Gianni Turchetta su “Salernitudine”

Ennio Abate, Salernitudine, Ripostes, 2003

di Gianni Turchetta

Nel lontano 14 maggio 2004, alla libreria Odradek di Milano, ebbi la fortuna di avere Gianni Turchetta come presentatore della mia prima  “poeteria” pubblicata: Salernitudine, Ripostes 2003. Da me conservati e oggi  gentilmente riletti e appena ritoccati dall’autore, ripropongo i preziosi appunti sugli aspetti linguistici e sui temi di quel libretto che egli sviluppò poi a voce. Rammaricandomi un po’ per non aver registrato la serata. [E. A.]

Sono stato chiamato a parlare di questo libro perché anch’io, come Ennio, sono nato a Salerno. Tralascio le differenze di biografia. Già noto la tendenza di Abate a napoletanizzare il dialetto. Il mio ricordo si lega bene all’immagine di Salerno che emerge dal libro.
Ho provato ad avviare le mie riflessioni partendo dal titolo: Salernitudine, che contiene quasi interamente “solitudine”: non credo per caso, e poco importa se l’autore lo abbia fatto apposta oppure no.
Dunque, Salernitudine: uno strano sostantivo astratto, che disegna una condizione, o meglio, più esattamente: una condizione ed una appartenenza, una appartenenza che fa tutt’uno con un luogo. Questa appartenenza è dunque radice di un’identità: un’identità, aggiungerei subito, che appare come un destino. Non importa se l’autore, o meglio l’io poetico del testo, l’abbia voluta oppure no, la ami oppure no: l’ha trovata così, e non ha potuto fare altro che abitarla.
Appunto, abitarla: perché questa origine è anche una città: città è femminile, in italiano, e direi anche in napoletano / salernitano, come femminile è la salernitudine. Qui, certamente, la grammatica e i suoi generi sono largamente frutto del caso: ma non è frutto del caso la poesia che li afferra, li fa suoi, li sfrutta per costruire i significati a modo suo.

Bene, ora è giunto il momento di fare un primo passo avanti: tutto il libro di Abate nasce e cresce (sottolineo i due verbi: nasce e cresce) intorno a una fitta trama di pronomi: c’è una percentuale altissima di pronomi, o di particelle pronominali, o di possessivi, che rimanda al rapporto tra l’io e il tu. Vediamo un caso limite LEGGI p. 12.

Nel sogno materno

(Un appartamento che sta per essere ammobiliato. Scatole di cartone piene di suppellettili sul pavimento. In una, già aperta, spunta un lampadario a sfere di vetro rosa opaco. Nell’angolo della stanza più vuota un braciere di rame con le carbonelle accese da poco. Fa freddo. È quasi buio.)

Carbonelle in soffitta ne abbiamo. Domani mattina la gallinella ti preparerà l'uovo e la contadina busserà per portarci il latte. Nella cassa ci sono coperte e lenzuola ricamate; cappotti e maglie di lana stanno nell'armadio. Vieni che ti leggo una preghiera.

Sempre domani metterò il profumo di colonia, il velo in testa e, sì, sulle spalle la pelliccia della volpe nera. In chiesa troveremo i garofani, tanti bianchi e rossi, sull’altare. Ascolteremo musica d'organo e canti gregoriani. T'incanterà – vedrai – il mosaico azzurrino con san Giovanni Battista, le onde, le palme e i cervi incuriositi; ma quando scenderemo nella cripta scura, non t’impaurire.

Soltanto candele e tremiti di vecchie. Qualche pianto udrai. Non fiatare, osserva: estasi rugosa delle mie nonne in rosario, bisbiglii dai confessionali di cieche marie. Non rabbrividire. La mia anima s'apparterà un momento. Aspettala. Primaverile e calda tornerà all'uscita. Sui gradini e sotto il colonnato la folla domenicale. Ti calmerà. Immergiti. Brusio e richiami. Leggera solarità degli abiti. Saluti distinguibili e cari di volti familiari. Intontimenti d'incenso. Sorrisetti e sberleffi. Languori pezzenti e stracci sotto i veli. Invidie evangelizzate e rimorsi.

