di Marco Ceriani
SECONDA PARTE
Al passaggio diaframmatico di tensione della forma con purezza introspettiva del pensiero, doloranti sulle grandi tragedie planetarie, si situano le «Campali e ritrose» e le «Belliche». Importante sottolineare lo “istmo” che fa sì si costituiscano come un’endiadi, ma che pure le separa, distanziandole senza che de lejania en lejania questo iato appaia. La postura spoglia di indizi terrestri in chi legge siffatti componimenti, impone di auscultarne il messaggio, dandone per implicita la forma, la quale consuona con il sommesso deflagrare della musica che investe il nostro “tempio dell’udito”, nel suo accadere “fenomenico”, scaturendo dalla sorgente umbratile, luminosa e puntiforme del “noumenico”, da cui è sostanziata.
Nelle due summenzionate sezioni, che sono la V e la VI, come con grande acume ha notato Giorgio Agamben, non ci sono punti, quei punti fermi che chiedono al respiro una tregua, un abbandono; però ci sono i tre puntini di sospensione, che avvolgono le file — miliziane, mi verrebbe da dire… — dei loro distici (forma prevalente nel poeta in questa sua stagione, già anticipata però dalle «Gridelle» sez. IV… e che si protrarrà anche oltre la VI sez.); un cicalìo di file semi-udibile, nella sua marcia, il quale ci dice e non ci dice dove quelle falangi vanno, con sommesso strepito, in una nebbia purgatoriale che le avvolge fino a farle svanire: sicché ne sentiamo i suoni chiocci dileguarsi in essa, nebbia e fessa marcia.
È eminente in De Signoribus un attraversamento di paesaggi brulli in cui sembrerebbe smarrita ogni comune mèta, come sulle prime si direbbe sia primigeniamente accaduto in Caproni; ma nel nostro poeta, mentre questo smarrimento è operante, l’agnizione, vale a dire il riconoscimento di un siffatto luogo, in cui egli pur non è mai stato e dove il suo assetto brullo e spoglio, come lo spiazzo sul quale si affaccia la capanna dell’eremita, dichiara da subito che la sua circoscrizione è con gli ultimi; ebbene in una siffatta identificazione noi ce lo confermiamo, che il legislatore di una così pacata «civitas» ci appare disarmato e inerme, immantinente, e il suo imperativo di docile predicazione vi si fa cogente: dietro l’identità perduta o forse mai esistita sopravvive la concreta sagoma del passaggio che consente l’Esodo. Questo fa tutta la differenza col grande livornese. L’Esodo sarà allora anche verso il mutamento delle forme — e così ai prediletti distici, terzine e quartine in endecasillabi o in misure minori, tra le nobili della nostra Tradizione, subentreranno e si sostituiranno i nonversi o quasiversi, come vedremo al loro luogo, i quali vi si faranno nutrimento, radici, a una tal lingua, peculiare a tanto poeta.
Però tornando al punto, ci sono molte virgole in questi segmenti V e VI che punteggeranno anche nel seguito le tessiture designoribusiane: le virgole, diversamente dai punti fermi che impongono una piccola pausa di quiete, sezionano invece le stringhe dei versi in segmenti-moncherini a cui lisciano la superficie scabra, come di certe chiese di campagna remote alla pieve: secchezza che si direbbe officiarne i riti scarni come in una lezione di “economia brechtiana”, la quale dovrebbe consentire al poeta di emettere giudizi morali, senza affatto parere di farlo….Risultato è che egli, De Signoribus, riesce a imprimere un grande vigore morale nei suoi versi, ma essi sembra si dotino della nobiltà di ogni singola parola da cui sono animati, agitando in ciascuna un vessillo riparatore, grazie alla purezza senza compromessi che il poeta è riuscito a infondervi, e anzi, saggiandovisi, con la certezza che le parole che ne fanno il tessuto connettivo vi si costituiscano in armature, benché ancor clamanti — e qualcuno suggerirebbe: nei gonfi siparî di una apparente retorica!