Su “Per ordine di verso” di Rita Simonitto

di Ennio Abate

1.

Ho letto questo libro partendo dalla Nota dell’autore posta alla fine, dove Rita espone la genesi della sua poesia. Che – scrive – è ricomposizione di “frammenti di storie” o di “esperienze private” in “una storia unica” secondo un “ordine” (o forma) che è quello imposto dai versi. Da qui il titolo, che – precisa – non corrisponde, di per sé, ad un “ordine di senso”. Eppure la bella foto di copertina riempita di foglie macerate sì ma di colori intensi su uno sfondo nero cupo – un riferimento alla canzone “Les feuilles mortes “ del 1946? – è più di un suggerimento. Con una metafora, che è anche un omaggio al mondo contadino della sua infanzia, Rita paragona le quattro sezioni del suo libro a “fasci di mannelle” e il lettore è invitato a scegliere singole spighe-poesie avendo riguardo per l’”insieme”.

2.

La prima impressione è che i “fasci di mannelle” siano tanti: i testi vanno dal 1962 al 2013; e che nel complesso “vissuto esperienziale” qui depositatosi nel corso di tanti decenni ci si perde. (O io mi sono perso). Nelle 270 pagine di “Per ordine di verso” innumerevoli sono i richiami a luoghi, personaggi, storie, miti, situazioni, emozioni. Ho incontrato figure di leggerezza e di danza2 , ma anche di incompiutezza3 o di sogno4 o di attesa5. Personaggi del mito: Orfeo6, Ebe7, la Sfinge8, il Minotauro,9 Medusa.10 Imponente e ricorrente mi è parso il tema della notte11: “dalle strette porte della notte”; “ la notte lascia l’alba con ripetuti addii”; “Notte! Donna! Notte!”; “la notte/ tiene in mano solo le redini del buio”. Qua e là, atmosfere di torpore, di assenze. Tra le stagioni evocate la più presente è l’autunno; e, tra i mesi, novembre coi morti: “Ecco novembre./ L’onda alza le spalle, smuove/ ricordi di albe ruvide,/ sogni e conchiglie rotto alla deriva”.12 E ancora un fitto tessuto di richiami letterari. Un solo esempio: quello a Verlaine e alla Seconda guerra mondiale, che introduce una figura materna e ricordi di un’infanzia povera cresciuta in asili-lager da dopoguerra, accostabili a quelli in cui penano oggi i bambini dei profughi siriani a Lesbo.13 A tratti si affacciano pure immagini serene dell’infanzia (“Rintanato scoiattolo osservo/ smagate colline all’orizzonte”),17 smarrite però presto in un paesaggio non più elegiaco ma deturpato da “silenti scannatoi” e “tossici gas”. Compaiono elementi realistici14 (anche nel disegnare una figura allegorica come l’accidia15). Parecchie le invettive politiche16specie nell’ “Appendice”.

3.

In prima approssimazione mi sono ritrovato di fronte a una poesia umbratile, notturna, romantica e persino funerea.18 Spasimi passionali, a volte esplosivi nel loro eccesso lirico, la percorrono: “Perché non a noi l’infinito del cielo?”.19 Componimenti e titoli di componimenti (“La morte e l’usignolo”20, “Amore e morte”21) e certi accostamenti (“trionfalità mista al sacro odore della morte”22) insistono su atmosfere emotive estreme. C’è anche un avvolgersi – ora fiducioso e autoprotettivo ora quasi fatalistico – nel notturno (“Quanto l’anima teme lo strazio del chiarore”23), che mi fa pensare immediatamente al mito di Psiche. Un’ulteriore conferma la trovo nelle atmosfere evocate, sempre indefinite: “L’onda alza le spalle, smuove/ ricordi di albe ruvide,/ sogni e conchiglie rotte alla deriva./ Altri domani torneranno. Altre contese sui labili confini”.24 Dominano le immagini, che sono il “correlativo oggettivo” del sentimento interiore di chi parla. Siamo, dunque, sulla scia di autori come Eliot e Montale. Con echi, però, da anima contadina che non sopporta la brutale fine del suo rapporto fisico e sensitivo con la terra e la natura. In altri componimenti questa stessa anima è più direttamente di una donna che, vittima di abbandoni e tradimenti, ora esprime una sua fantasia di essere vampirizzata25 ora, che per lei “la vita è morte senza sudario”, rammemora delusa le città in cui in passato ha amato (o è stata ferita).26

4.