Il Sacro Cuore lassù, trafitto da spade e raggi di luce. ci perdonerà. Tu, angelo come adesso, resterai. Io sull'inginocchiatoio, la tua ombra sarò. Risarcisci le nostre sofferenze, scendi in questa miseria, non negarci.

T’inseguo, madre. M’impongo in disparte di sognare il tuo sogno. Ma in assenza di te si scuote fragile il mio corpo sgorbietto – orlandino furioso – e l’animella mi si smaga per tornare in cieca corsa verso casa da te. Sprofondo. Annullarmi, diventare buio mi sento come la sera, morire la morte buia e non più, sotto il tuo sguardo, attraversarla leggero e intatto in mezzo all’urlo feroce dei passanti.

O Cumm’a n’animaluccie, p. 23.

Cumm'a n'animaluccie

Cumm'a n'animaluccie te spiaie.
Tu rurmive chete e scummugliate.

Chiane chiane te vasaje e mennelle
cumm'o vitielle ffa ca vaccarelle.

O cavere ro piette m'e lasciate
a respirà e nun te sì svegliate.

Po te susiste. Te veniett'appriesse
dint'a cucina: ere cumme nun nge stesse.

Cchiù ddoce cu l'uocchie te lisciave.
Cchiù sprucete e amare te facive.

Sti ccose ca so passate
zitte zitte ra te a me
arravugliatelle stritte
rint'o liette ra fantasie.

Ann'à mmaturà. Te l'aja scurdà.
Sule nu belle juorne
sule fra nnammurate
ponne resuscità.



Come un animaluccio
Come un animaluccio ti spiai.| Tu dormivi quieta e svestita./ Piano piano ti baciai le mammelle| come il vitello fa con la mucca.| Il caldo del tuo petto mi hai lasciato| respirare senza svegliarti./ Poi ti alzasti. Ti venni dietro| dentro la cucina: sembrava che io non ci fossi./ Più ti carezzavo dolcemente con gli occhi.| Più scostante e sdegnosa diventavi./ Queste cose che sono passate| silenziosamente da te a me| avvolgitele e tienile strette| dentro il letto della fantasia./ Devono maturare. Te le devi dimenticare. | Solo un bel giorno | solo fra innamorati| possono risuscitare.

Ma non bisogna dimenticare per esempio i molti verbi all’imperativo: con appena un po’ di esagerazione, vorrei dire che questa poesia usa poco la terza persona. Ho esagerato, lo so: ma l’ho fatto apposta! Fatto sta che l’io e il tu di Salernitudine, o meglio, più esattamente, la loro ossessiva ricorrenza, sono il segno, la spia profonda di una presenza costitutiva: quella del rapporto fra l’io poetico e un tu femminile, quello del rapporto fra l’io e la madre, fra l’io e la città:
LEGGI p. 30.


La ragazza dei preti

La città

Pioggia. Sotto i portici
ci aggiravamo in attesa.
Monsignore era al caldo
dietro i vetri dell'arcivescovado.
A lungomare uno scalpiccio
negozi illuminati
la tonaca violacea della quaresima.


La compagnia

La mia città
(nacqui dal suo ventre calcinato)
amavo come una carcassa.
Gioacchino leggeva quattro righi sull'amore.
Carlo già si scherniva, dolore senza sfogo.
Filodemo sorvolava la materia
e  – to' Dafne!
un codazzo di ragazzini
l'inseguiva per i vicoli.

 
I vicoli

Ore e ore in appostamenti.
Antri umidi, buio, scalette
sporche e puzzolenti.
Rapacità senza respiro.
Merda, piscio, urla e lupanari:
incollati ornamenti
addosso a palazzoni fraudolenti.


