COMMENTO A “COMUNISMO” DI FRANCO FORTINI (6° PUNTO)
articolo apparso su “Cuore”, supplemento de “L’Unità”, 16 gennaio 1989 )
di Ennio Abate
IL COMUNISMO IN CAMMINO (UN ALTRO NON ESISTE) È DUNQUE UN PERCORSO CHE PASSA ANCHE ATTRAVERSO ERRORI E VIOLENZE, TANTO PIÙ AVVERTITI COME INTOLLERABILI QUANTO PIÙ CHIARA SI FACCIA LA CONSAPEVOLEZZA DI CHE COSA GLI ALTRI SIANO, DI CHE COSA NOI SI SIA E DI QUANTA PARTE DI NOI COSTITUISCA ANCHE GLI ALTRI; E VICEVERSA. IL COMUNISMO IN CAMMINO COMPORTA CHE UOMINI SIANO USATI COME MEZZI PER UN FINE CHE NULLA GARANTISCE INVECE CHE, COME OGGI AVVIENE, PER UN FINE CHE NON È MAI LA LORO VITA. USATI, MA SEMPRE MENO, COME MEZZI PER UN FINE, UN FINE CHE SEMPRE PIÙ DOVRÀ COINCIDERE CON LORO STESSI. MA CHI DALLA LOTTA SIA COSTRETTO AD USARE ALTRI UOMINI COME MEZZI (E ANCHE CHI ACCETTI VOLONTARIAMENTE DI VENIR USATO COSÌ) MAI POTRÀ CONCEDERSI BUONA COSCIENZA O SCARICO DI RESPONSABILITÀ SULLE SPALLE DELLA NECESSITÀ O DELLA STORIA.
Il «comunismo in cammino»? È chiaro o no che il comunismo non c’è, non è percepibile e descrivibile come un *oggetto*? E che, dunque, non “sta lì” né è statico, è un processo? E ancora: che, se «in cammino», non è detto che tale cammino sia lineare, progressivo, prevedibile nelle sue tappe o negli sbocchi, ma in continua (e quasi inafferrabile) trasformazione? Già pensarlo è una scommessa, diciamocelo. I furbi diranno che siamo di fronte a un trucco, a un artifizio retorico di Fortini. Dai, s’inventa qualcosa che non c’è, non c’è mai stata e mai ci sarà. Dai, è un poeta! E ai poeti piace il parlare oscuro e si perdono nelle nebbie (del passato o del futuro). Se così fosse, il suo comunismo non èaltro che una religione un po’ laicizzata, un’ utopia rammodernata, una superstizione. Niente di dimostrabile. Del resto, non è Fortini stesso ad aver scritto – cfr. punto 2 – che il comunismo è « la possibilità (quindi scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili)»? Eppure, malgrado molti, per svalutare la sua scelta comunista, hanno sempre insistito sulla matrice religiosa (protestante) della sua formazione, il suo comunismo non è riducibile a fede religiosa e neppure al comunismo messianico alla Benjamin. A differenza di un credente, per il quale Dio, oggetto del suo discorso, esiste, è *presupposto*, l’oggetto del discorso di Fortini (il comunismo) è pensato solo come *possibilità*, può solo essere cercato con la ragione, è comprensibile esclusivamente nel farsi della storia: «in cammino». E aggiungerei da chi, consapevole o meno, si mette «in cammino».
In questa sua definizione – non statica, non oggettiva, non “scientifica” – di comunismo, dobbiamo considerare, credo, tre importanti implicazioni di carattere storico e antropologico:
1. il riconoscimento di un limite della nostra mente: quando Fortini, infatti, dice: «(un altro [comunismo] non esiste)», ammette che non siamo in grado di renderlo percepibile ai sensi o di dimostrarne logicamente l’esistenza o una necessità logica, facendo rientrare il discorso in quei modi di ragionare consolidati che azzittirebbero gli increduli, gli scettici, quelli che lo negano o l’osteggiano;
2. il distacco polemico –in questo scritto indiretto – dal discorso marxista scientifico di matrice positivista, che ha avuto la meglio nel «cammino» compiuto da buona parte dei socialisti e comunisti otto-novecenteschi; e perciò il discorso fortiniano è più vicino a quello probabilistico della scienze novecentesche; ma – preciso – solo parzialmente, visto che insiste su «scelta e rischio», cosa che a uno scienziato non è consentito);
3. Il rifiuto di pensare (e ridurre) il comunismo al solo *desiderio*, come fanno i “comunisti desideranti”, per molti dei quali desiderare il comunismo è “essere comunisti” [1]. (Ccfr. alcuni interventi della recente Conferenza sul comunismo tenutasi a Roma nel gennaio di quest’anno). Parlare di un «comunismo in cammino» significa che si deve manifestare (deve ”camminare”) in qualche modo nella storia umana e non solo nell’anima, che potrebbe limitarsi a “covarne” il desiderio. E perciò – sarò noioso ma repetita iuvant! – è escluso che il comunismo possa ridursi a una idea o ideale o fede o utopia o desiderio o sogno; e cioè a cose o fenomeni che prescindono dal tempo e dalla storia. Come, per logica o bisogno di armonia, fa un certo tipo di pensiero – statico, non dialettico, iper-realistico – che non contempla o aborre il conflitto, il dramma, la tragedia ( sempre possibile nella storia umana!).
Ora devo ritornare un attimo al punto 1 di questa mia serie di commenti, dove Fortini affermava: «il combattimento per il comunismo è già il comunismo». Per precisare che questo punto lo intendo così: il «combattimento» è indispensabile, è la spia del «comunismo in cammino» o di quella *possibilità*, che Fortini gli attribuisce, di «estinguere la forma presente» del conflitto e passare «ad un conflitto su un livello più alto». Il comunismo, perciò, diventa *possibile* solo (o grazie a) nei conflitti, nei combattimenti. (E mi pare importante – cosa ardua ma indispensabile – individuare, tra i tanti che avvengono – da quelli interiori a quelli familiari, economici sociali, politici, culturali – *quali* siano o possano essere quelli «per il comunismo»). –
E perciò quando in questo mio punto 6 del commento Fortini afferma che il combattimento per il comunismo «passa anche attraverso errori e violenze», tocca una questione ostica, quasi sempre travisata e rimossa dal pensiero e dal dibattito. Perché l’intera storia umana e non solo quella del comunismo otto-novecentesco presentato (assieme al nazismo) come il Male assoluto, s’è svolta, appunto, con errori e violenze quasi impensabili e ingiustificabili (per chi ragiona). L’orrore che la storia umana suscita – a volte Fortini l’ha paragonata a una testa di Medusa che pietrifica chi tenta di guardarla – rafforza la tentazione di esorcizzarla, di allontanarsene, di rifugiarsi altrove, di solito in piccoli o vasti mondi religiosi o ideali o utopici. E, da questi rifugi – oh! – com’è facile condannare errori e violenze. Spesso delle parti avverse a quella in cui ci si riconosce. Meno spesso, di tutti gli antagonisti indistintamente. (Un esempio: il Montale del «Piccolo testamento» di «La bufera», che di notte, nella «calotta» del suo pensiero, inseguiva qualcosa che «non è lume di chiesa o d’officina/ che alimenti/ chierico rosso o nero).
Tali (moralmente rispettabili) condanne non hanno mai impedito né impediscono che errori e violenze continuino ad accadere. E oggi, sempre da noi in Occidente, tali condanne si presentano o nelle forme religiose delle varie Chiese o laicamente ricorrendo alla categoria del *totalitarismo* formulata da Hanna Arendt. Fascismo e comunismo – i Mali assoluti – vengono equiparati. Si tenga conto che sono stati gli unici movimenti che, da sponde contrapposte e per scopi diversi – il primo per riaffermare la dittatura di una élite aristocratica (e di un Capo); il secondo quella del “proletariato”- hanno osato mettere in discussione i limiti oligarchici sia dello Stato liberale che, più tardi, di quello socialdemocratico. Sono stati gli unici movimenti che hanno tentato la *rivoluzione* e usato apertamente quella stessa violenza, che i loro avversari democratici (e i loro eredi odierni) usavano o usano in modi soltanto più velati. Accomunando fascismo e comunismo ed equiparandoli in un’unica condanna, cosa si ottiene, cosa si cancella? Ogni distinzione tra scopi completamente contrapposti. Perché anche se usassero gli stessi strumenti per affermarsi, dovrebbe essere chiaro che le lotte che puntano alla supremazia di una élite, di una razza o di una classe non sono la medesima cosa delle lotte fatte invece per abolire tale supremazia. O, nella versione “maoista” (memore del fallimento dell’esperienza sovietica) che Fortini dà qui del comunismo, per «estinguere la forma presente» del conflitto e passare «ad un conflitto su un livello più alto». Il ricorso, dunque, al concetto di *totalitarismo* liquida e svilisce per sempre ogni discorso sul comunismo, come questo di Fortini del 1989, e esorcizza ogni possibile sua ripresa, perché fa della violenza, attribuita esclusivamente al fascismo e al comunismo, come se non fosse altrettanto presente in tutte le esperienze storiche (comprese quelle democratiche che la continuano ad esercitare ed in modi equiparabili a quelle esercitate da fascisti e comunisti), un tabù solo apparente.
«Far torto o patirlo»? L’interrogativo manzoniano sta sempre davanti alle coscienze pensanti e ragionanti. Riconoscendo, come fa Fortini in questo articolo, che il comunismo « passa anche attraverso errori e violenze» ( o ricordando in suoi versi del 1958, da «Forse il tempo del sangue…» che bisogna « cercare i nostri eguali osare riconoscerli/lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati/ con loro volere il bene fare con loro il male/ e il bene la realtà servire negare mutare»), rifiuta, come fece lui fino agli ultimi suoi giorni, una visione irenica e pacifista della storia e, allo stesso tempo, della lotta per il comunismo. Errori e violenze ci sono e ci saranno. Riconoscere questa durissima verità non vuol dire però giustificare o assolvere i combattenti per il comunismo per gli errori e le violenze che *sicuramente* hanno commesso e commetteranno. O strizzare l’occhio ai fascisti e ai nazisti, che anch’essi non abboccarono alla visione progressista dello Stato liberale e lo sfidarono (come ho detto, per un obiettivo contrapposto a quello dei comunsti). E neppure appellarsi allo scopo giusto o alle “buone intenzioni” del comunismo per giustificare le “proprie” violenze.Neppure la formula abusata del *fine che giustifica i mezzi* spicci o brutali, dimostratisi sempre efficaci per la conquista o la conservazione del potere, può abbuonare errori e violenze compiuti a cuor leggero o magari vigorosamente e senza alcun scrupolo, nella convinzione che affretterebbero la realizzazione del comunismo.
Chi sceglie di «far torto» invece che «patirlo», rischia errori e violenze, che resteranno errori e violenze. Nessuno potrà contrabbandarli come atti necessari o addirittura produttivi, utili alla costruzione del comunismo. Fortini non li “sdogana”, per usare un termine in voga. Dice soltanto che errori e violenze potranno – è ancora e solo una *possibilità* – diventare «intollerabili», come i pacifisti e non solo loro desidererebbero avvenisse. Ma solo «quanto più chiara si faccia la consapevolezza di che cosa gli altri siano, di che cosa noi si sia e di quanta parte di noi costituisca anche gli altri». Sottolineerei che per «altri» Fortini intende *tutti gli altri* come si presentano nella storia (che possiamo apprendere) e nell’esperienza nostra quotidiana : amici, prossimi, stranieri, poveri, ricchi, avversari, nemici. Non dice mai – insisto – che bisogna fare il callo ad errori e violenze. Non esalta la violenza come unica norma di comportamento o la più efficace (come fa il pensiero di Destra). Respinge la visione hobbesiana dell’«homo homini lupus». Non ammette che la natura umana – cattiva in partenza secondo alcuni, buona secondo altri o mista- sia inalterabile e che ad essa ci si possa soltanto adattare, traendone il massimo vantaggio possibile (individualmente o per la comunità in cui ci si riconosce). Che è, di fatto, la logica di chi rifiuta la *possibilità* del comunismo o che si possa arrivare « a vivere in una contraddizione diversa da quella oggi dominante» ( cfr. ancora punto 2).
No, se nel «combattimento per il comunismo» si ha – e non è detto che si abbia di sicuro! – una crescita di consapevolezza di noi e degli altri, anche la capacità di non tollerare errori e violenze crescerà. Ma allora non è che i pacifisti sono già, di loro, positivamente “intolleranti” ad errori e violenze? Direi di no, perché la loro intolleranza alla violenza è *fuori dalla storia*, si ferma davanti a quelli che continuano a praticarla sia nei rapporti sociali che personali . Certo i pacifisti si rifiutano di «far torto», di usare lo strumento della violenza che gli altri continuano ad usare, convinti che «patirlo» eviti il peggio.
Siamo anche qui di fronte a una « scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili)», come quella per il comunismo o , per altri versi, quella per il fascismo.
E, ancora, a differenza di quanti esaltano un’astratta libertà degli uomini o dei singoli, ritenendola invalicabile in teoria ma accettando in pratica che altri più prepotenti la calpestino, Fortini riconosce che « il comunismo in cammino comporta che uomini siano usati come mezzi». Un’affermazione scandalosa. Non fanno forse questo i capitalisti, i politici, i generali, i capi? I comunisti dovrebbero imitare costoro, strumentalizzare i loro simili? Sì, risponde Fortini spiegando la differenza netta tra l’uso capitalistico degli uomini e l’uso comunista degli uomini. Oggi, in un assetto sociale capitalistico, gli uomini vengono usati «per un fine che non è mai la loro vita», vengono usati per accrescere il dominio del Capitale, non per migliorare la propria vita. La lotta per il comunismo, anche se il raggiungimento del fine (il comunismo) non è garantito, prevede che gli uomini vengano, sì, ancora usati, «ma sempre meno» e per « un fine che sempre più dovrà coincidere con loro stessi». Questo uso di altri uomini per tale fine o l’accettazione di essere usati per tale fine sono atti di responsabilità. E chi se li assume lo farà , ancora una volta, senza garanzie. Non è la necessità né la storia che potranno giustificare questi usi. Infine ci si chiederà: ma i comunisti nella storia del 900 hanno forse fatto questo? Non sempre. Ma molti si sono incamminati in questa direzione. E bisogna recuperare le loro «buone rovine».
Nota
[1] Non mi riferisco a Negri che nelll’intervento intitolato appunto « Chi sono i comunisti?» (http://sinistrainrete.info/sinistra-radicale/9021-toni-negri-chi-sono-i-comunisti.html), critica (mentre i suoi avversari gliela attribuiscono!) una «concezione psicologica, immateriale se non semplicemente idealista della rinascita della lotta comunista»; e lega l’essere comunisti a precise condizioni: liberazione dal lavoro, costruzione di istituzioni radicalmente democratiche, incoraggiamento della cooperazione lavorativa e sociale, resistenza ( e non “desistenza”) all’ordine capitalistico, rifiuto di una lotta per il comunismo come esercizio di violenza che produca un «evento sacrificale e purificatore»
La lunga trattazione che Abate fa del pensiero di Fortini sul comunismo rimanda a una questione di filosofia politica sul tempo. Problema che si pone nei termini dell’origine. Noi siamo sempre e solo nella storia, ma questa non è tempo fisico indeterminato, bensì è tradizione, è un tempo qualificato. Come si è costituita la tradizione (le tradizioni)? L’inizio dove si colloca, fuori, in un prima, in un ordine di esistenza che non è nel tempo? O l’inizio è nella storia stessa e si definisce e si individua man mano?