Tutta questa vasta “area romantica” delle poesie di Rita fa pensare ad un diario cifrato teso a un bilancio della propria educazione sentimentale giudicata un fallimento.27 Il tono sembra, infatti, di affannosa e vana preghiera ma priva di speranze: “so che la morte è passata di qui”.28 Il distanziamento dalle vicende vissute non è mai razionalizzato. Solo qua e là traspare una amara ironia : “Chi s’è tenuto un cuore tanto tempo/ dopo non può riportarlo indietro”.29

5.

Nell’avvio di molti componimenti, dunque, ci sono spesso delle immagini, che sono simboli, e dunque racconti concisi e cifrati.32 La loro forte prevalenza è una eredità del simbolismo europeo, ma deve parecchio alla sensibilità particolare che il sapere psicanalitico, affermatosi anche in Italia nel secondo Novecento, ha saputo diffondere in una parte della cultura italiana. E mi pare importante ricordare che Rita è poetessa ma è anche psicoterapeuta. Ben attrezzata, dunque, per muoversi nelle pieghe dell’ignoto e dell’inconscio. Nelle sue poesie, perciò, tende a sostare al massimo nell’allusività, che è già propria delle immagini: “ La sua ombra presente dappertutto/ si appende ai cornicioni delle ferrovie/ ai lunghi pali delle banchine dei porti”.33 La vaghezza dei riferimenti (spaziali, temporali, storici, biografici), perseguita con consapevole rigore, abbellisce molti componimenti. Ed esalta, ad esempio, le suggestioni di un erotismo sottile ed elegante, che mi ha fatto pensare al Pascoli de “Il gelsomino notturno”, non per caso anche lui poeta attentissimo alla lettura simbolica delle piante. Si vedano questi versi: “l’ultimo glicine si agganciò/ al profumo della rosa e la magnolia/ alta riempì l’aria di segrete / intermittenze come lucciola amorosa”; e poi il brusco taglio: “tutto finì”.33b

6.

Mi ha poi colpito la predilezione di Rita per un lessico letterario di registro alto, di origine latina o esplicitamente in latino. Il libro testimonia, perciò, anche di un amore, oggi davvero insolito, per la tradizione classica: senza veli, tentennamenti o riserve. Si vedano la scelta dei titoli sia delle sezioni (“Per aspera”, “ Ad limina”) che di molte composizioni, l’opulenza degli aggettivi,34 la sorveglianza della sintassi. Il linguaggio va verso l’astratto nei momenti più riflessivi e si fa, invece, preciso quando nomina piante e frutti, per diventare sfumato e delicato quando il dialogo è con i propri fantasmi interiori.35 E’ un linguaggio che si tiene alla larga da quello comune o giornalistico o dei mass media (o lo detesta). Rifiuti simili ci sono in tanti poeti del Novecento, da Montale a Zanzotto a Fortini. E aggiungerei che inibisce quasi le domande dissacranti o maliziose o irriverenti del lettore “troppo razionale”, che però io continuo a considerare irrinunciabili. Perché non riesco a levarmi dalla testa l’irrisolto (per me) dilemma “antisurrealista”posto da Fortini: la poesia è “sogno fatto in presenza della ragione” o “ragionamento fatto in presenza del sogno”.36 E alla sua luce, di fronte ad una raccolta di poesie come questa, che rivendica uno stretto rapporto tra letterarietà del linguaggio poetico e attenzione alle emozioni (o si potrebbe pure dire tra i codici della letteratura e quelli della psicanalisi), farò alcune osservazioni problematiche e critiche.

7.

“Per ordine di verso” delinea la figura di una eroina della conoscenza. Essa è alle prese con una pena psichica ed esistenziale ma allo stesso tempo continua con passione indomita una sua ricerca della verità (“sarà così che morirò di verità?”), pur sapendo di compierla in un labirinto ma senza più alcun filo d’Arianna o punti fermi razionali. Il tema della pena psichica, soprattutto amorosa, prevale nelle due prime sezioni del libro, mentre nell’”Appendice” domina quella procuratale dal confronto con la storia del Novecento e con alcuni eventi tragici più recenti (la guerra “umanitaria” del 2011 contro la Libia di Gheddafi, ad esempio). Le due pene si intrecciano e fondono in una visione tragica della “condizione umana” quando Rita riflette sui fallimenti dei tentativi di rivoluzione o emancipazione dei “noi”, cioè degli attori politici e sociali del Novecento.