La coppietta

Due qualsiasi
che facevano baci
e pochi toccamenti
nella stradina dietro san Domenico
a testa bassa
e poi ansiosi d'annegare
cercavano davvero ciclamini
in un posto tranquillo.


I fantasmi

Randagi annusano, indagano.
Dalle grondaie i colombi bersagliano.
Segnalano gli scugnizzi
i nostri spostamenti.
Passanti già ci palpano ghignanti.
E la pioggia non smorza
quel sole d'occhi cocenti
di gente miserabile che spia
se là, per caso, sotto i loro sguardi d'astio
riesci un po' di gioia ad arraffare.
 

La ragazza

Di ragazze: una già sfatta
se ne sta muta nel portone di fronte
al pianoterra della sua tristezza
poi quella incinta e la caramellaia.
Ugo naviga giulivo fino a lei.
Noi restiamo di qua a cincischiare.

La mia ragazza è malaticcia
seria perciò
sguardo patetico, strabico
deciso al dolore.
Si fida di me
crede ch'io sappia decifrare
il senso ostile di questa città ansiosa.


Attese

L'attendo
ai lati d'una cappella.
Due scheletri marmorei
Minacciano apocalittici sermoni.
Resisto nel mediocre vuoto.
Mi fingo in difesa.
Fischietto.

È passato il cantante stempiato.
Poi il filosofo magro e foruncolotico.
La testa canuta che conteggia i nostri segnali
è spuntata alla finestra del terzo piano.
Non ho bestemmiato.

Le tue persiane erano socchiuse.
Dentro c'era luce. Tu aprivi, sparivi.
Il lampione ha dondolato.
Col vento la strada s'è asciugata.
Solo negli incavi della pietra
l'acqua persisteva.


Dissacrazione

Musiche d'organo, cori, incensi
erbe del giovedì santo.
M'inebriavo.
Tra lei e me, un prete, due preti
e gli amici dei preti
la scuola (coi preti).
Lei era più sola. Soltanto
un'amica e forse una zia.

Il parroco disinvolto
mi tira l'ostia in bocca.
Anche lei sta al gioco.
Sale con le altre, s'inginocchia
e dall'altare lui, sudante, l'imbocca.

Ma a Pasqua me la strappano.
La stendono a terra
e a turno la baciano tutti.
Il prete assiste, disinfetta
le parti più sfiorate del suo corpo.
 
Io non voglio guardarla.
Ma già mi spingono da lei.
Occhi ipocriti e saggi
suggeriscono la finzione
e severissimi poi l'impongono.
Mani callose mi premono robuste
sulle scapole.

Nel pozzo colorato di luce
(ah le vetrate dei miei artigiani!)
ora la scorgo
anelante, equivoca, umiliata.
La bacio amaro per l'ultima volta.

So che senza lei e con nessuno di loro
più andrò.

Dove si vede anche la originale declinazione che Abate dà al grande e antico tema della città-madre: quello di una coesistenza drammatica, e costitutiva, fondativa, di nascita e morte. Colpisce inoltre che la madre sia tanto presente, laddove il padre compare soltanto dopo i tre quarti del libro. Si veda a p. 47, in Pateme: dove troviamo, ancora una volta, certo con l’aiuto decisivo delle regole grammaticali dei dialetti campani (l’enclisi del possessivo), la presenza del pronome di prima persona (e nascosto anche quello di seconda: Pa-te-me).

In qualche misura, il libro disegna una qualche ipotesi di Bildungsroman. Ma sarà comunque una Bildung che non si allontana di molto dall’infanzia: perché l’infanzia viene privilegiata, come momento originario della nostra possibilità stessa di percepire l’esistenza, come tempo primo della coscienza autonoma, coscienza di sé, e coscienza degli altri. Il disegno del libro però, pur mettendo in gioco molti degli elementi di una possibile formazione (come, fondamentale, l’intuizione della sessualità della madre), non sembra costruire una autentica parabola evolutiva. Se al Bildungsroman si allude, sarà comunque per sparsi frammenti, per lacerti (come nota acutamente anche Michele Ranchetti, LEGGI:

"i pezzi dell'esperienza non si sono ricomposti in una figura" p. 8).