Abate espone la propria posizione situandosi nella seconda ipotesi, nel movimento/mutamento, ma a mio parere è da un fuori che individua il *conflitto* come anima e motore della storia.
Il conflitto è tra classi, ma anche interno, ed è anche dato antropologico (“Da questo incastro di coazioni reciproche si uscirà mai? Sempre ci saranno oppressori e oppressi? È questo uno dei punti ciechi e quasi insondabili della storia umana.” https://www.poliscritture.it/2017/02/09/appunti-politici-3-comunismo-di-f-fortini/#comment-66042)
Ma questo è un *presupposto*. Infatti esistono fra gli umani e nella storia, e conflitti e pace e cura reciproca (Dawkins ha perfino ipotizzato il gene egoista). Ma il punto cieco e insondabile si ripropone, e in realtà la intolleranza dei pacifisti alla violenza diventa *fuori dalla storia*. Il conflitto cioè è un punto radicale, cieco e insondabile.
In realtà è solo un presupposto, religioso o laicamente antropologico modella -a mio parere- quello storico. E fornisce un’idea del tempo che così si può padroneggiare in una operazione mentale.
Cito da R. Esposito, Pensiero vivente.
“Origine e storia.
Qual è la relazione tra origine e storia – e, prima ancora, è essa logicamente pensabile? O non si tratta di termini reciprocamente contraddittori, destinati a negarsi a vicenda? La risposta a questa domanda […] dipende dalla collocazione assegnata all’origine rispetto alla linea dello sviluppo storico. Ma qualunque essa sia, la compresenza tra i due elementi appare più che problematica. Se l’origine è situata all’esterno della storia – e cioè prima del suo inizio temporale – allora questa vedrà necessariamente ridotto il proprio valore, misurato in negativo dal distacco intervenuto nei confronti di quella. Se, al contrario, l’origine è immessa la suo interno, essa stessa storicizzata, finirà inevitabilmente dissolta nel flusso del proprio divenire. Si può dire che l’originalità, ma anche la problematicità, del pensiero italiano degli ultimi decenni stia appunto nella capacità di sfuggire a quest’alternativa, o almeno nel tentativo di di complicarla attraverso uno sguardo obliquo che pone in essere una terza ipotesi,- in base alla quale l’origine sia, *nello stesso tempo*
storica e non storica, perchè essa stessa traversata, ma non risolta, dalla storia. ”
Vedo in questo 6 punto di Abate lo sforzo di mantenersi in questa terza ipotesi fatta da Esposito, in cui l’originario *conflitto* sia nello stesso tempo storia, e motore o anima (come l’anima di ferro di una figura vestita) della stessa.
Con l’espressione comunismo in cammino si vuol dire che il comunismo si manifesta, si realizza nel cammino, ma c’è già in nuce.
Nella implicazione 3 di questo nuovo post, Abate contrappone “un certo tipo di pensiero – statico, non dialettico, iper-realistico – che non contempla o aborre il conflitto, il dramma, la tragedia ( sempre possibile nella storia umana!)”. Iper-realismo versus conflitto-dramma-tragedia. Il discorso procede con “la tentazione di esorcizzarla (la testa di Medusa che è a volte la storia umana), di allontanarsene, di rifugiarsi altrove, di solito in piccoli o vasti mondi religiosi o ideali o utopici.”
Il cammino è lotta contro dolore e violenza, anche quelli fatti in proprio.
Dolore e violenza li scontiamo (e li pratichiamo) tutti, riempirci di parole al riguardo non li esorcizza. Non vuol dire che ne sia immune o neghi o finga di non vedere chi non ne parla in continuazione o volge l’attenzione anche e soprattutto a pace e cura. Vedi la parabola del buon samaritano, ci sono i briganti e c’è uno che si cura.
Ancora un’osservazione: far torto o patirlo non riguarda il movimento, il cambiamento, ma riporta alla stasi, è una scelta solo puntuale, circostanziale, astorica.
Ho un’idea diversa riguardo il cammino, il tempo e l’origine. Se cammino – perché ho due gambe (origine biologica) – erro, nel doppio senso del termine. Erro perché la mappa (il comunismo) non è il territorio, perché non ho meta, ma nemmeno andatura, l’unico possesso che ho del tempo è l’errabondo viaggiare. Incontrando per via con chi accompagnarsi dividendo il pane. Scambiando aiuti e parole. Altro non c’è ma è tutto.
Apprezzo molto il lavoro interpretativo che Abate sta facendo sul testo di Fortini riguardante il “comunismo”. È un testo che, letto e riletto, fin dalla sua prima pubblicazione su “Cuore”, supplemento satirico de “L’Unità” nel gennaio del 1989, continua a stupirmi per la sua assertività e stringatezza. Concentrare in poche migliaia di battute (per l’esattezza 5.484, spazi inclusi) l’essenziale di un movimento storico il cui “Manifesto” (di Marx-Engels) aveva quasi un secolo e mezzo di vita; condensare in poche decine di righe pensieri, opere, speranze, lotte, illusioni, delusioni, drammi, tragedie di milioni di persone rappresentava sicuramente una bella sfida. Teniamo presente che gli anni Ottanta sono quelli di Reagan (1981-89) e Thatcher (tre mandati: dal 1979 al 1990), di Solidarnosc, dei “nuovi filosofi”, della “crisi del marxismo”, ecc. Quando Fortini scrive questo testo, il muro di Berlino non è ancora caduto, ma cadrà nel novembre del 1989. Ripubblicandolo nel 1990 in «Extrema ratio», oltre a indicare la sede in cui era uscito la prima volta (un quotidiano umoristico: «amano volgere in gioco quel che è troppo doloroso assumere in serietà»), scrive: «Fuor dei nemici e degli avversari, nessuno definisce più il Comunismo». Fortini, invece, accettò la sfida di definirlo («come una scommessa metrica»), dando ai suoi enunciati la densità e la profondita di una «deliberazione conclusiva» (“extrema ratio”).
Questo per sottolineare quanto sia importante il lavoro messo in cantiere da Ennio: aiuta a sciogliere i nodi di un discorso pieno di rimandi, di echi, di altre voci, la cui sintassi è tutt’altro che facile e lineare. Ennio stesso in certi punti deve ammettere di trovarsi di fronte a dei veri e propri scogli interpretativi: ad esempio, punto 4 quando si parla del “limite da riconoscere”, del “nulla divoratore”, ecc.
In generale, credo che il commento prodotto finora sia abbastanza condivisibile. Anche se, come è naturale, la lettura è abbastanza proiettiva e creativa. Nel senso, che si possono facilmente ricostruire le domande a cui Ennio cerca di dar risposte interrogando il testo di Fortini.
Lo ritengo un procedimento legittimo, anche se può dar luogo a forzature.
Una forzatura che non condivido è quella che mi sembra di intravedere in questo brano:
«Tali (moralmente rispettabili) condanne non hanno mai impedito né impediscono che errori e violenze continuino ad accadere. E oggi, sempre da noi in Occidente, tali condanne si presentano o nelle forme religiose delle varie Chiese o laicamente ricorrendo alla categoria del *totalitarismo* formulata da Hanna Arendt. Fascismo e comunismo – i Mali assoluti – vengono equiparati. Si tenga conto che sono stati gli unici movimenti che, da sponde contrapposte e per scopi diversi – il primo per riaffermare la dittatura di una élite aristocratica (e di un Capo); il secondo quella del “proletariato”- hanno osato mettere in discussione i limiti oligarchici sia dello Stato liberale che, più tardi, di quello socialdemocratico. Sono stati gli unici movimenti che hanno tentato la *rivoluzione* e usato apertamente quella stessa violenza, che i loro avversari democratici (e i loro eredi odierni) usavano o usano in modi soltanto più velati. Accomunando fascismo e comunismo ed equiparandoli in un’unica condanna, cosa si ottiene, cosa si cancella? Ogni distinzione tra scopi completamente contrapposti. Perché anche se usassero gli stessi strumenti per affermarsi, dovrebbe essere chiaro che le lotte che puntano alla supremazia di una élite, di una razza o di una classe non sono la medesima cosa delle lotte fatte invece per abolire tale supremazia. O, nella versione “maoista” (memore del fallimento dell’esperienza sovietica) che Fortini dà qui del comunismo, per «estinguere la forma presente» del conflitto e passare «ad un conflitto su un livello più alto». Il ricorso, dunque, al concetto di *totalitarismo* liquida e svilisce per sempre ogni discorso sul comunismo, come questo di Fortini del 1989, e esorcizza ogni possibile sua ripresa, perché fa della violenza, attribuita esclusivamente al fascismo e al comunismo, come se non fosse altrettanto presente in tutte le esperienze storiche (comprese quelle democratiche che la continuano ad esercitare ed in modi equiparabili a quelle esercitate da fascisti e comunisti), un tabù solo apparente.
«Far torto o patirlo»? L’interrogativo manzoniano sta sempre davanti alle coscienze pensanti e ragionanti. Riconoscendo, come fa Fortini in questo articolo, che il comunismo « passa anche attraverso errori e violenze» ( o ricordando in suoi versi del 1958, da «Forse il tempo del sangue…» che bisogna « cercare i nostri eguali osare riconoscerli/lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati/ con loro volere il bene fare con loro il male/ e il bene la realtà servire negare mutare»), rifiuta, come fece lui fino agli ultimi suoi giorni, una visione irenica e pacifista della storia e, allo stesso tempo, della lotta per il comunismo. Errori e violenze ci sono e ci saranno. Riconoscere questa durissima verità non vuol dire però giustificare o assolvere i combattenti per il comunismo per gli errori e le violenze che *sicuramente* hanno commesso e commetteranno. O strizzare l’occhio ai fascisti e ai nazisti, che anch’essi non abboccarono alla visione progressista dello Stato liberale e lo sfidarono (come ho detto, per un obiettivo contrapposto a quello dei comunsti). E neppure appellarsi allo scopo giusto o alle “buone intenzioni” del comunismo per giustificare le “proprie” violenze. Neppure la formula abusata del *fine che giustifica i mezzi* spicci o brutali, dimostratisi sempre efficaci per la conquista o la conservazione del potere, può abbuonare errori e violenze compiuti a cuor leggero o magari vigorosamente e senza alcun scrupolo, nella convinzione che affretterebbero la realizzazione del comunismo.»
1) Coloro che accomunano sotto l’unica voce di “totalitarismo” fascismo e comunismo fanno un’operazione sicuramente scorretta (sia dal punto di vista storiografico che politico), ma come si combatte questa scorrettezza?…Certo, distinguendo, le diverse idealità di fascismo e comunismo, ma non accomunandoli contro il liberalismo. In sostanza, una sorta di accettazione rovesciata dello schema liberale. Meglio analizzare con maggiore attenzione la questione.
2) La categoria del “totalitarismo” non è stata formulata soltanto da Hannah Arendt. Leggo su Wikipedia che «Storicamente il termine è stato creato per indicare la dottrina politica del fascismo italiano e, successivamente, del nazismo tedesco. Simona Forti attribuisce [in “Il totalitarismo”, Laterza 2001] la primogenitura del termine a Giovanni Amendola, il quale lo usò a partire da un articolo del 1923 sulle pagine del quotidiano Il Mondo. In esse Amendola definì il sistema totalitario come “promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato nel campo della vita politica ed amministrativa”. Su La Rivoluzione Liberale, nel 1924, Don Luigi Sturzo commentò la “nuova concezione di stato-partito” come causa di una “trasformazione totalitaria di ogni e qualsiasi forza morale, culturale, politica e religiosa”, mentre Lelio Basso ebbe a dire che “il totalitarismo fascista ha posto tutti i suoi principi: soppressione di ogni contrasto per il bene superiore della Nazione identificata con lo Stato, il quale si identifica a sua volta con gli uomini che detengono il potere”. Giovanni Gentile menzionò il totalitarismo nella voce “Fascismo (dottrina del)” che scrisse per l’Enciclopedia Italiana ed in cui affermò che “… per il fascista tutto è nello Stato e nulla di umano e spirituale esiste e tantomeno ha valore fuori dallo Stato. In tal senso il fascismo è totalitario…”
3) Un liberale, un cattolico, un socialista e un fascista usano il termine “totalitario” per indicare un dominio assoluto dello Stato su ogni aspetto della vita sociale, culturale, morale, religiosa e politica di una comunità. “Tutto è nello Stato” sostiene Genitle.
Il “totalitarismo” fascista non mette in discussione nessun “limite oligarchico” dello Stato liberale. Ne continua l’oligarchia. Tra Stato liberale e Stato totalitario fascista-nazista c’è continuità.
4) Il “totalitarismo” non è una categoria politica (e/o filosofica) che attribuisce alla “violenza” il tratto distintivo fra Stato liberale e Stato totalitario. I teorici dello Stato liberale non hanno mai pensato che si potesse esercitare il potere senza ricorrere, se necessario, alla violenza (“monopolio della violenza legittima”, come lo chiamano loro). Gli Stati totalitari, a differenza di quelli liberali, sono Stati assoluti, sono “Stati del terrore”. Ambedue, però, sono Stati del Capitale
5) Filosofi come Horkheimer, Adorno, Marcuse hanno definito “totalitarismo” lo stesso capitalismo perché, leggo sempre su Wikipedia, « in quanto sistema economico sociale, utilizza la cultura di massa (non la cultura prodotta dalle masse, bensì quella prodotta dai mezzi di comunicazione di massa) e l’industria culturale per massificare gli individui e controllarli psicologicamente e politicamente in ogni momento della loro vita e in ogni aspetto del loro pensiero. “L’industria culturale”, scrivono Horkheimer e Adorno, “è uno degli aspetti più caratteristici e vistosi dell’odierna società tecnologica; essa è il più subdolo strumento di manipolazione delle coscienze impiegate dal sistema per conservare sé stesso e tenere sottomessi gli individui”. Perciò, se l’800 è passato alla storia come il secolo delle rivoluzioni, il ‘900 passerà come il secolo dei totalitarismi.» Totalitario è quindi quel potere politico che invade la società soffocandone ogni autonomia.
6) Mettere sullo stesso piano fascismo e comunismo come gli unici movimenti che «hanno osato mettere in discussione i limiti oligarchici sia dello Stato liberale che, più tardi, di quello socialdemocratico» (“O strizzare l’occhio ai fascisti e ai nazisti, che anch’essi non abboccarono alla visione progressista dello Stato liberale e lo sfidarono (come ho detto, per un obiettivo contrapposto a quello dei comunsti”) lo ritengo un grave errore. La “guerra civile europea” si è svolta fra capitale (liberale-fascista) e lavoro (comunista-stalinista). Quando però il “comunismo” si è trasformato in “stalinismo” si sono poste le basi per la rovina del comunismo.
7) Vanno rifiutate come ideologiche e non corrispondenti alla realtà storica uguaglianze del tipo: capitalismo è uguale democrazia; e democrazia capitalistica è uguale libertà. Il capitalismo può tranquillamente fare a meno della democrazia e, quanto alla libertà, si preoccupa prevalentemente della sua “libertà proprietaria”; della democrazia e della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità non possono, invece, assolutamente fare a meno il comunismo. Se ne fa a meno, si affossa. La mancanza di democrazia e il suo non ampliamento hanno rappresentato uno dei buchi neri del “socialismo reale”. Questo non esclude che si possa usare la “violenza legittima” contro il nemico e non esclude che si possano utilizzare temporaneamente persone come mezzi.
Del resto, – non ricordo dove l’ho letto – ma pare che anche in un rapporto d’amore (accoppiamento), il corpo dell’altro/a venga usato temporaneamente come “mezzo” per raggiungere il fine reciproco del godimento.
8) Non so se Fortini su questo punto la pensasse come Ennio Abate. Per quanto mi riguarda, credo di no. «La disciplina mia non potevano vederla / Il mio centralismo pareva anarchia / La mia autocritica negava la loro”. Un supplemento di indagine, direi che sarebbe opportuno. Anche perché credo che sia proprio questo il punto (sottovalutazione della democrazia) che rende deboli le nostre difese comuniste e rende possibili certi innamoramenti nazional-comunisti per personaggi come Trump.
9) Sul suo essere comunista, più di trent’anni prima, Fortini aveva scritto questa poesia:
Il comunismo (1958)
Sempre sono stato comunista.
Ma giustamente gli altri comunisti
hanno sospettato di me. Ero comunista
troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi.
Giustamente non m’hanno riconosciuto.
La disciplina mia non potevano vederla.
Il mio centralismo pareva anarchia.
La mia autocritica negava la loro.
Non si può essere comunista speciale.
Pensarlo vuol dire non esserlo.
Così giustamente non m’hanno riconosciuto
i miei compagni. Servo del capitale
io, come loro. Più, anzi: perché lo dimenticavo.
E lavoravano essi, mentre io il mio piacere cercavo.
Anche per questo sempre ero comunista.
Troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi
di questo mondo sempre volevo la fine.
Ma la mia fine anche. E anche questo, più questo,
li allontanava da me. Non li aiutava la mia speranza.
Il mio centralismo pareva anarchia.
Com’è chi per sè vuole più verità
per essere agli altri più vero e perché gli altri
siano lui stesso, così sono vissuto e muoio.
Sempre dunque sono stato comunista.
Di questo mondo sempre volevo la fine.
Vivo, ho vissuto abbastanza per vedere
da scienza orrenda percossi i compagni che m’hanno piagato.
Ma dite: lo sapevate che ero dei vostri, voi, no?
Per questo mi odiavate? Oh, la mia verità È necessaria,
dissolta in tempo e aria, cuori più attenti a educare.
[Una volta per sempre, Mondadori, 1963]
A PROPOSITO DI TOTALITARISMI
Risponderò in dettaglio al commento di Donato. Ma mi pare utile nel frattempo stralciare dal manuale di storia del Novecento a cui ho lavorato tra 2005 e 2009 l’introduzione e alcune schede sul tema dei totalitarismi. Esse potrebbero coadiuvare la discussione su una questione davvero gigantesca e irta di zone oscure. Chi dovesse trovarle troppo lunghe le salti (ma non a cuor leggero!).
I TOTALITARISMI
Il Novecento è stato il secolo dell’irruzione delle masse nella storia e della nascita dei regimi totalitari.Tra i due fenomeni non c’è un rapporto di causa ed effetto: l’ampliamento della partecipazione alla vita civile e politica di milioni di uomini e donne, che prima ne erano esclusi, avrebbe probabilmente potuto essere indirizzata a un rafforzamento della democrazia liberale o a forme di socialismo non totalitario. Gli esiti che si ebbero – esasperata “nazionalizzazione” militarista e aggressiva in Germania e in Italia (fascismo, nazismo), stalinismo in Urss – furono dettati dall’andamento dello scontro tra le forze sociali e dalle scelte dei partiti che le guidarono. Furono questi ultimi, in particolare, a educare le masse a sottomettersi al primato assoluto del partito, dello stato e del capo carismatico; o a servirsi dell’ideologia, della tecnologia, della manipolazione dell’informazione (attraverso la radio in particolare) per eliminare fisicamente, demonizzandoli, tutti gli oppositori (le «erbacce», gli «insetti nocivi», i «nemici del popolo»). Il consenso delle masse ai loro obiettivi fu ottenuto, ma le spinte utopiche e la maturazione politica della società vennero sradicate. E il Novecento è divenuto, come ben vediamo ora, il «secolo degli estremi» (Hobsbawm) e quello più distruttivo dell’intera storia umana. Per tentare di definire i caratteri inediti dei regimi politici del Novecento (fascismo, nazismo e comunismo) rispetto alle dittature del passato, si è fatto ricorso al termine ‘totalitarismo’, che è ormai entrato nel linguaggio comune e designa, secondo l’interpretazione datane da Hanna Arendt nel suo celebre Origini del totalitarismo (1951), una politica che ingloba l’individuo fino al suo annullamento. È bene sapere, però, che ‘totalitarismo’ non è parola neutra o “oggettiva”, ma controversa e, per alcuni studiosi, fuorviante. L’uso propagandistico fatto di tale termine durante la «guerra fredda» in funzione antisovietica e quello più recente da parte di storici “revisionisti” che se ne sono serviti per cercare di “assolvere” il nazismo ha finito per annullare differenze non trascurabili tra i vari totalitarismi. Combattere, come nel caso del fascismo e del nazismo, per affermare il primato di una razza o nazione ritenuta superiore contro altri popoli giudicati inferiori o incivili non è la stessa cosa che combattere per affermare il diritto all’eguaglianza, alla solidarietà, alla libertà degli individui e dei popoli, come nel caso del liberalismo o del comunismo, anche se i mezzi violenti usati sono stati simili. Inoltre non può essere trascurato che tendenze totalitarie si erano già manifestate in Europa durante la Grande guerra del 1914-1918, una guerra divenuta presto «totale», né che siano affiorate nella stessa democrazia americana (Hiroshima è un simbolo distruttivo da collocare accanto ad Auschwitz e ai Gulag), né che orrori simili a quelli avvenuti nei Lager e nei Gulag abbiano avuto dei precedenti nell’epoca del colonialismo ottocentesco e anche prima. Per mantenere, dunque, aperta e vigile la riflessione sulla violenza presente nella storia umana, nella scelta dei testi qui proposti abbiamo fatto nostro l’invito di vari storici a un uso cauto e critico del termine ‘totalitarismo’.
1.
Hanna Arendt – I campidi concentramento, laboratori di verifica di un dominio assoluto
Hannah Arendt (1906-1975) è stata una filosofa e storica tedesca. Nel 1933, in seguito all’avvento del nazismo, lasciò la Germania e si rifugiò a Parigi; nel 1941 si trasferì negli Stati Uniti, di cui divenne cittadina nel 1951. Fu docente di Filosofia e Scienze politiche all’Università di Chicago e alla New School for Social Research di New York. Tra le sue opere: Le origini del totalitarismo (1951), Vita activa (1958), Vita della mente (incompiuta e pubblicata postuma nel 1978)
La riflessione sul trauma storico della Germania nazista impegnò studiosi come Ernest Fraenkel, Franz e Sigmund Neumann, Adorno e Horkheimer. Anche Hanna Arendt fece parte di quel gruppo di intellettuali che dovettero abbandonare la Germania per l’avvento del nazismo. E la sua opera Origini del totalitarismo è una delle più originali analisi di quel momento tragico della storia europea. La popolarità stessa del termine ‘totalitarismo’ si deve in buona parte a lei. Nel saggio del 1951 la Arendt analizzò i fenomeni dell’antisemitismo (un capitolo è dedicato al “caso Dreyfus”) e dell’imperialismo che si erano manifestati negli ultimi decenni dell’Ottocento e in essi scorse i primi sintomi della degenerazione in nazionalismo dello stato-nazione, nato dalla Rivoluzione francese. La Arendt dà grande importanza all’ideologia nella nascita del totalitarismo: la capacità di imporre alle masse la credenza di un «nemico oggettivo» nel corpo della nazione apre la strada all’azzeramento dell’ordine giuridico e morale e al suo annientamento nel campo di sterminio. Il pensiero di Hanna Arendt, pur ridotto spesso a formulette, è stato al centro della discussione sia negli anni Cinquanta che negli ultimi decenni del Novecento. Si tratta di un pensiero originale, contraddittorio e del tutto “anomalo” rispetto al sapere accademico. Pur critica del marxismo, non sposa mai fino in fondo il liberalismo, tanto da accusare di tendenze totalitarie gli Stati Uniti del maccartismo e della guerra del Vietnam.
2.
Theodor W. Adorno – La propaganda fascista non ha bisogno di produrre alcun cambiamento
Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969), filosofo, sociologo e musicologo tedesco. Nel 1933, per sfuggire alle persecuzioni antisemitiche del regime nazista, emigrò negli Stati Uniti. Tra le sue opere principali: Dialettica dell’Illuminismo (1947) scritta con Max Horkheimer, Minima Moralia (1951) e Dialettica negativa (1966).
Adorno è stato uno dei curatori di una monumentale ricerca su La personalità autoritaria e in molti suoi scritti ha indagato sulle radici sociali e psicologiche dell’antisemitismo. Nel passo seguente stabilisce una stretta e sotterranea relazione tra l’«irrazionalità» della propaganda fascista e il «carattere autoritario» dei loro seguaci, che hanno interiorizzato gli «aspetti irrazionali della società moderna». L’elemento comune è l’accettazione dello «status quo», una realtà cioè del tutto immutabile, pietrificata. Adorno esclude una «naturale» irrazionalità delle masse: esse sono sì potenzialmente ricettive al fascismo, ma è la «manipolazione» del loro inconscio attraverso la propaganda a far sì che si ridestino le spinte irrazionali e distruttive che la propaganda fascista indirizza “scientificamente”. Non c’è nulla di spontaneo e primordiale nelle masse catturate dalla propaganda fascista: si tratta di una «regressione artificiale» che i fascisti mettono al servizio di interessi potenti, economici e «tutt’altro che psicologici».
Poiché per il fascismo sarebbe impossibile conquistare le masse con argomenti razionali, la sua propaganda deve necessariamente prescindere dal ragionamento discorsivo a favore di un orientamento psicologico che mobiliti processi irrazionali inconsci, regressivi. Questo compito è facilitato dallo stato d’animo di tutti quei ceti sociali che subiscono un’insensata frustrazione e che sviluppano, di conseguenza, una mentalità meschina, irrazionale. Forse il segreto della propaganda fascista consiste nel prendere semplicemente la gente per quello che è: veri figli dell’odierna cultura di massa standardizzata, sostanzialmente depredati della loro autonomia e spontaneità – anziché indicare obiettivi il cui raggiungimento andrebbe oltre lo status quo psicologico e sociale. La propaganda fascista deve solo riprodurre per i suoi fini l’esistente stato d’animo, non ha bisogno di produrre alcun cambiamento; e la ripetizione forzata, che è una delle sue caratteristiche principali, coincide con la necessità di questa continua riproduzione. Essa si affida completamente sia alla struttura complessiva sia ai singoli tratti del carattere autoritario, che a sua volta è il prodotto di un’interiorizzazione degli aspetti irrazionali della società moderna. Nelle condizioni predominanti, l’irrazionalità della propaganda fascista diventa razionale dal punto di vista dell’economia pulsionale. Se, infatti, lo status quo è dato per scontato e pietrificato, è molto più difficile rischiararlo che adeguarvisi, cercando di trarre almeno qualche gratificazione dall’identificazione con l’esistente – il punto cruciale della propaganda fascista. Questo può spiegare perché i movimenti di massa ultrareazionari usino la «psicologia delle masse» molto di più dei movimenti che, invece, mostrano più fiducia nelle masse. Indubbiamente, però, perfino il movimento politico più progressista può sprofondare al livello della «psicologia delle masse» e della sua manipolazione, se il suo contenuto razionale viene stravolto dalla conversione al cieco potere. La cosiddetta psicologia del fascismo è sostanzialmente prodotta dalla manipolazione. Ciò che ingenuamente si considera la «naturale» irrazionalità delle masse è il prodotto di tecniche razionalmente calcolate. Questa intuizione può aiutarci a rispondere al quesito se il fascismo, come fenomeno di massa, possa essere spiegato semplicemente in termini psicologici. Mentre è fuor di dubbio che esiste, nelle masse, una potenziale ricettività al fascismo, è altrettanto certo che la manipolazione dell’inconscio è indispensabile ai fini della attualizzazione di tale potenziale. Ma questo conferma l’assunto che il fascismo non costituisce, in realtà, un problema psicologico, e che ogni tentativo di spiegare psicologicamente le sue radici e la sua funzione storica si colloca al livello delle ideologie, come quella delle «forze irrazionali» diffusa dal fascismo stesso. Sebbene indubbiamente l’agitatore fascista riprenda determinate inclinazioni intrinseche a coloro cui si rivolge, egli lo fa in qualità di agente di potenti interessi economici e politici. Non sono le predisposizioni psicologiche a provocare veramente il fascismo; il «fascismo», in realtà, indica un campo psicologico che può essere sfruttato con successo da quelle forze che lo alimentano per motivi di interesse tutt’altro che psicologici. Ciò che avviene quando le masse sono prese dalla propaganda fascista non è l’espressione spontanea e primordiale di pulsioni e istinti, bensì una rivitalizzazione per così dire scientifica della loro psicologia – la regressione artificiale descritta da Freud nella sua disamina delle masse organizzate. La psicologia delle masse è stata sequestrata dai loro capi e trasformata in uno strumento atto a dominarle.
(da T. W. Adorno, Contro l’antisemitismo, manifestolibri, Roma 1994)
3.
Simona Forti – Le questioni “aperte” del dibattito sul totalitarismo
Simona Forti insegna Storia della filosofia politica all’Università del Piemonte Orientale. È autrice di numerosi saggi sulla filosofia politica contemporanea e sul pensiero di Hannah Arendt. Tra i suoi ultimi lavori ricordiamo Il totalitarismo (Laterza, Roma-Bari 2001).
La discussione sul totalitarismo ha impegnato gli intellettuali europei fin dagli anni Trenta. Essa da una parte ha riguardato la Germania nazista e l’evoluzione del regime staliniano in Unione Sovietica e dall’altra – soprattutto in ambito filosofico – è risalita fino al pensiero illuminista legato alla Rivoluzione francese, sottoponendolo a una profonda critica. Nel brano seguente – una prefazione al suo Il totalitarismo – Simona Forti riassume i punti più importanti di questa discussione tuttora in corso. Considerata da alcuni come “l’orizzonte insuperabile del nostro tempo”, liquidata da altri come una parentesi definitivamente chiusasi con il 1989, la questione del totalitarismo continua a oscillare tra la canalizzazione ed il rifiuto. Come sottrarla a un uso retorico ed enfatico? Come imporne la problematicità a chi la ritiene archiviata? Insomma, come affrontare il male politico del Novecento senza nascondersi dietro l’alibi della sua indicibilità, ma senza nemmeno ridurlo a una congiuntura storica felicemente superata? Innanzitutto, credo, cercando di fare chiarezza: tentando, cioè, di ricostruire l’intricato percorso del concetto di totalitarismo, per riportarne alla luce le diverse stratificazioni di senso. Esiste un primo significato di totalitarismo sul quale, a grandi linee, le scienze sociali e le scienze politiche oggi hanno trovato un accordo. Riferito soltanto ai regimi del Novecento, esso designa un universo politico in cui un unico partito ha conquistato il monopolio del potere statale, ha assoggettato l’intera società, ricorrendo a un uso capillare e terroristico della violenza e conferendo un ruolo centrale all’ideologia. A ben guardare, questo significato del concetto non viene messo in questione nemmeno dagli storici, da sempre i più recalcitranti ad ammetterne il valore esplicativo. A eccezione dei revisionisti più radicali, anch’essi sono disposti a riconoscere che i grandi processi di trasformazione che hanno investito l’Europa a partire dalla Grande Guerra hanno dato vita a esperienze politiche che trovano una loro collocazione teorica in questa nuova categoria del pensiero politico. Più problematico è semmai trovare un accordo su quali tra queste esperienze possano essere definite totalitarie. Non si è mai chiusa, ad esempio, la discussione se il fascismo italiano possa essere definito un totalitarismo o se meglio corrisponda a una forma di autoritarismo; se il Portogallo di Salazar e la Spagna di Franco siano comparabili al fascismo, e pertanto se ricadano sotto la categoria di regimi autoritari o sotto quella di regimi totalitari. E, ancora, se la Germania hitleriana sia davvero uno dei pochi esempi puri di totalitarismo, e se sì a partire da quando, dal 1938 o dal 1933? Un’altra serie di questioni rimaste aperte riguarda la seconda metà del XX secolo: se la fine della seconda guerra mondiale segni anche la fine del totalitarismo, o se invece i paesi del blocco sovietico abbiano continuato a ruotare attorno a un’orbita totalitaria; se alcuni regimi dell’America Latina siano davvero o soltanto forme di autoritarismo o se abbiano dato vita a dinamiche totalitarie. Ancora in attesa di una risposta è la domanda su quale esperienza, in Asia, corrisponda meglio all’ideal-tipo totalitario, se la Cina della rivoluzione culturale o il governo di Pol Pot. Per non parlare della questione per antonomasia: se soltanto il regime di Stalin abbia i caratteri di un totalitarismo o se totalitaria debba già essere considerata la società uscita dalla Rivoluzione bolscevica.
(da Simona Forti, Totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2001)
4.
Tzvetan Todorov – La «tentazione del bene» In Memoria del male, tentazione del bene (2000),
Tzvetan Todorov ha svolto un’approfondita indagine sul Novecento, Tzvetan Todorov (1939), Critico letterario francese di origine bulgara. Tra le sue opere maggiori: I formalisti russi (1965), Michail Bachtin, il principio dialogico (1981), La conquista dell’America. La questione dell’altro (1982), Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana (1989), Di fronte all’estremo (1991), L’uomo spaesato (1996), Memoria del bene, tentazione del male (2000).
In Memoria del male, tentazione del bene (2000), Tzvetan Todorov ha svolto un’approfondita indagine sul Novecento un secolo per lui «tragico», proprio per «la nascita, lo sviluppo e la fine del totalitarismo». Pur richiamando i molti regimi autoritari e dispotici dei secoli passati, Todorov vede nei totalitarismi novecenteschi alcuni aspetti in comune del tutto particolari: essi nascono da «utopie che aspirano a realizzare il paradiso in terra, qui e ora, sfruttando un’ideologia scientista, per la quale il mondo è conoscibile in toto». In questo stralcio da un’intervista, lo studioso, muovendosi su tutt’altro piano rispetto alle tesi che tendono a mettere sullo stesso piano i vari totalitarismi, rivendica sì l’importanza di paragonare i due totalitarismi più importanti (comunismo e nazismo) per «vederne le differenze», ma, ricordando Hiroshima e la più recente guerra in Kosovo, accenna anche alle “tentazioni” totalitarie delle democrazie.
Negli ultimi anni il parallelo tra comunismo e nazismo è stato all’origine di molte polemiche. Qual è la sua posizione?
Questo parallelo era corrente negli anni Trenta, ma è diventato un tabù dopo la seconda guerra mondiale, per via del ruolo giocato dall’Unione Sovietica durante il conflitto e per il carattere eccezionale dello sterminio degli ebrei. Oggi questo tabù è caduto, e secondo me ciò è un bene, perché solo paragonando i due totalitarismi è possibile vederne le differenze. Sul piano strutturale le somiglianze sono evidenti, mentre sono diversi i rispettivi atteggiamenti nei confronti dello sterminio dei prigionieri. Per i nazisti coloro che devono morire sono dei sottouomini e la loro morte diventa un fine. Nei Gulag dello stalinismo, invece, i prigionieri sono degli schiavi da spremere fino all’ultima forza. La loro morte, quindi, non è un fine in sé. Questa differenza tra i due totalitarismi mi sembra essenziale.
Analizzando il male presente nel secolo passato, a più riprese lei denuncia la “tentazione del bene”. Perché?
I pensatori cristiani si sono sbagliati mettendoci in guardia contro la tentazione del male, perché in realtà sono molto pochi gli individui tentati dal male. In compenso tutte le grandi sofferenze dell’umanità nascono dalla tentazione del bene, che ci si ostina a cercare con tutti i mezzi disponibili, e perfino con la violenza e la morte degli altri. I totalitarismi hanno sterminato con la scusa di imporre un mondo perfetto. Ma la realtà umana, come diceva Montaigne, è un giardino imperfetto, destinato a restare tale. Il male in nome del bene però non è una specialità esclusiva dei regimi totalitari.
Anche le democrazie cadono a volte in questa tentazione, come è accaduto a Hiroshima o anche di recente con la controversa guerra del Kossovo. L’eredità del Novecento da lei indagato è tutta negativa?
Nel secolo delle tenebre, per fortuna, esiste anche un versante luminoso dell’umanità, che spesso si manifesta nei singoli individui. Vasilij Grossman, Primo Levi, David Rousset ne sono un esempio, come pure Germaine Tillion o Margarete Buber Neumann, la quale ha conosciuto sia i gulag di Stalin che i campi di concentramento nazisti. Tutti costoro hanno saputo affrontare il male senza considerarsi un’incarnazione del bene. Si sono battuti, hanno resistito, hanno rifiutato la passività di chi si volta dall’altra parte e non vuole vedere, non dimenticando però che noi uomini saremo sempre un giardino imperfetto.
Erano animati da quello che lei chiama “l’umanesimo critico”?
L’umanesimo è il pensiero che soggiace alla democrazia, perché, affermando l’universalità del genere umano, rifiuta ogni discriminazione e sancisce l’eguaglianza degli uomini di fronte alla legge. L’umanesimo difende anche la libertà di pensiero e la responsabilità del soggetto, come pure la sovranità popolare, non dimenticando che il benessere dell’uomo è il solo fine dell’uomo, senza altri fini superiori. L’umanesimo però deve essere critico, per evitare le derive del passato, quando è stato utilizzato in maniera distorta e al servizio di altre finalità. E’ ad esempio con l’universalismo che furono giustificati il colonialismo e l’imperialismo. Come pure non bisogna cadere in un ingenuo culto dell’uomo, ma occorre sempre avere coscienza del male che gli uomini sono capaci di fare.
(da Fabio Gambaro, Un bilancio del Novecento secolo dei totalitarismi, in «la Repubblica», 8 settembre 2001.)
5.
Zygmunt Bauman – L’assunto di fondo dei totalitarismi: «alcuni meritano di vivere e altre vite sono indegne»
Zygmunt Bauman (1925) è un sociologo che insegna nelle Università di Leeds e di Varsavia. Nato in Polonia, fuggito nel 1939 con la famiglia in Urss in seguito all’invasione nazista per sfuggire alla persecuzione contro gli ebrei, ha combattuto in un corpo di volontari polacchi contro i nazisti. Oggi è considerato uno dei principali teorici della postmodernità. Tre le sue numerose opere: Memorie di classe. Preistoria e sopravvivenza di un concetto (1987), Modernità e olocausto (1999), La società dell’incertezza (1999), Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone (2000), La solitudine del cittadino globale (2000), Modernità liquida (2002).
Anche Bauman insiste sulle radici del tutto europee del nazismo («L’esperimento nazista fu intrapreso proprio nel cuore della civiltà europea») e mette a confronto il totalitarismo nazista con quello comunista. Una stessa ambizione modernizzatrice si manifestò per lui sia nel Centro (l’Europa) che alla sua periferia (l’Urss). L’attenzione del sociologo è tutta rivolta al lato oscuro di questi esperimenti, alle vittime: gli «inferiori». La loro distruzione, pur con motivazioni diverse (i nazisti uccidevano gli ebrei per quel che erano, i comunisti di Stalin eliminavano gli “inaffidabili” «per ciò che facevano o pensavano»), aveva in fondo un medesimo assunto in entrambi i casi: «alcuni meritano di vivere e altre vite sono indegne».
Gli stermini di massa del XX secolo erano esercizi di distruzione creativa; concepiti come salutari operazioni chirurgiche e perpetrati nel corso della pavimentazione di una strada verso una società perfetta, armoniosa, libera da conflitti. L’esperimento nazista fu intrapreso proprio nel cuore della civiltà europea, dentro la serra della scienza e dell’arte europee, nel luogo che più d’ogni altro si avvicinava al perenne sogno moderno della “Casa di Salomone” di Francis Bacon. Nel frattempo, alla periferia della Modernità europea, era in atto un altro esperimento, quello comunista, che osservava il centro con un misto di soggezione e invidia e sperava di “raggiungere e superare” qualsiasi cosa l’Europa avesse raggiunto nella sua storia moderna. Qui il sentimento umiliante dell’“essere lasciati indietro” aggiunse urgenza alle ambizioni modernizzatrici. Erano necessarie scorciatoie, si dovevano condensare i costi altrove distribuiti per decenni e secoli: solo una generazione doveva soffrire ciò che in altri luoghi avevano sopportato molte generazioni, ma la diminuzione della miseria doveva essere pagata con un incremento della sofferenza. Per i giardini fiorenti del futuro, la generazione presente non era nient’altro che concime. Nessun sacrificio era troppo per un fine così nobile. Si dovevano spaccare le montagne con la dinamite o costruirle artificialmente, disboscare vecchie foreste per piantarne di nuove, deviare i fiumi o fermare il loro corso, e la gente doveva venir trasportata dai luoghi in cui per caso abitava verso i luoghi assegnati dal progetto del giardiniere. E a ogni modo gli “inferiori” (nedobrokacestvennie), dovevano essere resi inoffensivi o completamente distrutti, o perché inadatti all’immagine del futuro, o perché covavano idee diverse di una buona società, o infine perché non affidabili nel sottomettere i propri desideri alle regole del nuovo ordine. La formula di legittimazione della distruzione portata avanti dai comunisti differiva dal massacro gestito dai nazisti. Se il piano nazista prevedeva che certuni venissero uccisi per ciò che erano e non potevano fare a meno di essere, il modello comunista di costruzione del nuovo ordine richiedeva che le persone venissero assassinate per ciò che facevano o pensavano (la gente destinata al massacro era neblagonadeznie, inaffidabile, di cui non ci si può fidare). Ma l’assunto di fondo era lo stesso in entrambi i casi: alcuni meritano di vivere e altre vite sono indegne; l’idoneità o l’inidoneità al mondo in costruzione costituiva la differenza tra le due categorie. A entrambi i casi si addice la descrizione dei governanti totalitari fatta da Hannah Arendt: «La loro fiducia nell’onnipotenza umana, la loro convinzione che tutto si può fare attraverso l’organizzazione, li spinge a esperimenti che l’immaginazione umana può aver descritto ma che mai l’attività umana ha certamente realizzato».
( da Z. Bauman, I campi: Oriente, Occidente, Modernità, in Nazismo, fascismo, comunismo, a cura di Marcello Flores, Bruno Mondadori, Milano 1998).
6.
Pietro Scoppola – I totalitarismi non sono “la stessa cosa”
Pietro Scoppola (1926-2007) è stato professore di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma e membro della Commissione Nazionale dell’Unesco. Tra le sue opere: La “nuova cristianità” perduta (1985), La Repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (1991 e 1997), La Costituzione contesa (1998), La democrazia dei cristiani (2005), La coscienza e il potere (2007).
In questo brano tratto da una conversazione con studenti di un liceo, anche lo storico Pietro Scoppola sostiene l’esigenza di tenere distinti i totalitarismi del Novecento, pur sottolineandone le somiglianze o persino gli aspetti di piena coincidenza. I loro obiettivi storici non erano gli stessi.
Noi Italiani abbiamo conosciuto il totalitarismo fascista, che è stato un totalitarismo un po’ a scartamento ridotto rispetto al totalitarismo di destra nazista, che è stato, sicuramente, il più feroce mai conosciuto. Ma è esistito il totalitarismo di sinistra, il totalitarismo realizzato dal comunismo stalinista, che giustamente, va detto e sottolineato, ha contraddetto alla base gli ideali stessi di libertà ed eguaglianza. E questo – è difficile spiegarlo, mi rendo conto – ci permette di introdurre la necessità di una distinzione tra regimi di varia natura. I totalitarismi, dal punto di vista della struttura centralizzata di cui si valgono, sono tutti simili, così come dal punto di vista della organizzazione della società, poiché tutti i regimi tendono a mobilitare la massa, tutti reprimono il dissenso, tutti conoscono il fenomeno del confino, del gulag, ossia dei campi di concentramento, delle carceri per gli oppositori. Il gulag è un fenomeno che è esistito nell’Unione Sovietica. In Italia è esistito il confino, in Germania c’è stato quel che c’è stato con i campi di concentramento. E questi fenomeni tendono a rendere analoghi, simili, uguali, se volete, tra loro, i totalitarismi. Però i fini, gli obiettivi, che i diversi totalitarismi si sono proposti, sono stati tutti diversi tra loro. I fini che si è proposto il fascismo, che si è proposto il nazismo, non sono gli stessi che si è proposto il comunismo. Il comunismo è nato sull’onda di questa grande utopia dell’uguaglianza, della emancipazione totale dell’uomo, basata sul presupposto che il regime di produzione capitalistico fosse quello che aveva sempre reso impossibile la piena liberazione dell’uomo. Quindi il Comunismo ha sempre avuto al proprio interno, perlomeno ai suoi inizi, questa potente carica utopica, che è stata quella che poi, in qualche modo, ha reso spiegabile un fenomeno altrimenti inspiegabile: la durata di questa ideologia nel Ventesimo secolo e il coinvolgimento di centinaia di milioni, anzi, di miliardi di uomini alla sua proliferazione storica. Non solo, ma il comunismo è stata l’unica forma di totalitarismo che è “caduta” senza troppa violenza, perché il 1989 ha visto il crollo del comunismo avvenire soprattutto all’interno delle sue stesse strutture di regime. Quindi c’è stata, da parte di tutti questi regimi, una forte analogia nei mezzi, negli strumenti per il perseguimento del potere. Ma c’è stata, viceversa, una profonda diversità nei fini, negli scopi, che, oggi, non ci permette di dire, (come spesso si tende a fare): “Tutti i totalitarismi sono uguali storicamente”. Capite? Siamo d’accordo sull’incontestabile fatto che i totalitarismi siano stati tutti quanti dei regimi negatori della libertà, negatori del pluralismo. Ma va sottolineato come essi abbiano, spesso, perseguito obiettivi storicamente (e profondamente) diversi. Scopi che oggi ci obbligano a fornire giudizi più articolati sulla realtà storica del totalitarismo. Io non mi sentirei di dire: “Il comunismo è uguale al nazismo, può essere messo sullo stesso piano, anche se il comunismo ha fatto più vittime”. Apprendiamo dal Libro nero, che è uscito in Francia, un libro molto discusso, discutibile per certe parti, che le vittime umane del comunismo nel mondo, nel corso del XX secolo sono state probabilmente molte di più delle vittime del nazismo. Quindi non vo glio proporre nessuna difesa per il comunismo. Però va detto che il comunismo è riuscito a mobilitare delle speranze verso il futuro, mentre il nazismo è sempre stato rivolto ai tipici archetipi della “cultura ariana”, della superiorità della razza, che non avevano nessuna apertura verso il futuro dell’umanità intera, essendo rivolti ad un passato mitologico […].
(da http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=133)
7.
Domenico Losurdo Il nesso tra colonialismo e nazismo
Domenico Losurdo (1941) è un filosofo italiano. Insegna Storia della filosofia all’Università di Urbino. Tra le sue opere:
La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel (1987), La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’”ideologia della guerra” (1991), Democrazia o bonapartismo: trionfo e decadenza del suffragio universale (1993), La Seconda Repubblica. Liberismo, federalismo, postfascismo (1994).
Anche questo brano è tratto da una conversazione tra il filosofo Domenico Losurdo e gli studenti di un liceo. Losurdo estende la sua indagine sui totalitarismi dallo scenario europeo a quello mondiale e accenna qui a due temi, che di solito non sono stati molto considerati nel più recente dibattito sui totalitarismi: la volontà del nazismo di «rivitalizzare la tradizione coloniale» e il legame esistente (con le sue analogie e le sue differenze) tra «la tragedia del popolo ebraico e la tragedia dei popoli coloniali».
STUDENTE: Si può parlare di un nesso mentale del nazismo, della violenza dell’olocausto con il colonialismo e lo schiavismo occidentale?
Il nazismo nasce, sì, sull’onda della polemica della Rivoluzione d’Ottobre, ma alla Rivoluzione d’Ottobre si rimprovera anche questo fatto fondamentale: di aver lanciato l’appello ai popoli coloniali perché si ribellino. Hitler intende, per l’appunto, rivitalizzare la tradizione coloniale. Hitler ripetutamente, nelle sue conversazioni a tavola, paragona la sua campagna di sterminio ad Est con le campagne dei bianchi nel Far West. Parla, ad esempio, dei popoli dell’Europa Orientale, come gli indigeni, sono i pellerossa. Come i pellerossa sono stati sterminati per far luogo alla colonizzazione bianca, così gli indigeni dell’Europa Orientale devono essere sterminati per far posto alla colonizzazione tedesca e ariana. In questo senso effettivamente noi non possiamo comprendere il nazismo, senza tener presente questa lotta del nazismo contro il processo di emancipazione coloniale, che inizia nel Novecento. In questo senso forse possiamo interrogarci sulle analogie, anche sulle differenze, tra la tragedia del popolo ebraico e la tragedia dei popoli coloniali, che sono stati investiti dall’espansione coloniale, forse si può aggiungere anche questo aspetto. Effettivamente queste due tragedie trovano una stretta connessione nel Novecento. Allorché Hitler decide di “fondare – così si esprime – le Indie tedesche in Europa Orientale”, allorché decide di costituire una sorta di Far West tedesco nell’Europa Orientale, deve trasformare popoli che hanno già una grande tradizione civile in popoli coloniali. In qualche modo deve trasformare gli indigeni dell’Europa Orientale in pellerossa e in neri. E per far questo deve sterminare l’intellettualità. Secondo i nazisti si tratta di sterminare l’intellettualità ebraico-bolscevica. Viene fuori di nuovo la peculiarità della questione ebraica, nel senso che, proprio per ricondurre questi popoli dell’Europa Orientale in condizioni coloniali, si tratta di portare a termine lo sterminio degli ebrei.
(da http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=190)
…mi piace molto quest’ultima poesia di Franco Fortini dove il poeta sembra rivendicare il suo dirittoa ad essere un “comunista speciale”, credo nel senso di immettere le sue istanze di ricerca, la sua soggettività libera in un “comunismo in cammino”, come definì più tardi…Lottare per la fratellanza tra i popoli, la giustizia nei rapporti interpersonali, sociali, econonmici e politici non significa credere nella necessità di una massificazione degli esseri umani, fatto che sfocia nella negazione di libertà importanti e nel totalitarismo dei governi. Un cammino conflittuale, che non esclude gli errori e il ricorso alla violenza, ma solo se davvero necessario, e non separa l’umanità in buoni e cattivi, lavorando su materiale vivo sempre in trasformazione…Insomma, forse una bestemmia, si parla di un comunismo comprensivo, capace di autocritica, che ritorna spesso a considerare le origini e l’evoluzione attraverso gli errori…Mi viene anche di pensare ad un “comunismo in cammino” che ha, come altro lato della medaglia, “un pacifismo in cammino”: due momenti dello stesso respiro, per non dimenticare e anzi prendersi cura delle ragioni della lotta…Certo Franco Fortini, nel momento grave, “conta” chi può dirsi amico e chi nemico, una scelta rischiosa come quella per il comunismo, ma non credo voglia intendere di lasciare per strada nessuno pure tra i lenti, i ritardatari, i sognatori, gli utopici…anche tra i molti a pezzi
Il post, gli interventi, le “appendici” pongono troppe questioni per cui è impossibile dire qualcosa su tutte. Mi limito a un punto che a me sembra preliminare e cruciale. Nella citazione di Fortini leggo:
«IL COMUNISMO IN CAMMINO COMPORTA CHE UOMINI SIANO USATI COME MEZZI PER UN FINE CHE NULLA GARANTISCE INVECE CHE, COME OGGI AVVIENE, PER UN FINE CHE NON È MAI LA LORO VITA. USATI, MA SEMPRE MENO, COME MEZZI PER UN FINE, UN FINE CHE SEMPRE PIÙ DOVRÀ COINCIDERE CON LORO STESSI. MA CHI DALLA LOTTA SIA COSTRETTO AD USARE ALTRI UOMINI COME MEZZI (E ANCHE CHI ACCETTI VOLONTARIAMENTE DI VENIR USATO COSÌ) MAI POTRÀ CONCEDERSI BUONA COSCIENZA O SCARICO DI RESPONSABILITÀ SULLE SPALLE DELLA NECESSITÀ O DELLA STORIA».
Ma è sicuro Fortini (e tutti quelli qui intervenuti) che a camminare sia il comunismo? «Il comunismo in cammino» non è una definizione, ma un’immagine metaforica. Su di essa potremmo dire qualcosa solo se ci fosse chiaro che cos’è il comunismo, solo se ci fosse, come premessa, una precisa definizione di comunismo. Ma questa manca e se provassimo a ricavarla dall’insieme della letteratura marxista, opere complete di Marx e Lenin comprese, i punti in comune di una possibile definizione non supererebbero poche righe.
«in cammino», a mio parere, riferendoci al contesto marxista entro il quale Fortini espone il suo pensiero, non era più, già da molto tempo, il «comunismo», ma solo la strategia, la tattica, la lotta per la conquista del potere, fatta, ma solo a livello ideologico / propagandistico, in nome di un comunismo non mai ben definito nelle sue valenze valoriali, organizzative, giuridiche ecc. Le dichiarazioni di Marx di non volere fare il profeta e quindi, a differenza degli utopisti, di non volere descrivere il futuro comunismo, è un comodo e ambiguo espediente se si considera che per quel futuro non definito si chiede di lottare rischiando tutto, a partire dalla vita di milioni di persone.
La mancanza di un progetto, sostituito dalla sollecitazione, più spesso emotiva che razionale, di speranze costantemente mantenute nel vago (abolizione della proprietà privata, uguaglianza, fine dello sfruttamento), ha fatto sì che questi valori restassero pura ideologia e propaganda e, di fatto, sostituiti dalla logica della conquista del potere e quindi dei fini che giustificano i mezzi (qualunque mezzo). Ne è poi seguito che, una volta conquistato il potere, il comunismo non è stato realizzato ma l’organizzazione totalitaria del potere sì, sempre, in tutti i casi di conquista del potere in nome del comunismo.
Di fatto quelle poche frasi di tradizione antichissima (già formulate nelle idee comunistiche di oltre duemila anni fa): abolizione della proprietà privata, fine dello sfruttamento, uguaglianza, e poche altre, comportano tali e tanti problemi di carattere organizzativo, giuridico, psicologico, sociale, economico ecc. ecc. che, se non si risolvono, almeno nei tratti di fondo, questi problemi, evitando le numerose contraddizioni e aporie dei concetti implicati (ad esempio, il concetto di “uguaglianza”, già secondo Aristotele, è contraddittorio e non realizzabile se non scegliendo fra diverse tipologie di uguaglianza, in pratica scegliendo fra ciò che deve essere uguale e ciò che deve, di conseguenza e necessariamente, essere disuguale), non possono che portare ad un fallimento di qualsiasi tentativo di “costruzione del comunismo”.
Il “comunismo” (inteso come movimento o come partito o come insieme di persone che hanno come obiettivo il comunismo), come ho scritto altrove, ha di fatto rinunciato al comunismo diventando anti-comunista quando ha scelto l’opzione di realizzare il comunismo non come costruzione di uomini liberi e per adesione volontaria, in alternativa al potere statale, ma come conseguenza della conquista dello Stato, subendo pertanto le logiche di potere dello Stato.
E qui veniamo al totalitarismo.Tutte le considerazioni svolte dai vari autori citati da Ennio Abate e da altri contengono osservazioni condivisibili ma che però peccano, più o meno, di una mancata attenzione alla natura dello Stato o di una sua sottovalutazione. La radice del problema è lo Stato, come organizzazione del potere e come ideologia che giustifica tale organizzazione. Lo Stato è per sua natura tendenzialmente totalitario. Tutti gli Stati, anche i più democratici. Giustamente Losurdo accosta l’imperialismo al totalitarismo, perché l’imperialismo, come mille altri fenomeni del potere, derivano dalla tendenza dello Stato a espandere i suoi poteri fino al totalitarismo inteso in senso più stretto.
Pertanto le realtà totalitarie hanno sempre aspetti in comune, per poi differenziarsi rispetto all’ideologia con cui si giustificano. E certamente il complesso di idee e teorie del nazismo sono diverse da quelle del comunismo bolscevico, ma è una diversità che non annienta né riesce a nascondere la comune radice di potere dello Stato esteso fino alla considerazione che tutto, compresi gli uomini le donne e i bambini, anche contati a decine di milioni, sono usabili come mezzi e sacrificabili per il bene dello Stato. A questo punto mi sembra assurda la distinzione di Scoppola, e di tanti altri, fra l’ideologia nazista negativa di per sé e l’ideologica comunista che invece, di per sé, avrebbe tanti elementi positivi («il comunismo è riuscito a mobilitare delle speranze verso il futuro, mentre il nazismo è sempre stato rivolto ai tipici archetipi della “cultura ariana”, della superiorità della razza, che non avevano nessuna apertura verso il futuro dell’umanità intera»), non solo perché opinabile (molti tedeschi hanno visto – a torto – nel nazismo una speranza per il futuro, mentre molti russi hanno visto nel bolscevismo la negazione di ogni futuro, e viceversa, anche, per cui il paragone di Scoppola è puramente suo, soggettivo, e non verificato nella realtà storica), ma soprattutto perché entrambe le ideologie sono state utilizzate come sostegno e copertura dell’esercizio del potere totalitario, la cui vera realtà non era né quella di realizzare l’utopia nazista né quella di realizzare l’utopia comunista.
Se il totalitarismo è l’estrema supremazia dello Stato su ogni libertà e diritto degli individui (e in questo senso, ma con approvazione e rivendicazione in positivo, alcuni teorici e propagandisti del fascismo rivendicavano la natura “totalitaria” dello Stato fascista fin dagli anni Venti), ogni dottrina che invece teorizza la limitazione del potere statale contiene, talvolta in contraddizione con altri suoi aspetti, elementi di anti-totalitarismo. Non per nulla gli Stati di tipo liberale, nonostante gli enormi abusi di potere (fra cui l’imperialismo, come si è ricordato), si distinguono nettamente da quelli totalitari, realizzando una graduazione di accentramento del potere, e di suo uso e abuso illegittimo, che va da un minimo a un massimo, cioè, in dottrina, dalle teorie mini-archiche a quelle totalitarie. Ne restano fuori le dottrine anarchiche, di vario tipo, comprese quelle libertarie, che si pongono in alternativa allo Stato, come forme di auto-organizzazione comunitaria che prescinde dall’organizzazione statale.
Quando il comunismo, con lo stesso Marx, già negli anni Sessanta dell’Ottocento, si è posto non come alternativa allo Stato (come era alla sua nascita e nella sua tradizione millenaria), ma come movimento per la conquista dello Stato (sia pure con l’obiettivo – illusorio – di procedere poi alla sua abolizione), di fatto ha reso impossibile la lotta per il “vero” comunismo e ha determinato le sue sorti come ideologia dello statalismo totalitario. Molto prima di Lenin e dell’esperienze del Novecento, i critici di Marx della seconda metà dell’Ottocento avevano accusato il comunismo marxista di vocazione alla tirannia, prevedendo che, se mai fosse stato messo alla prova, non il comunismo, ma un regime tirannico, avrebbe realizzato. Furono facili profeti, sebbene allora il termine “totalitarismo” non era ancora in uso. La previsione era facile, perché ciò che si costruisce senza libertà e senza rispetto per le persone usate come mezzi, non può che portare a un regime politico privo di libertà e di diritti umani. L’idea di comunismo può avere valore solo se riportata alle sue radici di proposta alternativa al potere dello Stato, basata sull’adesione volontaria e sulla piena libertà degli aderenti. Cioè solo se torna a proporsi come comunismo libertario.
Preciso ad Aguzzi che il mio intervento è stato precisamente contro il “comunismo in cammino”, considero che l’espressione sia un escamotage, per togliere al comunismo la sua reale asperità storica manifestata, o meglio sia un ossimoro, che ne rivela la natura ideologica e irreale in quanto mai raggiungibile.
CONTINUITA’ E DISCONTINUITA’
@ Donato [Salzarulo]
Sembra a Donato che, pur « distinguendo, le diverse idealità di fascismo e comunismo», io li abbia accomunati nella lotta contro il liberalismo avendo scritto: «sono stati gli unici movimenti che, da sponde contrapposte e per scopi diversi – il primo per riaffermare la dittatura di una élite aristocratica (e di un Capo); il secondo quella del “proletariato”- hanno osato mettere in discussione i limiti oligarchici sia dello Stato liberale che, più tardi, di quello socialdemocratico».
Ma a me questo dello Stato liberale pare proprio il caso di un regime che sia stato combattuto da destra (il neonato movimento fascista) e da sinistra (i transfughi del PSI che col PcdI di Gramsci gettarono le basi per l’esperienza comunista in Italia).
Donato pensa, invece, che «il “totalitarismo” fascista non mette in discussione nessun “limite oligarchico” dello Stato liberale. Ne continua l’oligarchia. Tra Stato liberale e Stato totalitario fascista-nazista c’è continuità».
Ora è proprio su questa continuità (assoluta, mi pare, nella formulazione di Donato) dei due regimi che forse non ci intendiamo. Certo, nel vuoto di potere che si era creato in Italia all’indomani del biennio rosso (1919-1920), i liberali furono molto ambigui nei confronti del nascente fascismo e in parte complici della sua ascesa al potere.
Ritenendo di poterlo usare contro i partiti di massa d’allora ( socialisti e cattolici popolari) da cui si sentivano minacciati, decisero, infatti, di allearsi con i fascisti alle elezioni del 1921 e collaborare poi (come d’altra parte fecero i popolari) nel primo governo diretto da Mussolini e, ancora alle elezioni del 1924, presentarono molti propri esponenti nel “listone” fascista.
Qui, in effetti, riconosco continuità e vicinanza “di classe” tra liberali e fascisti. Ma si possono sottovalutare i contrasti reali tra il partito di governo e la monarchia d’allora da una parte e i fascisti? Si possono del tutto ridimensionare o cancellare le discontinuità e l’opposizione di Amendola, di Gobetti, di Giustizia e Libertà e dello stesso Benedetto Croce?
Forse sì, col senno di poi. O usando uno strumento interpretativo meno da politologi e introducendo, da marxisti, come fa Donato il concetto di «Stati del Capitale». Allora salta, sì, all’occhio la continuità; e si può affermare che liberalismo e fascismo «sono Stati del Capitale». Eppure oggi sarebbe meglio completare e aggiornare il quadro. E aggiungere che gli «Stati del Capitale», oltre che liberali e fascisti, possono essere anche democratici e persino “comunisti” (se pensiamo all’attuale Cina).
Insomma, per me sarebbe bene soppesare sempre a fondo sia gli elementi di continuità che di discontinuità. Una continuità totale tra fascismo e liberalismo non la vedo. Il fascismo non è semplicemente un liberalismo più “duro”. È altra cosa. Difficile da definire. Tant’è vero che il conflitto delle interpretazioni sulla sua natura [1] resta aperto. Come resta aperta la possibilità che si ripresenti in altre forme. (E lo stesso direi per il comunismo, che quasi tutti oggi danno per morto). Perché il regime democratico in cui viviamo è in crisi. E le possibili soluzioni a me paiono tre: – o ci abituiamo a questa democrazia perennemente o sempre più in crisi, sperando che si prolunghi il più possibile, perché la riteniamo “il male minore” e oltre vediamo solo un abisso o una catastrofe; – o la soluzione viene cercata in una democrazia sempre più autoritaria (o, perché no, persino ‘totalitaria’?) fino a restringerla in un’oligarchia o in una forma tirannica di dittatura ultra-aristocratica; o si allarga e va verso una democrazia assoluta che s’avvicina al comunismo ( cioè a quella possibilità di «estinguere la forma presente» del conflitto e passare «ad un conflitto su un livello più alto», come ci ricordano le parole di Fortini).
Riconoscere, comunque, alcune somiglianze tra fascismo da una parte e socialismo/comunismo dall’altra (ad es. che siano entrambi movimenti che hanno accolto nella dimensione politica la spinta delle cosiddette “masse” che lo Stato liberale non voleva riconoscere; o che, come ho scritto, « non abboccarono alla visione progressista dello Stato liberale e lo sfidarono»; o che usarono la violenza in modo più aperto) non significa per me affatto accomunare o assimilare i due fenomeni storici, come fanno appunto quelli che li etichettano sotto la categoria del ‘totalitarismo’. E neppure, come pare temere Donato, riconoscere una sorta di merito al fascismo perché anch’esso s’è opposto al liberalismo. Che si sia opposto alla libertà dei liberali per me non ci sono dubbi. Come non ci sono dubbi che si sia opposto pure e anche più duramente ai tentativi di promuovere una democrazia più ampia ( quella tentata dai socialisti e dai popolari) e poi al comunismo (per intenderci: sia a quello dei soviet o dei consigli sia a quello che si presentava come comunismo stalinista). Quindi quale sarebbe il mio «grave errore», se non assimilo affatto i due movimenti ma riconosco che, sì, entrambi, per scopi *contrapposti* hanno contrastato il liberalismo?
Dire poi che «la “guerra civile europea” si è svolta fra capitale (liberale-fascista) e lavoro (comunista-stalinista)» a me pare una schematizzazione. Io tenderei a non ridurre le differenze (fossero pure minime) e i contrasti tra liberalismo e fascismo da una parte e, dall’altra parte, tra socialismo e comunismo ma anche tra comunismo e stalinismo ( o comunismo stalinista) .
E perché? Perché tutto mi appare molto mutevole nello svolgimento degli eventi e anche i piccoli passi avanti in una direzione possono essere cancellati. E poi a volte queste contraddizioni interne ad un campo ( o “interne al popolo”, se vogliamo) possono rivelarsi dure e violente quanto o forse più di quelle che si svolgono sul campo generale dove si sono scontrati capitalismo e socialismo.
Quello che avvenne ad esempio nel “campo socialista” ai tempi di Stalin, fa sorgere questioni mai del tutto risolte. Ci troviamo dinanzi a interpretazioni contraddittorie e di non facile soluzione: fu comunismo o no quello di Stalin? fu un comunismo in continuità o in rottura con quello di Lenin? e il comunismo di Lenin come veniva giudicato dalla stessa Rosa Luxembug che pur si muoveva nell’ottica della rivoluzione socialista? se escludiamo che lo stalinismo sia stato un comunismo o un certo tipo di comunismo, che cosa realmente è stato? lo assimiliamo sbrigativamente o disinvoltamente al fascismo e al nazismo sotto l’etichetta di ‘totalitarismo’?
Sfiorando queste questioni spinose e mai da noi del tutto approfondite, anche perché nel frattempo sono state espulse dal dibattito storico-politico, dobbiamo tenere sotto controllo la nostra inclinazione soggettiva e in parte ideologica (legittima solo fino ad un certo punto, secondo me) e scavare il più possibile, anche misurandoci con chi la pensa all’opposto di noi. Sui fatti, sulle teorie, sulle ideologie. Senza essere né intolleranti né aperti. Però per me gli slogan “Trump fascista” o “ Saddam = Hitler” quanto quelli “Trump innovatore” o “Obama Nobel per la pace” sono semplificazioni propagandistiche di cui potremmo fare a meno. Il nostro sforzo dovrebbe essere quello di trovare categorie politiche meno “ballerine” perché la realtà ( che comprende anche il passato!) è sempre più mutevole e fatichiamo ad afferrarla.
Comunismo in cammino? Come utopia o come ‘processo’, nella duplice accezione di ‘procedere’ e di ‘processare criticamente’? Se inteso come un processo dovremmo comunque definirne una finalità o un luogo e trovare un metodo scientifico per poterne definire i passi altrimenti si corre il rischio di incagliarsi su derive soggettivistiche o misticheggianti.
Quindi, da un lato, è chiaro quanto afferma Ennio nella Introduzione a Appunti politici 09.03.2017:
*Il rifiuto di pensare (e ridurre) il comunismo al solo *desiderio*, come fanno i “comunisti desideranti”, per molti dei quali desiderare il comunismo è “essere comunisti” (Ccfr. alcuni interventi della recente Conferenza sul comunismo tenutasi a Roma nel gennaio di quest’anno). Parlare di un «comunismo in cammino» significa che si deve manifestare (deve ”camminare”) in qualche modo nella storia umana e non solo nell’anima, che potrebbe limitarsi a “covarne” il desiderio. E perciò – sarò noioso ma repetita iuvant! – è escluso che il comunismo possa ridursi a una idea o ideale o fede o utopia o desiderio o sogno; e cioè a cose o fenomeni che prescindono dal tempo e dalla storia*.
Dall’altro, mi era venuto da associare a quanto Freud scrisse in una lettera del 1929 al suo amico e discepolo Oskar Pfister, pastore protestante interessato a fondere psicoanalisi con la “cura d’anime” cui era chiamato dal proprio magistero. Freud sostenne drasticamente che la psicoanalisi si basava “su un’universale concezione scientifica del mondo, con la quale quella religiosa resta incompatibile”.
Ovviamente, dobbiamo tenere conto dell’impostazione ‘positivista’ di Freud e collocarla in quegli anni (1929). In epoca successiva, Freud si rese sempre più conto che rimane comunque una parte misteriosa insondabile, che ci sfugge e per raggiungere la quale dobbiamo saper entrare in contatto con il “mistico”, senza esserne risucchiati, come capì bene Bion.
Richiamo nuovamente ad un problema di metodo ricitando il passo di A. Tosel:
* Lo scopo del materialismo è di rendere possibile l’incontro di quegli elementi che rendono possibile «l’intelligenza approfondita di ciò che sta muovendo il nostro mondo, rinunciando radicalmente a ogni a priori di qualunque sorta sia. Bisogna mettersi a studiare i fatti, come diceva Marx, a conoscere positivamente i fatti, pur sapendo che nessuna conoscenza è possibile senza la luce di una concezione teorica scientifica e filosofica d’insieme»*.
E mi viene una grande tristezza se penso ai sé-dicenti ‘comunisti’ e li confronto a quanto scriveva A. Gramsci, nei suoi Quaderni dal carcere (e pur abbonandogli un certo pragmatismo!):
“Un gruppo sociale può e deve essere dirigente già prima di conquistare il potere di governo (e questa è una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere dirigente.”
Ma se questo ‘gruppo sociale’, invece di essere dirigente è diretto e assoggettato, cambiano le variabili in gioco!
Cristiana, in suo intervento dell’11.03 (h. 10.58), rispondendo a Luca Ferrieri, scrive:
*Ricordo troppo bene le manifestazioni contro la guerra in Vietnam, quelle dopo la strage di piazza Fontana, ricordo lo sconcerto -il disgusto- all’elezione di Reagan, ricordo ventanni di rifiuto di Berlusconi con la sua accolita di alleati… Sono cinquant’anni ormai, di minacce alla vita civile, alle lotte sociali e ai diritti politici della maggioranza della gente*.
Anch’io ho gli stessi ricordi.
Ma ricordo anche troppo bene le lotte contro un sindacato ormai svenduto (vedi la propaganda delle ‘riforme di struttura’) perché – in quanto ‘cinghia di trasmissione’ tra Partito e classe operaia – pativa della sottomissione da parte del Partito alla politica dettata dagli americani e di cui oggi incominciano ad emergere interessanti (e dolorose) testimonianze documentate.
R.S.
SEGNALAZIONE
Qual è la tua idea di comunismo? Riccardo Bellofiore risponde…
https://lestradedibabele.wordpress.com/2015/06/21/quale-la-tua-idea-di-comunismo-riccardo-bellofiore-risponde/
*Forse le coincidenze non sono mai casuali, ma gironzolando su FB ed entrando nella bacheca di Riccardo Bellofiore mi accorgo che ha fatto anche lui riferimento allo scritto di Fortini che sto commentando. [E. A.]
La verità è che io non ho un’idea di comunismo e credo che a questo punto della storia non ce l’abbia veramente nessuno e questo da un certo punto di vista è una fortuna perché le idee di comunismo quando si sono realizzate hanno prodotto disastri e macerie. Posso dire qual’è lo scritto sul comunismo che più mi ha colpito, che più incrocia la mia sensibilità, ed è uno scritto breve di Franco Fortini, ne esiste una versione più lunga, ma la versione più breve e più folgorante è quella che uscì credo su un settimanale satirico, deve essere stato Cuore.
L’idea di Fortini era che il comunismo è la lotta per il comunismo ed è non la soluzione delle contraddizioni, non una società pacificata, ma il vivere in una diversa contraddizione, una diversa contraddizione nella quale sia possibile agli esseri umani una scelta, una scelta a partire da uno sviluppo diciamo così, non condizionato dall’alienazione del proprio potere e delle proprie capacità.
È evidente che questa è una risposta da un certo punto di vista evasiva dall’altra affascinante, è una risposta che secondo me ha una sua forza e ha un limite: la forza è che ci dice che il problema del comunismo, essendo la lotta per il comunismo, è oggi per noi qui ed ora la lotta contro il capitalismo.
Io devo dire non ho molta simpatia per i ragionamenti sull’idea di comunismo perché sono ragionamenti idealistici, è come se si avesse una ricetta e la si volesse applicare alla realtà. Il problema è partire dalle contraddizioni che viviamo, dalle contraddizioni del capitalismo, allora qui di battaglie culturali in senso proprio ce ne sono molte da fare perché non è solo crollato il comunismo, sono crollati, anche in questo caso purtroppo, tutta una serie di riferimenti, come dire, della lotta per una società più vivibile, più decente, si è teso ad evadere il nodo del lavoro, quindi l’esperienza concreta dei lavoratori come nodo della contraddizione del rapporto di classe, del rapporto di potere in cui viviamo, collocandolo altrove.
Con questo non voglio dire che esistono solo i lavoratori, che esiste solo la centralità del lavoro, intendo dire che il movimento per il comunismo è il movimento che rimuove quello che è lo scandalo della società, lo scandalo di questa società è di usare le persone come un mezzo per, come dire, pervertire la natura del lavoro con i suoi corpi, con il suo immaginario, con le sue idee, facendolo mezzo diciamo così, del tentativo di ottenere denaro e più denaro. Quindi questa idea di comunismo ci spinge ad un’analisi concreta di classe della situazione in cui viviamo che è centrata sul lavoro, per me non esise una lotta per il comunismo che non parta da qui. Ha un limite questa definizione, il limite è che non ci dice nulla, quasi nulla, di quella che è una società nuova, ma a questo punto il suo limite diventa la sua forza, ora se una società nuova è senz’altro data dalle relazioni diverse degli esseri umani nel momento del lavoro, una società nuova è anche un modo diverso di organizzare la riproduzione e le relazioni umane.
Questo non lo sappiamo, una volta sapevamo cos’era, adesso non lo sappiamo, io credo che questo limite vada assunto come una sfida, una sfida che si risolve imparando negli anni, nei decenni e forse nei secoli un nuovo linguaggio della socialità. Questo limite ci dice però una cosa, ci dice che il comunismo non è delegabile a un partito o a più partiti, non è delegabile allo stato, non è delegabile alla sfera della politica.
Il breve scritto di Fortini che citavo dice anche qualcos’altro che secondo me è importante ricordare ed è che il comunismo è la creazione di una diversa contraddizione, non l’uscita dalla contraddizione, non l’uscita dal limite dell’essere umano, non l’uscita dal dolore, non l’uscita dalla infelicità; è il tentativo dell’essere umano di uscire da un doppio limite, il limite di una natura che lo schiaccia e il capitalismo ha dato l’illusione di poter uscire da questa difficoltà, da questa costrizione però promuovendo una visione prometeica e onnipotente dell’essere umano che poi ha condotto alla distruzione della natura dentro e fuori di noi. E il tentativo di uscire da relazioni degli esseri umani in cui la costrizione non è la costrizione naturale, ma la costruzione di meccanismi economici che sembrano, che sono come naturali, forse più duri della natura.
Oggi è d’uso parlare in questo modo: dire i mercati vogliono questo, i mercati vogliono quello, cioè lo spacciare delle scelte politiche per scelte naturali, per scelte senza alternative.
Il comunismo è la riapertura di una alternativa al genere umano in cui gli esseri umani, anche per quanto riguarda le loro relazioni sociali, si fanno responsabili di quella che è la loro realtà, la loro realtà materiale ma anche in qualche modo, come diceva Fortini, la loro realtà spirituale. Fortini chiudeva la sua definizione in questo modo: diceva, il comunismo in cammino e sosteneva non ne esiste un’altro, adempie l’unità tendenziale di uguaglianza e fraternità, di sapere scientifico e di sapienza etico-religiosa, il comunismo è il processo materiale che vuole rendere sensibile e intellettuale la materialità delle cose dette spirituali. Ecco questa se vogliamo dirla così è l’idea di comunismo che amo conservare come sfida per tutti noi oltre che per me.
Va bene la visione “materialista” complessiva di Ennio, nel senso che è largamente comune e condivisibile:
* partire dalla analisi concreta della situazione concreta, cioè dalla nostra storicità nel capitalismo;
* accettare la nostra fragilità e mortalità, la “diversa contraddizione” rispetto a quella storica determinata;
* svelare la servitù delle “cose dette spirituali”, chiarendo la loro natura sensibile e materiale.
Ma perché chiamare tutto ciò comunismo, anziché per esempio appello agli uomini di “buona volontà”?
E lascerò perdere i presupposti impliciti anche in questa riduzione stringata del ragionamento di Ennio, presupposti impliciti nella “diversa contraddizione”.
Piuttosto ritengo sia proficuo concentrare il lavoro su due punti: l’analisi concreta che Rita chiama processo nella duplice accezione procedere e processare criticamente e quindi anche l’analisi dei cedimenti e dei tradimenti concreti, insomma la politica come finalità o luogo e come metodo per guidare i passi.
Il secondo punto per me su cui concentrarsi è svelare la nudità dell’imperatore/cultura e spirito. Questa seconda cosa, poi, Ennio la fa molto bene, e non è il solo, in Poliscritture.
Lavorare in questa prospettiva, lo ridico, non ha bisogno del nome comunismo.
…trovo questa sintesi, che Cristiana traccia del percorso di pensiero finora seguito e delle sue finalità, davvero completa, ma la sua domanda-risposta: “Ma perché chiamare tutto ciò comunismo, anziché per esempio appello agli uomini di “buona volontà?” mi lascia aperta un’altra domanda: allora perché no comunismo se in cammino, cioè se, in quanto viandante, incrocia, sulle strade del mondo, altre visioni? Spero che le varie prospettive non si escludano quando lavorano su un progetto anche parzialmente comune e non, per qualche ragione, in antitesi…Non si può averne un reciproco vantaggio?
La parola comunismo è però fortemente connotata, e in più Ennio scrive “non ho un’idea … e credo che non ce l’abbia veramente nessuno…”, perché insistere sul nome, allora?
…molti sono i credi fortemente connotati, tutti hanno zone d’ombra, anche il cristianesimo se lo colleghi alle crociate o l’islamismo alla guerra santa, ma poi hanno un bagaglio di convinzioni condivisibili sull’essere umano che non si può negare di punto in bianco…anche la tradizione comunista esiste e qui, mi pare, sia rappresentata e non è proprio quella sovietica dei gulag
@ Fischer
A parte il fatto che è Riccardo Bellofiore, da me segnalato, a dire: «La verità è che io non ho un’idea di comunismo» ( anche se subito dopo, con un atteggiamento correttamente critico e non fideistico, si richiama proprio a quella di Fortini, che sto commentando, ne riconosce l’importanza e l’accetta in sostanza «come sfida per tutti noi» ( io ho parlato di scommessa), alle due obiezioni di Cristiana: 1) «La parola comunismo è però fortemente connotata»; 2) «Ma perché chiamare tutto ciò comunismo, anziché per esempio appello agli uomini di “buona volontà”?», replico per ora brevemente così:
1) È proprio questa sua connotazione *anticapitalistica* che è irrinunciabile. Che il capitalismo non sia più quello dei tempi di Marx, che ce ne siano diversi (da studiare, da capire nei loro funzionamenti concreti anche in parte inediti), non può farci concludere che dobbiamo ridurci all’«analisi concreta» o ad un «procedere e processare criticamente». In base a quale criterio condurremmo tale analisi? Su cosa si baserebbe il «metodo per guidare i passi» politici da compiere o « l’analisi dei cedimenti e dei tradimenti concreti»? E poi, non è che dovremmo per caso cambiarci i connotati? Siamo stati o no comunisti (per qualche mese, per alcuni anni)? Quella storia è in qualche misura diventata nostra o no? E, adesso che si sarebbe esaurita o è affondata o è divenuta invisibile ai più (ma le tracce ci sono e il lavoro storico su di esse perché dovrebbe interrompersi?), che dovremmo fare? Ripudiarla, rimuoverla, metterci una pietra sopra? (Come fece Pietro per il Cristo? *).
2) Perché così si è chiamato ieri, quando pareva una prospettiva valida; e va chiamato oggi, quando pare prospettiva non più valida o irrealistica. Perché non era/non è soltanto un “appello” alle coscienze (degli “uomini di buona volontà”), ma una indicazione di lotta per i lavoratori. È questo che sottolinea anche Bellofiore, quando dice: « questa idea di comunismo ci spinge ad un’analisi concreta di classe della situazione in cui viviamo che è centrata sul lavoro, per me non esiste una lotta per il comunismo che non parta da qui». Ed è questo che distingueva il comunismo dal cristianesimo, la cui attenzione alla condizione dei servi, degli oppressi, delle classi subordinate in parte aveva ereditato. Ancora, poiché io mi regolo anche su quello che pensano i nemici e gli attuali vincitori, cioè gli affossatori delle lotte per il comunismo (o, se volete, di tutte le grandi lotte fatte illudendosi di costruire il socialismo/comunismo), vedo che essi vogliono che tale parola (e il senso che essa ha avuto) sia abolito, cancellata per sempre (“fine della storia” etc.). E, infine, perché, pur se il comunismo si fosse ridotto a una semplice idea kantiana, regolativa, e non fossero individuabili, tra quelle odierne, contraddizioni e possibili lotte «per il comunismo», questa idea non impedisce affatto la ricerca del “nuovo”. Anzi in questa odierna confusione permette di controllare se quello che a “noi”( sempre da definire!!), che fino a ieri eravamo comunisti e oggi dubitiamo (e al dubbio non si deve rinunciare**), sembra il “nuovo” sia o possa essere davvero tale; e non quel “falso nuovo” che ci viene somministrato dai dominatori (capitalisti).
Insomma, accettare o rifiutare di ragionare o condurre la ricerca sulla base di questa idea o scartandola per me fa la differenza.
Note
* Mt 26,69-75 – Pietro rinnega Gesù (vedi brano nel contesto – passi paralleli)
69Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una giovane serva gli si avvicinò e disse: «Anche tu eri con Gesù, il Galileo!». 70Ma egli negò davanti a tutti dicendo: «Non capisco che cosa dici». 71Mentre usciva verso l’atrio, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: «Costui era con Gesù, il Nazareno». 72Ma egli negò di nuovo, giurando: «Non conosco quell’uomo!». 73Dopo un poco, i presenti si avvicinarono e dissero a Pietro: «È vero, anche tu sei uno di loro: infatti il tuo accento ti tradisce!». 74Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quell’uomo!». E subito un gallo cantò.75E Pietro si ricordò della parola di Gesù, che aveva detto: «Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse amaramente.
**
LODE DEL DUBBIO
di B. Brecht
Sia lode al dubbio! Vi consiglio, salutate
serenamente e con rispetto chi
come moneta infida pesa la vostra parola!
Vorrei che foste accorti, che non deste
con troppa fiducia la vostra parola.
Leggete la storia e guardate
in fuga furiosa invincibili eserciti.
In ogni luogo
fortezze indistruttibili rovinano e
anche se innumerabile era l’armata salpando,
le navi che tornarono
le si poté contare.
Fu così un giorno un uomo sulla inaccessibile vetta
e giunse una nave alla fine
dell’infinito mare.
Oh bello lo scuoter del capo
su verità incontestabili!
Oh il coraggioso medico che cura
l’ammalato senza speranza!
Ma d’ogni dubbio il più bello
è quando coloro che sono
senza fede, senza forza, levano il capo e
alla forza dei loro oppressori non credono più!
Oh quanta fatica ci volle per conquistare il principio!
Quante vittime costò!
Com’era difficile accorgersi
che fosse così e non diverso!
Con un respiro di sollievo un giorno
un uomo nel libro del sapere lo scrisse.
Forse a lungo là dentro starà e più generazioni
ne vivranno e in quello vedranno un’eterna sapienza
e spezzeranno i sapienti chi non lo conosce.
Ma può avvenire che spunti un sospetto, di nuove esperienze,
che quella tesi scuotano. Il dubbio si desta.
E un altro giorno un uomo dal libro del sapere
gravemente cancella quella tesi.
Intronato dagli ordini, passato alla visita
d’idoneità da barbuti medici, ispezionato
da esseri raggianti di fregi d’oro, edificato
da solennissimi preti, che gli sbattono alle orecchie
un libro redatto da Iddio in persona,
erudito da impazienti pedagoghi, sta il povero e ode
che questo mondo è il migliore dei mondi possibili e che il buco
nel tetto della sua stanza è stato proprio previsto da Dio.
Veramente gli è difficile
dubitare di questo mondo.
Madido di sudore si curva l’uomo
che costruisce la casa dove non lui dovrà abitare.
Ma sgobba madido di sudore anche l’uomo
che la propria casa si costruisce.
Sono coloro che non riflettono, a non
dubitare mai. Splendida è la loro digestione,
infallibile il loro giudizio.
Non credono ai fatti, credono solo a se stessi.
Se occorre, tanto peggio per i fatti.
La pazienza che han con se stessi
è sconfinata. Gli argomenti
li odono con gli orecchi della spia.
Con coloro che non riflettono e mai dubitano
si incontrano coloro che riflettono e mai agiscono.
Non dubitano per giungere alla decisione, bensì
per schivare la decisione. Le teste
le usano solo per scuoterle. Con aria grave
mettono in guardia dall’acqua i passeggeri dl navi che affondano.
Sotto l’ascia dell’assassino
si chiedono se anch’egli non sia un uomo.
Dopo aver rilevato, mormorando,
che la questione non è ancora sviscerata vanno a letto.
La loro attività consiste nell’oscillare.
Il loro motto preferito è: l’istruttoria continua.
Certo, se il dubbio lodate
non lodate però
quel dubbio che è disperazione!
Che giova poter dubitare, a colui
che non riesce a decidersi!
Può sbagliare ad agire
chi di motivi troppo scarsi si contenta!
ma inattivo rimane nel pericolo
chi di troppi ha bisogno.
Tu, tu che sei una guida, non dimenticare
che tale sei, perché hai dubitato
delle guide! E dunque a chi è guidato
permetti il dubbio!
Non si capisce bene dove parla Belfiore e dove tu, però non potevo aprire il link.
Credo di non essermi mai definita comunista perché temevo un mondo o una società che vuole e conosce il bene di tutti. Il bene di tutti gestito da una parte.
Ma si potrebbe obiettare che il capitalismo è il male per tutti (in effetti c’è molto di vero) ma è il comunismo la bandiera o la punta di diamante della lotta al capitale? Molti lottano e si ribellano oggi, anche in modo efficace, e si dicono forse tutti comunisti, hanno quell’ideale?
Qui emergono le mille facce del “comunismo” che, sia come metodo di lotta, sia come quadro di riferimento, non è unitario affatto.
È sufficiente dire che è “in cammino” per dare unità a gente lotte paesi obiettivi così differenziati?
So, sappiamo tutti bene quali sono i vizi e gli orrori oggi del capitalismo. Forse anche tutti vorrebbero un criterio per unificare le loro lotte e individuare il punto in cui attaccare, la leva per scalzare e capovolgere lo stato di male presente. Invece è proprio la frammentazione delle lotte, la parzialità delle stesse, a dire che è impossibile usare un solo nome, una sola idea, sia pure in cammino, per combattere e unificare.
Nel commento Ennio Abate 24 marzo 2017 alle 19:59 la parte mia è, come faccio anche su FB mettendo l’asterisco e la sigla [E. A.], evidente:
*Forse le coincidenze non sono mai casuali, ma gironzolando su FB ed entrando nella bacheca di Riccardo Bellofiore mi accorgo che ha fatto anche lui riferimento allo scritto di Fortini che sto commentando. [E. A.]
Scusa Ennio, ma (24 marzo 19.29) dopo la tua sigla, nel capoverso successivo “La verità è che io…” – in cui c’è la frase *io non ho un’idea di comunismo e credo che a questo punto della storia non ce l’abbia veramente nessuno*-
e nei numerosi capoversi a seguire parla sempre Bellofiore? E quando finisce, se non ci sono più virgolette o asterischi? A lume di naso ho scelto che parlassi tu.
Certo che parla sempre Bellofiore! Del resto ho messo il link al blog da cui ho copiato le sue dichiarazioni. Basta controllare.
Ottimo! Ma ho scritto il 25 e il 26 sempre commentando te. Dannato smartphone.
… e che quindi dichiarassi anche tu che l’idea di comunismo non è precisa oggi. Dopodiché in questo “pluralismo” non trovo che rifarsi a un comunismo in cammino schiarisca l’idea (scrivo con lo smartphone, per ciò le interruzioni).
Ennio (12.03, h. 23.35):
*E aggiungere che gli «Stati del Capitale», oltre che liberali e fascisti, possono essere anche democratici e persino “comunisti” (se pensiamo all’attuale Cina)*.
Trovo molto illuminante questa frase perché ci fa vedere come anche l’opposizione antisistema, non stia fuori dal sistema bensì dentro, adeguandosi pertanto alle forme attuali della forma capitalistica dominante. Per cui anche il tipo di lotta ne verrà condizionato.
Ennio si chiede (ibid.):
*Perché il regime democratico in cui viviamo è in crisi. E le possibili soluzioni a me paiono tre: – o ci abituiamo a questa democrazia perennemente o sempre più in crisi, sperando che si prolunghi il più possibile, perché la riteniamo “il male minore” e oltre vediamo solo un abisso o una catastrofe; – o la soluzione viene cercata in una democrazia sempre più autoritaria (o, perché no, persino ‘totalitaria’?) fino a restringerla in un’oligarchia o in una forma tirannica di dittatura ultra-aristocratica; o si allarga e va verso una democrazia assoluta che s’avvicina al comunismo ( cioè a quella possibilità di «estinguere la forma presente» del conflitto e passare «ad un conflitto su un livello più alto», come ci ricordano le parole di Fortini).*
Sono d’accordo. Formalmente. Ma la realizzazione di queste opzioni da che cosa, e da chi, dipende?
Così come concordo in pieno con questo passo, sempre di Ennio: * Sfiorando queste questioni spinose e mai da noi del tutto approfondite, anche perché nel frattempo sono state espulse dal dibattito storico-politico, dobbiamo tenere sotto controllo la nostra inclinazione soggettiva e in parte ideologica (legittima solo fino ad un certo punto, secondo me) e scavare il più possibile, anche misurandoci con chi la pensa all’opposto di noi. Sui fatti, sulle teorie, sulle ideologie. Senza essere né intolleranti né aperti. Però per me gli slogan “Trump fascista” o “ Saddam = Hitler” quanto quelli “Trump innovatore” o “Obama Nobel per la pace” sono semplificazioni propagandistiche di cui potremmo fare a meno. Il nostro sforzo dovrebbe essere quello di trovare categorie politiche meno “ballerine” perché la realtà ( che comprende anche il passato!) è sempre più mutevole e fatichiamo ad afferrarla.*
Quanto al fatto che: «La parola comunismo è però fortemente connotata», questo non ci deve portare al ripudio, secondo il modello citato del tradimento di Pietro, bensì, da un lato, ad una collocazione storica del concetto (l’analisi di Marx contemplava una società relativamente più ‘lenta’ nelle sue trasformazioni di stampo capitalistico, nonchè meno complessa dell’attuale) e, dall’altro, ci deve portare ad operare con mano ferma a disambiguare un concetto che si presta a raccogliere sotto le sue bandiere credenti, miscredenti e compagnia cantando (come aveva capito bene Lenin nel parlare di rivoluzione alle masse caucasiche, facendo leva sul loro spirito religioso e non parlando certo di rapporti di produzione). Ma abbiamo bisogno della quantità o della qualità?
Ennio, 24 marzo, h. 19.59:
*Questo non lo sappiamo, una volta sapevamo cos’era, adesso non lo sappiamo, io credo che questo limite vada assunto come una sfida, una sfida che si risolve imparando negli anni, nei decenni e forse nei secoli un nuovo linguaggio della socialità. Questo limite ci dice però una cosa, ci dice che il comunismo non è delegabile a un partito o a più partiti, non è delegabile allo stato, non è delegabile alla sfera della politica.*
Ecco, qui, soprattutto sull’ultima frase di questo punto, mi permetto di dissentire. Perché attraverso l’idea di *introdurre un nuovo linguaggio della socialità* e che *il comunismo non è delegabile a un partito o a più partiti, non è delegabile allo stato, non è delegabile alla sfera della politica*, mi sa che sfioriamo pericolosamente una deriva misticheggiante. Ma una ‘mistica dal basso’.
Un’ultima osservazione: * È proprio questa sua connotazione *anticapitalistica* che è irrinunciabile.*.
Sì, è irrinunciabile. Ma fino a che punto dell’analisi? Se siamo veramente ‘anticapitalisti’, perché non educhiamo le persone in tal senso e quindi a combattere quella che è una delle ‘essenze’ della struttura del capitalismo – quale che sia la forma fenomenica che prenderà – e cioè quella del ‘tutto e subito’, senza prendere consapevolezza degli effetti nefasti che ne potranno conseguire e immaginando una realtà piena di diritti e mai di doveri?
Ma qui ci addentreremmo in un discorso molto più ampio e complesso.
R.S.
Per ora solo una necessaria precisazione. La frase citata:
*Questo non lo sappiamo, una volta sapevamo cos’era, adesso non lo
sappiamo, io credo che questo limite vada assunto come una sfida, una
sfida che si risolve imparando negli anni, nei decenni e forse nei secoli
un nuovo linguaggio della socialità. Questo limite ci dice però una cosa,
ci dice che il comunismo non è delegabile a un partito o a più partiti,
non è delegabile allo stato, non è delegabile alla sfera della politica.*
non è mia ma di Riccardo Bellofiore.
SEGNALAZIONE
«Quale prospettiva dopo la dissoluzione della politica?»
quaderno n. 3/2017
di Giovanni Mazzetti
* «il comunismo non solo non riesce più ad essere un movimento ma, come dimostra l’interrogativo della Rossanda, stenta addirittura a sopravvivere come bisogno. Non è detto, infatti, che per il semplice affacciarsi sulla scena sociale un bisogno riesca ad avere un’esistenza reale».
In margine al mio commento su «Comunismo» (1989) di Franco Fortini, scopro adesso queste puntuali e condivisibili obiezioni di Mazzetti sul tema che risalgono al 1999. Le segnalo per adesso, perché dicono bene le ragioni del fallimento delle varie “rifondazioni”.
Ricordo che io pure ho sottolineato che il comunismo non può essere «mera fantasia» o desiderio soggettivo. E trovo ben indicato il punto morto o l’ostacolo più arduo che non sfuggiva a Fortini quando parlava di «lotta per il comunismo»:
« È ovvio che se i rapporti capitalistici debbono essere soltanto aboliti – se, come dice la Rossanda, basta “essere anticapitalisti” per avere la coscienza a posto – il compito dei comunisti è dei più banali. Non ci sarebbe uno stato di cose “ideale” da instaurare perché lo stesso pensiero non sarebbe necessario, visto che si tratterebbe solo di sfrondare la condizione naturalmente umana, di per sé positiva, dalle superfetazioni arbitrarie introdotte dalle relazioni capitalistiche. Ma se, invece, il comunismo consiste nel fatto che gli stessi rapporti capitalistici debbono, innanzi tutto, essere assunti su di sé come base da cui partire – come insieme di forze produttive che hanno dato inconsapevolmente corpo alla comunità che i comunisti vogliono trasformare in un insieme di rapporti consapevolmente assunti su di sé – tutto cambia. Emerge qui il problema principale del comunismo, del quale non c’è alcun segno che sia presente alla coscienza della maggior parte di coloro che oggi “si dicono” comunisti, con l’elevata probabilità che resti del tutto irrisolto» [E. A.]
Stralcio (del capitolo intitolato «Il problema non è se “dirsi” comunisti, ma come eventualmente provare ad “esserlo”») :
Personalmente sono comunista. Ma credo che il ripeterlo e il ripetermelo serva ormai a ben poco. Mi devo piuttosto interrogare sul come sia eventualmente possibile agire oggi in maniera coerente con questo bisogno. Perché nel frangente che stiamo attraversando il comunismo non solo non riesce più ad essere un movimento ma, come dimostra l’interrogativo della Rossanda, stenta addirittura a sopravvivere come bisogno. Non è detto, infatti, che per il semplice affacciarsi sulla scena sociale un bisogno riesca ad avere un’esistenza reale. Come scriveva Marx sin dal 1843, “una cosa può essere resa necessaria dalla situazione”, e alcuni soggetti possono affermare questa necessità, ma l’insieme delle condizioni esteriori possono precluderle “di entrare a far effettivamente parte della vita”. In genere, quando ci si riferisce a queste condizioni esteriori le si immagina, opportunisticamente, solo come “forze indipendenti dai soggetti agenti”; nel nostro caso “la forza del capitale globale”. Ma appena un anno dopo Marx sottolineava che ciò non è necessariamente vero, visto che una condizione può essere esteriore per il fatto che l’individuo che vuole non ha la capacità di procedere in modo corrispondente alla sua stessa volontà. In questo caso è lui ad essere estraneo alla realtà con la quale si confronta, che rappresenta un dato. Vale a dire che si muove in un mondo che, nonostante faccia la sua vita, non conosce e non capisce, restando incapace di attuare i cambiamenti dei quali esprime un confuso bisogno. Un comportamento che ha esiti drammatici se il soggetto non riconosce l’esistenza di questo scarto e si ritiene invece già all’altezza del bisogno di cui si sente depositario. Ma questo bisogno, per diventare una forza vitale, deve assumere una forma socialmente valida, cioè deve esprimersi “in una maniera determinata, corrispondente all’oggetto della sua volontà”. Altrimenti, ponendosi come una mera fantasia, è “impotente, e genera solo infelicità”, o fa solo guai. L’onere dell’essere comunisti . Venti anni fa prese corpo una salutare reazione al tentativo dei quadri dirigenti del PCI di liquidare quel partito, in una precipitosa reazione alla caduta del muro di Berlino. Definì giustamente come proprio obiettivo una “rifondazione” del movimento comunista. Col passare del tempo è però risultato evidente che quello che ha preso corpo non è stato il bisogno di assumere su di sé la crisi che aveva determinato quello sbocco, quanto il tentativo di imboccare tutte le scorciatoie che potessero servire a recuperare volontaristicamente il peso politico che il partito comunista ha avuto in passato. Come se non ci fosse una moltitudine di problemi ad ostruire questo percorso. Oggi possiamo tranquillamente riconoscere che la rifondazione non c’è stata, e le ricorrenti esaltazioni degli ultimi venti anni sulle cosiddette “riprese del movimento” – ad ogni stormir di dissenso – erano completamente fuori luogo. Cavallaro, nel suo Perché non possiamo non dirci comunisti, sostiene che non bisogna fissare questo fallimento, e occorre invece prendere atto del movimento oggettivo che, definendosi magari in opposizione ideologica al comunismo, ha realizzato e sta realizzando una progressiva integrazione sociale degli individui. Si tratterebbe di sperimentare quella comunità materiale in formazione, sulla base della quale una comunità consapevolmente assunta su di sé dall’insieme della società potrà poi essere eretta. L’ipotesi non fa una grinza. Ma regge solo ad una condizione: che ci si accontenti oggi di definirsi comunisti con una proiezione analoga a quella che caratterizzò il comunismo ai tempi di Marx. Ma proprio perché quella proiezione non si accompagnò affatto ad una capacità individuale generale come quella sollecitata da Marx, sfociò nell’esatto opposto rispetto alla sua prospettazione, cioè nell’anelito ad uno “stato ideale di cose da instaurare”. Uno stato ideale che in molti casi si trasformò in un vero e proprio inferno. Per questo credo che chi voglia ancora dirsi comunista oggi debba riconoscere che in tal modo non sta muovendo da un positivo reale, del quale sarebbe depositario ma dai guai che hanno travolto il movimento e lo hanno fatto dissolvere. Per sfuggire a questo gravoso compito, la maggior parte di coloro che continuano a dirsi comunisti commettono un errore di partenza che aggrava la loro impotenza, e li condanna ad una ripetizione degli errori passati. Vediamo di che cosa si tratta. Per sostenere la sua argomentazione Cavallaro richiama giustamente il testo dell’Ideologia tedesca nel quale Marx sottolinea che “il comunismo non è uno stato di cose, un ideale da instaurare, ma un movimento reale …” cioè un processo oggettivo di trasformazione della società, cosa sulla quale non c’è nulla da obiettare. Il problema emerge successivamente, quando fa riferimento alla traduzione canonica del testo, che continua “… che abolisce (aufhebt) lo stato di cose esistente”. Ma l’aufheben di Marx è molto meno univoco di quanto il traduttore – che ha evidentemente riversato nel testo la sua visione del mondo – ritenesse. È vero che in termini legali il concetto rinvia all’abrogazione (delle leggi), all’annullamento (dei contratti), ma nel linguaggio quotidiano esso si riferisce innanzi tutto al “raccogliere”, al “serbare”, al “sollevare”. È ovvio che se i rapporti capitalistici debbono essere soltanto aboliti – se, come dice la Rossanda, basta “essere anticapitalisti” per avere la coscienza a posto – il compito dei comunisti è dei più banali. Non ci sarebbe uno stato di cose “ideale” da instaurare perché lo stesso pensiero non sarebbe necessario, visto che si tratterebbe solo di sfrondare la condizione naturalmente umana, di per sé positiva, dalle superfetazioni arbitrarie introdotte dalle relazioni capitalistiche. Ma se, invece, il comunismo consiste nel fatto che gli stessi rapporti capitalistici debbono, innanzi tutto, essere assunti su di sé come base da cui partire – come insieme di forze produttive che hanno dato inconsapevolmente corpo alla comunità che i comunisti vogliono trasformare in un insieme di rapporti consapevolmente assunti su di sé – tutto cambia. Emerge qui il problema principale del comunismo, del quale non c’è alcun segno che sia presente alla coscienza della maggior parte di coloro che oggi “si dicono” comunisti, con l’elevata probabilità che resti del tutto irrisolto. Non è un caso che, per confermare la possibilità di dirsi comunisti, Cavallaro abbia avuto bisogno di riferirsi al movimento passato, cioè alle conquiste attuate con lo Stato sociale keynesiano. Ipotizzando, poi, senza fondamento reale che le reazioni alla crisi, e “quei bisogni sociali sottesi agli slogan sui ‘beni comuni’ o sulla ‘riconversione ecologica dell’economia’ costituiscano ‘il movimento reale che abolisce lo stato di cose esistente”, in quanto rappresenterebbero una continuazione oggettiva di quel movimento nella direzione del comunismo. Personalmente ritengo che questa deriva non sia di molto aiuto, perché siamo ad un punto di svolta nel quale è necessario produrre una soggettività che impari a pensare e ad agire nel concreto in forme comuniste; una produzione della quale coloro che “si dicono” comunisti sembrano non avere alcuna idea. Ad esempio, perché nessuno si interroga esplicitamente sulle ragioni del fallimento del tentativo di “rifondazione”? Chi tenta di fare qualcosa e questo qualcosa non va a buon fine, se non vuole ritentare a caso, deve capire dove ha sbagliato. Ma, a mio avviso, è proprio quello che la maggior parte dei sedicenti comunisti non sta facendo. Il loro grado di confusione è testimoniato dal fatto che qualsiasi forma di disagio e di opposizione viene immediatamente elevata a forza adeguata del processo di trasformazione. Sembra cioè che ad essi basti qualsiasi cosa implichi una disgregazione dei rapporti e del potere capitalistico. Ma in tal modo essi finiscono col trasformarsi in anarchici. Uno dei motivi di dissenso col vecchio gruppo dirigente del mio partito (Rifondazione) riguardava proprio il loro approccio ecumenico, che li spingeva a considerare positivamente qualsiasi tipo di movimento critico. Ricordo ancora le lamentele quando scrissi sul manifesto l’articolo interrogativo Di chi è figlio il popolo di Seattle?, perché conteneva una critica dei possibili limiti di quel movimento. Certo se si crede, come hanno scritto poi quei dirigenti, in un testo ponderato, che “l’alienazione dipenda dai rapporti capitalistici”, tutto risulta assolutamente semplice. Se poi ci si sente misticamente depositari di “idee che non muoiono”, si può procedere senza nemmeno rendersi conto, fintanto che le urne non te lo svelano, che si sta contribuendo alla dissoluzione dell’idea stessa di comunismo per l’incapacità di procedere coerentemente con i profondi svolgimenti storici dell’ultimo mezzo secolo, limitandosi ad orecchiare lo slogan dei nostri avversari che i nostri guai sarebbe dovuti al fatto che c’è la globalizzazione
(da Quale prospettiva dopo la dissoluzione della politica? http://www.redistribuireillavoro.it/assets/formazioneonline_quaderno_nr_3_2017.pdf)