di Salvo Leonardi
Di quel “sinistro miscuglio di semiverità e confuse superstizioni” (Arendt), che fra Otto e Novecento ha animato l’immaginario antisemita europeo, due miti – più di altri – si sono rivelati straordinariamente radicati e virulenti; l’attribuzione agli ebrei di uno abnorme potere nella sfera finanziaria da un lato, e il mito del bolscevismo giudaico dall’altro, agente internazionalista della sovversione rivoluzionaria e antinazionale. A saldarli nella loro pur eclatante contraddittorietà, il tradizionale refrain di un cosmopolitismo apolide e cospirativo, foriero – fra i cittadini di “razza ebraica” – di separatezza interna e scarsa lealtà nazionale, sino all’infamante estremo del tradimento, secondo un’insinuazione che nel successo mondiale di un colossale falso come i “Protocolli dei Savi di Sion”, e nell’affare Dreyfus, avrebbe ricevuto le sue più clamorose ed epocali testimonianze.
Per orientarsi nella genesi di questi pregiudizi occorre dotarsi di mappe geografiche e cronologie storiche, attraverso cui la millenaria diaspora ebraica ha forgiato, nei diversi paesi in cui si stabiliva, la sua peculiare dislocazione nella stratificazione sociale e di classe. Il frutto della pluri-secolare interdizione che – sin dal Medioevo – aveva precluso agli ebrei il possesso di terre, nonché l’esercizio di un gran numero di professioni, inducendone forzosamente la specializzazione verso altre. Fra cui, innegabilmente, il prestito di denaro, dal quale una ristretta ma rinomata élite (i Rothshild, i Bleichorder) sarebbe giunta a ricavare posizioni di assoluto primato, alla corte delle maggiori cancellerie d’Europa. Finanziando imprese militari e politiche imperiali. L’emancipazione seguita all’editto giacobino del 1792, progressivamente emulata nel resto dell’Europa centro-occidentale nel corso del XIX, avrebbe dischiuso le porte alla spettacolare fioritura di quell’“enorme giacimento di talenti” (Hobsbawm), covato nella secolare consuetudine della lettura e dell’interpretazione, ed ora desideroso solo di esprimersi liberamente in tutti gli ambiti professionali e del sapere offerti dalla modernità post-illuministica. Dove la situazione permane disperatamente penosa è invece nei territori dell’immenso impero zarista, fino alle propaggini più occidentali della Polonia, in cui vivono alcune delle più vaste e dense comunità ebraiche del tempo, recluse in apposite zone di residenza, e condannate di fatto ad esistenze miserevoli, non di rado insanguinate dai pogrom scatenati dalle vicine popolazioni locali. Un’emarginazione esterna, corroborata dall’interno, nella conservazione – fra gli ebrei orientali – di un’ortodossia religiosa inflessibile, scarsamente o per nulla compatibile con una integrazione, anche lavorativa, con le economie e società locali. Come col precetto di divieto assoluto di lavoro al sabato, per il quale padroni e operai si scelgono reciprocamente per potervi assolvere, come nelle industrie laniere di Lodz. E che darà vita all’universo separato degli “Shtetl”, dei villaggi ebraici, pur tanto poeticamente immortalati nella letteratura yiddish dei fratelli Singer o in quella di Joseph Roth.
Alla fine dell’Ottocento, la collocazione degli ebrei nella stratificazione dei paesi occidentali in cui vantano una presenza significativa appare molto polarizzata, fra una classe alta privilegiata ed una massa diseredata, fra parvenu e paria (ancora con la Arendt), dentro una incoraggiante traiettoria di completa integrazione, traumaticamente infranta dall’affare Dreyfus a ovest, e che insieme ai tremendi pogrom che si consumano ad est, indurrà ad una forte presa di coscienza politica in un popolo che se ne era astenuto per quasi duemila anni. Nel giro di un biennio, fra il 1896 e il 1898, ne scaturirà la nascita di due movimenti polari, destinati a segnare la storia ebraica del secolo a venire; quello sionista di Theodor Herzl da un lato e il Bund operaio ebraico dall’altro, diversamente interpreti del “che fare?”, dinanzi al naufragio delle speranze generate, e variamente disattese, dell’integrazione territorialista. Israele da un lato, e il socialismo democratico e rivoluzionario dall’altro, saranno gli approdi novecenteschi di quella divaricazione.