Non possiamo dire, in assoluto, che non ci sono crescita e maturazione: possiamo però dire con buona sicurezza che crescita e maturazione non sono l’argomento di questo libro.

In prima approssimazione, direi che Salernitudine rappresenta una sorta di epifania, la prima apparizione del mondo, quasi direi una cosmogonia. Forse è questo (o meglio: anche questo) l’argomento di questo libro. Si potrebbero fare lunghi discorsi sul significato delle strutture di inizio e fine testo (rimando agli studi geniali di Jurij Lotman e della sua scuola). Possiamo dire, in pochissime parole, che la cornice, delimitando non solo i confini del testo ma anche i confini del mondo rappresentato, ha una speciale funzione modellizzante (come direbbe Lotman): ha cioè un ruolo decisivo nel disegnare un modello di mondo: perché il mondo del testo non è un mondo qualsiasi, ma, finché dura il testo stesso, è il mondo, è il modello del mondo. Fatto sta che Abate, oltre a intitolare una poesia Il presepe del mondo p. 56, colloca all’inizio e alla fine del libro due prose liriche dove si parla di presente: La città presepe e Fuori dal presepe: ancora la città, all’inizio del testo, e poi l’uscita, la fine, o forse l’inizio della vita, collocati alla fine del libro.
Irresistibile sorge alla memoria il ricordo di uno dei momenti più famosi della storia del teatro e della letteratura napoletani: Natale in casa Cupiello: “Te piace ‘o presepe?”, domanda il padre, a ripetizione, e il figlio risponde: “’u presepe nun me piace!” Scherzi a parte, il mondo-presepe di Abate è un mondo connotato da una profonda ambivalenza emotiva: un mondo bellissimo e orrendo, un mondo desiderato e però anche tenuto: un mondo tutto materno, ma anche tutto gravato dall’impossibilità, cioè dall’impossibilità di godere delle belle apparenze che per il mondo passano. Non è un’impossibilità assoluta, qualche volta riusciamo ad afferrare frammenti di godimento, e frammenti di realtà: ma sono eccezioni, e il mondo per lo più rimane altro, diverso, fuori da noi: e l’ossessione di cercare di afferrarlo fa tutt’uno con l’ossessione di cercare di vederlo, che è già anche cercare di capirlo.
LEGGI l’incipit di Quacchose, p. 21.

Quacchose

Asciugave a mammema:
ro mercate arrivave
cu a bborse ra spesa
tutta surate
e nu poche nzine a spiave
pe capì.


Qualcosa
Asciugavo mia madre: | arrivava dal mercato| con la borsa della spesa| tutta sudata| e un po’ in petto la spiavo| per capire.

Siamo di fronte a una specie di inseguimento del segreto della vita: che è anzitutto il segreto della nascita della vita, cioè della nascita, ma anche della sessualità. C’è un mistero che può far pensare a quello cui allude Il gelsomino notturno, ma incarnato in immagini animalesche e familiari che potrebbero far pensare piuttosto alla celeberrima A mia moglie di Saba: ma con tratti scorciati, ellittici, modernisti nel profondo, anche se all’apparenza abbastanza tradizionali. Forse è una mia associazione selvaggia, ma io ho pensato anche a Buñuel: Quell’oscuro oggetto del desiderio).
LEGGI È passate p. 24 (con barzelletta!).

È passate

È passate
ccu l'uocchie e quanne
va a ppiglià nu trene d'ammore
e je nge corr'appriesse
ccu l'uocchie e chi nunn'à
manc'o bigliette pe pagà.

