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C’è un’altra memoria, altra vita germoglia

di Donatello Santarone

La copertina del romanzo di Velio Abati, La memoria delle piante, riproduce un dettaglio da un quadro di Caravaggio del 1597, dal titolo ironico Buona ventura, in cui ad un primo sguardo ci sembra di vedere due mani che fraternizzano, ma poi, analizzando il particolare nel contesto dell’opera, scopriamo la scena di una giovane zingara la quale, mentre legge la mano ad un nobile cavaliere, gli ruba l’anello che porta al dito. Oltre ad un’allegoria di tipo morale – non farsi ingannare dalle apparenze, non cedere alle seduzioni – credo che per Abati ce ne sia una di tipo storico, direi socio-economico: la legittimità da parte delle classi subalterne a riappropriarsi delle ricchezze che le classi dominanti hanno nei secoli sempre sottratto ai dominati con la violenza dello sfruttamento. Il gesto della zingara, in questa prospettiva, non è quindi il gesto di una ladra, ma quello di un soggetto storico finalmente autonomo e consapevole, ed è emblematico, tra l’altro, che si tratti di una donna, che pretende un risarcimento, che rivendica una giustizia.

Se questa interpretazione è plausibile, allora anche il titolo si chiarisce nel suo significato più profondo: la memoria delle piante non allude alla nostalgia di un sogno bucolico ma ai vissuti storico- naturali dei milioni di senza nome non riconosciuti che hanno attraversato nel corso della storia le opere e i giorni. “Però – scrive l’autore – c’è un’altra memoria, altra vita germoglia, che chi domina conosce assai bene, nonostante che con altri nomi la dica, perché in essa ha radici e, se interrogato, la tratti non diversamente da ossa del paleontologo. E’ la stessa memoria delle piante, delle rughe della terra, del corpo di chi passa per strada. E’ nelle parole che senza fatica conosci, nei colori che vedi nella levata del sole, nell’occhio che guarda chi incontri.” (p. 101). Dove va subito notata la curvatura poetica, lirica della prosa, attraverso il chiasmo iniziale, “c’è un’altra memoria, altra vita germoglia” e il ricorso ad un andamento ternario, metricamente scandito, che vuole evocare e prefigurare attraverso la bellezza della forma e pur nella durezza della storia, un mondo di relazioni e di futuro.

Ma accanto ad una memoria storico-sociale è presente anche una memoria personale, esistenziale: quella del padre, parola che compare una sola volta nel libro: “Come libellula, padre, sei passato.” (p. 53). In tutto il testo è invece presente con numerosissime occorrenze la parola “babbo”, a voler accentuare, attraverso il toscanismo, la dimensione domestica, affettiva oltreché di insegnamento morale e materiale del padre così centrale in tutto il romanzo.

Mi accorgo di aver utilizzato la parola “romanzo”. Ma ripensandoci bene, più che romanzo definirei La memoria delle piante uno zibaldone di squarci lirico-evocativi, di pensieri narrativi, di riflessioni narrate. Un intreccio di micro racconti tenuti insieme da un io narrante che ricorda e argomenta. Una stratificazione di registri percorsi sempre dallo sguardo degli ultimi del mondo. Tutti espressione del mondo contadino maremmano: qui non ci sono gli operai dell’industria, i salariati del capitalismo moderno. Ma i contadini, come ho già accennato, sono rappresentati senza nessuna nostalgia ruralista, nessuna mitizzazione di una presunta incorrotta identità contadina. Per Abati i contadini sono nostri contemporanei.

Tutto questo richiama un confronto con il romanzo maggiore di Velio Abati, dal titolo Domani, una narrazione lunga, distesa, densa in cui si mette in scena l’epopea dei subalterni. La memoria delle piante, rispetto al romanzo maggiore, è forse più contratto, più gridato nelle parti argomentative, nelle riflessioni storico-politiche. Mentre le narrazioni di vita contadina sembrano “schegge” corpose uscite dal romanzo maggiore. Anche se qui con una più evidente dimensione autobiografica.