8.

Il confronto con gli avvenimenti del secolo trascorso è insistente, forse ossessivo. Comincia con episodiche allusioni fin dalla prima sezione (“Come per mannelle”), in “Primavere di guerra”.37 Si riaffaccia qua e là nelle due successive (“Per aspera”, “Ad limina”) e predomina nell’”Appendice”. Qui si fa più duro e disperato. Troviamo invettive irridenti contro gli “irati sacerdoti” della sinistra e i suoi simboli ormai inerti e quasi ridicoli. Si leggano questi versi di “Tradimenti”: “Adieu stimolanti bandiere/ il cui solo bastone ora serve/ al passo di canizie che strascica/ la polvere e l’uggioloso/ corteo di cani striscia/ le frange delle stoppie/ di ridenti pannocchie/ mai raccolte”.38 In “Giugno 1946”39 viene rievocato il secondo dopoguerra e ci si scaglia contro “chi stava usurpando/ la nostra terra, ed i sorrisi, i canti nostri,/nostre le donne”. In “ Senza patria”40 compaiono i sopravvissuti: “viaggiatori senza patria, confusi nel dolore” o, in “Il falso muove e vince in poche mosse”,41 avvolti in un ”buio persistente che confonde il nemico/ con l’amico”. Più avanti, in “Rimemorando smemorar”42 , ormai dimenticati i nomi di chi “coltivava/il sogno del pensiero nuovo che sfidava il cielo”, resta una delusione rinunciataria: “Per questo oggi all’appello non chiamatemi più”. Oppure un orgoglio solipsistico. L’io dell’eroina recrimina contro i compagni che presi “nella conta delle schede” non l’hanno ascoltata. (Qui, anche se non nominata, compare per la prima volta la figura di Cassandra, che invano ha mostrato ai compagni l’inganno elettoralistico dell’ “urna/pancia del cavallo acheo”). In “Impresentabile presente”43 esplode poi l’invettiva contro le “vigliaccose canaglie” (altrove “veri figli di puttana”44 e per la prima volta c’è un abbassamento del linguaggio alto al gergo plebeo) che “ hanno ucciso “ogni memoria” e hanno steso “le trappole del politically correct” . Mentre “Illusioni perdute”45 presenta i compagni, che prima pronunciavano “le corpose parole,/ non flata vocis soltanto, che scaldavano il cuore/ nelle gelide mattine dei picchetti”, ridotti ormai, in assenza di “un dove, un tempo, un sogno”, alla figura “del morente/ che con le dita ischeletrite si aggrappa ad un nonnulla/ mentre sta dicendo addio a tutto”; o a quella di un homeless che, rauco e saltellante, invoca “una bandiera, una bandiera” (qualsiasi). In “Genua non flectere”46 ritorna “il sogno sparito” di un ventesimo secolo ridotto a “sterile violacciocca/ disidradata/ dall’assenza del diverso”. In numerosi altri componimenti si ripetono i lamenti rabbiosi contro i traditori o il “ tradimento spacciato per rivoluzione”47o contro la “vanesia gioventù/ che volle farsi ‘re’ senza pagare un pegno “47 o le parole di compassione verso i ribelli, ”tristi Golem che fanno tenerezza”48 . Altre invettive e considerazioni disincantate o disperate si affollano in tutta l’”Appendice”.49

9.

Rita ha ben presente i rischi della divaricazione “tra realtà e sogno, memoria e presente, detto e non detto”.50 E si chiede ad un certo punto (e dubita quasi) se il suo sia davvero “un libro di poesie” o debba essere ridimensionato a generico “libro di riflessioni su esperienze della vita”. A me pare che questa oscillazione l’abbia superata ancorando fiduciosamente la vita psichica (il “sostrato emotivo” delle esperienze, personali e politiche) al mito e alla poesia, fino a fondere le due dimensioni. L’importanza che dà al mito mi pare assoluta. Legge le vicende personali e storiche riportandole al mito, controllandole – direi – sul mito. Ne consegue un’accentuazione del rifiuto del “misero presente” e una sottovalutazione della descrizione “oggettiva” degli eventi o delle cose fatte o vissute. Fiducia nel mito significa soprattutto fiducia nel passato, nella tradizione. Come nel Pasolini da lei amato.51

10.

