di Canio Mancuso
Anniversario Tutto il provvisorio messo tra parentesi - il resto del rancore insieme alla tenerezza - osserva il marito che si fa la barba passando il rasoio piano sullo specchio. Gli chiede di non stancarsi e di non farsi male. Aggiorna il promemoria: proteggere gli uomini e i cani dalla fame avvolgere in una benda il taglio nel costato tenere lontani dall'ombra delle camelie la stagione in rivolta il dio che annienta. Sente nelle narici il fiato di chi le dorme accanto l'ultima notte. Dal covo in cui resiste il fuoco e non si spegne neanche al soffio del phon sui bigodini sente il marito che esercita il mestiere di uomo il prepuzio che si apre dentro le sue cosce. Nel luogo in cui si ostina la bugia dell'essere si arrende un'altra volta alle carezze vuote - le mani che non toccano la bocca che non bacia - ascolta le parole scritte con le dita lo scrocchio del sale sotto la pantofola. Il disegno stilizzato Non lo sospettavamo noi che disegnavamo uomini di stanghe la testa un cerchio, gli occhi due punti, la bocca una u un po' più larga. Lui gonfiava la stanga del tronco inseriva un cuore aggiungeva alle mani le unghie i solchi invisibili dei polpastrelli. Disegnava davvero o ci provava. Noi altri gli alunni senza talento lo invidiavamo, il terzultimo della classe che con la matita scavava la fossa alla nostra insipienza: non era affetto come noi dalla sindrome del disegno stilizzato. Lo invidiavamo senza ragione Non sapevamo che la sua libertà era chiusa in quell'ora di disegni forzati - la fantasia una forma dell'obbedienza, lo sprofondo in una miniera davanti ai rimproveri del maestro. A casa il piccolo artista che artista non sarebbe stato mai, preso nella rete dell'incertezza - perché non sapeva a cosa obbedire - per disegnare un uomo tracciava linee e cerchi come noi. Autobiografia dell’eco Quando ero carne e questo era il mio solo talento e la creazione una luce che cade nel solco della schiena le vene illuminate dal tocco delle dita, ogni respiro sul vetro un'invenzione geometrica un punto croce e ogni sussulto dei gerani un singhiozzo delle ossa nella terra, avere un corpo non era il mio simulacro né il tuo, noi due impastati di cellule scorza schiuma e incontrarsi a un semaforo prendersi distrattamente per mano solo un risvolto della separazione, quando sapevo tutto questo nessuna speranza mi molestava nessun bisbiglio di Dio non dovevo credere che i nostri giorni fossero scorie dello stesso inganno però io potevo immaginarti nella paura che tu non esistessi sentirti sbadigliare in un'altra lingua tu più giovane di me e della mia carne passavi nel mio sonno la prima volta. Paesaggio con casa Il paese dagli tu un nome il paese l'isola dove non sai guardare una coppia di cigni naturalmente monogami gli altri animali anche loro pigri intorno alla fine del giorno in agguato e più in là la montagna. È la tua casa solo ora che nessuno diteggia il tuo nome sul citofono chi non ti chiama lì dove ti aspetta nessun abitante nessuno scrittore anzi uno solo, che ha saputo morire per tempo, sua sola fortuna postuma indenne il ricordo di quelli che non lo conoscono, la memoria un privilegio che non lo può offendere. Ancora un paragrafo sui gatti La rivoluzione nell'anima dei gatti interessati al tuo punto di vista - nel loro modo silenzioso ovviamente - però accade che un gatto dopo due giri nella lavatrice abbia un lampo socievole nell'iride un orecchio in ascolto del tuo pianto una vibrissa molle, almeno una, che ti cerca parole come il naso del servo le parole del padrone - i gatti che appallottolano l'anima e la regalano senza pentimenti al primo confessore di passaggio - nessuna posa da bottega del mistero - e i segreti li mettono da parte per le conferenze dei poeti, solo per loro soffiano endecasillabi solo per loro inarcano la schiena come i gattacci di Pasolini. Un maratoneta giapponese È un corpo, il suo? un volto o un confetto succhiato fino a un bolo di mandorla? sono gambe quei legni spezzati che galleggiano sull'asfalto? è una bocca quella bocca di pesce appiccicata al vetro dell'acquario? Il suo corpo - volto, gambe e bocca - inseguito dalla fine che non finisce strizzato nell'agonia che non uccide nella fatica che non vorrebbe premiarlo il suo corpo ostile agli applausi e alle grida di tutti noi intorno a lui che speriamo cadrà prima del traguardo, si scioglierà nell'aria - noi che lo odiamo perché ha coraggio lui più feroce del suo corpo sfasciato arriva davanti a tutti gli avversari e gli spettatori riceve la medaglia ascolta l'inno di un paese lontano quanto il suo e ingoia le parole dello sconfitto: Dimenticatemi, io l'ho già fatto. Il riciclo secondo lo spazzino I testi sono chiari: nello stesso inventario l'anima e il congegno l'organismo e il meccanismo che si arresta le labbra e il boccaglio il mantice e il soffio tra i denti - gli oggetti in disuso allineati in un addio allegro. Sei tu che parti, loro si allontanano dalla tua ombra che unisce le sagome: confondi il sangue con l'olio dell'ingranaggio il cuore fermo sui minuti con l'orologio l'odore delle calze e i piedi che le svuotano - vizi di forma smessi con i vestiti le inadempienze scordate nella ressa degli strumenti alla fine del gioco allineati per salutare un altro con la stessa sciatteria delle persone e con l'aria smarrita delle cose. Confessione di G. a S. (Nessun oggetto) Trentadue anni di rossori più ridicoli delle mie colpe piccoli furti nello scantinato la faccia sotto il tavolo ad annusare cosce respiri inumiditi sottolio nelle mutande. Estati e inverni a guardare col naso tutto ciò che somiglia a un desiderio un residuo spremuto dal tubetto. Percorro la strada tra il mio silenzio e il tuo. Tu mi aspetti nella vagina me, la mia incompetenza sessuale. Indosso l'accappatoio di Apollo - il pugile non il dio, lo scorticatore non il poeta da camera - io violento muscoloso sul ring sul materasso sono vivo e ti amo nel libro delle somiglianze. Tu in fondo al paragrafo mi chiedi un bacio e ti nascondi, dici che ho l'odore di tuo zio. Perderti per averti cercata. La sera mentre sparano i fuochi per la Madonna negra dei cafoni: i loggionisti che applaudono quelli che fischiano ai petardi più fiacchi il terrore dei passeri scappati dagli alberi, io che ti abbraccio la vita da dietro ti cammino sul collo con le narici, ti sfioro il seno con l'unghia l'erezione che sfiata per la vergogna, scappo con tutti i vestiti addosso: Perdonami, so che hai quindici anni, non ti toccherò fino a che non sarai madre fino a che non sarai vecchia e il mio sesso una radice che spunta dalla terra. Questo per dirti quello che sapevi e dirti che una sera più di tutto, più di te, ho amato un fracasso di ali tra gli spari - la paura dei passeri dentro il fuoco, la mia davanti al corpo di una donna tanto meno adolescente di me - farti entrare nella stanza vuota dove tu che conoscevi gli uomini mi avresti insegnato a spogliarmi.