È passata
È passata | con gli occhi di quando | va a prendere un treno d’amore | ed io la inseguo | con gli occhi di chi non ha | neppure[i soldi di] un biglietto da pagare.

Ma il mondo-presepe non è soltanto un mondo tutto tramato di intensissimi Odi et amo (e al tempo stesso, non dimentichiamolo, tutto tramato di “io” e di “tu”): è anche un mondo piccolo, un mondo quasi giocattolo, cioè, ancora una volta, un mondo guardato con gli occhi di un bambino.
Se dovessimo analizzare il libro di Abate con gli strumenti della narratologia, dovremo probabilmente dire che si registra un predominio assoluto della prospettiva dell’io narrato rispetto alla prospettiva dell’io narrante. Uno dei tratti più caratteristici dello stile di Abate è l’uso continuo, onnipervasivo, così costante da parere quasi inevitabile, irresistibile, dei suffissi diminutivi / vezzeggiativi. Cito solo quelli in dialetto, ma la situazione non cambia se guardiamo i testi in italiano): puvarelle, munacelle, gallinelle, nennelle, vucchella, maruzzelle, marunnelle, guagliuncelle, bbizzuchelle, mammarelle, prevetielle, mennelle, puttanelle, animaluccie: e siamo solo all’inizio! Senza contare tutte le volte che la vicinanza di suono tende a risucchiare anche nel significato le parole contigue verso un vezzeggiativo che non c’è, ma che la poesia crea per l’effetto di vicinanza: “capille russulille” p. 17, “piccirelle / stelle” p. 28, “Gallinelle, assopite e belle” p. 34.
L’onnipresenza dei diminutivi / vezzeggiativi produce un effetto prospettico, che è anche un effetto di intonazione. Così infatti la distanza sofferta si mescola al toccare, il divieto convive con la familiarizzazione, e l’angoscia si sovrappone a una sfumatura che a tratti diventa quasi comica, come è normale che sia per una tenerezza tutta infantile:
LEGGI il finale di p. 17.

E chella smania
e tuccà, e arraffà
na maruzzelle e vicule
na marunnelle e chiese.

 E quella smania| di toccare, di rapire | una lumaca di vicolo| una madonnina di chiesa.

Un’associazione letteraria forse non del tutto impropria potrebbe essere fatta con Giorgio Caproni, il Caproni di Il seme del piangere, e del mito di Annina, la mamma fidanzata. Non voglio in questa sede fare un discorso sulle fonti: forse potremmo identificare non pochi ricordi di Pascoli, ma forse anche di Di Giacomo, di Leopardi, e di Rocco Scotellaro, o anche di Albino Pierro.
Fra gli aspetti tematici che aiutano a cogliere la peculiare atmosfera poesia di Abate: la presenza di un ricco bestiario. Ci sono molti aucielle e aucilluzze, soprattutto gallinelle, ma anche “nu passere pazzarielle” p. 39, a cui il poeta si paragona, o meglio a cui vorrebbe assomigliare, e un lugubre gufe 45; ci sono vaccarelle ma non maiali. Lo metterei a confronto con il valore filosofico delle vacche, p. 41. E si veda che cosa ne dice Nietzsche, alla fine della Prefazione a Genealogia della morale, quando scrive che per leggere le sue opere:
LEGGI

 “è necessaria soprattutto una cosa che al giorno d’oggi si è disimparata più di tante altre – e perciò, per arrivare alla «leggibilità delle mie opere, ci vorrà ancora tempo – una cosa, cioè per cui si deve essere piuttosto simili a una vacca e in nessun caso a un «uomo moderno»: il ruminare.”

Vacche, si diceva, ma molto meno ciuccie e cavalle (solo p. 41, A reggine Elisabbette); e poi “animaluccie piccirille” (ma non dimentichiamoci che Cumm’a n’animaluccie, p. 23, è l’io poetico. Leggiamo il secondo distico:

“Chiane chiane te vasaje e mennelle 
cumm’o vitielle ffa ca vaccarelle”).

