Sulla superstizione, il fondamentalismo e altre facezie del genere

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 di Giulio Toffoli

“Ma guarda te, se si può. – stava borbottando fra sé e sé Li Yu, mentre guardava una delle lettere che si erano raccolte negli ultimi giorni sulla sua scrivania – Da quanto tempo non sento più Wang Wei? Forse l’ultima volta ci siamo visti al tempo della Grande Rivoluzione Culturale e anche allora si trattò di un breve saluto del tutto occasionale.

Chissà cosa vorrà?”

Si erano conosciuti una vita prima, quando giovani e carichi di speranze avevano partecipato alla fase finale della lotta di liberazione nazionale. Poi avevano vissuto insieme alcuni momenti della fase esaltante della ricostruzione del paese, uniti da un comune entusiasmo per la cultura occidentale e per la sua carica liberante che sembrava poter servire come strumento per avere ragione di modelli mentali sclerotizzati nei secoli.

Ben presto però si erano persi di vista. Wang Wei aveva assunto posizioni sempre più moderate e tradizionaliste salendo, con una certa agilità, lungo la scala della burocrazia. Fu in quel torno di tempo che si scontrarono in un dibattito pubblico in cui rappresentarono le due anime della nuova società nascente, quella moderata tradizionalista e quella radicale.

Da allora Li Yu non aveva avuto più notizie di Wang Wei. Ora si trovava fra le mani questa lettera. La aprì con una certa curiosità e mentre scorreva le prime righe il volto gli stava diventano sempre più severo. Si era atteso un qualche cosa di neutro come un richiamo alla memoria di tempi ormai perduti e invece era una vera e propria recriminazione contro coloro che avevano a suo dire: “intaccato i valori tradizionali e che troppo inebriati da un gusto per la cultura occidentale espressa in particolare nella forma più estrema dal pensiero di quell’oscuro e marginale filosofo di Treviri, esule e reietto per l’Europa, che andava a nome di Marx”.

Infatti Wang Wei aveva scritto: “Cosa ci si può attendere da tempi cosi duri come quelli che hanno dichiarato la “cosiddetta morte degli dei o di dio”? In ogni dove violenze infinite, favorite da forme di una radicalizzazione ideologica sempre più perversa, hanno portato a mettere in discussione una tradizione che aveva garantito secoli di stabilità e pace”.

Poi continuava sottolineando che la grave crisi del momento era dovuta in particolare a coloro che avevano fatta propria la perversa teoria che affermava essere la religione “l’oppio dei popoli”. Era davvero un paradosso, una qualche cattiva forma di ipocrisia, aggiungeva, che fossero gli stessi che avevano introdotto idee tanto pericolose che ora si disperavano di una evoluzione sociale a cui avevano grandemente contribuito, non da ultimo giustificando lo sviluppo senza regole della scienza. L’esito di questa situazione si poteva così descrivere – attaccava Wang Wei –: “Siamo soli davvero sulla faccia della terra e tale condizione – in assenza di un senso altro dell’esistenza – ci pone di fronte a dilemmi che non sono eludibili. Salvo per quei pochi o pochissimi che pensano di vivere ancora nella “città di Dio” e per i quali il Bene e il Male dell’esistenza vanno accettati come dovere del buon cittadino, per la maggioranza Bene e Male sono coessenziali alla società degli uomini e non dipendono da nessun errore originario dell’uomo (quale che esso sia)”.

Da qui Wang Wei deduceva che la crisi dei valori etici aveva di fatto modificato, o andava modificando, radicalmente l’intima struttura della società ma soprattutto dell’essere umano. Si era venuta imponendo una visione del mondo che lasciava l’individuo solo e in preda a percorsi esistenziali sempre più scellerati. Infatti, facendo propri spunti tratti della filosofia occidentale, proseguiva dicendo: “Tale situazione comporta atteggiamenti umani sempre più variegati. Proviamo a vederli. Il non senso assoluto della città dell’uomo può provocare l’estrema decisione del suicidio o della violenza sadica dei fondamentalisti di ogni risma e colore. Può comportare – meno tragicamente ed anzi a volte piacevolmente – quella soluzione che il filosofo occidentale Kierkegaard chiamava scelta estetica: una sorta di soggettivismo nichilistico attento solo ai piaceri ed incurante della “sorte comune”. La terza soluzione è l’accettazione della città dell’uomo. Questa opzione non è una scelta semplice nella sua definizione concreta né facile da praticare. Impone infatti sia la predeterminazione di cosa si vuole da tale città sia la definizione dei modi per attuarne i fini, sia una intima coerenza. Ma – anche in questo caso – non ci sono scorciatoie. Ammesso che la città dell’uomo abbia come fine quello di assicurare una serie di “benefici” alla comunità affinché questa nel suo complesso viva il migliore dei mondi umani possibile, il dilemma etico-politico ineludibile è questo: cosa fare per… Non ci si può trincerare dietro un “non sappiamo” o un “non possiamo”. La prima risposta segnala la nostra incapacità di capire i problemi e la seconda una sorta di incapacità operativa”.

Dopo tale disamina Wang Wei ribadiva che esisteva una responsabilità oggettiva da parte di ogni individuo per questa pericolosa evoluzione ed ancora di più da parte di coloro che erano la causa prima di questa grande perturbazione. Con una limitata concessione a quelli che giudicava i responsabili di tale sfascio sottolineava: “C’è chi crede che sia insoddisfacente il presente stato delle cose, ma questo a quale conclusione deve portare? O non abbiamo capito come stanno le cose o l’abbiamo capito e non riusciamo a modificarle”.

