di Nunzio Di Sarno
Perché non mi faccio saltare il cervello con un colpo di pistola Quando il buio mi mangia il cuore E la saturazione m’irrigidisce E mi arma la mano In un attimo un filo si allenta E piano ritorna a galla Ciò che mi trattiene − Le telefonate improvvise A un passo dal baratro Il sole sugli occhi chiusi Che indora i pensieri Il vento che asciuga E suona al contatto Le sante immersioni Nell’utero marino Le abbuffate infinite Delle feste comandate Le pisciate da ubriachi Mentre si ride da soli La lealtà furiosa nel Pogo Battezzato dal sudore Il profumo delle tette E le curve della schiena I viaggi in nave da solo A piangere sul ponte Le epifanie in Grecia E la philia dei greci La nemesi inaspettata Per l’uno e per i molti L’amore degli amici e L’amicizia delle amanti Le lenzuola pulite dopo Chilometri macinati I papaveri che spuntano Tra binari e traversine La neve che ammutolisce E riempie col silenzio La scienza evangelica Del marxismo che verrà Il nodo alla gola che Si scioglie in lacrime I respiri sintonici nel sesso Eccitati dall’odore della pelle Il sonno animale dopo la fatica Sicuro e avvolto dal calore I pianti disperati, di rivelazione D’amore e di riconciliazione Il sorriso contagioso Dei vecchi e dei bambini L’abbraccio delle famiglie Vecchie, nuove e ritrovate L’alleanza terapeutica in Ogni contatto risvegliato L’impermanenza sicura Della follia e del dolore Il blu insondato delle Dorate meditazioni E per ultimo la realizzazione Che la coscienza non si estingue Non con un proiettile da due soldi Né con una bomba all’idrogeno E quella che si spera una fine Sarà un inizio E quello che si crede un attimo Sarà un’eternità Manifesto Scrivo perché la poesia è visione Il primo passo per la trasformazione Scrivo perché la parola è una traccia E il suono è operativo Scrivo perché la beatitudine è bellezza E il vuoto è compassione Scrivo perché Milarepa cantava Come neve nel caffè S’addensano i fiocchi in volo C’è spazio solo per i cinguettii E le urla schizzate dei bambini Il latrare affannato di un cane S’ostina fuori posto Coi pochi colombi in fuga Mentre il vento disperde Il fumo della mia sigaretta Mi riporta indietro il tuo viso Il mio naso tra i tuoi capelli La mia lingua tra i tuoi denti Le mie labbra sulla schiena Tutto si fa vivido e indistinto Nell’intermittente vortice D’immagini che non durano Le punte fredde delle mie dita Non si scaldano sui tuoi seni Né si bagnano tra le tue cosce Così al verde dell’erba ghiacciata Frullata dalle gambe dei passanti Si scioglie la coltre di ricordi Che ora pesa Come neve Nel caffè Cala il sole Un bambino inciampa Sorride cammina E non si chiede perché ***** I chilometri scaldano i piedi Il cuore ribolle Evaporano i pensieri ***** Sul treno che avanza La nebbia intorno Nei ricordi si perde
Nunzio Di Sarno nasce a Napoli, si laurea in lingue e letterature straniere con una tesi su Ginna e le connessioni tra astrattismo e spiritualismo. Ha lavorato come operatore sociale, mediatore culturale, insegnante di italiano L2, di sostegno e di inglese. Da alcuni anni risiede ed insegna a Firenze. Nel 2021si laurea in psicologia clinica e della riabilitazione con una tesi su Yoga, Tai Chi e mindfulness come terapie complementari nella malattia di Parkinson. Mu, pubblicata da Oèdipus edizioni nell’agosto 2020, è la sua raccolta d’esordio. Sue poesie ed articoli sono presenti su diversi siti e blog letterari.
Nota
Le prime parole che troviamo ad aprire la raccolta di Nunzio Di Sarno sono quelle di un koan zen:
Un monaco chiese a Joshu: “Un cane ha la natura di Buddha?”
Joshu rispose: “Mu”
Mu mantiene in sé gli opposti e spinge a trascenderli in uno slancio che scatta lontano dalla logica e dalla premeditazione.
E quando pensi di averlo afferrato è proprio lì che ti scappa.
Ci si può solo muovere insieme.
Il koan ci mostra la strada che si fa traccia e mappa.
Una mappa che si mantiene giusto per il passaggio e le luci che durano sono le realizzazioni, in balia dell’amore e l’amicizia, delle droghe, dell’alcool e delle meditazioni, della malattia, della morte e della disciplina, in seno alle famiglie “vecchie, nuove e ritrovate”.
In una parola la Vita.
Che suona al passaggio del vento,
ma anche al ritmo sghembo di Monk
e alle distorsioni secche dei Ramones.
È un attimo e le gambe a croce schizzano nel Pogo.
In una spinta continua alla trasformazione, che trova,
nella trasfigurazione della mancanza e degli eccessi, le nuove forme.
E come riporta “Manifesto” il suono è sempre operativo, tutto è vissuto! Niente spazio per l’ozio, gli ammiccamenti e le consolazioni di rito.
Come potrebbero le pose reggere al vortice degli Elementi?
Il pensiero si produce nell’azione e all’azione riconduce sempre.
E l’azione non può non essere politica.
Qui il lettore non può restare sulla soglia a guardare, è chiamato ad aprirsi ed immergersi per sentire su di sé, sposando i ritmi per ritrovarsi a pezzi. Unico sentiero per accedere alle forme nuove.
“Perché non mi faccio saltare il cervello con un colpo di pistola”
non c’è né un esclamativo e né un interrogativo.
Comunque lo domandi a quei poeti che misero in atto quel gesto: liberatorio? o altro?
Comunque, c’è chi si fece saltare il cuore, come Majakovskij, 91 anni fa, proprio fra 10 giorni. Di certo non credo al suicidio del poeta: glielo fecero saltare il cuore! Lo scrive decine di volte, talvolta come presagio, come spesso succede ai poeti.
E allora Lei glielo domandi a quei poeti, ma in questi suoi versi non c’è alcun presagio.
C’è un femminile ontologicamente presente – nello stesso invito Mu, come se la emme dello schiacciamento della lingua sul palato non corrispondesse alla “m” presente nella madre di quasi tutte le lingue, e non rimandasse alla fisicità del succhiamento -.
(Da letture fonologiche troppo antiche non ricordo se l’osservazione è di Jakobson o di Benveniste.)
(E che qualcuna non mi dica che non tutte sono madri, ma tutte e tutti da madre siamo nati.)
Capisco che è complicato per i maschi esistere diversi nel loro sesso. In un’epoca fra l’altro in cui il ruolo maschile è polarizzato e -suppongo- non soddisfacente ai due lati.
Queste poesie in effetti, vanno interpretate, anche come sintomi.
i.e.: “l’impermanenza sicura … e per ultimo la realizzazione”
Il sostantivo cervello ha due plurali: uno regolare maschile, i cervelli, uno irregolare femminile, le cervella. Questo secondo plurale, però, si usa soltanto in certi particolari modi di dire, tutti drammatici, come “bruciarsi le cervella”, “farsi saltare le cervella”, “fracassarsi le cervella”.
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dunque questi versi non essendo drammatici o altro similare, sono grotteschi o comici che sarebbero più seri se fossero stati drammatici.
“i.e.: “l’impermanenza sicura … e per ultimo la realizzazione”….
si voleva forse affermare che:
l’ im\sperma\nenza in\sicura…. e …..