La vicinanza con questi animali tende quasi all’identificazione, anche se si tratta di animali non nobili, anzi spesso ignobili senz’altro: maruzzelle (lumachine), verme p. 27 / vierme p. 44, vespe p. 43, na serpe (per quanto) divina p. 47. Ma, se vogliamo capire la dinamica degli animali, non dimentichiamo una cosa. Bisogna assolutamente rileggere p. 59: “Preda fosti tu […] predatore io, madre”.
L’immagine della madre predatore la dice lunga sulla complessità e ambivalenza, semantiche oltre che strettamente psicologiche, delle innumerevoli immagini di morte, che spesso sono immagini di uccisioni. Noto un’accentuarsi dell’ossessione di morte verso la fine del llibro: si vedano Stu munne fernisce p. 46; Dicimme a morte p. 49. E poi Amicizzie p. 50, dove vediamo un suicidio fatto gettandosi sotto a un treno, perché:

“Une e nui s’arrugenette l’anema 
facenn’o pazze cu na femmene”

Dove il suicida viene: tagliato a metà come il verme di p. 27.
Sul piano formale, mi sembra che Abate privilegi cadenze dove si mescolano regolarità esibite, di una metricità così conclamata da sfiorare da un lato la filastrocca, o anche la fiaba in versi, come in E cunte antiche p. 36), e, dall’altro, cadenze invece francamente prosastiche. A questo tipo di strategia ritmica mi pare corrispondere perfettamente l’uso molto parco dell’istituto della rima. Più esattamente, Abate intreccia due strategie apparentemente opposte: da un lato l’assenza di rima, dall’altro lato l’uso di rime molto evidenti, e quasi sempre facili, soprattutto desinenziali e suffissali (tipo: laureà / spusà / nzurà pp. 14-15; aggiustate / schiuppettate p. 28; guagliuncella / pucchiacchella p. 39). Ma l’apparenza di tradizionalità, e invece, all’opposto, la costante, sottile trasgressione, in una direzione che chiamerei di modernismo dissimulato, si ritrova anche nell’impiego di procedimenti metrico-sintattici e retorico-sintattici che producono qualcosa di simile a un disturbo della percezione, in quanto effetto di un disturbo della decodifica verbale, cioè sintattica ma anche logica. Sto parlando sia della frequenza di enjambements (una serie a p. 32), che s’intrecciano invece con versi che racchiudono un intero giro sintattico concluso; sia della relativa frequenza (molto notevole se confrontata con l’apparente semplicità) delle figure di modificazione dell’ordine sintattico naturale: certe concordanze scorciate (“So che senza di lei e con nessuno di loro / più andrò” p. 33), e soprattutto l’inversione e l’iperbato: “Qualche pianto udrai” p. 12; “O ddoce e pateme e l’ammare songhe n’ata cosa” p. 47.
LEGGI a questo proposito “Cupa l’aria è là” p. 34.

Cupa l'aria è là, tenebrosa la grotta
umido il manto delle foglie marce.
E sulle pietre potreste inciampare
cadere urlanti  e feriti restare.

Ma anche LEGGI tutta la prima strofa: “cadere urlanti e feriti restare”, ancora con rima desinenziale; e poi la terza, sempre a p. 34.

Bambini, piccolini, dolci creature
vi raccomando, non ci andate, no
nel vallone verde buio non entrate.
Cupa l'aria è là, tenebrosa la grotta
umido il manto delle foglie marce.
E sulle pietre potreste inciampare 
cadere urlanti e feriti restare.
Gallinelle, assopite e belle
scusate se qui nella stalla
accanto a voi farò pipì. 
Fuori infuria senza catena
il cane grosso, tempesta nera.
Il vento cigola. Bitume è il cielo.
Scoppia il singhiozzo. Sono nel pozzo.
La fiamma è stanca. Il corpo trema.
Tutta la mia paura sbanda e si scatena.

