di Alessandra Pavani
Sotto l’arcata l’alba era nera. Il bestiame era stato decimato; su di loro era sceso il ragno con le fauci spalancate, e per tutta la notte avevano appeso carcasse alla luna. Era arrivato a bordo delle navi straniere, come i folli del villaggio di Gheel. Ora, sulla porta della canonica, il boia mormorava come un fiume, e davanti al duomo sfilavano i cavalli; suonavano le campane al loro passaggio.
Lungo gli sporchi corridoi della città, le donne rumoreggiavano con le braccia cariche di lenzuola da lavare, mentre sui ciottoli rilucenti di lacrime i gatti inseguivano gli ultimi sogni della notte. Era la città che si risvegliava, ma si risvegliava nel buio.
La Mesata si chiamava così perché le condannate vi rimanevano rinchiuse per un mese. In quel mese alcune morivano, e vi lasciavano lì, tra la vostra pelle e la loro pelle che marciva. Vi andava sotto le unghie, negli occhi, in bocca. E nei capelli. Ma quasi tutte le condannate i capelli se li strappavano appena entravano. Lì dentro, trenta giorni duravano trenta anni. Sotto, scorreva il fiume.
Ma chi era quella creatura che, per sfidare la morte, s’insinuava tra le zampe dei cavalli, e poi, suonando il flauto sul ponte, guidava danzando i clerici vagantes verso l’Università, oltre le botteghe e il Liceo? Era altissimo, sembrava la statua di un dio, ma indossava il frac come un diavolo scivolato dal diciannovesimo secolo. I suoi lunghi capelli erano d’argento, e i suoi occhi bistrati. Era Ivan Divina, ed era uomo e insieme donna. Erano sue le mani che torturavano le condannate. Tutte quelle Madonne armate di misericordia che sorridevano dalle finestre murate le aveva partorite lui. E ognuna vi ravvisava il proprio tormento: la lesbica vi vedeva la donna; la puttana vi vedeva la vergine; la faiseuse d’anges vi vedeva la madre. Ivan, Ivan, perché mi punisci? Usava i loro capelli, Ivan Divina; ne faceva parrucche che poi, a Carnevale, vendeva sulla piazza. Mancavano pochi giorni, ormai. La città cominciava a riempirsi, nonostante la morìa, e anche tutti quei goliardi pregustavano il sapore della festa. Ora, sotto l’arcata, l’alba era nera, ma tutto era musica e gioia. Passato il ponte, la Mesata era lontanissima; dal campanile qualcuno lanciava le ultime stelle, e le finestre del Liceo erano illuminate come gli occhi di un innamorato. A chi giungeva nella città per la prima volta, la vita e la morte davano il benvenuto con la stessa voce, ed era la voce di Ivan Divina.
Come i suoi compagni d’Università, Hysalf era venuto per il Carnevale. Gli avevano letto le carte, e da quelle aveva appreso che lì, nel bene o nel male, il suo destino si sarebbe compiuto. E poiché nessuno può cambiare ciò che già è stato scritto, Hysalf si era unito al corteo, ed ora danzava con Ivan Divina sotto i portici, al suono della voce che cantava:
“Or che il giorno sta sorgendo,
Or che Giove ci ha sorriso,
Tu d’amor già stai fremendo,
Già s’illumina il tuo viso.
Siate allegri, o giovanotti,
Viva Dioniso e l’ebbrezza,
Ché saran le vostre notti
D’ardor piene e di dolcezza.
Ora scegli, o Don Giovanni,
La regina del tuo gioco,
Siano eterni i tuoi vent’anni,
Sempre acceso sia il tuo fuoco!
Questi giorni son sì brevi
Che già lascian le tue mani;
Godi dunque, danza e bevi!
Può non esservi un domani.”