Non nego l’importanza del mito. E riconosco che abbia legami con la storia e anche l’attualità. Non sono però sicuro, ad esempio, che figure della storia recente – pensiamo ai leader dei movimenti degli anni 60-’70 – siano paragonabili ai “Proci che vogliono farsi Re senza pagare pegno”, se non metaforicamente e per rafforzare una polemica politica scontata. Le analogie tra personaggi di diverse epoche storiche vanno prese con le pinze. Ancor più ciò vale per quelle tra personaggi storici e mitici. Inoltre dubito soprattutto che il sapere mitico possa aiutarci a costruire un progetto di futuro di cui ci sarebbe bisogno. Dal mito ricaviamo un futuro-destino, fisso, statico, anche quando coglie verità profonde e costanti nei secoli della condizione umana. Perché il mito circoscrive o nega i possibili “salti” della storia. E a me pare che l’attaccamento al passato, che esso implica, finisca per prevalere o congelare la stessa storia in mito (e l’opera di Pasolini ne è una prova). Il mito è ripetizione, la storia non sempre lo è. Anzi, anche quando “si ripete”, svela altre tensioni e crepe nel reale, spiazza, non si esaurisce in una staticità sferica e in apparenza inattaccabile.

11.

E poi quali miti sceglie Rita? Non quelli di Prometeo, di Ulisse, di Enea. Le poesie concentrano l’attenzione su altri miti: Orfeo e Euridice, Arianna e Perseo; e soprattutto Cassandra. Perché – mi chiedo – proprio il mito di Cassandra? La lettura di questa “summa” delle sue poesie mi fa pensare che questo mito accolga meglio l’amarezza esistenziale e politica di Rita, la sua disperata insistenza a liberarsi delle illusioni giovanili (gli “inganni” di Leopardi). Mi resta, però, il dubbio che questo mito possa accogliere altrettanto bene la contraddittoria esperienza storica delle generazioni politiche della Resistenza e degli “anni dei movimenti”. Non credo, infatti, che nella nostra militanza abbiamo davvero avuto una patria o portato “noi” – militanti del ’68 o del ’77 ma risalirei anche ai partigiani della Resistenza – in una nostra Troia il cavallo dell’inganno e che tutti i nostri compagni, i nostri dirigenti ci abbiano tradito. Ma è un discorso che qui non tocco.

12.

Sono pronto a correggere la mia forte propensione “antimitologica” o “demitizzante” e a mettere da parte l’idea di una Cassandra aristocratica e superba, che vede dall’alto in basso la gente comune, sostituendola con l’immagine di una Cassandra sinceramente angosciata e impotente di fronte alla rovina del suo popolo e coerente nell’affrontare la morte. Ma, come una fede, anche il mito ambiguamente consola. L’io deluso, che si separa dal “noi” degli ex compagni sconfitti e forse traditori, finisce per arroccarsi in un orgoglio (“noi non ci accontenteremo di questo”) politicamente inerte, anche quando esteticamente fecondo.52 E la storia conflittuale e contorta del “noi” – ripeto: quello reale e quello possibile – viene immersa in una sorta di Lete, in una memoria soggettiva troppo invasa dalle malinconie personali o dall’ideologia del “male di vivere”. Oppure si reclude in una saggezza, sempre da sconfitti però, che rende ancor più opaco e smorto lo stesso passato che abbiamo vissuto, impedendoci di esplorarlo in modi più problematici e storici. Rita afferma che gli “irati sacerdoti”53non vorrebbero farci sapere la verità. Ma la sappiamo e, purtroppo, non se ne può prescindere. Sta tutta iscritta nella storia del Novecento, nella scelta fascista di buttare l’Italia ancora in una Seconda Guerra Mondiale, nella successiva sconfitta di quel regime, nella sconfitta anche della Resistenza e, più tardi, nel dileguarsi del “venticello” del ’68-’69. E mi pare che, non indagata più storicamente, questa verità storica si ripresenta in immagini cupe, come quelle della “nera serpe che ti avviluppa” o della “spina antica” che “come lancia/ ti penetra la carne e con la doppia punta/ entra più a fondo”.54

13.

