Militanze. Fortini/Del Giudice

di Ennio Abate

Due lettere. Di Franco Fortini e Piero Del Giudice. Apparvero la prima volta sulla rivista «Assemblea» dell’ottobre-dicembre 1983. Trentacinque anni fa. Sono quattro pagine stampate che ho ritrovato rovistando in una cartella in occasione della recente morte di Del Giudice (qui).  E le ripropongo non solo per un omaggio postumo a due figure – nei miei versi: lo Scriba e il Guerriero –  che hanno contato nella mia formazione letteraria e politica,  nutrendomi coi loro pensieri, anche  se in contrasto tra loro – Fortini era de «il manifesto», Del Giudice veniva da Lotta Continua ed era poi passato all’Autonomia – o come semplice testimonianza storica di un clima intellettuale ed emotivo  vivace  ma  rigoroso.  Le ripropongo soprattutto perché parlano senza rassegnazione e senza pentimenti di una prospettiva di cambiamento sconfitta. Che è all’origine del  disastro culturale e politico d’oggi. Che  da null’altro  finora è stata sostituita. E che non sarà aggirata voltando pagina o mettendoci una pietra sopra, come pur si è fatto nei decenni trascorsi.

Fortini e Del Giudice  parlano ancora – lo si nota anche in questo loro scambio – nella cornice di tradizioni di pensiero  vicine, anche se tra loro conflittuali: gramsciana, marxista e comunista quella di Fortini; più anarchica, pasoliniana e/o foucaultiana quella di Del Giudice.

Il primo concentra la sua riflessione sul ruolo avuto dagli intellettuali, tradizionali e di massa, «di cui molto si parlò fra 1968 e 1973».  La «domanda storica» che gli pongono le «Lettere dallo “speciale”» di Del Giudice è questa: perché «centinaia di migliaia di persone, le quali col loro atteggiamento influiscono su una parte imponente della nazione, [hanno] rifiutato, ad un certo punto certe solidarietà»?  Si tratta, dice, di «gente che nulla ha di cui pentirsi anche perché non ha mai fatto nulla e che nella cultura, nella filosofia, in cattedre o giornali, ha occupato per naturale ricambio di generazioni i luoghi della opinione e della parola».  E non parla solo delle élites raccoltesi attorno ai Quaderni Piacentini, ai Quaderni Rossi, a Quindici, ecc.; ma dei «genericamente progressisti», dei lettori di «Repubblica» o dell’«Espresso», di «centinaia e centinaia di migliaia» di persone: tecnici, impiegati, insegnanti, professori, uomini della stampa e degli audiovisivi. Perché al dunque hanno dimostrato tanta «passione di apostasia»?  Perché «hanno dato l’impressione […] di preferire il privato, l’eros qualsiasi la droga o un succedaneo, il buddismo, che so, il nichilismo, tutto insomma, pur di non dover prendere posizione»? Perché sono diventati «le fanterie della reazione. E volontarie per di più»? Non ha senso, aggiunge, «chiamarli vili».  E senza circonlocuzioni o attenuazioni dà la sua risposta:  se  hanno rifiutato, «a un certo punto, certe solidarietà», «vuol dire che quelle [solidarietà] erano definitivamente impossibili. Vuol dire che di proletariato era stato parlato a vanvera». E, perciò, «nessuno dica che si è trattato soltanto di ritorno all’ovile dei partiti e del sistema. O almeno si sappia che ci si era sbagliati a credere che gli ovili e le loro tentazioni non esistessero più, per decreto della nostra volontà». Conclusione. «L’avvenire antagonistico allo “stato di cose presenti” mai più [potrà] fondarsi su una formula libertario-comunista». (E si sappia che, così  parlando, critica i filosofi francesi, gli eredi del surrealismo a cui  era legato Del Giudice. Né rinuncia al comunismo. Ed, infatti, nel 1989  ne tenterà ancora una difesa (qui, qui, qui)).

Da quel 1983 alla morte di Fortini (1994) passeranno  una decina d’anni. E’ stanco. Qui scrive che «ci sarebbero tutti i motivi per andarsene dalla scena come pochi giorni fa ha fatto il nostro poeta e amico Vittorio Sereni».  Contro il frequente accenno nelle lettere di Del Giudice alla «viltà degli intellettuali» difende appena le «eccezioni», fra le quali gli piacerebbe di essere contato in nome di quel che ha scritto e detto in quegli anni (e si pensi al suo «Insistenze»). Neppure fa valere più la sua lunga esperienza. Anzi – concessione o atto sincero di umiltà –  si dice sorpreso  dalla «lezione di energia» di Del Giudice, malgrado disapprovi  quel percorso politico, che è proprio nel filone del «comunismo libertario» da lui criticato perché a suo parere troppo in preda alla «passione»: per la «concitata attesa di ogni segno», per  la  «furia della speranza».

