sapeva che voce avesse, né capiva di quale fratello fosse più grande o più piccola. Portava sempre i soliti pesanti panni neri, ma contro ogni sforzo si coglieva a immaginare i movimenti leggeri del suo seno pieno, fin giù, ai fianchi rotondi.
Rina non era contenta della pettinatura. Brontolava che si doveva chiamare la parrucchiera.
Che cosa direbbe la povera Teresa, le scappò alla fine.
La cognata era nervosa. Di là dalla porta Davide bussò per chiedere a che punto fossero.
Non entrare!, gridò Adele e Rina la guardò con rimprovero per il modo con cui s’era rivolta al marito.
Ambrogina aspettava paziente in quel tramestio, come se alla fine niente la riguardasse.
Geremia aveva lasciato lui in bottega, per andare a fare due chiacchiere con gli amici. Ormai era diventato abbastanza esperto, poi aveva mostrato d’essere affidabile. Bracala cercava nel guazzabuglio del magazzino dietro la bottega. A un certo punto sentì dei rumori e si rese conto che duravano da un po’, insistenti. Si mise in ascolto. Erano dei colpi sordi. Sembravano venire da una porta in fondo. Non ci aveva mai fatto caso, pensava fosse una porta cieca: accostò l’orecchio. Quindi l’aprì, dava in un corridoio lungo. Una figura che gli tolse il respiro si mosse verso di lui dalla finestra, gli passò davanti veloce e andò sicura a chiudere con il peschietto la porta che s’era lasciato alle spalle.
Il tempo sprofondò negli azzurri del cielo e il respiro di strade mai viste ebbe il sapore delle querce, il profumo dei castagni, in bocca si smarriva l’asprigno delle felci. Bastò la calma dei suoi occhi che per la prima volta sentì fermi su di sé, perché ogni paura fosse d’un tratto scomparsa. Urlò e pianse, senza freni. Fragile anche lei e forte, come le foglie di marzo.
I giorni si fecero lievi come le ali del falco e la notte fioriva la mentuccia. Le giornate erano ogni volta imprevedibili, la possibilità si apriva a qualunque istante. Gli bastava la sua voce rara, quei suoi sorrisi senz’ombra per sentirsi di nuovo insieme con chi aveva conosciuto da sempre, preso in un tremore fondo, inaspettato, che lo tratteneva, come la vista del suo collo bianchissimo e del suo seno, il tepore dei suoi fianchi docili.
Davide alla fine poté entrare. La sposa era pronta. In quanto uomo più grande della famiglia, toccava a lui portare la sorella all’altare. Entrato nella stanza, di fronte a lei, sembrò anche lui emozionarsi, forse cercò la sua mano. Rimase fredda.
– Partiamo –disse Rina mentre si soffiava- se no facciamo aspettare troppo lo sposo.
– È vero –rispose Davide, avviandosi all’uscio- Nati sarà davanti la chiesa già da mezz’ora.
Aveva inteso subito che c’era qualcosa d’insolito, dal modo con cui Pietro era entrato nel mandriolo. Era occupato a governare le due giovenche portate il giorno prima. Ma non vi aveva riflettuto. Bracala lo salutò allegro.
– Lascia. Vieni, che ti devo parlare.
Camminava davanti a capo basso. Aveva l’incarico dei fratelli.
– Sappiamo tutto.
Gli parlò solo nella stanzetta.
– Il peggiore dei ladri, profittando della nostra ospitalità!
Parlava con sofferenza, quasi a stento, sottovoce.
– Come gli assassini! Sparisci subito con i tuoi cenci, prima che gli altri vengano a darti quello che meriti.
Si guardava intorno, ma non c’era nessuno al Saragiolo che potesse sentirlo. Lo fissava timoroso, come se si aspettasse da lui una resistenza aggressiva. Forse era già pronto ad altri argomenti.
Fu subito sicuro della scelta. Lo sapeva già, dalle cacce e dalle petraccole di Petra, dalle fungaie cercate da piccino. Quando la strada si biforca, c’è sempre, da qualche parte, un sentiero che si allontana.
Prese il suo pastrano, il suo tascapane e se n’andò. Senza parlare.
Il pranzo era stato ricco, come Davide aveva voluto. I Mosè erano parecchio numerosi, poi si erano invitati gli amici, le persone importanti. Il Nati era di una famiglia di proprietari tra le più vecchie di Paiese. L’arciprete aveva contribuito alle declamazioni dei distici nei brindisi che erano durati per tutto il banchetto.
La breve domenica di febbraio già chinava al tramonto, quando Ambrogina e Nati si alzarono da tavola. Dava il braccio a lui, mentre gl’invitati passavano davanti a salutare, dai più distanti in grado di parentela e d’importanza ai prossimi. Accanto le rimaneva Rina, un pochino in disparte, pronta ad aiutarla. Ambrogina era quasi più alta dello sposo, già un po’ provato dal lavoro della terra e dall’antica responsabilità della famiglia. I fratelli, più giovani, stavano in fila dalla sua parte. Il babbo li aveva lasciati presto e da ultimo anche la mamma.
La sposa era di una bellezza senza confronto. I capelli nerissimi, i verdi occhi distratti, la pelle di latte la facevano sembrare dipinta.
È giovane come l’acqua, dissero i Cavallari quando si congedarono.
Tutti gl’invitati erano stati salutati e pochi rimanevano ancora a chiacchierare. Più distante, quattro uomini gridavano giocando alla morra.
Davide e la moglie s’avvicinarono agli sposi che erano ancora in piedi, dandosi il braccio:
– Forse è opportuno che vi si accompagni alla Colomba. Vi aiuteremo a portare il corredo e il resto.
Ambrogina si strinse al fianco di Nati.
– Noi –disse guardandolo bene negli occhi- abbiamo deciso che né tu, né nessuno di voi sarà mai benvenuto alla Colomba.
Davide sbiancò, poi arrossì stringendo la bocca. Guardò furente Nati. Questo annuì muto.