Lo scavo inquieto nella memoria è un imperativo esplicito di “Per ordine di verso”. “Memento reminiscere semper “ sta scritto in un componimento del 1989,55 anno della caduta del muro di Berlino che anticipava l’implosione dell’Urss e mostrava a quanti avevano creduto nel socialismo una “sbriciolata realtà”, in cui precipitava il “nulla di mancate appartenenze”. Presto, però, questo scavo ha meno fiato. Di fronte a “un gelso”, che ancora la “guarda da macerie/ di una casa diroccata” dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, Rita si accorge di non riuscire più ad evocare quel passato e a sentirlo suo: “ho mai sentito e sete e fame, io?”.56 Fino alla sfiducia: “anche scrivere memorie gronda futilità”.57 “Anche il Finisterra montaliano ”ha perso la purificazione!”.58

14.

A proposito di memoria mi ricordo di due avvertimenti. Uno sui rischi dello scavo nella memoria lo lessi in una poesia di Emily Dickinson: «Quando spolveri il sacro ripostiglio/ che chiamiamo “memoria”/scegli una scopa molto rispettosa/ e fallo in gran silenzio./Sarà un lavoro pieno di sorprese -/ oltre all’identità/ potrebbe darsi/ che altri interlocutori si presentino -/ Di quel regno la polvere è silente -/ sfidarla non conviene -/ tu non puoi sopraffarla – invece lei/ può ammutolire te». E l’altro, altrettanto severo, in un saggio di Fortini, troppo lungo e complesso da riprendere qui, che però richiedeva una memoria capace di farsi ricordo trasmissibile agli altri.59 Mi tornano in mente perché a me pare che nello scavo della memoria Rita si sia inoltrata in direzione del mito, dell’antico e della classicità a scapito dello scavo nella memoria – individuale e storica – di donna, di militante formatasi nella seconda metà del Novecento. E il mito, l’antico, mi pare ingessare con la forza potente del suo linguaggio i ricordi della memoria individuale e storica; e cancellare o svilire la memoria della maturità o del “noi” storico conosciuto nella sua maturità di donna e militante. E forse anche quella sua “ferita” psichica. (Importante allora sarebbe la domanda non moralistica e neppure esclusivamente di poetica: era possibile una forma diversa per questa precisa ferita, personale e storica, che a lei e a noi è stata inferta?).

15.

L’immagine, ad esempio, del “calmo ritmo della semina”60 con “ la ripetizione del gesto circolare” visto da ragazza e forse riconfermato in una “qualche eternità” dalle sue letture successive dei classici latini, a me pare non arrivi a sfiorare il presente storico e post-novecentesco. Non è più possibile, forse alcun legame. Ma ipotizzo anche che Rita questo presente l’abbia rimosso e non voglia più interrogarsi sulle sue “buone rovine” (anche del comunismo). Per lei si tratta soltanto di “illusioni perdute”. Su di esse ha messo anche lei una pietra sopra. E va notato che gli unici miti che non vengono ripresi (o, se ripresi, vengono demitizzati alla svelta o irrisi) sono proprio quelli che la storia del Novecento si è trascinata dietro. (Si pensi anche a Pavese o a Fenoglio o a Meneghello). Oltre all’attenzione per le vittime, al profetismo disarmato alla Cassandra, all’accusa del tradimento dei chierici (gli “irati sacerdoti”), queste poesie consegnano ai giovani e agli stessi vecchi, quali noi siamo diventati, un unico messaggio: una ricerca eroica, inesausta e scettica, di una verità forse irraggiungibile.

16.