In quell’esatto frangente (1898), vede la luce una pubblicazione originale di un ricercatore lituano – Leonty Solowietschik – intitolato “Le proletariat meconnu”, ed ora meritoriamente tradotto e pubblicato in italiano come “Il proletariato negato. Studio sulla situazione sociale ed economica degli operai ebrei” (Biblion edizioni, 2020), a cura della storica del lavoro Maria Grazia Meriggi, che ne ha redatto una densa introduzione su antisemitismo, questione ebraica e movimento operaio e socialista. Alla richiesta del giovane Leonty di dedicare a quel tema la propria tesi di dottorato, il professore ginevrino interpellato aveva risposto: “Ma come, ci sono degli operai ebrei? Credevo che gli ebrei fossero tutti banchieri”. Si trattava, evidentemente, di uno stereotipo allora (e non di rado anche oggi) molto diffuso e radicato, anche nell’accademia (ad esempio il sociologo Sombart, che sul solco della lezione weberiana, rinviene nell’ebraismo un fondamento etico-culturale del capitalismo), derivato dalla relativa ma comprovata sovra-rappresentazione degli ebrei fra le élites economiche e intellettuali, come nel clamoroso caso della Vienna fin-de-siècle. Un dato che se da un lato susciterà orgogliose auto-rappresentazioni e anche simpatie filo-ebraiche fra i gentili, dall’altro tralascia colpevolmente di aggiungere come una presenza statisticamente non meno significativa poteva già rinvenirsi anche fra i ceti operai e artigiani. Ingenerando di conseguenza – nella semi-verità rappresentata – quella distorsione prospettica, all’origine di buona parte di quelle ideologie antisemite, culminate nel programma genocidario nazista. E tuttavia, è un fatto che quando il laburismo sionista si troverà ad elaborare l’edificazione di uno Stato degli ebrei, già prima del 1948 (nel c.d. Yishuv palestinese) ma soprattutto dopo, dovrà fare i conti con quella “piramide sociale rovesciata”, composta dai giovani intellettuali sionisti e socialisti, scampati alla furia antisemita che imperversa in Europa. Il lavoro manuale e nei campi riveste ora un valore morale e pratico primario, estraneo a chi per secoli aveva conosciuto soprattutto l’impiego di bottega o la speculazione talmudica.
Il libro di Solowietschik è, nell’essenza, il tentativo (riuscito) di confutare lo stereotipo di un ebraismo senza proletariato e anche senza organizzazione, dimostrando – con le cifre statistiche di cui si era allora a conoscenza – di come e quanto la presenza ebraica fra talune corporazioni operaie ed artigiane fosse non solo diffusa, ma addirittura preponderante in taluni contesti territoriali – (l’East End londinese o il Lower East Side di New York) – e professionali (sarti, cappellai, calzolai). Per non parlare del quasi monopolio esercitato ad Amsterdam, nell’orgogliosa arte della lavorazione dei diamanti. Vi sono pagine di grande bellezza e intensità nel modo con cui l’autore ricostruisce questo sobrio e laborioso universo di comunità diasporiche, spasmodicamente protese a ritagliarsi un posto al sole, pur nei sordidi quartieri dove vengono inizialmente stipati, in fuga dalle persecuzioni orientali, e desiderose di offrire ai propri figli, col duro lavoro e la parsimonia negli stili di vita, un destino migliore. Sono fisicamente emaciati, inadatti al più duro lavoro industriale, agricolo ed estrattivo, ma insuperabili nel lavoro ad elevata applicazione e capacità manuale. Ed è molto interessante, e anche attuale, il raffronto col quale – nella comune condizione di proletari oppressi – gli operai ebrei e quelli “cristiani” (come li definisce l’A.) perseguono le loro strategie adattive e di riscatto. Ad esempio, nell’organizzazione sindacale, ma anche nell’impiego del tempo libero o nel valore