Hysalf era bello ed era giovane, e non pensava mai al domani. Aveva riso al risposta dell’indovina. Non era fuggito. E anche adesso, attorniato dai suoi compagni, era a passo di danza che andava incontro a ciò che lo attendeva. Un solo fremito lo aveva scosso quando, appena giunto in città, prima di attraversare il ponte, era passato davanti alla Mesata. Si era sentito come soffocare, e aveva guardato con sgomento le bestie morte che pendevano dal cielo. Ma proprio allora aveva udito il suono del flauto, e della sua breve angoscia si era dissolto anche il ricordo. Carnevale, Carnevale, ogni suo pensiero si protendeva verso l’ultimo giorno di Carnevale. Ed ecco che, nel momento stesso in cui vi fantasticava sopra, l’ultimo giorno di Carnevale era giunto, ed Ivan Divina era il Re dei Folli. Portato in trionfo dai goliardi, aveva ormai conquistato la piazza, e già folleggiava davanti al duomo. C’era un puledro bianco che correva per i vicoli, ed era così leggero che pareva intessuto di nebbia. Inutile inseguirlo; era lui che vi veniva incontro, quale che fosse la vostra direzione. Nella notte, una fanciulla folle d’amore si era lacerata il cervello, e le sue visioni si erano sparse per la città, mescolandosi alle maschere. E le maschere erano ovunque, misteriose e irriverenti, lascive e oscure. Le eleganti teste femminili, sorrette da colli di cigno, ostentavano come gioielli le lunghe chiome rubate alla Mesata, e quei capelli sconsacrati mulinavano festosi nell’aria, spargendo tutt’intorno i loro miasmi d’abisso. Ma era naturale, in tempi d’epidemia, odorare d’inferno, e nessuno se ne curava. Il giubilo era ovunque. E se dai tetti del Liceo piovevano coriandoli, le porte dell’Università riversavano nelle strade il loro tributo di lieta gioventù. Ivan Divina, incoronato dalla Musa Comica, troneggiava sopra il carro principale, e ognuno riceveva la sua benedizione.
Ma altri carri seguivano, e su uno di questi, abbigliata come una sacerdotessa, una giovane donna reggeva una bilancia; sopra v’era scritto: hinc Deprimor, Erigor Illinc. Hysalf la guardò, e pensando alle streghe di Oudewater credette di riconoscerla, pur non avendola mai vista. Per un istante si sentì nuovamente soffocare. Gli sembrò che, se fosse stato una donna, e si fosse rimirato nello specchio, avrebbe visto riflessa quella stessa immagine. Ma all’improvviso la ragazza si levò la bionda parrucca e scoppiò a ridere. Hysalf sospirò di sollievo. Era tornato anche il sole.
Quando suonò il mezzogiorno, Hysalf era già innamorato. La ragazza si chiamava Ysa, ed era una delle nove devote di Ivan Divina. Seduta di fronte a lui nella bottega del maestro, raccontava:
“Da giorni e giorni gli animali continuano a morire. Presto toccherà anche agli uomini. Io passo le notti a truccare visi e a pitturare corpi, e su quei visi e quei corpi ho già scorto i primi segni del contagio. E’ stata una straniera a portarci il male. Appena sbarcata in città, l’hanno rinchiusa alla Mesata: anni prima aveva cercato di strangolare il suo bambino. Prima dello scadere del mese però è morta, e dalla bocca le è uscito un ragno. Alla Mesata è tutto un brulichìo di mostri, ma quel ragno è riuscito a fuggire attraverso uno squarcio aperto nel cuore di una Madonna affrescata. E quel ragno ha infettato l’intera città.”
Come irretito, Hysalf fissava la massa di capelli biondi che la giovane stringeva tra le mani, e intanto mormorava con voce da sonnambulo:
“Sono anch’io uno straniero, sono anch’io uno straniero… Perché ridi?”
E mentre il pomeriggio volava via, sfumava anche la risata di Ysa, perdendosi negli ultimi fremiti del Carnevale. Cominciava la Quaresima, e la città sprofondava nuovamente nell’oscurità.
Sdraiato sulla sua brandina, Hysalf dormiva e sognava. Sognava il fiume grigiastro, pieno di figli rifiutati; sognava una pioggia di coriandoli che torturavano la carne come schegge di vetro; e sognava il boia, che mormorava sulla porta della canonica. Un mormorìo snervante, quasi una nenia, che, ad ascoltarla attentamente, diceva:
“Or che il gioco sta finendo,
Or che Giove ha sanguinato,
Tu d’orror già stai gemendo,
Già s’approssima il tuo fato.
Cogli in fretta il tuo diletto
Pria che, avulso dal tuo diario,
Cali il Tempo sul tuo letto
Qual mefitico sudario.
Chi per prima t’ha sorriso
Tornerà, e sarà la sola;
Già il suo amore porti inciso
Come un bacio sulla gola.
Il suo avvento è sì vicino
Che già senti le sue mani.
Corri dunque al tuo destino;
Sarà eterno il tuo domani.”
E alla fine il boia si toglieva il cappuccio, facendo fluire sulle sue spalle una massa di capelli biondi.