La lettura di “Per ordine di verso” mi ha richiamato di continuo, in un confronto persino imbarazzante, temi e esperienze generazionali abbastanza simili ai miei. E mi ha confermato quanto il mio atteggiamento verso la classicità (o, banalmente, l’infarinatura di classicità ricevuta frequentando un liceo classico del Sud negli anni ’50 del Novecento) sia diverso da quello di Rita e di altri. Io non ho mai pensato che la cultura (e la cultura classica in particolare, ‘alta’ o ‘bassa’ che sia) potesse essere la cultura di tutti. L’ho vissuta e tuttora la considero una proprietà esclusiva (ed escludente) di coloro che ne erano i veri eredi designati: le classi dirigenti borghesi e poi fasciste di questa Italia. Esse l’hanno potuto usare per i loro scopi. A noi, provenienti da famiglie contadine o piccolo borghesi, poteva soltanto essere imposta, facendo piazza pulita o emarginando le culture “subordinate” o più “povere” (dialettali, ad es., sensitive o “poetiche”, quelle orali, ecc,) per noi “native” o “familiari”. E leggendo queste poesie, mi accorgo che, a differenza di me, Rita ha davvero amato e pare posseduto senza riserve quel mondo di pensieri e di miti. E si spiace di averlo perso e si lamenta per un presente che lo ha negato e dimenticato. Ma allora mi sono chiesto: che tipo di esperienza della “modernità” ha fatto lei, mentre io facevo la mia trasferendomi a Milano dal Sud? Perché un po’ di “modernità” c’è stata anche in questo paese. Di certo, ancora una volta, tra anni ’50 e ’70 all’incirca. Anch’essa imposta, ha investito in pieno la nostra generazione di scolarizzati di massa. E allora come Rita ha potuto conservare quell’amore e quella nostalgia dell’antico? Me lo chiedo anche con una certa ammirazione e un certo stupore. E però anche col dubbio che il suo attaccamento al passato classico e al mito – com’è accaduto per un certo Pasolini (quello da lei citato, perché c’è poi anche il Pasolini di “Petrolio”), com’è accaduto per Grandinetti61 – abbia frenato l’emergere di un’altra voce più capace – così m’immagino io – di rompere certe sbarre della “prigione-poesia”, per mostrarla anche come prigione, come ben sapevano Brecht e Benjamin.62

Note

2Pag. 17

3Pag. 92

4Pag. 78

5Pagg. 35,36, 37

6Pagg.15, 141

7Pag. 18

8Pag. 19

9Pag. 102

10Pag. 169

11Pagg. 23, 35, 53, 93

12Pag. 55

13Pag. 83

17Pag. 170

14Pag. 79

15Pag. 41

16Pag. 83

18Pag. 181, 201

19Pag. 116

20Pag. 133

21Pag. 160

22Pag. 181

23Pag. 104

24Pag. 55

25Pag. 159

26Pag. 161

27Pagg. 164. 165, 166, 167

28Pag. 166

29Pag. 167

32Pag. 80

33Pag. 35

33b Pag. 37

34Degli esempi: succosi, nettarine, melanconiche, sontuose, lignei, barocche, dorate, torbidi, frantumata, sbrecciata, misconosciuto, illusoria, stinfaliche.

35Pag. 39 Ad es. “anche se tu tornassi tremula speranza”.

36“Qualcuno alla fine del Settecento, scrisse che la poesia era un sogno fatto in presenza della ragione; forse sarebbe più esatto dire invece che la poesia è un ragionamento fatto in presenza di un sogno, cioè un discorso che in apparenza è un discorso come un altro cioè un discorso di amore, di dolore, di descrizione, di esortazione, di sapere, di sapienza che è fatto sotto lo sguardo di un fantasma sotto uno sguardo che tutto tramuta, tutto apparentemente lasciando intatto come accade appunto nei sogni”. (F. Fortini, Cos’è la poesia?, Rai Educational 1993) .

37 Pag. 28

38 Pag. 51

39 Pag. 79

40 Pag. 88

41 Pag. 94

42 Pag.124

43 Pag. 127

44 Pag. 215

45 Pag. 136

46 Pag. 173

47 Pag. 257

47 Pag. 256

48 Pag. 242

49 Si vedano le pagg. 207, 209, 217, 219, 221, 225, 227, 231, 233, 235, 240, 241, 242, 244, 246, 247, 250, 251, 256, 257, 258, 264, 268.

50 Pag. 271

51 “Io sono una forza del Passato./ Solo nella tradizione è il mio amore./Vengo dai ruderi, dalle chiese,/ dalle pale d’altare, dai borghi/ abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/ dove sono vissuti i fratelli” (P. P. Pasolini, da “Poesia in forma di rosa”, Garzanti, Milano 1964)

52 E gli esempi, anche illustri, non mancano: da Dante a Foscolo a Céline. E del resto, sempre sul piano estetico, il sapere mitico influenza tuttora la poesia anche contemporanea. In Italia è esistita anche una linea mitopoetica: Conte, Kemeny, ecc.

53 Pag. 57

54 Pag. 60

55Pag. 64

56 Pag.187

57Pag. 187

58Pag. 188

59Cfr. F. Fortini, Il controllo dell’oblio, in “Insistenze”, pagg. 131-137.