Li Yu, schiumante di rabbia, aveva percorso con grande rapidità le righe successive sottolineando con il battere del dito sul tavolo i diversi passaggi: “Quest’ultima alternativa implica o l’insufficienza della nostra azione o l’immodificabilità di determinate situazioni fondamentali dell’esistenza. Su tale dilemma ciascuno di noi ha le sue opinioni. Certo è che chi crede che sia l’insufficienza del nostro agire la radice dello stato di cose insoddisfacente non può lamentarsene e non fare nulla non mettendo nel conto anche scelte che possono essere estreme.  Se non si è pronti a farle si cade in una ipocrisia filosofica, se vogliamo chiamarla così, che ci infetta tutti”.

Tutti? Evidentemente no!

Wang Wei e i suoi amici in una qualche forma se ne tengono fuori, infatti sono gli altri i responsabili. Sempre più alterato Li Yu lesse le ultime righe: “E’ abbastanza curioso che da un lato si rifiutino le scelte estreme (rilevandone in un modo o nell’altro l’insufficienza) e dall’altro si “diffami” la quotidianità chiudendo gli occhi di fronte a tutta una serie di scelte etiche difficili da prendere e praticare, ma che danno senso a quella quotidianità che è “la nostra vita reale”. Se le divinità sono morte vivono accanto a noi le nostre famiglie, i nostri vicini malati e indigenti, i fratelli lontani cui combattenti civili coraggiosi e coerenti danno assistenza (veri eroi del presente); c’è tutto una serie di attività che danno dignità al nostro vivere. Anche l’esercizio attento e consapevole di una politica moderata e prudente è una delle quotidianità che ha valore. Nella dignità sta anche la “contemplazione” di quello che sappiamo fare di bello e di buono a dispetto degli dei o di dio. Le arti sono “valori”. La nostra cultura è un valore. Non ultimo il dialogo serve a farci sentire vivi e prossimi”

L’ultima riga era perentoria e quasi senza un saluto Wang Wei aggiungeva: “Questa è la mia visione del mondo. Giusta o sbagliata? La vivo. Non sono affatto esente da ipocrisie ma non riesco a dire di fronte a quello che non riesco a fare, come hanno fatto tanti saccenti: non ho alcuna responsabilità”.

Difficilmente Li Yu finiva la lettura di un documento provando un stato di profondo fastidio. Era passato il tempo in cui ci poteva accalorare per uno scritto e prendere posizione convinti di dover combattere una battaglia per la verità. Ora però era fremente di rabbia:

“Come si permette – iniziò a dire ad alta voce – quest’impudente di Wang Wei, di ritornare come se nulla fosse, da un passato remoto, a disturbarmi e alzare il dito facendosi censore di un destino che per ciascuno ha decretato esiti diversi nella dura arena della storia?”

Si alzò dal tavolo da lavoro e quasi senza rendersene conto, dopo aver messo il primo cappotto capitato fra le mani e un cappellaccio, era uscito di casa senza dire nulla.

Per ore aveva vagato senza meta e alla fine si era trovato, ormai quasi all’imbrunire, in una zona che era proprio ai margini della città, là dove le ultime costruzioni toccavano l’infinita pianura lavorata da mano umana. La pace della terra e un arcano sentire, che lega l’uomo alla sua tradizione alle sue radici, diede a Li Yu un attimo di grande pace. Si sedette su una panchina e quasi si assopì, pensando. Ripresosi disse fra sé e sé:

“No a Wang Wei non la faccio passare liscia. La conservazione avrà pur prevalso. Almeno per il momento. Il grande progetto di un mutamento radicale della società si è scontrato con impreviste, infinite e potenti resistenze. Saremmo anche stati sconfitti ma non vinti. Non servirà a granché ma gli farò sentire che siamo più vivi che mai!”.

E così riprese la via di casa.

A tarda sera si mise al tavolino e iniziò a scrivere con una grafia chiara e puntuale:

“Ci sono norme tradizionali che anche noi abbiamo sempre rispettato. La tua missiva trascende questa linea ma nonostante ciò ti risponderò con la massima franchezza. In modo che questo nostro estremo incontro renda definitivamente evidenti quelle fratture che molti decenni fa ci fecero percorrere strade diverse. Il tuo discorso è un abile, ma facilmente smascherabile, gioco di specchi che integra in un falso ragionamento elementi della tradizione nostra e un disegno filosofico che è in gran parte ricavato dai maestri dell’occidente. Mostrerò senza reticenze i tuoi gravi errori.

Parti da una specie di premessa che si potrebbe così sintetizzare: “Non avete visto come vanno le cose? Il vostro continuare a polemizzare contro le tradizioni, quelle che voi definite superstizioni e fondamentalismi, che proprio dal vostro spirito dissacratore sono stati originati, è espressione di quella porzione del mondo che è responsabile della caduta del sacro. Le cose oggi stanno così, viviamo in una società desacralizzata figlia della laicizzazione borghese e ne siete i responsabili con la vostra continua critica dei valori tradizionali. Di qui la nostra dolorosa presa d’atto della “morte degli dei o di dio” a causa dell’insana teoria di quell’infernale filosofo che ha parlato della “religione come l’oppio dei popoli”.

Giunti a questo punto però ti fermo e dico un duro: No. Oltre che gravi le tue affermazioni sono davvero il prodotto del pregiudizio e di una sapienza che non vela la tua pesante ignoranza. Non si può giocare con la saggezza, pena esserne poi profondamente puniti. Prima o dopo il tempo della verità suona per tutti, uomini e popoli.