… —, in realtà a dimora negli spazî brevi ed au bout du laconisme di una concessa auctoritas! Nella prima parte ho detto che solo a De Signoribus è concesso di parlare delle immani stragi planetarie, e qui vi è la prova provata… Poi vi è il suo imparvente aplomb nomenclatorio (come se alla sua coscienza fosse presente la lezione di Flaubert, tuttavia più arteriosa in quest’ultimo, soprattutto nell’apice dei Trois contes, nel suo tassello mediano, La légende de Saint Julien l’Hospitalier, mentre il nostro Eugenio avvolge il suo dire in una sorta di garza forse col proposito di voler attutire il colpo, come un mettere il bottone alla punta del suo fioretto, allo scopo di non ferire ma soltanto scalfire, così la rossa firma di una simil-cicatrice apparirà più “urlante”, tecnica solitaria di un poeta che ha davvero il «batticuore» come «metronomo»… E ancora: mentre Flaubert nomina naturalisticamente [la muta dei cani, quella dei grifoni…], De Signoribus nomina per via di epiteti, spesso risentiti nello snocciolare appelli sgomenti ai sordi “signori del male”)… Ecco pertanto disporsi in drappelli binarî e ternarî, o anche più assiepati, i suoi elenchi, le liste — da parte di un inerme — delle sue proscrizioni, indirizzate senza fare sconti agli artefici dell’universale male: in (considerazione) p. 61: «[…] la radice, il nesso / dissennato dei duci, il contesto, sì, malato…»; poi appena più sotto: «e loro, le teste d’ago, i male allattati, / i crociati, i macchinosi sbandieratori / acciaiosi s’ergevano sui picchi, alati, angeli risanatori in salmi augurali…»; e concludendo il suo dolente Lied, ecco l’esplosione verminosa, dopo le forche dei fumi, del “volume” della morte: «qui la battaglia, vedi, qui l’ammasso / delle salme, la fossa comune, la bonifica…[…]», e si potrebbe continuare ad libitum; ma vogliamo sottolineare come la virgola, rivestendo una tutt’affatto peculiare funzione, scandisca ogni elemento del discorso come esposto in una nicchia, come in piccole — devote al risentimento — nicchie, ognuna di esse un Sancta sanctorum del Dégoût che scaglia verticalmente il proprio appello, affinché l’uomo ponga mano spirito e attenzione alla dolcezza del cuore, alla mitezza dei sentimenti, all’ascesi della preghiera, alla sua più intima vocazione, tributaria dell’oltreterreno: per, se non tutto è perduto, recuperare almeno, custodita nella bolla infrangibile della memoria, una primitiva felicità… (altri esempi di siffatte nominazioni-figurazioni alle pagg. 62, 67; e in «Belliche» a p. 73, 74, 77, 78…) Voglio appena soffermarmi a indicare, entro l’universale sfacelo descritto a ciglio asciutto in (esplosione) — «pianti, carni, […] sangue / nel crepaccio [che] ribolle, lordo spaccio… // larghe penne corvine non misericordiose / come pale stizzose [che] i ventri fendono // le viscere [che] svelano i loro funghi panciuti / e gli occhi [che] mai pensavano di vedersi così // tra animali che piangono i loro figli / gli uni agli altri invisibili, perduti…» — pagg. 62-63; voglio appena — a indicare, entro tutto questo dolore sciorinato “immalvagito”, un intervallo quasi d’idillio — fermare il mio occhio sull’oasi di p. 67 (fotografia): «era il cinquantasei davanti al fuoco / che mangiavo le mele come sfogo» (il lettore se la cerchi questa poesia, e se la ingolli e la mastichi lentamente e la mediti tutta prima di trangugiarsela…): già in quell’edenico, favoloso «cinquantasei», lo stigma del peccato, col furto «per sfogo» della mela, è sul bambino, poi uomo… Ma anche testimonia come la colpa sia inseparabile dalla più irredimibile innocenza e le «case perdute» — di Gaza, di Ucraina, di tutti i più cruenti teatri di guerra, degli infiniti pogrom, dei silenti crimini della sopraffazione a danno degli ultimi — siano unanimemente le «case perdute» di ciascuno…
De Signoribus è un «Poeta» maiuscolo, nel quale lare benigno è il suo «salvacondotto» che gli consente di guardare, senza pietrificarsene, alla maligna Medusa del mondo…
Egli è — se mi è concesso di esprimerlo, un così patente ossimoro! — un grande «Tragico della Speranza»…
In re, in fide, in spe… egli è l’ultimo Eschilo.
FINE DELLA SECONDA PARTE
(Postilla alla seconda parte)
Quando leggo i versi di Eugenio, sento come il compirsi di un miracolo, e particolarmente dai suoi distici, che sono senza meno la sua strofe prediletta, avverto come il diffondersi di una luce morandiana, la quale avvolge la collina che sale, con mite pendio, verso il suo acrocoro, dove, simile a un diadema di pietra, irradia i suoi sortilegi carcerarî, ma anche mistico-teologici, la cittadella, che egli battezza col nome di «fortezza»: «la civile fortezza occidentale», p. 73 (gara civica).
A p. 74, «i cupi gladiatori» (gara celeste), che lasciano intravedere un agone, il quale potrebbe svolgersi sugli spalti di un castello, come quello di Elsinor — e infatti sento, leggendo, nel fremito della concitazione, «i fingitori // inginocchiati, i portatori d’orpelli / lampade, fuochi, faville, appelli…»: pare di vedersi agitare e rincorrersi, in siffatta animazione, Bernardo e Marcello, sopraffatti dallo sgomento per aver visto lo spettro del re, padre di Amleto, sugli anzidetti spalti —; e poi nei «… solchi scellerati e […] cancelli / fissati dalla mente criminale», in un «luminìo campale», presenti in (……) di p. 78; in una «torre che la schiera ai venti», di (posizioni), dalla sez. VII «Luoghi introversi» (parlante un siffatto titolo!) di p. 83; a p. 84 c’è, in (mutazioni), un «fortino // e non apre, smiccia dallo spioncino / la sghemba orrenda faccia del mondo»: eppure tra costoro «nessuno che ne esca o lieto vi torni, / non un’apparizione o sgranare di passi / non strappi di pelli o lancio di sassi…» (dormiveglia) — e si chiede il poeta: «chi sono i vivi di questo luogo?», a p. 87; ebbene tali schierati, tra “carcerarietà e carceritudine”… de carcere et vinculis…; e tali ricoverati a difesa in postazioni erette in plaghe desertili, non aduggiano forse il nostro vile abitare il saccheggiato, l’infinitamente profanato pianeta? Avremo mai rimedî da questi scassi? cominciò con la terra da coltivi, mediante uno scudetto d’osso o di selce, Caino, e se ne fece poi arma del fraticidio…
Da questo spioncino-feritoia spia Eugenio “pour inspecter le désastre du monde”… Una dimensione dunque «carceraria», ma “carceraria” dello Spirito, che ritrovo in Fortezza di Giovanni Giudici, in Erodiade di Gustave Flaubert, terzo dei Tre racconti («[…] una strada, tagliata a zig zag nella roccia, collegava la città alla fortezza, le cui mura, che misuravano centoventi cubiti d’altezza, con molti angoli, feritoie lungo i bordi e qua e là delle torri, sembravano quasi le gemme di quella corona di pietra sospesa sopra l’abisso.» tr. it. di Giovanni Raboni; corsivi nostri…: la «fortezza» ivi descritta è quella di Macherunte, a oriente del mar Morto, dove nella sua condizione “carceraria” il Battista attendeva la decollazione…) — tali richiami denotano universalità in un poeta partito con un’attenzione certosina ai suoi poderetti, a un suo “hortus conclusus”; e proprio all’ecumène della sua stagione più matura e alta e oltre esso, è stato possibile attingere, proprio per via di tale scrupolo, il più devoto all’umile quotidiano, sfidante con sovrano coraggio l’indugio dello stare in intériery dai quali potevano sì «sbocciare le mani d’argilla dei morti», ma anche i vermi-ganci ritorti, rugginosi, pencolanti e brulicanti di sotterranee putredini, trincee, inabissamenti in un Ade che ci viene diuturnamente scaraventato contro, a sgomentarci coi suoi incessanti “appelli”… Anche questo virgolettato — che è tale perché sia ben chiaro che non me lo sono intestato, bensì auto-imprestato — è designoribusiano: infinita la corona di “appelli” che si sprigionano dai suoi versi e che potrebbero funzionare in lui alla stregua di inneschi “metacronici”: presto la corona in testa a un tal poeta dalla sovrana semantica!
Poi a chiudere la «VII Luoghi introversi», e a suggellare la sovranità di detti volumi della figuralità-figurazione, con l’ampia escursione di valori timbrici e tematici che vi sono presenti, sono i nonversi di (trapasso di stagione): «(ciò che da lontano sembrava una fortezza, si rivela / un piccolo cimitero di campagna, con un’esile cinta / muraria. Persa ogni traccia delle porte Scee, un cancello / aperto lascia allo sguardo una spoglia sequenza di larari. […]»… E anche qui, se delle «porte Scee» tutti sappiamo: un lettore visionario non vi potrebbe vedere o stabilire una congiunzione con il cimiterino campestre che nell’Amleto porta il becchino a dar di cozzo, nello sterro, sul teschio — larario-scheletrario — del buffone Yorick?
Dopo la «fortezza-Elsinor», ecco dunque la spoglia sigillatura cupa e muta della morte: passeggiando tra i sentieretti ghiaiosi di un cimitero… «It must be se offendendo».¹
E possiamo dimenticare infine l’attenzione che Eugenio ha sempre rivolto al suo Holan, il «poeta murato»², il «re nel suo regno di spine»?
Note
¹ Hamlet, [V. i.] v. 9… Nella scena, presso il danese cimiteruccio, due becchini stanno disputando sulla legittimità, decisa dal giudice, di una cristiana sepoltura (Christian burial) per Ofelia suicida, e il primo becchino risponde al secondo che gli ha mosso l’obiezione: «Dev’essere stato se offendendo (tr. it. E. Montale), adombrando forse nell’espressione italiana presente nell’originale del First-Folio una formula giuridica.
² «[…] chi andò a trovarlo in quegli anni […] <ne> ricorda la sanguigna robustezza contadina e l’apparentemente incrollabile salute, a dispetto delle micidiali sigarette che fumava di continuo e del fiasco di vino rosso che teneva accanto a sé sul tavolo del suo tinello-fortezza.» (c.vo nostro) G. Raboni, Prefazione a Il poeta murato.
E: «”Pohleďte!” pravil, “morový hřbitůvek, / a je větší než Dánsko! […]» (“Guardate!” disse, “un cimiterino di appestati, / ed è più grande della Danimarca! […]», V. Holan, A pravě (E proprio) in Předposlední (Penultima).