Ad Ysa pensava molto, durante le lezioni all’Università e le libagioni serali; in sogno, tuttavia, non la vedeva mai. Come se non esistesse, o, meglio, come se fosse qualcun altro. Una maschera che nascondeva un volto da lungo tempo dimenticato. E quando poi indossava quella bionda parrucca, i cui capelli continuavano a crescere, Hysalf si sentiva soffocare. Lei rideva nel vederlo soffrire, e lui sempre protestava:
“Ma è morta, è morta! Che cosa può farmi ormai?”
Ma intanto gli incubi continuavano. A volte sognava il ragno e la bilancia, altre volte il puledro intessuto di nebbia. E sempre si svegliava sentendo le campane suonare a martello: come
Ysa aveva predetto, il contagio aveva cominciato a spargersi anche tra gli uomini.
I compagni di Hysalf avevano già abbandonato la città, e lui era sempre più solo. A seguire Ivan Divina oltre il ponte non erano rimasti che pochi audaci, giovani temerari che si ostinavano a bendarsi gli occhi. Ma, come ben presto Hysalf apprese dallo stesso Ivan, anche quelle bende erano ricavate intrecciando insieme i capelli della Mesata.
Erano ovunque, quei capelli: pendevano sulla città minacciosi e opprimenti, come da un lampadario sospeso nel cielo, come le carcasse appese alla luna. Toglievano il respiro, e trattenevano il contagio nel labirinto dei vicoli. Dall’ultimo giorno di Carnevale il sole non si era fatto più vedere. Ogni mattina, sotto i portici, le nove devote di Ivan Divina guardavano passare gli studenti, ma rimanevano immobili come statue. Per non sognare, non dormivano mai, e così non invecchiavano. Perfino la loro giovinezza rimaneva immobile. Ma, d’altronde, che cosa non era immobile in quei giorni di Quaresima? Tutto si era fermato, nella stagnante monotonia di un morbo che falciava sempre più vittime. E Hysalf sapeva che la Pasqua non sarebbe mai arrivata finché al ragno non fosse stata restituita la pace. Le carte non avevano mentito: il suo destino lo attendeva in cima a quelle scale che, presto o tardi, ogni giovane innamorato deve salire. E lui le avrebbe salite con Ysa. Ma aveva tanta paura. E prima di offrire il suo olocausto voleva parlare per l’ultima volta con Ivan Divina, di cui solo ora aveva scoperto la vera natura.
Ivan lo attendeva in Chiesa, nascosto dietro la tenda del confessionale. Era la prima volta che Hysalf si addentrava in quel luogo sacro, e sapeva che non ce ne sarebbe stata una seconda.
“E’ giunto il mio momento. Forse ho aspettato anche troppo, ma non ero ancora sicuro… Ora sono pronto. Ormai in città mi guardano tutti con odio. Bisogna che io concluda ciò che la mia genitrice ha cominciato.”
Da dietro la tenda sporse una mano che reggeva un cofanetto d’ebano, e una voce, la voce di Ivan Divina, che diceva:
“Verrà Ysa stasera alla tua locanda. Avrà i capelli che ben conosci. E perché tu possa andartene in pace io ti assolvo da ogni peccato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.”
Quando, più tardi, Hysalf uscì dal duomo, dovevano essere passati anni e anni. Si ritrovava improvvisamente alle porte della città, di fronte a coloro che ne erano stati allontanati perché colpiti dal male. Gente che lui aveva visto giovane appena il giorno prima, e che ora lo fissava minacciosa da dietro un immondo reticolato di rughe e di piaghe. Migliaia di dita erano puntate verso di lui, accusandolo silenziosamente. E quando Hysalf, atterrito, si voltò per tornare a rifugiarsi in chiesa, vide che non era più una chiesa, ma un lebbrosario. Anzi, era la Mesata. Solo che le finestre non erano più murate: inquadravano invece una miriade di volti femminili, pallidi, lontani, indecifrabili.
E c’erano donne anche sul tetto, che a lui sembravano immobili, ma che, non appena ne distoglieva lo sguardo, cambiavano di posto. Aprivano la bocca, come a dirgli qualcosa, ma dalle loro labbra non usciva un solo suono. Era un incubo, era peggio di un incubo. Perché una di quelle donne lui l’aveva riconosciuta, e rivedere quel volto dopo così tanto tempo era come precipitare a testa in giù nell’utero della Terra. Hysalf chiuse gli occhi; in quell’istante qualcuno mormorò:
“Hysalf, figlio mio!”