Tu utilizzi, come se fosse un gioco delle carte, metafore, immagini e affermazioni piene di un significato profondo che forse neppure comprendi, le tratti come se fossero poco più che dei giochetti di parole.

La prima è la teoria di “morte di dio o degli dei” per declinarla in modo più vicino alla nostra sensibilità, l’altra è l’affermazione marxiana che dice essere “la religione l’oppio dei popoli”.

Sembrano facili concetti, di una evidenza palmare, che oggi si possono sentire ripetere anche in una taverna di quart’ordine, sono sulla bocca di tutti come se fossero universalmente ovvi ed acquisiti ed è proprio questo che contesto.

La teoria della cosiddetta “morte di dio o degli dei”, che è rimasta abbastanza estranea al nostro universo culturale, è sorta all’interno del mondo filosofico e religioso ebraico e cristiano-protestante che ha vissuto con particolare intensità l’esperienza della shoah, della eliminazione di milioni di ebrei da parte dei fascisti. La storia è davvero paradossale. Qui da noi il secolo a cavallo fra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, insomma fino al 1949 è stato epoca di olocausti inimmaginabili in occidente. Nel tentativo di liberarci dal giogo dell’imperialismo abbiamo sopportato massacri che non hanno paragoni al mondo, ma se ne parla relativamente poco, la cosa è passata quasi sotto silenzio, come se la natura remissiva della nostra gente avesse visto in tali violenze null’altro che un segno del destino. Ben diverso quello che è successo in Occidente, lì infatti ci si è interrogati a fondo sui drammi del conflitto che ha insanguinato quelle terre fra il 1914 e il 1945. La teoria della “morte di Dio” è figlia di un mondo specifico anzi, se si volesse essere pedanti, si potrebbe aggiungere di due mondi, l’uno erede dell’altro, quello dell’irrazionalismo tardo ottocentesco, con l’inevitabile riferimento al filosofo tedesco Nietzsche, e quello della crisi della cultura occidentale legato all’idea di una macchia indelebile di cui è portatrice. Il tema è talmente affascinate e complesso che non è questo il luogo per sviscerarlo, resta però da sottolineare che quella della “morte di Dio” è un’acquisizione culturale di una minoranza colta che continua a interrogarsi su tematiche tanto tragiche.

Accanto a questa teoria, come espressione della “decadenza dei tempi” e perfino come possibile causa di tale decadenza, citi l’affermazione marxiana secondo cui la “religione è l’oppio dei popoli”. Sottintendendo che noi critici del passato di questa condizione saremmo responsabili essendo eredi di una tradizione tanto “imprudente e scellerata”. Certo le formule culturali quando sono particolarmente pregnanti e mettono in moto un qualche remoto sentire di massa possono subire torsioni impreviste ma è dovere di chi pensa ricordarsi che ogni citazione è una interpretazione e il rischio che si trasformi in una pura manipolazione è davvero altissimo.

Qui diviene inevitabile una digressione tecnica che può forse di primo acchito sembrare noiosa ma, se la cultura non ha il coraggio di leggere con attenzione le cose e si lascia distrarre dalla difficoltà, allora vuol dire che siamo definitivamente giunti a livello dei dialoghi da taverna e tutto si riduce a un miserando cicaleccio indistinto.

Io non ci sto e perciò ti costringo a seguirmi anche se sono certo che storcerai la bocca. Voi avete recitato e scimmiottato all’infinito Marx e il Presidente, quando vi conveniva, trasformandoli in dottrine sclerotizzate e in sottili strumenti di potere ma non avete avuto mai l’onestà intellettuale di ragionare a fondo su quello che hanno scritto o detto.

Parliamo allora di Marx.

E’ Marx che all’interno della Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione del 1844, perciò una delle sue prime cosa, usa questa espressione.

Ma in che conteso e in quale background culturale?

Marx considera la religione come la coscienza dell’uomo alienato. Quello della alienazione religiosa era allora un tema particolarmente dibattuto all’interno del mondo culturale tedesco. Per non dilungarmi cito direttamente le parole di Marx, puoi sempre controllarne l’esattezza: “La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d’honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne compimento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera”. E’ proprio in questo contesto, semplificando al massimo, che aggiunge: “La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo”.

Riletta con attenzione, in questo quadro più ampio, l’affermazione di Marx si presenta con un significato infinitamente più complesso, ricco e problematico di quello che si può ricavare da una sua somministrazione in forma di pillola ideologica. Anzi si ribella a tale trasformazione!

Non solo Marx aggiunge per maggiore chiarezza: “L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. […] La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi” e conclude: “La religione è soltanto il sole illusorio che si muove intorno all’uomo, fino a che questi non si muove intorno a se stesso”.

Altro che piangere sulla fine di queste superstizioni.