4. [Testo: L’allegrezza, cap.1 (pp.189-95)]

– Scusate, non avete l’usanza…
– Permesso! Permesso!
– …di chiedere l’offerta?
– Giovanotto! Sono carichi, sei orbo?
– Scànsati!
– Sì, scusami.
– Hai visto Nunziata?
– Chi? Non…
– Ohe, ragazzi, qui mancano le lucerne!
– …voglio dire… Non sono di qui.
– Ragazziii! Dove saranno finiti.
– Chi ha controllato i lumi, qui? La casa di Caterina è ancora senza. Ragazzacci!
– Pensano solo a baloccarsi.
– Qualcuno vada a chiamarli.
– Ora avverto Angiolino.
– No, resta a darmi una mano. Ehi, vacci un po’ tu, invece di startene lì come un piollo, che almeno ti levi dal passo.
– Io? Non conosco…
– Permesso! Per piacere. Permesso! E due!
– Va bene… vado subito.
Chi sarà quest’Angiolino. Come lo riconosco?
Eppure era arrivato subito dopo pranzo, perché a Petra non c’era mai stato. Voleva avere il tempo di guardare in giro. Invece già principiavano. I pomeriggi erano diventati appena più lunghi, ma la luce era già opaca nella via che s’infossava tra i muri delle case. Tutti correvano, come se fosse troppo tardi. Non era facile arrivare alla proda opposta.
– Leo! Finalmente ti ho trovato. Guarda che lo dico alla tua mamma. Controlla subito con i tuoi compagni i lumi alle case, che si sta per principiare.
– Corro. Venite con me!
– Credi che potrò vederlo? Ci sarà?
– Sono sicura di sì. Magari questa sera al ballo. Di certo non gli fa paura la distanza.
– Attenti alle chiorbe!
– Alzate, che lo sbattete in capo a qualcuno, voi.
– Piano…
– Accidenti come pesa.
– …pare un uomo morto!
– Ehi, tu, leva codeste mani di tasca. Sei monco? Aiutaci!
– O sei cieco?
– Forse è anche sordo.
S’avvicinò a chi reggeva la zampa di dietro. In due era più facile tenerlo alto. Il legno di quercia strapiombava. Chissà da dove avevano tirato fuori quel tavolaccio. Ogni passo era un rischio.
– Piano. Prendi l’altra, ora.
– Ecco, accosta, giù.
Finalmente il tavolo fu collocato vicino il muro, proprio dove la via avvallava di più.
– Bravo. Ora andiamo a pigliare le seggiole. Vieni.
– Attenti, la scala. Fate posto!
Li perse quasi subito. In capo alla via, verso la chiesa, da dove era entrato, ora s’intravvedeva la fiamma d’un fuoco. Proseguì a fatica. Aveva visto all’arrivo che Petra, come gli avevano detto, era dispersa a gruppetti, fra le siepi e gli alberi. Invece lì le case serravano la strada tra due muri. Non c’era via d’uscita, solo gli usci delle stalle dei somari e i portoni delle scale. Forse per questo l’avevano scelta.
– Accidenti…!
Riuscì a chiappare al volo il ragazzetto che in cima a una scaletta appendeva la lucerna.
– Dove guardi, citrullo!
Ogni tanto la ressa lo costringeva a sgusciare in mezzo alla via, anche perché lungo il muro stavano piazzando qua e là panche e seggiole, per i più vecchi e per le donne.
Alla fine, ce l’aveva quasi fatta. Da quell’entrata avevano già sistemato il banchetto per le offerte. La via da lì, dove il terreno rialzava, pareva una lunga sala a festa, mentre dal fondo il fuoco spandeva il profumo di castagno sopra il brusio inquieto dei capi e l’afrore delle stalle. Invece da questa parte, sbucato oltre la folla e la strada, l’orizzonte s’apriva verso occidente, orlato di campi e boschi. L’aria del metà febbraio arrivava più cruda.
– Ehi, giovane, muovi il culo.
Un omone teneva per la cavezza il somaro carico di legna.
– Sì, dico a te, bischeraccio. Vieni qui!
Si avvicinò alla soma.
– Reggila da codesta parte, che scarico la sinistra.
S’appuntò con tutt’e due le mani al carico, perché non trabaschiasse.
– Che fai, Zeffiro? Prima falle cascare in terra.
– Macché! Me le carico qui, così non devo piegarmi. Le tue, poi, le sciogli in terra.
– Siamo pronti o no con questo fuoco?
L’omone lasciò cascare la gran bracciata di legna sopra il mucchio di frasche.
– Svelti, svelti! Il ragazzino è rimasto incastrato. Non vedete com’è diventato rosso?
Ridevano. Ma non ce la faceva davvero a liberare una mano per sciogliere la fune.
– Meno male che i somari sono bestie intelligenti. Se si muove, lo scheggia!
Non poteva nemmeno chiedere aiuto. La vociona rideva di gusto.
– Dai, Zeffiro, sciogliamo.
Il somaro si scosse insieme con il rotolio che finiva in terra. Si sentì rinato.
– Vieni, Zeffiro, si fa un altro viaggio di legna. Con te e il somaro si porta per tutta la nottata.
– Bada come parli, che con i petrai ci gioco due a due come con le ciliegie.
Dette una manata sulla coscia del somaro che barcollò, allungando il passo dietro il padrone.
– Vieni con me, ragazzino –quasi lo sollevò da terra- mi sembri nella stoppa.
L’ultima casa della via finiva in un masso che saliva ripido fino alla finestra. In basso diventava un sedile naturale. S’era trovato a sedere come disceso a volo, a poventa dell’arietta che rigava il cielo. Il sasso era ancora tiepido. A due passi, prima del banchetto d’ingresso, si principiava ad accendere il fuoco.
– Questa sera ci sarà da divertirsi.