La  risposta di Del Giudice è incentrata  interamente sulla sua esperienza immediata; dovrei dire, seguendo la sua visione, di “corpo carcerato”; e sulle  particolarità del carcere speciale, dal quale è appena uscito per continuare la detenzione fino al 1984  in quello “normale”.  La sua tesi  è semplice:  il «carcere speciale»  ha anticipato la società del controllo (di cui parlava allora Foucault). I processi, che  egli chiama  «di desolidarizzazione, di disidentificazione, della separazione e della contrapposizione tra medesimi», il «collasso delle culture associative, delle spinte e tradizione ad “essere con”», che hanno investito la società italiana  alla fine degli anni Settanta, lui – Del Giudice – li ha visti crescere lì: nel carcere speciale. Scrive: «Lì ho visto cadere nella notte profonda dei cortili di cemento o sulla soglia di celle profonde, sotto il colpo dei coltelli, detenuti la cui ragione di vita e di morte si è subito persa». Lì il suo  stare  «dentro una cella»   è diventato un terribile  «viaggio».  «Ad occhi sbarrati» per risparmiarsi, per cercare di sopravvivere  «dentro una inconosciuta realtà», ma anche «dentro se stessi» e «dentro l’intimità dello Stato, i suoi miasmi, le sue più corrotte profondità». Lì ha   potuto osservare da vicino «la corruzione dello Stato, della istituzione carceraria e della magistratura». Lì si è sentito «arcaico» e, allo stesso tempo, ha provato «orrore dell’arcaicità sanguinaria di questo Paese». Paradossalmente arriva a dichiararsi «camorrista» per segnalare con forza  quella realtà sociale disconosciuta o svalutata, con la quale egli è entrato fisicamente in contatto: « 300.000 (!) “camorristi” a Napoli non possono non darti la sensazione fisica di irruenza di bisogni, di voce in capitolo tentata con ogni mezzo». Solo lì ha misurato fino in fondo  «la fine del tempo e dello spazio» e della storia comune, che il più anziano Fortini ha vissuto da «emigrato interno», rimasto appartato in una specie di patria «(se questa può chiamarsi tale)».  Ed è prendendo atto di questa realtà sociale negata o ignorata, sembra dire Del Giudice, l’esperienza intellettuale di Fortini e di altri  troverà un punto di raccordo con la sua. E nelle sue parole, riemerge, come tramite o mediatore affettuoso, ancora la figura declinante del comune amico Vittorio Sereni, che a lui carcerato «ormai parlava apertamente di morte».

  Più di quello di Fortini, lo spirito militante di Del Giudice sembra aperto ad ogni possibile «nuovo movimento» della società.  Anzi, lui lo sente già in atto  nello stesso carcere.  E,  mentre con una sensibilità – pasoliniana   e visionaria – sottolinea  «il senso, insieme, di innocenza, di inadeguatezza, ma anche di autonomia, di testimonianza in anticipo, della sovversione politica lì rinchiusa», con uno dei suoi tipici (per chi lo ha conosciuto) scatti di orgogliosa volontà, d’un tratto proclama: «oggi il teatro è il mondo, il pianeta». Là si svolgerà  la «liberazione di nuove prospettive». Da questa utopica «rapinosità del planetario» torna, subito, alla «ripresa di una dimensione reale». Che per lui significa corporeità e non ideologia: «è reale la rinuncia del mio corpo e reale il tentativo di tenere in esercizio la mia intelligenza. È reale il mio sforzo di  ritrovare uomini della istituzione in grado di ragionare e lottare».  Si dice convinto che «lo svelamento dello scontro (di lotta delle classi  dunque si tratta) è già uscito dalla clandestinità», che «siamo in una “ricchezza” di mutamento». E, quindi,   a me pare accogliesse tiepidamente la questione  degli intellettuali postagli da Fortini, preferendo parlare  genericamente di un limite nella capacità di esplorare la società: sì, siamo rimasti confinati alla vita nelle metropoli e  negli hinterland, non abbiamo saputo guardare  quello che  avveniva nella provincia ( e nella TV).

Alla luce degli attuali problemi posti dallo scontro  tra “globalismi” e “sovranismi”, queste due lettere potrebbero sembrare reperti archeologici di forme di militanza ormai inattive o irrecuperabili. Sta a chi le leggerà, pronunciarsi. In me hanno ancora risonanze profonde, perché, come l’immagine dell’albero (della vita) in una mia poesia, il pensiero di questi due compagni scrittori, distanti e vicini, «svetta là, sulla strada dimenticata./ Orrido non è. Alle belle onde non cede./ Non gocciola spiccioli d’imposti doveri./ Dà dolore vero. Poiché innalza il conflitto / sconfitto, scorcia il nostro sgomento/ e fermo a quello lo ritorce.».

 

3 pensieri su “Militanze. Fortini/Del Giudice

  1. Lo stato è forte: “sparire gente dalle celle e dalle sezioni, disseminare sospetti sino alla intimità di se stessi, vedere sé e gli altri muoversi da recinto a recinto: cani, addomesticati cani, perduti di tempo e di spazio, rabbiosi cani.”
    Come si è potuto non concretamente temerlo, precipitarsi tanto nel gioco dell’opposizione da non misurare l’abisso della posta impegnata dall’avversario?
    Oppure la morte, ci si oppone fino alla morte: ma era quella la situazione? Morivano i tuoi, era fame, bombe, distruzione, decimazione, smembramento dei legami di sangue di generazione di amore?
    Fortini: “ A che serve chiamarli vili? … Conta invece, enormemente, che centinaia di migliaia di persone … abbiano rifiutato, a un certo punto, certe solidarietà. Vuol dire che quelle erano definitivamente impossibili.”
    Non era guerra.
    Dalla potenza dimostrata dallo stato in poi, da allora, un altro distacco più radicale, prossimo: in solitudine l’eroina, di tutte e per tutti il femminismo. La sovranità come teologia e l’irriducibilità esistenziale, perciò ripartire dalla nudità.
    Non è bastata la “libertà che viene anche dalla accettazione storica della sconfitta”.
    Tra i pensatori dell’impolitico dell’impersonale del comune, partite a carte in trattoria, come nella chiamata di Matteo.
    Oggi il potere è feroce ma disgregato, il distacco lavora su fratture e riorganizzazioni.

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