Ma attenzione ci tengo a metter a fuoco anche il background in cui tale testo viene composto, che spesso risulta sfuocato e a cui certo tu, superficiale quale sei sempre stato, non hai mai pensato. Noi oggi, più o meno dall’età post-vittoriana o se si vuole dalla fine del Celeste Impero in poi, siamo figli di una cultura del proibizionismo che vede nella droga una delle forme più alte del male. Era così alla metà del XIX secolo? Neanche mi fermo sulla piaga dell’oppio che ha segnato pesantemente la vita del nostro grande paese. Ti porto invece un esempio tratto dalla cultura occidentale. Molti anche in Cina hanno letto i gradevoli romanzi di sir Conald Doyle che hanno per soggetto il formidabile Sherlock Holmes, ma sicuramente pochi hanno fatto mente locale che ci si trova di fronte a un caso di vera e propria pesante tossicodipendenza, sia pure vissuta sotto continuo controllo medico. E’ sintomatico che nella nuova serie di film che ha come soggetto questo personaggio, e che forse hai anche visto, se ne faccia memoria in modo del tutto marginale. Holmes per snebbiarsi la mente e risolvere i suoi casi si faceva di cocaina iniettata in soluzione al 7%, insomma in dosi davvero al limite della sopportabilità umana. Non solo: fumava, assieme al suo amico Watson, tabacco, sigari e pipe e infine usava, come se non bastasse, anche occasionalmente, la morfina. Il dottor Watson era contrario, ma ben sapendo che il suo amico era malato accettava il paradosso di questa sua condizione perché aveva intuito di trovarsi, per un caso del destino, accanto un individuo con una mente di assoluta eccellenza e che aveva bisogno di assistenza. Gli voleva bene e ne aveva cura. Insomma la società previttoriana e perfino, quella vittoriana nella sua falsa coscienza, ricordavano un tempo in cui ampi gruppi sociali, per sopravvivere alla propria “miseria”, erano soggetti a uno stato di perenne intossicazione da sostanze eccitanti, alcool, droghe ecc. Questo fenomeno interessava, sia pure in varia misura sia le classi dominanti sia quelle pericolose. In questo contesto la frase di Marx perde tutto il suo aspetto iconoclasta e assume il volto di una disincantata lettura filosofica della realtà, ancorché espressa con una formulazione particolarmente forte ed efficace.

Passo ora alla seconda parte del tuo scritto che non è meno carico di inesattezze e inintelligenza. Anche qui, pur in forma dimessa, mi proponi un gioco filosofico degli specchi che si basa su una pesantissima contrapposizione fra modelli carichi di significati reconditi che non possono essere elusi.

Il primo parte della tua affermazione si basa sull’accentuazione di un concetto che appare lapalissiano: “viviamo nella città dell’uomo”.

Ma è poi vero?

Si tratta in questo caso, come è chiaro, della riproposizione di una lettura della storia elaborata dal filosofo cristiano Agostino di Tagaste nel suo De civitate dei. Un libro che dovresti leggere invece che citarlo a caso. Senza scendere in una complessa esegesi non posso che obiettarti, con assoluta fermezza, che non viviamo più “nella città dell’uomo” ma più laicamente in quella “degli uomini” e che la caduta della falsa coscienza dell’esistenza di “una città di Dio” (che Agostino contrapponeva a quella terrena nella sua metafisica) non è per nulla un dato acquisito, come vorresti farmi credere. Il problema della falsa coscienza di masse infinite di uomini e donne, che sembrano aver dismesso gli abiti della tradizione, non ci deve nascondere il fatto che esiste una realtà psicologica di fondo che fa sì che miriadi di esseri umani restino legati a queste superstizioni e anche ai loro aspetti esteriori che maggiormente si palesano come falsi.

Ti aggiungo poi che la “citta dell’uomo”, tanto per restare alla formula che hai proposto, non è mai stata un luogo di delizie proprio perché ciò che è sempre esistito storicamente è una condizione umana infinitamente più complessa basata su una dialettica fra essere umano e natura e fra essere umano ed essere umano che ha visto nella “città”, quella greca e romana, ma ovviamente anche in quelle dei nostri grandi imperatori del Celeste Impero, l’ultima, l’estrema e raffinata riproduzione di una logica di potere e di classe del mondo classico e non uno stato originario voluto da un disegno imperscrutabile. Fra l’altro si è sempre trattato di uno stato fragile e incerto come ben sperimentò l’Occidente quando venne schiacciato dalle invasioni delle orde delle genti delle steppe.

Il paradosso estremo è che tale crollo segna tragicamente anche gli ultimi giorni di vita del filosofo Agostino, quando ha la possibilità di vedere, certo con orrore, dall’alto dalle mura della sua Ippona le bande dei Vandali distruggere senza requie quel tessuto umano di cui era stato lui stesso grande, anche se contraddittoria, ultima voce.

Dal nostro punto di vista, un punto di vista adulto e maturo, ormai dovrebbe essere evidente che non vi è “salvezza”, se questa parola ha un senso, e paradossalmente io credo lo abbia, se non fra gli uomini e nella società degli uomini. Nella creazione di rapporti fra essi non alienati.

Qui però, nel tentativo di aggrapparti alle tue tradizioni metti in moto un’altra potente ricostruzione filosofica rifacendoti niente meno che a Enter Ellen, all’Aut Aut di Kierkegaard. Dubito che tu abbia mai letto anche lontanamente qualche riga di quell’autore. Sarebbe stato molto istruttivo ma ormai non è più il tempo …

Citandolo a sproposito, realizzi veri e propri travisamenti logici del suo pensiero che corrispondono a una sottile ed evidente scelta di campo, una voluta modificazione del disegno originario. Mi dici infatti che ci sono tre atteggiamenti umani che oggi (mi chiedo: anche nel XIX secolo e in quelli precedenti?), sono gli unici sensati.

Il primo è un atteggiamento di totale negazione, che in Enter Ellen non c’è, e che “può comportare l’estrema decisione del suicidio”. Una mia inveterata abitudine a rispettare tale gesto mi porta sospendere ogni giudizio, ma non è possibile però non farti notare la paradossalità insita in tale scelta come insegna anche la nostra cultura.