Rispose con un gesto del braccio e il fischio potente di pastore a chi dal mezzo l’aveva chiamato.
– Vedo che a Petra sei a casa tua. Avrai qui la tua fidanzata, questa sera…
– Che ti pigli un colpo! –la manata sulla spalla lo fece sbattere contro il sasso- Mica sarai uno delle satire, con codest’aria da madonnina? Sei venuto qui a coglionarmi?
– No, no. Non so niente.
– E da che mondo sei rivato, allora, se sei come sembri?
– Speravo d’aver tempo di guardare, invece già si principia la festa.
– Che credevi? Questa è la regina del carnevale. Nessuna, per quante terre si conosce, può competere con la bella mescolanza di parlate che hanno figliato qui, nel paese che non si trova!
– Hai ragione. Dopo la fonte, mi hanno detto, passa per la Croce. Ma non l’ho vista da nessuna parte.
– Zeffiro, che fai lì accucciato? Sei già stanco?
– No, ti sbagli. Piange sulla spalla del ragazzo, perché Zoraide gli ha voltato il culo!
S’alzò di scatto, ma nonostante avesse travolto due o tre troppo lenti, non riuscì a agguantare chi lo beffava, già sgusciato giù per la via. Tornava mogio, nero come un tizzo.
– La prossima volta –lo strattonava- dammi un cazzotto sul grugno, capito? Se no te lo do io. Zeffiro, sei un imbecille! Piglio subito fuoco. Se gli do soddisfazione, mi spellano con le satire.
– Dai, Zeffiro, non esagerare. Non è successo niente.
– Ma allora sei citrullo davvero! Guarda, che sei capitato a casa del povero Turchetta.
Anelito si era deciso solamente alla fine, d’andare in piazza. Il pensiero che Turchetta, in serata, avrebbe rappresentato con i suoi compagni la nuova satira non gli dava requie. Aveva persino pensato di mandare la moglie sola, che infatti non stava nei panni. Ma sarebbe stato peggio. Si scopriva con rabbia a pensare a lei. Persino a guardarla di nascosto. Invece Lea era più serena del solito. Intuiva che lo controllava con la coda dell’occhio, quando restava immobile a seguirla nelle faccende e vedeva che ne aveva piacere. Lo capiva dall’espressione del volto distratto, dai suoi movimenti, come studiati allo specchio. Però non aveva il coraggio di dirle niente.
– Da quando Turchetta ha inventato queste satire, a Petra non si passa più.
Ugo cercava di rimanergli accanto, si muovevano a stento.
– Chissà che avrà ricavato quest’anno.
Non riusciva a star dietro le parole.
Lea era andata con le sue amiche. Ma non era con Elena, che sbucava da un gruppetto.
– Ti ho veduto e sono corsa. Pensavo che Lea fosse con te.
Pareva preoccupato.
– La troverò, grazie, stai tranquillo.
Le amiche s’erano già allontanate, dovette allungare il passo badando d’evitare gli spintoni.
– Allora fate per dispetto. Ve l’ho detto, che le scarpe fine mi fanno male!
– Chi bella vuol apparire…
Si misero a ridere.
– Oh, si pensava di farti un piacere.
– S’è visto che t’eri allontanata di fretta.
– Non si voleva disturbare.
– Eri così allegra con Anelito.
– Forse mirava a Ugo.
– Scemette! Cercava la moglie.
Scoppiarono di nuovo a ridere.
– Forse fa bene.
– Lea è la più bella ragazza di Petra.
– Non solo di Petra, cara.
– E questo, prima di sposarla, doveva saperlo.
– Comporta qualche rischio.
– Anzi, qualche peso.
– Non si dice dove.
Ridevano, come i pollai a mezzogiorno.
– Ma volete finirla di sputare sulla mia amica? Invidia, ecco che è. Viperette!
Ugo lo guardava, gli aveva domandato qualcosa. Ma non aveva ascoltato.
– Scusa, con questo rumore.
– Ti dicevo di Egidio.
I petrai mischiati ai forestieri erano allegri. Ogni tanto chiamavano qualcuno a bere. Finora era riuscito a tirarsene lontano. Sarebbe stata una sbornia triste.
– Quale Egidio?
Parlava dei Mosè. Mentre seguitava a cercare in giro, doveva ogni tanto rispondere. Ugo era astemio. Intanto continuava a parlargli, non s’accorgeva che non l’ascoltava.
– È stata una botta dura.
Non aveva riveduto neppure Elena. Si fermò di colpo.
– Come!
Tirò Ugo per un braccio:
– È morto?
– C’è stato il trasporto mercoldì.
Aveva lasciato un branco di figli giovani con una sorella sola. Le redini erano passate a Pietro.
– I Mosè sono sempre stati così, le case piene di figlioli.
– Comunque c’è Davide, l’ufficiale di posta.
– L’ultimo affare di Egidio, prima d’allettarsi, forse è stato proprio il castrone di Turchetta.
Il primo cavallo che a Petra fosse stato comprato. L’aveva voluto a tutti i costi. Nei giorni di festa, usciva dalla stalla del Cecio e principiava a passare su e giù per le strade. Il babbo faceva finta di scuotere la testa, ma dentro di sé si sentiva fiero di quel figlio più grande. Parecchi, come a Paiese e nei dintorni, si divertivano con la caccia, ma ai suoi figli, come del resto a lui stesso, non era mai interessata. Così non vedeva niente di male in quel lusso. Turchetta era benvoluto da tutti, perché i petrai erano gente festosa e il figliolo sapeva sempre inventare qualcosa. Se io una notte voglio arrivare a farmi il bagno caldo alla Cascata, disse quella primavera, come faccio senza un cavallo? Per questo si comprò il castrone nero.