Risvegliatosi bruscamente, Hysalf si accorse di essere nella sua camera, e che Ysa, china su di lui, gli sorrideva con dolcezza.
“Un uomo non è mai così bello come quando è coricato su un letto”, gli stava dicendo.
Sul viso di lui ricadevano fluenti le sue bionde chiome, e ricordando le parole di Ivan Divina egli capì che era arrivata la fine. Allora fece l’amore con lei, più e più volte, nel vano tentativo di rimandare all’infinito il compimento del suo destino. Era come se, nell’impeto di ripetuti amplessi, egli cercasse di estinguersi. Giunse addirittura a sanguinare. Ma anche quando le sue forze si esaurirono, anche quando, stremato, si staccò da lei per l’ultima volta, il cofanetto d’ebano era lì, a ricordargli che doveva ancora compiere quell’estremo passo.
Ysa dormiva al suo fianco, con le labbra socchiuse. Cercando di non svegliarla, Hysalf prese il cofanetto e lo aprì. Eccolo lì, il ragno, posato sul velluto come un gioiello, ma come un gioiello vivo, fremente, terribile. Hysalf lo afferrò delicatamente, e delicatamente lo pose tra le labbra di Ysa. Poi si fece il segno della croce, si coricò ed attese.
Fu la locandiera a trovarlo, la mattina dopo. Ad Ivan Divina raccontò poi di aver udito delle strane grida, quella notte, come di un bambino che venisse strangolato. Ma non c’erano bambini nella stanza: c’era solo Hysalf, rannicchiato in un angolo del letto, livido in volto, con una fune fatta di capelli biondi stretta attorno al collo. Ysa non era più lì, ma nella piazza del mercato, ad annunciare che la città era finalmente libera dal contagio. Le campane suonarono a festa e fu celebrata la Pasqua. Le carcasse del bestiame falcidiato si staccarono dalla luna e precipitarono nel mare, e alla fine anche loro ebbero pace.
…la scrittura di Alessandra Pavani si presenta sapiente, gotica e ricca di simbolismi, per me non semplici da spiegare…Lo sfondo della vicenda narrata sembra uscito da un (eterno) medioevo dagli aspetti oscuri e ciclici: la “Mesata” con le sue donne, vittime sacrificali in adorazione del demonio bisessuato Ivan Divina, la Giustizia maschera minacciosa e irridente sul carro trionfale, il vitello di nebbia che insegue nei vicoli offuscando le menti, un Carnevale di sfrenato e scomposto divertimento..Segue la Quaresima con il sacrificio dell'”eroe”, giovane studente straniero, che si immola liberando il paese dall’incantesimo del ragno e dalla lebbra…Come in un sogno o incubo: il destino è predetto dall’amata, i gatti liberano i sogni, i capelli fluenti in parrucche e corde che strozzano e odori e suoni…La trama, credo, si riferisca anche al rapporto violento tra umani sdoppiati nei generi
Lei ha colto perfettamente quelle che sono le costanti delle mie opere: la ciclicità, la pena (non sempre ben precisata) da scontare, l’ambiguità sessuale. Quello che cerco di evocare nella mente del lettore è l’idea di una libertà che imprigiona (lo studente viene intrappolato nel suo destino proprio durante il Carnevale, festività che è il simbolo per eccellenza della libertà) e di una prigionia che libera (le donne rinchiuse scatenano le loro pulsioni più intime tra i muri della Mesata). Il passato che ritorna rende entrambe le condizioni (di libertà e di prigionia) temporanee e sempre incerte. Così come incerta è l’identità sessuale di Ivan Divina. Io personalmente trovo che la figura dell’Ermafrodito sia una delle più affascinanti della mitologia classica; ovviamente, in questo oscuro Medievo dominato da una Chiesa il cui custode è un boia, non può che assumere un carattere perturbante e demoniaco.
..grazie Alessandra Pavani per la sua riflessione sulle condizioni di libertà-prigionia, che spesso si presentano come qualcosa di cangiante, il chiaro-scuro di una sola ruota che gira
Il clima è definito, tra cupa allegria e cupi presagi, ma le azioni, i passaggi e le immagini, zampillano l’una dall’altra, con risultati sempre inattesi e sorprendenti. Difficile reggere questa tensione della fantasia senza mai un cedimento, complimenti ad Alessandra Pavani!
La ringrazio di cuore per i complimenti, signora Fischer.