La seconda via, che invero è la prima proposta dal filosofo danese, è la “scelta estetica” e qui Kierkegaard ha scritto le sue cose più belle e felici e allora neanche la tocco, sono cose degne anche oggi di essere ripensate di fronte a questa società dell’effimero che ci soffoca. Studiatele se hai voglia.

Infine la terza opzione, per Kierkegaard la seconda, mi dici essere “l’accettazione della città dell’uomo”. Ovvero la scelta della vita borghese che modera le passioni e impone all’individuo una opzione di socialità mediata dalle convenzioni del vivere normato.

In questo modo viene però nascosta la vera terza strada indicata da Kierkegaard, quella del grande salto, della “copure religiosa”, l’estrema paradossalità del vivere. Quella rappresentata dalle scelte somme degli asceti che rifiutano il mondo avendo compiuto una radicale opzione di campo a favore di una vera e nuova spiritualità, fino alle sue ultime conseguenze. In occidente ti citerebbero il caso di Simone Weil e il suo tortuoso itinerario umano, qui da noi di strani individui che compiono opzioni di questo tipo così ce n’è ancora legioni.

Tu affermi, in modo perentorio, che la condizione di chi accetta la “citta dell’uomo” impone la “predeterminazione di cosa si vuole fare”. Si tratta di un’asserzione assai discutibile perché ciò mi indica in modo manifesto che nella tua mente non è mai scomparsa l’idea che possa esistere un “grande disegno” provvidenziale, un qualche cosa che rimane pur sempre un “disegno predeterminato” o almeno sotto traccia predeterminato e voluto da una qualche indefinita entità superiore. La verità è che non hai fatto mai tuo il modello di pensiero laico che si fonda sull’idea di un progetto in fieri, di un cantiere sempre aperto all’ingegno dell’uomo perché non v’è trascendenza alcuna ma solo inesausta ricerca e certa immanenza. Di qui seguono per necessità logica alcune tue successive affermazioni, tutte concessive ma insieme, si nota chiaramente, anche tutte dubitative. L’ammissione che il fine della città dell’uomo sembra essere di “assicurare una serie di benefici alla comunità” oppure fare in modo che si viva “nel migliore dei mondi umani possibili”, dove evidentemente la concessione sottende l’idea di un lutto mai del tutto superato per quella che appare, almeno nel profondo, una perdita irrimediabile: il fatto che il vero senso della vita sarebbe individuabile in una Verità che può essere solo trascendente. Insomma un approccio concettuale che resta ancora al di là della soglia per cui la religione risulta essere una delle forme dell’alienazione, null’altro che un sogno, un’illusione. Forse oggi non la principale ma pur sempre potente e che contribuisce al compimento delle infinite forme di ingiustizia che l’umanità vive su questa terra.

A questo livello la domanda che mi poni in modo quasi ultimativo mi è apparsa come una specie di provocazione intollerabile.

Ecco la tua formulazione: “Il dilemma etico-politico ineludibile è questo: cosa fare per …”.

Si tratta di un attacco, neanche molto raffinato, rivolto a chi non ha una risposta forte e laicamente si dibatte fra i flutti della storia, ieri sulla cresta (o almeno così sembrava) in altri momenti in attesa che i tempi diventino maturi, con l’accettazione della nostra naturale povertà dei mezzi.

Certo che c’è una nostra responsabilità in ciò che quotidianamente succede ma attenzione non solo individuale anche collettiva. Ancora di più ne è cosciente chi laicamente ha appreso quanto sia duro il peso della storia. Noi sappiamo bene per esperienza quanto sia arduo “modificare lo stato delle cose presenti”, quanti siano gli ostacoli legati ad egoismi, cinismi e ogni altra sorta di passioni umane, più o meno artatamente fomentate, che si affermano in difesa del privilegio.

Ecco perché la tua formulazione: “o non abbiamo capito come stanno le cose o l’abbiamo capito e non riusciamo a modificarle” si presenta come una bella frase, un giochetto di parole che può sembrare ovvio per i gonzi ma invece nasconde una trappola: quella della semplificazione estrema. L’alternativa secca proposta: “insufficienza delle nostre azioni” o “immodificabilità di determinate situazioni fondamentali dell’esistenza” è una falsa alternativa. Non è che lo dico io o che si tratta di un qualche cosa su cui ciascuno può avere le sue personali opinioni (ancorché le opinioni siano sempre legittime ove non si trasformino in un puro flatus vocis); è una lunga, dura lezione della storia dell’agire umano che ci insegna come tale contrapposizione sia falsa. Le nostre azioni possano oggi e qui essere insufficienti ma questo è un dato di fatto su cui abbiamo sia il diritto di dolerci sia la necessità di ragionare per uscire dalle strette in cui ci troviamo a muoverci. Però nulla e nessuno stabilisce che ciò che è oggi debba essere domani o dopodomani. Ma soprattutto mi preme sottolineare che è assolutamente inaccettabile il secondo corno della alternativa che proponi: l’“immodificabilità di determinate situazioni fondamentali dell’esistenza”. Tanto per non farla lunga e usare un’immagine, questa sì davvero forte, la testa spiccata dal corpo di Carlo I Stuart e quella di Luigi XVI Capeto e la caduta del millenario Celeste Impero stanno a dimostrare che le cose non stanno proprio così!

Ci viene detto: “non siete conseguenti … fate, è quasi un vostro dovere, scelte che possono anche essere estreme”.

Ti è mai passato per la mente, caro Wang Wei, che si possa essere convinti che l’invito a compiere scelte estreme non ci debba essere indicato da chi queste cose non pone nel suo orizzonte?

Sta a chi ha coscienza della “intollerabilità dello stato di cose presenti” di decidere quando, dove e se compiere tali scelte. Sapendo, come ci ha insegnato il grande Bertolt Brecht, che “fortunato è quel paese che non ha bisogno di eroi” anche se può capitare che tale improba condizione diventi una necessità per chi crede che il proprio essere qui e ora, per questo breve tragitto che è la vita, non si esaurisca in un fuoco individuale ma faccia parte di un più grande disegno collettivo che ha una sua dignità, una alta dignità, anche se non è esente da inevitabile miserie. Come dimenticare le parole di uno dei personaggi di Giù la testa, uno di quei grandi filmoni western che hanno avuto successo anche da noi, quando il personaggio principale, rivolto al suo amico, gli dice: “non parlarmi di rivoluzione … e porca troia tutto torna come prima …”. Poi però dovendo scegliere fra riprendere la sua vita di plebeo, che sopravvive di stenti emarginato e offeso, e il tentativo di dare un senso più alto all’esistenza continua nella “professione che ha imparato per caso a fare meno peggio” quella di rivoluzionario?

Davvero faccio fatica infine a capire il tuo stupore per quella che definisci la presunta “diffamazione della quotidianità”. Riprendo qui le sue parole: “chiudendo gli occhi di fronte a tutta una serie di scelte etiche difficili da prendere e praticare, ma che danno senso a quella quotidianità che è “la nostra vita reale”” e aggiunge “accanto a noi i nostri figli e i nostri nipoti, le nostre compagne, i nostri vicini malati e indigenti, i fratelli lontani cui combattenti civili coraggiosi e coerenti danno assistenza (veri eroi del presente); c’è tutto una serie di attività che danno dignità al nostro vivere”.

E’ evidente che intendi parlare di coloro che operano in quello che è noto come il settore del volontariato o terzo settore. Anche nel nostro paese, dove i lavoratori hanno spesso paghe da fame, colmo estremo della logica del capitale, c’è chi santifica l’idea che si possa lavorare senza riceve un emolumento. Siamo finiti davvero in un mondo di matti. Che dire se non che ci troviamo, nel caso in questione, di fronte a un’ennesima versione, ancorché inquinata dal cinismo di un sistema economico come quello capitalistico nella forma ibrida che si è sviluppata da noi, del solidarismo religioso nelle sue infinite varianti che è stato nei secoli la forza di quelle fedi e uno degli elementi più evidenti della loro contraddizione di fondo.

Si interviene solidalmente ma mai si mutano le condizioni che generano tali tragedie.

E’ qui che sta il nodo che, con una presunta abilità retorica, vorresti nascondere, briccone. Si tratta di un nodo che stringe il collo dell’umanità da millenni: nel fare il bene al prossimo le società che si basano sulla ineguaglianza, creata ad arte, generano insieme le condizioni perché il prossimo continui a star male all’infinito.

Coloro che operano nel settore del volontariato non sono gli “eroi del presente”, anche se soggettivamente possono essere ammirevoli, sono una delle variabili del gioco del presente.

Quella che mi hai presentato nella tua missiva è una “visione del mondo”, lo dici esplicitamente nelle ultime righe, quella che i tedeschi chiamano una Weltanschauung, ed affermi di viverla senza chiederti se sia giusta o sbagliata. MI scrivi infatti: “la vivo”. E’ esattamente il dubbio che mi è rimasto nella mente da sempre, che tu e quelli come te si siano di volta in volta adeguati al presente senza però mai fare un vero sforzo per capire cosa succedeva. Come anguille avete nuotato nell’acqua restando bene o male a galla e lentamente avete sabotato quello che si cercava di costruire di nuovo, restando legati alla vecchia tradizione, a Confucio e perfino alle metafisiche che avete importato dall’Occidente assieme al modello di una industrializzazione selvaggia e distruttiva. Insomma avete fatto in modo che tutto sembrasse mutare, adeguandovi ai nuovi riti anzi forgiandoli, per poi mantenere tutto più o meno inalterato.

Aggiungo, per estrema onestà, che non è assolutamente vero che coloro che contestano lo stato delle cose presenti abdicano affermando: “di fronte a ciò che non riesco a fare non ho alcuna responsabilità”. Anzi siamo proprio noi che continuiamo a ripetere a coloro che, soddisfatti dallo stato di cose presenti e disposti ad accettare ingiustizie palesi e intollerabili miserie, per non mettere in discussione i privilegi acquisiti, che anche voi privilegiati siete coinvolti nella tragedia che stiamo tutti vivendo e che non è detto che il vento freddo dell’ineguaglianza, che spira da Occidente, debba avere ragione alla fine del vento caldo dell’Est.

La partita è aperta e nonostante tutto la vita continua, anche se ormai noi la guardiamo dall’alto di una montagna di anni come una cosa che volge al crepuscolo. Altri riprenderanno il lavoro interrotto. Può essere duro dirlo ma più o meno tutti abbiamo le mani sporche di sangue. Molti le nascondono dietro la schiena.

Nevvero caro Wang Wei?

Voi non avete mai accettato fino in fondo di ragionare intorno al pensiero dei grandi liberatori dall’umano giogo dell’ignoranza e avete usato strumentalmente e male anche quel grande patrimonio che ci ha lasciato il Presidente, schiacciandolo sotto statue monumentali ed edifici faraonici, quasi che un uomo semplice quale era, pieno di contraddizioni e limiti, come costantemente ricordava, fosse la nuova reincarnazione della divinità imperiale.

Coloro che difendono le fedi tradizionali e i loro ridicoli riti sono nei fatti servitori dell’ingiustizia e del passato. Tempo verrà, anche se noi abbiamo avuto solo la possibilità di intravvedere da lontano quella nuova alba, in cui davvero l’umanità sarà liberata dalle catene dell’alienazione.

Tanto per salutarti e forse aiutarti a ridurre di un poco tutta la tua boriosa ignoranza ti inviterei a rileggere o a leggere tout court il discorso di chiusura che il Presidente tenne al VII Congresso del partito nel lontano 11 giugno del 1945. La guerra non era ancora conclusa ma il Presidente vedeva lontano e usò come alata metafora, per cercare di rappresentare l’immane lavoro che stava di fronte a noi, una antica favola cinese intitolata: Come Yu Kung rimosse le montagne.

Non far finta di conoscerla, vai a leggerla e cerca di capirne lo spirito profondo. Non è lunga e forse anche il tuo piccolo filisteismo può consentirti di capirla. Vedrai che quella grande mente non solo indicava una via e gli strumenti per percorrerla ma, pur non dicendolo esplicitamente, conosceva a fondo la vostra natura. Sapeva che molti fra di voi avrebbero sabotato il grande disegno e ciò nonostante aggiungeva che, pur nella fatica delle generazioni, il vento della libertà avrebbe alla fine prevalso.

Non vi è motivo alcuno per dubitarne. Addio.

Li Yu”.

[1]Nota dell’autore

Il pretesto

Qualche tempo fa, avvicinandosi una delle festività canoniche dell’anno religioso fatto proprio dalla Repubblica Italiana, in particolare la Pasqua, venni improvvisamente inondato da una valanga di e-mail di amici, più o meno stretti, che mi auguravano buone feste. Di primo acchito ho preso la cosa come un semplice gesto di gentilezza e non ci ho fatto caso. Poi, come capita qualche volta, quando alla pigrizia della mente segue il momento dell’interrogazione, mi sono chiesto: “auguri de che?”

La festa di Pasqua, in una società che probabilmente sta vivendo un processo di laicizzazione ma che tre secoli dopo i Lumi è ben lontana dall’essersi liberata dalla illusione religiosa e rimane fortemente segnata da una tradizione dogmatica come quella cattolica, non è una festa come le altre, è carica di una precisa connotazione che non può essere sottaciuta. Non solo la televisione nei giorni fatidici della cosiddetta “settimana santa” è flagellata da una vera e propria alluvione di programmi che nei modi più vari si muovono intorno a questo tema. Il numero delle cerimonie religiose che vengono trasmesse è imponente e non manca la riproposizione di una serie di film che si richiamano a questo soggetto. Insomma in quei giorni l’immaginario della gente è ampiamente indotto a tornare con la mente a una modellistica identitaria, che si pretende costituisca ancora uno dei pilastri della nostra cultura. Ora gli amici che mi avevano scritto erano per la più parte di formazione laica e figli di una cultura rappresentabile, con una formulazione sia pure molto vaga, come radicale di sinistra. Per questo motivo mi ero permesso di interrogarli intorno al mio dubbio sul significato di quegli auguri. Le risposte sono state per la maggior parte davvero deludenti. Alcuni sono andati a nascondersi dietro una specie di neopaganesimo-naturalistico, insomma gli auguri erano rivolti come memoria della “natura rinascente”, i più hanno invece dimostrato di provare un chiaro disagio di fronte al mio approccio problematico. Mi hanno nei fatti chiesto perché mi fossi posto la questione oppure hanno detto con franchezza: “Perché mettere sempre di mezzo la ragione?” fino a giungere a inaccettabili derive irrazionaliste. Allora ho chiesto conforto al mio amico Li Yu che mi ha risposto inviandomi le righe che sono state qui semplicemente tradotte…

5 pensieri su “Sulla superstizione, il fondamentalismo e altre facezie del genere

  1. Mah… Tento una risposta a caldo.

    Io sarò superficiale, ma non posso fare a meno di notare come ogni tanto, qualcuno tiri fuori questa teoria degli dei che sono morti: e combini dei bei casini. Il primo che mi viene in mente, scavando nel passato, è Alcibiade.

    Mi si potrà obiettare che, nel nome di dei “vivi e vegeti”, di casini se ne fecero almeno altrettanti. Ma questo mi fa pensare che si confondano “religione” con “religiosità”: concetti ben diversi, fra i quali il primo fu sicuramente l’oppio dei popoli.

    Mutata la struttura superficiale della società, col Positivismo, ma dovendo comunque mantenere i suddetti popoli il più possibile rintronati, si crearono le ideologie… Quello che forse sfugge a molti (ma forse non è un caso), è che il modo di ragionare dell’indottrinato medio rispecchia fedelmente quello del religioso medio. E un motivo ci sarà…

    Sulla Pasqua, dico solo che bisognerebbe toglierle le etichette cristiane e tornare a ragionare nell’ottica nella quale davvero nacque: la festa per il ritorno della primavera, che in una società contadina come quella che caratterizzò millenni di percorso umano, non poteva essere cancellata in alcun modo; e che quindi fu “reinventata”. Ma forse si aprirebbero ragionamenti non troppo positivisti.

  2. Fateci caso: è da almeno quindici anni – dall’inizio conclamato della crisi economica che sta mutando il sistema produttivo occidentale – che non vi è telegiornale in cui non passino lunghe e strabilianti inquadrature di stamperie di denaro: pacchi, tonnellate di carta moneta nuova e scintillante ipnotizzano lo spettatore che-non-ha ma potrebbe averne se si recasse in banca per la questua, esattamente come un tempo si faceva sostando davanti al magnifico – perché rassicurante nella parvenza – castello del re. Accade di solito mentre si parla di conti pubblici ( pensioni, lavoro, assistenza, debiti e promesse): denaro in catena di montaggio. E’ inutile far notare quanta poca religiosità ci sia in questa sfacciata propaganda (denaro manna dal cielo) ma certo se ne è accorta l’ intelligence ecclesiastica del pianeta: che mettere le mani sul denaro è mettere le mani su Dio; questo è intollerabile quanto rischioso: non si sostituisce un bene eterno e inarrivabile con uno voluttuario, tanto instabile, che basterebbe un falò per mandare tutto in malora. La Chiesa non può affidarsi a questa nuova divinità; ma i poveri sì se giocano più spesso all’enalotto di quanto si rechino in chiesa. Qui si sta giocando pericolosamente d’azzardo.
    Eppure è scritto chiaramente anche nella Bibbia: dopo l’inarrivabile letteratura del primo capitolo della Genesi, chi avesse orecchie per intendere capirebbe subito che tutto il resto è un libro sui diritti e doveri; tant’è che questo libro ispirato si trova ovunque, sul comodino degli hotel come nella scrivania di tutti i capi di stato, dell’industria e della finanza. Di questo passo si finirà col credere più nel denaro che in Dio; detto in altre parole si sta passando alle droghe pesanti, dall’oppio alla chimica: c’è il rischio d’impazzire.
    Aggiungo una considerazione sullo stile-di-vita: si è da tempo consolidata nell’animo umano la necessità di sgravarsi dal peso di molte responsabilità; cominciando dalle piccole (es: faccio entrare l’ospite inatteso oppure no perché non voglio essere disturbato? Il dubbio si risolve con la norma del dovere di ospitalità). Detto sbrigativamente: il passaggio alle grandi regole – così il piccolo e così il grande – è inevitabile. Le norme servono a non dover decidere costantemente sul da farsi: ci si sposa, si fanno figli, si va in chiesa; il proverbio parla chiaro: fatta la legge, stabilita la norma… e ri-ecco Dio! anche se nelle vesti del denaro, coi suoi nuovi ministri, i Draghi di turno con tutto l’ambaradan. Ma le norme servono, almeno finché risolvono creando piccoli automatismi: in macchina, nel dubbio se viaggiare in prima, seconda o sesta marcia, non avremmo tempo per decidere se andare, come andare e dove andare. Serve tempo, che poi è quel che manca al denaro se confrontato con Dio.
    Detto questo, mi trovo comunque d’accordo con Rizzi sul bisogno di religiosità – non di religione – purché senza dei, terreni o ultraterreni che siano.

    Grazie, è sempre un piacere leggerti, Giulio Toffoli.

    1. Ho l’impressione che quello che dici sul denaro, sia solo la punta dell’iceberg.

      Temo che il vero problema nasca dal decidere di essere irresponsabili, per tutto ciò che ci accade attorno: abitudine che sarà pure precipua dell’italiano medio (anzi vorrei dire che ne è il tratto fondamentale, attorno al quale ruotano tutti i suoi guai), ma certo è presente in tantissime altre persone un po’ dappertutto.

      Lo scegliere di essere irresponsabili (che si traduce, nello spicciolo, nella formula da bar “piove, governo ladro”), spinge per forza di cose non solo a incolpare altri per i propri errori, ma anche ad affidarsi a qualcuno di esterno, su cui contare per i propri successi: a divenire servi, in poche parole.

      Che poi si diventi servi di un dio o di qualcosa di materiale, nella sostanza fa poca differenza: logico che, quando si sono “abolite” le divinità, tocca affidarci alla prima cosa materiale che ci viene in mente…

  3. …”non fare agli altri( e alla natura, aggiungo) ciò che non vuoi sia fatto a te”, il principio della morale kantiana è per me ancora valido nella “città degli uomini”, sebbene ridimensionato dalla costatazione della complessità e strutturazione che il male ha raggiunto nella società capitalistica…come riformularlo però non saprei, se non in chiave rivoluzionaria…Il discorso di Mayoor sulla divinità denaro mi convince, ancor più se penso alla diffusa adorazione nei confronti dell’oggetto manipolabile, soprattutto se sprigiona immagini, cioè in grado di “realizzare” ogni oggetto del desiderio, quel poco o tanto che basta per ammorbidire gli animi anche dei più danneggiati…

  4. Ho riletto il post che stiamo commentando, e ci ho colto (spero non per superficialità) anche una paradigmatica trasposizione del modo di ragionare dell’umano medio, condizionato com’è da millenni d’abuso di oppiacei…

    Il mondo 3D è bipolare e l’umano medio si dibatte fra questi due poli, incapace di trovare il “giusto mezzo”. I due cinesi del dibattito epistolare partono da posizioni opposte; e di fronte alle accuse di fallimento tentano di giustificarsi, senza scostarsi di un millimetro dalle posizioni di partenza e dando per scontata la Verità dei loro assunti.

    E dandone anche per scontata la contrapposizione e la conseguente impossibilità di operare una sintesi: così che si va avanti in una direzione, fino al fallimento; a quel punto “contrordine compagni!” (o camerati) e virata di 180°. E via così…

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