Un’ultima considerazione sulla lingua. La sintassi mi sembra molto sorvegliata, colta, spesso di tono alto, pur se con frequenti andamenti “regionali”. Il lessico, invece, è fortemente attraversato da un fitto e ricorrente ricorso a parole del mondo agrario, da parole tecniche o arcaiche, dal dialetto maremmano e toscano.

Niente andrà perduto. La poesia di Velio Abati

di Donatello Santarone

La raccolta di poesie Questa notte (Manni, Lecce 2018, pp. 80, € 12) di Velio Abati consiste in  un canzoniere asciutto, fatto di “coscienza chiara e angoscia mortale” (Per una tenzone), Continua la lettura di Niente andrà perduto. La poesia di Velio Abati

Sul lettore. Un dialogo a tre

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Riprendo volentieri dalla sezione “Mattinale” del  sito di Velio Abati questa discussione a tre fra gli amici Velio Abati, Donatello Santarone e Walter Lorenzoni non tanto perché trae spunto da una mia amara constatazione per gli  scarsi commenti a due recenti post “lunghi” di Poliscritture (“Sulle prode di “Domani”” dello stesso Abati e “Parole beate” di Sagredo) ma soprattutto perché essa s’intreccia con la discussione su “Per chi scrive Poliscritture?” e più indirettamente anche con quella su “Pornolandia.La morte della sessualità” e mette a fuoco un disagio diffuso tra quanti vedono con allarme e quasi sgomenti lo scarto crescente  tra modi sempre più divaricati di rapportarsi al “mondo” o alla “realtà”:  i nostri e quelli  delle generazioni più giovani.  I dialoganti accennano anche al problema che da decenni ci logora sul che fare o sul come reagire (e persino se sia ancora possibile reagire). Mi auguro che il senso di impotenza, certamente da riconoscere, non ci paralizzi e che qualcosa ci spinga sia a interrogarci con coraggio e rigore sulla storia da cui proveniamo sia, come suggerisce Abati, a 
«scrutare luci nella notte». [E. A.]

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Sulle prode di “Domani”

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di Velio Abati

Bisogna riportare l’attenzione critica su “Domani” di Velio Abati. Nel maggio 2014 ne parlai qui ed altri lo fecero sul blog dello stesso autore (qui). Ma il silenzio è caduto su quest’opera difficile, volutamente fuori moda rispetto alla narrativa italiana contemporanea  e sul suo autore, che non ha ceduto né ai pentimenti politici né a quelli letterari. A questo primo rendiconto sull’accoglienza ricevuta dal romanzo, scritto dallo stesso Abati,  seguiranno  alcuni interventi di lettori di “Domani” ai quali ho richiesto una rilettura meditata e critica dell’opera. L’immagine pittorica di Toti Scialoia che accompagna questo post mi è stata fornita dallo stesso Velio.  Ho preferito collocare i brani del romanzo, da lui citati nel resoconto, in una “Appendice” per permetterne una lettura autonoma  ma anche facilmente  riconducibile al suo bilancio. [E. A.] Continua la lettura di Sulle prode di “Domani”

C’era una volta il «Gabellino»

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di Walter Lorenzoni

«Il Gabellino» (1999-2006) nacque come semestrale della Fondazione Luciano Bianciardi di Grosseto ed interpretava l’esigenza di un gruppo culturale, già attivo da diversi anni, di continuare il proprio percorso di lavoro dotandosi di uno strumento che fosse, nel contempo, uno spazio di riflessione e un’occasione di interlocuzione con altri soggetti. Fin da subito, fece proprio il duplice profilo, istituzionale e militante, che caratterizzava la Fondazione, impegnata sia nella conservazione che nella produzione culturale. La rivista, per un verso, gravitava intorno alla figura di Bianciardi e alle varie attività dell’istituzione di riferimento e, per un altro, invece, ricercava un’autonoma proposta intellettuale, nella direzione di uno sguardo «civile» sulla realtà, tentando così di allargare i propri orizzonti culturali al di fuori dell’ambito specifico di competenza. Continua la lettura di C’era una volta il «Gabellino»