5. [Testo: “- Però non ho capito (p.249) … per barare nella conta” (p.251)]

– Però non ho capito. Chi è quest’avvocato Borzi, Bruzzi, Ferri…
Aveva approfittato della buona stagione per fare ricerche negli archivi. Bisognava partire dalle carte, perché i padroni facevano parlare il diritto. I terratichieri invece, secondo loro, parlavano per sentito dire. La consuetudine, dicevano, era figlia dell’abuso. Ormai la strategia era chiara e il fronte compatto. Dopo la negazione del legnatico in inverno, una dopo l’altra erano arrivate le disdette di terratico, delle fide e, ora, con gli asciuttori del settembre, anche del diritto d’affrascatura. Senza poter affogliare le pecorette rimaste con gli scamolli, che secondo il buon uso dell’arte tagliavano a rotazione, i petrai si vedevano costretti a venderle ai Mosè. Le carte necessarie però non si trovavano nel comune. All’arcipretura c’erano solo i libri dei nati, dei morti e dei matrimoni. Nemmeno le carte degli scrittoi erano utili, ammesso che fossero consultabili. Così rimaneva solo l’archivio della città lontana. E don Liberio non poteva permettersi una cavalcatura.
Quale fu la sua sorpresa, quando scoprì lì impiegato un suo compaesano. Non aveva più saputo nulla di lui, da quando aveva lasciato il seminario. L’abbracciò commosso. Riuscì così a scovare il privilegium federicianum del terzo vento di soave, come lo chiama il venerando. Il privilegium provava senz’ombra di dubbio che Paiese con il suo territorio era stato elevato a feudo e concesso all’illustre famiglia che la resse, insieme con tutti gli obblighi relativi gravanti sui servi del contado, connessi però con i piccoli sollievi degli usi civici. La sorpresa fu ancora più piacevole, quando trovò quegli usi confermati e protetti dai soprusi negli statuti del 1472, che Paiese si dette ergendosi a comune. Veduto che la terra nostra viene in abondanza d’omini e i legnare per fuocho viene per lo pocho riguardo de’ maggiorenti e pocho sentimento, che per lo avenire non sia nisuna persona posa ramare, né tagliare afraschare e bestiami eccetto per aratri, chapanne, chiostri, correnti e simili chose e legnia per chasa e non si posi fare chataste né monti se non soma per soma e chi chontrafarà paghi per pena e nome di pena di soldi venti per arboro e per caschuna volta che faciesse.
Lo guardavano contenti. Il più inquieto era Sergio.
– Don Liberio, si deve dire a tutti.
Era quasi l’ora dell’angelus. Il sole illuminava l’ultimo angolo della canonica. Santi aspettava.
– A Petra si decide sempre insieme.
Nunziata li aveva convinti.
Prima del suo arrivo, si faceva tutto in canonica, comprese le feste da ballo. Ma ora, anche se non ci fosse stato il prete, non ci si sarebbe più entrati. Petra era cresciuta.
– Ha ragione Nunziata –disse alla fine Santi- bisogna fare l’adunanza in chiesa.
Uscì a pregare nella capanna di dio. S’inginocchiò, sprofondò nella penombra. Cercò, con gli occhi chiusi nelle mani, la verità e la parola. La certezza non accadeva sulla terra come il sole del nuovo giorno. L’apostolato poteva avere un senso, oppure no: dio non chiedeva all’uomo di non sbagliare. Chiedeva solo di essere al posto giusto e di fare quanto si può.
Baciò le lastre fradice che neppure il settembre asciugava. Bella era la tela, legata con la corda sopra l’altare.
I petrai erano contenti d’incontrarsi in chiesa dopo cena, come per la messa di natale, senza che però si dovesse attendere nessuna funzione. Sembrava di essere tornati a prima che arrivasse il prete residente. I ragazzini giocavano a nascondino dietro l’altare e si rincorrevano fra i grandi, approfittando del vocio per barare nella conta.

6. [Testo: “La busta, riservata, veniva dal brigadiere…, pp-262-69]

La busta, riservata, veniva dal brigadiere di Paiese. Aprì subito.
Eccellenza monsignor arcivescovo, ragioni di prudenza che certamente condivide m’indicano la necessità di prevenirla della sentenza che sta per essere resa nota dalla corte di cassazione, circa i fatti noti di Petra e di cui sono stato riservatamente informato. Rammento, per pura memoria, che trattasi del terratichiere Carmelo, il quale resiste alla disdetta sostenendo, con numerose testimonianze di compaesani, di sementare da molti anni il campo della Farniola a titolo di uso civico, in ragione di uno staio per ogni staio di seme.
– Fratelli.
Il silenzio non era solo vuoto. Gli occhi che lo guardavano pacati crescevano in forza. Nella capanna di dio c’era ormai solo la luce delle candele.
– Questa sera devo confessarmi.
Cavò di tasca la lettera dell’arcivescovo.
– Per questo vi ho chiamati.
Carissimo pievano, oggi medesimo la sentenza della corte di cassazione conferma in via definitiva, come forse già saprai, il giudizio sfavorevole al riconoscimento del preteso diritto di uso civico chiesto da un tuo parrocchiano.
Conosco la forza del tuo amore per dio e per la chiesa, l’ardore della tua abnegazione di cui abbiamo parlato e che talvolta mi ha costretto a rammentarti le virtù della temperanza e della prudenza. Certo condividerai con me il timore, perché pur troppo fondato, di gravi disordini alla notizia della sentenza. Non devo sprecare parole per convincerti del male che da essi nascerebbe per la salute fisica e spirituale del gregge da te tanto amato e che da te fiducioso attende opera di protezione, ammaestramenti di prudenza, di rettitudine. Quindi sono sicuro che non hai dimenticato la virtù dell’obbedienza e che constatato il fallimento della strada generosamente tentata saprai spendere l’autorità meritatamente conquistata per chetare le ire del tuo gregge, ché non si ribelli il giorno in cui chi di dovere dovrà far eseguire la sentenza e invece, rassegnato, la accetti.
In attesa di una tua risposta sollecita, ti benedico e mi ti professo affezionatissimo in Gesù cristo benedetto.
Il silenzio era grande. Di attesa, di preghiera.
La domanda non aveva bisogno di voce.
– Ho già inviato la mia risposta. È obbedienza.
Caterina gridò. Squarciò il silenzio.
Altri no si levarono sussurrati, disperati. Consolazioni e guaiti. Bestemmie.
Et clamans voce magna Iesu ait: pater in manus tuas commendo spiritum meum.
Ti sputo, dio dei preti. Che vuoi da me? Lontano dal culo! Vai all’inferno. Succhia pure il latte delle tue vacche. Lecca nel trogolo dei tuoi maiali.
Amen dico tibi. In manus tuas.
Consolate don Liberio. Salvatelo dalle fiaccole e dalle trosce del suo paradiso. Sbrattatelo della merda dove s’insoglia. Sbaraccate il lezzo. Spalancate ai venti e al sole la stalla di dio. Nostra doventerà la verità.
Sergio fischiò per fare silenzio.
Non era vero che non erano valse le botte, la denuncia, il processo.
– Vogliono il moderno?
Era saltato sopra una panca.
– Anche noi! Ce lo pigliamo, collettivo.
La discussione si frantumò in tanti gruppetti incerti tra il timore e la speranza.
Meglio perdere tutt’insieme che uno alla volta, si disse.

7. [Testo: “Paiese sembrava sentisse la febbre del nuovo secolo (p.305) …l’antico lavoro di carrai” (p.306)]

Paiese sembrava sentisse la febbre del nuovo secolo; la bella epoca. Nei mesi estivi, quando i campi davano più respiro, le vie sin dal primo albore si pienavano di tonfi e spolverio di calce, perché dappertutto si costruiva, si riattava, si migliorava. Il comune aveva fatto la sua parte, l’ingegner Friggi non aveva perso tempo. Lasciati i bagagli a Elia che glieli sistemasse nella camera frettolosamente affittata, firmata la nomina, non si fermò un attimo nel suo ufficio. Subito volle che il Cavallari l’accompagnasse a un sopralluogo della piazza, delle vie, degli edifici pubblici. Ma la prima urgenza era abbattere il relitto di porta che ancora resisteva dalla parte della città lontano. Il sindaco rimase interdetto. Era l’ultimo avanzo fradicio d’una fortificazione spazzata via da chissà quale delle tante devastazioni che avevano scorrazzato le terre. Un pugno nell’occhio, prima ancora che una strozzatura insensata. E il cimitero? Cavallari non fece neppure in tempo a riprendersi, che l’ingegner Friggi s’era già avviato. Il cantiere principiò dunque dal rudere d’ingresso, poi si spostò nella piazza. Le famiglie in vista non vollero rimanere indietro. I lavori proseguirono, con intensità diversa, per cinque o sei estati. I giovani Pericle e Temistocle si fecero allora le ossa e il capitale. Oltre la piazza, si lastricarono via del Crocicchio, via della Pieve e naturalmente via Piana. Si avviò la costruzione del nuovo camposanto, si edificarono anche le scuole elementari, in via della montagna, e alla fine fu installato in piazza il primo lampione a petrolio. Solo l’ingrigirsi del cielo, con l’arrivo degli sbuffi umidi dello scirocco, quando sementi e raccolte autunnali richiamavano, dava di nuovo respiro a Paiese, mentre la sera, dopo il rientro, le case ritrovavano finalmente la quiete e il profumo dei focolari. Le opere principiate, le vie scavate, i tavoloni aggrappati agli scheletri dei muri entravano allora in letargo, nelle piogge prima e poi sotto la coltre silenziosa che arrotondava e rimodellava i profili. Quando però i tonfi dei martelli, delle mazze, dei picconi riprendevano da dentro le case e dalle vie, si sentiva addosso un’impazienza, un’attesa che non risparmiava nessuno, anche se non tutti la seguivano. Chi non poteva permettersi di chiamare Pericle e Temistocle, faceva da solo, imparando e sbagliando in proprio. I facoltosi predilessero via Piana, che nacque proprio allora, diritta, ariosa, con il suo sguardo privilegiato sulla piazza e insieme discretamente appartata, ornata di bei palazzetti borghesi, solidi, sobri, epperò eleganti nei portali di travertino e nelle rostre di ferro, come chiedeva la nuova raffinatezza dell’epoca bella. Anche i fratelli Furzini ne beneficiarono, ché seppero capire al volo i disegni e le richieste dell’ingegner Friggi, cosicché principiarono a battere sempre più il ferro per rostre, grate e cancellate via via lasciando indietro l’antico lavoro di carrai.

8. [Testo: “Si capisce che l’uomo non è una bestia…(p.361)…impegnato lontano da Santa Lucia” (p.362)]

Si capisce che l’uomo non è una bestia. Ma il diritto nasce dal lavoro, perché solo questo dà il companatico, è solo con questa intelligenza che l’uomo si divide dalle tane. Difatti campare, campa anche il lupo. E tuttavia nell’uomo, soprattutto in quelli che non sanno da dove arriva il pane perché quando si siedono al tavolino c’è sempre qualcuno che gliel’ha portato, si trova ogni volta chi ridiventa lupo.
Carrezh lavorava duro e nessuno come lui sapeva modellare selle, martingale, pettorali, redini, ciondoli, testiere, briglie, riscontri, chiudibocca, collari, sottocollari, groppiere, sottopancia, sottocoda, finimenti da attacco per singoli così come per pariglie. Occ, gli ripeteva, perché il lavoro principiava con la scelta del cuoio, della vacchetta, delle imbottiture e di tutti i materiali. Guarda poi bene prima se è cavall da parada, da posta, da saltador, da scassonar, da sela, da stanghi, da viaz o alter, perché è lu che fatiga, nient el patron. Dopo un anno che lavorava, Carrezh continuava a controllargli meticoloso ogni taglio, ogni cucitura, ogni battitura, di modo che poi non provocasse ulzra o cal.
Non sempre capiva le frecciate contro lo sbgazz da do test, o più ancora contro il traditoron che gli s’era sostituito per lasciare le cose come e peggio di prima. Povrett, sospirava sperando nel tempo, el me montanoeul. Guàrdati dalle spie, diceva, locco come sei. Sono cimici da schiacciare nei canti con un colpo solo.
Soprattutto sentì come uno speciale accanimento personale contro di sé il fatto che in tutto il Ducato dei sassi annessi, el pioeucc d’pioeucc, la blatta infoiata venisse a cercarsi un’amante proprio di fianco alla chiesa di Santa Lucia. Dednanz la me bottega! Ogni volta che lo vedeva arrivare, principiava a bestemmiare, scaraventava via il trincetto, si avventava all’uscio.
Egli allora sentiva una stretta. Faceva quel che poteva. Gli raccontava del suo paese, cantava una romanza, gli domandava se lo spago era quello giusto, se la battitura del cuoio poteva bastare. Ma la distrazione non sarebbe durata a lungo. Così, dopo un mese di angustie, Carrezh prese a insospettirsi di lui e dovette tacere. Un sabato di marzo, come altre volte, gli chiese di tornare anche l’indomani. C’era da finire un lavoro per la consegna. Come al solito rispose contento, perché ancora la domenica si sentiva sperso, da solo, nella città sempre troppo grande, troppo sprezzante, troppo rissosa. Nella bottega di Carrezh, invece, si sentiva a casa sua, oramai conosceva quasi tutto, anche se aveva bisogno dell’occhio severo del maestro, e poi era sicuro che quel giorno di festa il duca sarebbe stato impegnato lontano da Santa Lucia.

9. [Testo: “Stato di nutrizione scadente(p.393) … si dimette in data odierna, affidandogliela a custodia” (p.393)]

Stato di nutrizione scadente, sviluppo scheletrico regolare, organi genitali normali in rapporto con l’età. L’esame obbiettivo, difficoltato dalla condizione mentale della paziente, non pone in evidenza alterazioni a carico dei vari organi e apparati della vita vegetativa. Non si sono osservate temperature febbrili. Nulla di notevole dal lato somatico. Ha partorito da otto anni. Si notano alternative di confusione e di relativa lucidità per cui l’attività percettiva, che prevalentemente appare torpida e inadeguata, si fa in altri momenti aderente agli stimoli sensoriali e capace di sufficiente svolgimento gnosico. Per quanto non chiaramente delimitabile è probabile, in base agli atteggiamenti e alle espressioni mimiche, l’esistenza di turbe psicosensoriali allucinatorie. L’ideazione è quanto mai frammentaria, tanto che non è facile individuarvi particolari corsi deliranti, per quanto alcune frasi indichino un orientamento persecutorio. L’umore presenta indubbiamente delle componenti ansiose, che peraltro appaiono soverchiate dallo stato confusionale che domina tutto il quadro psichico. L’affettività, per quanto discontinua nell’estrinsecazioni, appare in complesso conservata. Volizione incoordinata afinalistica e salvo i periodi di relativa lucidità disordinata e elastica. Esiste larvata coscienza di malattia. Imperfetto l’orientamento per il tempo e l’ambiente. Dorme poco anche con l’aiuto d’ipnotici.
Diario. Tre agosto, è venuta a trovarla la zia. La visita ha in parte alterato lo stato di relativa lucidità. Cinque agosto, si è dovuta interrompere la terapia insulinica per chiara manifestazione d’intolleranza fisica. Venti agosto, la zia, venuta a trovarla e sembrandole migliorata, ha chiesto di averla a casa. Cinque settembre, è venuta a trovarla la zia che insiste per portarla a casa. Nonostante le condizioni della malata sostanzialmente invariate, per soddisfare questo desiderio della congiunta, si dimette in data odierna, affidandogliela a custodia.

10. [Testo: “Riposava Mosè, sentendo la pazienza dell’altro (p.385) …della doppia violenza, sull’altro e sulla natura” (p.388)]

Riposava Mosè, sentendo la pazienza dell’altro. La cenere fra i due tizzi spenti in vista non era immobile, odorava di tepore, di zuppa.
Sorrideva Lorenzo.
Bisogna però averli visti, i lavoranti a giornata. Si faccia anche a meno di sentire i Salonne, che sottratto il terratico sono stati i primi a campare per lo Stracci. Per quanta perizia e fatica essi sudino, non aumenta la sera la paga o la speranza di lavoro per domani. Né di questo il padrone si cura, sebbene urli il contrario, perché suo solo interesse è quanto a cena gli resta in saccoccia. Chi ci rimette davvero è il lavoro ben fatto, quello che conosce e rispetta l’uomo e la terra.
Lorenzo vedeva il giorno chiaro. Nella nicchia riposava la mascella monca.
Si consideri: è lu che fatiga, nient el patron. Il baschio della terra non potrà scioglierselo manco la notte, manco il giorno di cristo, perché smagato dal lavoro che lo sfama. Così, nella furia senza fine che lo trascina alla morte, la terra gli diventa più nemica del suo padrone, né avrà tempo di conoscerla, oltre la soglia dell’appetito restato insaziato.
Lo Stracci, che possiede la terra che l’altro aggioga, si sbroglia da subito della fame e si bea nel suo godimento. Epperò può godere il frutto solo perché incavezza altri alla trasformazione che glielo produce, cosicché anch’egli niente conosce del suo possesso, la terra e l’uomo, all’infuori di quel tanto che conduca al suo godimento creduto perenne. Se il suo orizzonte è il mondo, niente cura e manco immagina, fuori di sé; se pretende infinito il proprio tempo, è persuaso che sia vero solo il presente.
La terra fruttifica, dunque, e sbalordisce ognuno, più d’ogni castello d’atlante, ma nessuno s’avvede dell’arsenico. La catena è quasi perfetta, inebria i lirici, rassoda i padroni, fa fiorire i deserti e le montagne, cresce smisurata, signoreggia come mai era accaduto nei millenni terra e cielo, tanto che anche il più basso guarda ammirato e si dice anch’io son parte, oscurata la morte del rimanente. Come al tempo delle piramidi, uno solo possiede quanto mille della sua terra, ma in più ora il proprio dominio abbraccia il mondo, dove milioni di esseri umani occorrono per eguagliare il profitto della sua giornata. Più cresce il castello, più aumenta l’arsenico, che caria le forze della terra e dell’uomo. Avvampa in un secondo migliaia di esseri umani e i viventi, storce nel seme fin la radice dell’uomo. Affonda il veleno in falde mai toccate da mano umana, scuote i freddi eterni e gli oceani, divora il futuro delle piante e degli animali.
Mosè e Lorenzo ascoltavano il soffio del mare, appena levato. Attendeva l’oro delle felci e delle arnie, dell’umile ciclamino. Il cuculo inseguiva tra i rami spogli il ragno pasciuto, ancora in silenzio.
Mosè vedeva quanto il detto taceva. I suoi occhi sorridevano.
Non per caso, da voci diverse lungo i secoli il denaro è stato detto un flusso sanguigno che irrora le membra del genere umano. Ogni cellula per lui vive e s’accresce, subito muore dove il flusso si secca. Appena alcuni uomini hanno imparato a servirsene, all’istante hanno visto il potere crescere nelle proprie mani. Tutto può essere misurato e scambiato con una tessera che il solo palmo chiude, di ciò che esiste, come di ciò che più non esiste, o non esiste ancora, o che mai esisterà. La tessera medesima può perfino diventare mero numero, cosa mentale, matematica concreta nemmeno materiale, pura parola, in senso stretto spendibile. La pretta luce della verità ci schiuse quel felice, che la circolazione del denaro ha paragonato alla circolazione della parola, la meccanica del valore dell’uno alla meccanica del valore dell’altra. Ha così permesso a noi di vedere chiuso il cerchio che dal nutrimento fisico sanguigno porta al signoraggio mentale: si squaderna a noi la verità mondana dell’oscura allusione di sacerdoti antichi che, tramandandosi il segreto geloso delle tracce magiche con cui sapevano riportare in vita la lingua, dicevano quei segni parola di dio.
Nessun divieto, qui, è più possibile, nessun ponte levatoio. Né è percorribile alcun ritorno, se non, a quanto è dato sapere, a prezzo d’una catastrofe immane.
Però l’afflusso vitale, crescendo le membra che lo creano perché fattosi uno il genere umano, s’ingagliardisce, sovverte l’ordine, impone esso il comando, dettando a uno lo stento, all’altro la morte, a un terzo l’affluenza. Unica ragione del denaro divenuto capitale è la crescita, in ogni momento maggiore della capacità dei suoi organi. La società da esso creata è tale, è stato detto da mente autorevole, che se tutti i creditori chiedessero contemporaneamente di veder convertito in valore reale il loro attestato di credito, essa crollerebbe, perché poggiata sul debito. Chi, comandando la legge, conosce i segreti del flusso, asseconda, cavalca la spinta, che è favorita dall’accumulo in pochi luoghi e mani. Costoro drenano da tutti i gangli, coltivando squilibri progressivi di ipertrofie e anemie, consunzioni. Per questo il flusso raggiunge, a ondate, la dismisura e minaccia cieco di soffocare, come il tumore, l’intero organismo. Costoro profittano allora del sopravvenuto stato di necessità, a tutti palese, per amputare uomini e cose perché sgorghi il salasso, perché la circolazione con la crescita riprenda. Ad ogni nuovo avvio, l’onda allarga i suoi giri e si fa più possente, tanto che a uno stretto circolo d’uomini, appena superiore alle dita della mano, a uno solo di essi è concesso, in un soffio, con l’unico gesto dell’indice, sottrarre l’intera massa di denaro, divenuto mero algoritmo, di una nazione, svuotandola. Come mai era accaduto in alcuna civiltà, milioni di esseri umani sono allora travolti, o in grande uragano apparecchiato, o in dispersi stermini quotidiani, nei miti scheletri viventi.
Girava lento il sole la punta del giorno; non venivano attizzati i legni del fuoco. Il pranzo attendeva. Lorenzo scuoteva la testa tra il dubbio e la certezza.
Se manco il terrore può proteggere i confini, se anche le rivolte vengono disperse e annientate, non però si può dire petrai campate d’aria. Uno da solo può farlo, mangiando spesso erbe selvatiche, ma solamente perché gli altri seguitano a lavorare anche per lui. E zia Concettina, per imparare, entrava paziente nelle case a cucinare.
Mosè chinava la fronte. La nuvola umida dell’aprile velava ora il sole.
Lorenzo prese da terra il tascapane dell’ospite. Versò dal fiasco che aveva portato un dito di vino nero nelle tazze di coccio, quando Mosè le tolse dalla nicchia. Profumava di foglie di castagno e di lampone. Nel suo cerchio, s’accendeva calmo un riflesso di sole.
Ascoltavano Lorenzo e Mosè la penombra della Fontaccia. Sorseggiavano piano nel meriggio, vedendo uno negli occhi dell’altro.
Attende queta ora la caverna, nelle brume degli dei del mattino.
Appariva oramai deserta da secoli, quando v’irruppe leggera la ragazza veniente.
Apprendere attraverso il soffrire è la via del pensiero maschile, perché non sa amare Madre Natura, ma vuole invece penetrarla con lo sguardo, per dominarla. Erige così un edificio dello spirito lontano da essa, da cui le donne siano escluse, dal momento che il pensatore, il sofferente sente, senza saperlo, che anch’esse sono la radice del tormento, tenutogli vivo dal battito del proprio cuore.
Sorrideva la ragazza. Leggeva con sereno furore.
Giudizio contro voglia è, non sapienza. Cultura innalzata a negare la natura, perché il godere inseguito si serve della doppia violenza, sull’altro e sulla natura.

 

2 pensieri su “Sulle prode di “Domani”

  1. “Per me la parola è sempre l’ultima carta contro le mani legate, scrivo se non posso dire”. Nella frase la *parola* si scinde in scrivere e dire, la parola è lotta, la prima arma è dire, la seconda scrivere.
    La densità del post me la spiego con la fitta compagnia, sempre messa avanti, nel libro e negli interventi sul libro. Compagnia di condivisori del pane, e di ventura: “In passato, schiera di uomini armati sotto il comando di un capitano, sia formata di cittadini, sia composta di mercenarî”, e nome valido ancora nelle forze armate e nella marina militare (Treccani, vocabolario online). Quindi ho colto l’importanza della pluralità dei punti di vista, chi è che sta parlando, nei dialoghi stessi del libro (quelli almeno riportati nel post)? E nello scalare della lingua, a seconda che sia del narratore, o dei personaggi in persona, o del personaggio che impersona un narratore universale all’interno del libro.
    E’ solo un’osservazione da lettrice del post, per cogliere il resto dovrò ritagliarmi uno spazio tra le notizie e i pensieri di guerra.

    1. Mi sorprende e mi convince – la lettura contribuisce sempre al senso del testo, che altrimenti rimarrebbe ‘lettera morta’ – l’osservazione di Cristiana Ficher sul dividersi in due (armi) della parola. Me ne approprio. Grazie

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