60 Pag. 70

61 E’ bene riportare quello che scrissi al momento della sua morte di Eugenio, che per me è stato “ un uomo antico del Sud che si è aggirato sperso per la metropoli moderna, da lui subìta, temuta, negata, mal sopportata, respinta. E che lo ha ignorato, negato, non riconosciuto, non riconosciuto a sufficienza. Per le vie di Milano se n’è andato sempre da solo, anche quando è stato in mezzo agli altri e in mezzo a noi, suoi amici. Ha guardato soprattutto al passato. È vissuto, nell’immaginario, in un mondo che a me è parso fondamentalmente quello classico antico (greco-romano), fissatosi nella sua mente in una sua immobilità, mitica e astorica. Anche per un suo attaccamento, profondo e indiscutibile, al materialismo degli antichi. E che, però, negli ultimi anni s’è avvicinato ai toni biblici dell’autore di «Qoelet», nel quale ritroviamo gli stessi suoi temi: assurdità e inutilità degli sforzi e delle gioie umane, della giovinezza, della fama, del lavoro, della saggezza e così via”. (https://www.poliscritture.it/2019/09/28/metti-un-tizzone-del-sud-nelle-nebbie-di-milano/ )

62 Nella settima delle Tesi di filosofia della storia Walter Benjamin, dopo aver definito il “procedimento d’immedesimazione” al quale ricorre lo “storico dello storicismo” come ciò “con cui il materialismo storico ha rotto i ponti”, prescrive allo studioso di parte marxista uno sguardo distaccato nell’abbracciare il cosiddetto patrimonio culturale di un’epoca, perché quest’ultimo “ha immancabilmente un’origine a cui non si può pensare senza orrore [corsivo mio]. Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie” (W. Benjamin, Tesi… cit., in Angelus Novus, Torino 1962, pp. 75-6).

1 pensiero su “Su “Per ordine di verso” di Rita Simonitto

  1. …mi limito a qualche riflessione o interpretazione sulla raccolta di poesie di Rita Simonitto…Parto dall’immagine di copertina che è molto bella: foglie cadute dall’albero della vita nella notte -ancora illuminate da bagliori e colori- che il vento trascina in un movimento oltre, “involontario”, forse per illustrare figurativamente la scelta del titolo: “Per ordine di verso”. Cioè una raccolta che risponde ad un “ordine” superiore, non discutibile, come R.S. mi sembra dire nella poesia e della poesia “Risvegli”: “…”Amaro il mare del risveglio./ Conchiglia senza timpano/ rimanda ciò che non voleva: solo l’inerme nudità di scrivere versi./ Irresoluto vizio”… Come suggerito, ho spigolato raccogliendo qua e là qualche “mannella” e in quasi tutte ritrovo la testimonianza sofferta, anche vissuta in prima persona, di coloro tra le vittime che hanno subito, oltre all’offesa, il tradimento di chi avrebbe dovuto difenderle: familiari, amici, la propria parte politica, gli “Alleati” nei tempi di guerra…Amarissime delusioni, ferite inguaribili, perdita della stessa vita…Spesso sono vittime giovanissime, come nella poesia “Gradiva” (La Danzante), una fragile e inconsapevole ragazza vittima dei bombardamenti degli”Alleati” alla fine della seconda guerra mondiale, mi sembra, già presente nel romanzo di R.S….come nella poesia “Asili”, dove il racconto di bambini “…che ancora odorano di latte” assolutamente trascurati negli orfanotrofi del dopoguerra; situazioni disumane, che non ammettono domande: “Ecco, non fare più/ domande qui”…Ritrovo un tema simile in molte poesie: quello dell’indifferenza, della mancanza di attenzione e di cura “sguardo”, che “uccide” gli esseri più esposti alla sopraffazione , come nella prima poesia: “…Orfeo fu a incominciare…”: ” …Strappata al silenzio la doratura della spiga/ che sfidò freddo di venti e il fulmine/ e le mirabolanti carrozze della grandine/ non vincemmo, no, l’arcana sorte./ Nell’assenza di sguardo fu perdere la voce./ Nel delirio del dio la nostra paralisi.”…Si legge inoltre un diffuso amore per la terra, per il mondo contadino, da cui l’autrice proviene, come per gli animali, che non sano tradire…Comunque per R.S. la tragedia sembra essere la sorte inevitabile degli essere umano, come dal mito greco ma anche di autori come Pasolini e Shekespere

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