riposto sull’educazione ai fini di quell’ascesa sociale che, effettivamente, vedrà nel ‘900 molti figli di poveri ebrei immigrati, risalire nell’arco di un paio di generazioni la scala sociale del successo. Una determinazione e una speranza che, ad esempio, è più blanda in un proletariato come quello inglese, sì militante ma anche fatalista nel non arrivare ad ammettere fuoriuscite individuali dal proprio status. Il razzismo antisemita e la xenofobia fra le classi popolari non sono una deriva ineluttabile, e nelle pagine di questo libro non ricoprono uno spazio rilevante. Sono piuttosto i problemi materiali della concorrenza non regolamentata al lavoro, ad esacerbare sensi di rivalità ed astio. Gli ebrei che si fermano in Inghilterra finiscono asserviti nelle “fabbriche del sudore” dell’East End o di Manchester, accettando paghe più basse (ma gli italiani, scrive l’A., fanno peggio!) e fungendo da crumiri, come nel fallimento dello sciopero dei portuali a New York. Ma non è loro la colpa, si appassiona l’A., affamati come sono. Bensì del sistema vessatorio dell’intermediazione e del lavoro a domicilio, che li schiaccia. E se è vero che a Londra, gli operai ebrei – al tempo in cui è scritto il libro, ma non dopo, quando animeranno l’epica battaglia anti-fascista di Cable Street, nel 1936 – rivelano scarsa inclinazione a sindacalizzarsi, lo stesso non può dirsi degli USA, dove diverranno un nucleo militante fra i più organizzati e combattivi, fornendo – nella figura di Samuel Gompers – il primo grande leader e fondatore del moderno movimento sindacale americano.
In definitiva, la loro presenza nel proletariato, e vice versa, non è statisticamente diversa che fra i gentili, come anche la loro predisposizione ad organizzarsi e a battersi, se il contesto normativo e culturale gliene offre minimamente le condizioni, come in Olanda, Inghilterra e Stati Uniti.
Della Romania e soprattutto della Russia, che già allora ospita la più grande popolazione ebraica del mondo, l’A. può solo evocare la disperata miseria in cui è costretta, ma anche l’emersione di un primo nucleo intellettuale e politicamente consapevole, futuro protagonista, nell’emigrazione e in casa, delle formazioni socialiste e rivoluzionarie, fornendo un tal numero di quadri, in rapporto alla loro popolazione e a quella nazionale, da alimentare quell’altro grande e terribile mito, questa volta del secolo XX, del “bolscevismo giudaico”. Ma questa è, rispetto al libro di Soloweitschik, un’altra storia. Colpisce, nel lavoro, l’assenza di capitoli dedicati a paesi come la Francia, l’Austria-Ungheria e la Germania, dove in quegli anni – insieme ai nuovi traguardi dell’emancipazione – prende corpo un vigoroso movimento socialdemocratico, fortemente influenzato da un quasi esorbitante numero di leader ebrei marxisti, attentissimi al tema del rapporto fra classe e nazionalità, anche in rapporto alla questione ebraica, e che – nella diagnosi di Hanna Arendt – renderà quei movimenti operai poco permeabili al veleno antisemita, sia pure senza riuscire ad impedire la catastrofe imminente. Ciò nondimeno resta la lezione – di cui questo bel libro ci offre testimonianza e stimolo – che un’efficace opera politica e pedagogica da parte dell’organizzazione, fra i partiti di sinistra e nel sindacato, insieme a misure che uniformino i trattamenti sul terreno salariale e contrattuale, può scongiurare fra i propri affiliati il virus sempre recrudescente dello sciovinismo e della xenofobia razzista. Ripristinando la comprensione delle reali cause dello sfruttamento, e con essa, il perseguimento delle azioni necessarie per contrastarlo e sconfiggerlo.
Nota
Questa recensione è comparsa la prima volta sul n. 11/2020 di Mondoperaio