Ancora ci sarebbe molto da dire sul linguaggio di Abate: a cominciare dalla giustapposizione delle due lingue, l’italiano e il dialetto. C’è evidentemente una coerenza profonda nella ricerca espressiva di Salernitudine, in tutt’e due le lingue; ma, altrettanto evidentemente, c’è una differenza marcata fra i testi in italiano e quello in salernitano. In prima approssimazione, mi verrebbe da dire che si tratta di una differenza di strategia retorica.

Finisco domandandomi come si sarebbero potuti esprimere in italiano i significati che troviamo in certe parole straordinariamente espressive del dialetto napoletano-salernitano: in parole come sprucete p. 23, o ‘nziste e ‘nzalanute p. 28.

Grazie dell’ascolto.

Nota tecnica di E. A.
Le mie insufficienti conoscenze di Word Press non mi hanno permesso di mantenere il rientro della prima riga dei paragrafi.

5 pensieri su “Gianni Turchetta su “Salernitudine”

  1. Che bello questo commento… hai fatto bene a riproporlo, Ennio. Ha anche permesso di rileggere alcuni testi di Salernitudine, e ne valeva la pena. Credo che andrò a riprendere in mano il volumetto. A suo tempo, per la presentazione a Roma, ne avevo anche steso un commento, poi tralasciato di fronte alla presenza di un commentatore ben più conosciuto.
    Solo un particolare di questo post mi lascia in dubbio: nell’unico testo in dialetto che non riporta la traduzione italiana lo nzine del verso e nu poche nzine a spiave significa perfino, o che altro?

  2. Grazie, Marcella. No, non è ‘perfino’ ma ‘in petto’, ‘nel seno’.
    Ho aggiunto ora la traduzione:

    Qualcosa
    Asciugavo mia madre: | arrivava dal mercato| con la borsa della spesa| tutta sudata| e un po’ in petto la spiavo| per capire. […]

  3. esprimo anch’io un ringraziamento a Gianni Turchetta per l’analisi critica approfondita dell’opera di Ennio Abate:”Salernitudine…una guida sicura alla comprensione del testo poetico…Mi permetto di esprimere solo un commento personale su alcune poesie pubblicate che mi hanno colpito in quanto vi si dischiude alla luce, come fiori alla (seconda) vita, il mondo dell’infanzia e della prima adolescenza di cui solitamente si conservano ricordi ma raramente si è in grado di rivivere emozioni e sentimenti lontani dei decenni dalla scrittura…Mi ha colpito molto il rapporto madre-figlio, riportato alla natura delle origini, prettamente campagnole, bagaglio che Ennio Abate porta nella Salerno, città venata sempre di nostalgia e di amarezzanella poesia “Cumm’a n’animaluccie” : “…cumm’o vitiello ffa ca vaccarelle.”, dove affetto e sessualità sono confuse nel rapporto simbiotico e totalizzante…
    La madre rivissuta dal suo centro. “Nel sogno materno”, sogno che lei trasmetteva con fascino mistico-erotico al figlio, nel sortilegio di una passeggiata barocca tra i chiaroscuri di una chiesa del sud, calda e tenebrosa, sino all’estasi..
    Ma gli ultimi versi rivelano lo svelarsi dell’incantesimo, in età diversa immagino: “Sorrisetti e sberleffi./ Languori pezzenti e/ stracci sotto i veli./ Invidie evangelizzate e rimorsi.” da parte di una comunità tutt’altro che rapita nel sogno mistico…
    Rimane forte in tutte le poesie il sentimento del sacro profanato: nella città, nei vicoli, nelle compagnie… ma soprattutto nei confronti della donna, vittima di un mondo di violenza, come nella poesia: “Dissacrazione”…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *