Il grande Torino

Grande Torinodi Marcellino Iovino

L’estate era al termine. Quell’anno era inaspettatamente finita in anticipo rispetto al solito.
Sulla banchina della stazione stavo conversando con un signore. Aspettavamo lo stesso treno.
“Guardi le foglie di quell’albero,” gli dissi ad un tratto, “stanno già cadendo e siamo solo all’inizio di settembre.”
“Sarà colpa del riscaldamento globale, dell’inquinamento o di altre cose del genere,” mi rispose distratto.
Stavo per obiettare qualcosa, ma il treno che stavamo aspettando arrivò e noi salimmo. Guardai l’orologio: erano le dodici e cinquantanove.
Una volta salito, mi accomodai nel primo posto libero che vidi. Dal finestrino potevo ben osservare l’albero che precocemente perdeva le foglie. Mi voltai intorno per vedere se trovavo il signore di prima, ma nel mio vagone non lo vidi. Allora sistemai la mia borsa rossa sul sedile accanto al mio e tirai fuori un libro.
Era un libro sulla storia del “Grande Torino”. Allora mi affascinava molto quella squadra di calcio, perché molto mi affascinavano il talento ed il destino. Il Torino degli anni ’40 era un miscuglio di entrambe le cose. Vi giocavano tutti i più talentuosi giocatori italiani. Una squadra imbattibile che faceva tremare il mondo e sembrava essere destinata a dominare il calcio per moltissimi anni. Perse una sola volta. Fu battuta dalla stessa sorte che aveva fatto trovare i più grandi talenti calcistici nello stesso spazio e nello stesso tempo e poi aveva fatto precipitare l’aereo sul quale viaggiavano.
A quel punto della lettura mi domandavo cosa sarebbe accaduto se quell’aereo non fosse precipitato. L’anno dopo l’Italia avrebbe giocato i mondiali. Forse li avrebbe vinti e forse avrebbe vinto anche quelli successivi. Poco tempo dopo fu istituita la Coppa dei Campioni. Avrebbe comunque dominato il Real Madrid? Oppure il Torino dei fenomeni sarebbe oggi ricordato come il Real di Puskas e Di Stefano?
“Mio padre aveva una vecchia foto autografata da Valentino Mazzola.”
Alzai lo sguardo dal libro. Dinanzi a me era seduto un ragazzo di una trentina d’anni. Ero stato così assorto dalla lettura da non accorgermi della sua presenza.
“Era di mio nonno,” continuò, “saltò le recinzioni dello stadio e si ruppe una gamba per averla.”
Gli domandai se stesse andando anche lui a Roma.
“Più o meno,” disse. “Cosa vai a fare a Roma?”
“Vado a far visita a mia zia.”
“Studi? Lavori?”, mi chiese.
Il suo tono di voce mi era familiare. Lo fissavo per cercare di capire se l’avessi incontrato prima. Se ne accorse.
“Studio economia,” risposi, “e gioco a basket.”
“Guardia?”
“No, regista.”
“Playmaker,” disse con tutta gravità.
L’avevo già incontrato da qualche parte. Questo era sicuro.
“A dicembre partirò per gli Stati Uniti.”
“Bene,” fece lui.
Avevo vinto una borsa di studio per l’ammissione all’università di Detroit. Avrei giocato nella squadra universitaria. Contavo i giorni che mi separavano dalla partenza, perché il mio sogno era giocare a basket in America. Ma questo non glielo dissi.
“A me piaceva progettare,” disse lui.
“Progettare?”
“Sì, studiavo ingegneria edile” rispose. “Sai come fanno i ponti a stare in piedi e a non cadere?”
Un ricordo stupito e vertiginoso mi trattenne. Ad un tratto mi vennero in mente una notizia ricevuta inaspettatamente una sera d’estate e centinaia di palloncini fatti volare fuori una chiesa. Non poteva essere possibile. Non poteva essere lui.
“Giovanni,” dissi “tu sei…”
“Morto.”
Non cercai il suo sguardo. Mi vergognavo troppo di non averlo riconosciuto subito. Egli non aveva più l’aspetto dei vent’anni, quando la moto gli scivolò di mano. Era cresciuto in volto, era diventato adulto, uomo. Ma non aveva i segni che la vita imprime ai volti degli adulti. Il suo viso mi ricordò quello delle statue. Avrei voluto dirglielo. Temevo che l’avrebbe presa come una giustificazione e ancora mi vergognavo per non aver riconosciuto il volto di un amico. Non lo vedevo da cinque anni e solo una volta ero andato a posare un fiore sulla sua tomba.
Pensai allora a quel pomeriggio afoso quando dopo il suo funerale ci recammo fuori al bar che frequentavamo e fino a sera nessuno disse una parola. Poi a sera inoltrata ognuno se ne andò a casa senza salutare gli altri.
Pensai allora a tutto il silenzio di quei giorni.
“Hanno terminato il ponte sulla provinciale,” dissi. “Avevi ragione tu, è una schifezza. Ha crepe dappertutto.”
Giovanni sorrise leggermente, come sorride una statua.
“E’ tutta una questione di distribuzione del peso” disse. “Per questo un ponte sta su o cade.”
Mi ricordai del viaggio. Da quanto eravamo partiti? Mezz’ora? Eppure il treno non s’era ancora fermato. Diedi un’occhiata al finestrino, ma non vidi cartelli.
“Perché ancora ci siamo fermati?”, chiesi a Giovanni.
Non rispose. Stette impassibile per qualche secondo a fissare il finestrino.
“Mi dispiace,” disse senza muovere il capo.
Allora capii tutto. Pensai all’estate che finiva in anticipo, a mia zia, al basket, all’America.
Mi voltai attorno. Vidi quel signore con cui avevo parlato sulla banchina della stazione. Era seduto in fondo al vagone e leggeva distrattamente il giornale. Altri lo imitavano, altri ascoltavano musica. Qualcuno dormiva.
Pensai a quell’albero che perdeva precocemente le foglie e provai una tristezza impersonale, quasi anonima.
“Loro lo sanno?”, chiesi a Giovanni indicando gli altri passeggeri.

Quel giorno il treno regionale 2591 per Roma non era quasi partito dalla stazione. All’una e due minuti era deragliato dai binari ed era caduto in una scarpata. Dei passeggeri non s’era salvato nessuno. Tra le lamiere un pompiere trovò, quasi intatto, un libro sul “Grande Torino”.

2 pensieri su “Il grande Torino

  1. E’ intensamento bello questo racconto. E triste. Eppure con ‘mano leggera’ ci mette di fronte alle domande della vita e della morte… ‘averlo saputo prima’… ‘come sarebbe stata la vita se’ e, di conseguenza ci fa toccare la nostra inermità.
    Ma ci dice delle cose anche in merito al rapporto ‘talento e destino’, dove la presenza del primo sembra non darci garanzie di salvezza dalla crudeltà del secondo, anche se possedere il talento può dare l’illusione di una immortalità così tangibile da sfidare ogni sorte avversa. E’ invece la memoria, con il suo carico bilanciato di affetti (*E’ tutta una questione di distribuzione del peso*) a costituire il ponte che lega il talentuoso alle piccole storie della quotidianità e ad ampliarne la portata, a renderlo eterno attraverso la trasmissione generazionale (il ricordo del nonno che salta la recinzione dello stadio; la pubblicazione del libro “Gran Torino” che si salva dal disastro ferroviario).
    (E, a proposito di trasmissione generazionale, mi era venuto alla mente il film “Gran Torino” – che non c’entra con la squadra di calcio – di Clint Eastwood).
    Complimenti anche per la conduzione del racconto, per la gestione della suspence sempre sul gioco del limite realtà-sogno.

    R.S.

  2. …anche a me questo racconto di Marcellino Iovino sembra molto delicato e triste, come uno scivolare leggero dei pensieri fuori dal tempo…Eppure la morte descritta, quella dei giovani protagonisti, non meno di quella delle foglie ingiallite, dei ponti pericolanti, delle gambe rotte in una caduta, degli aerei precipitati o dei treni deragliati sembra essere solo una questione di distribuzione di peso, quindi di gravità…e certo “la sorte” non ha un trattamento di favore per i sogni e i progetti di noi umani, anche se giovani e talentuosi…Resta la compassione :”Mi dispiace ” e la memoria: “Il grande Torino”…

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