Cordata di governo

di Stefano Taccone

Sono decenni che ascoltiamo la locuzione “lunga transizione italiana”. Essa mi pare sottendere la credenza in un passaggio tortuoso e faticoso, eppure ineluttabile, da un Paese a “democrazia bloccata” quale era l’Italia della Prima Repubblica a una democrazia dell’alternanza, liquida, para-anglosassone. Che però questa prospettiva fosse più un desiderio concepito tra torcicollo e strabismo – il torcicollo che ti fa osservare il passato come fosse il presente e lo strabismo che ti fa osservare un altro paese come fosse il tuo – lo si è capito mano mano, o meglio le vicende si sono evolute in termini sempre meno prossimi all’allegro pseudo-irenismo bipolare che anche ai più irriducibili non è rimasto altro che sostenere che tuttavia era una buona idea, la migliore che si potesse concepire. Peccato però, per loro, che un cervello senza arti – fosse anche il cervellone di un Nobel della fisica – non ha mai smosso una piuma.

Ora la transizione di cui sopra è finita, ma lo sbocco è molto distante da quello che credevano i “liberal” nostrani. Ci credevano talmente da copiare e incollare nomi e animali – ci mancavano solo cose e città! – dal sistema politico statunitense. Non di meno qualcosa del loro vagheggiato paradiso forse l’attualità italiana la suggerisce: non si è giunti, ad esempio, al bipolarismo come alternanza governo-opposizione, ma si è costituito, in compenso, un bipolarismo di governo e opposizione insieme. Tutto ciò è stato possibile grazie alla destrezza del presidente della repubblica, il quale, essendo stato riconosciuto come curatore fallimentare del soggetto giuridico Italia non ha avuto altra scelta che venderla ai privati, una volta preso atto del suo irrecuperabile passivo. Da un giorno all’altro si è avverato quell’incubo che si paventava da anni: tutti i suoi titoli di stato sono divenuti carta straccia e di conseguenza non vi è più stata possibilità di erogare stipendi, pensioni o qualsiasi altro servizio più o meno essenziale. Dalle privatizzazioni delle aziende pubbliche, per decenni uno dei pilastri delle politiche neoliberiste, si è passato così all’esperimento inedito della privatizzazione di uno stato tout court, rivolgimento cui politologi, economisti, sociologi, antropologi, influencer, grandi firme del giornalismo di ogni parte del mondo guardano come un esperimento all’avanguardia. L’espressione “laboratorio Italia” ha rapidamente colonizzato la bocca di tutti.

Ma prima che l’ultimo rappresentante del vecchio assetto, il presidente della repubblica, sparisse seguendo il destino dell’ordinamento repubblicano stesso, egli – si dice – ha messo a segno un capolavoro di maestria politica – forse l’ultimo di una tradizione che rinvenendo le radici nell’antica Roma giunge, passando per Lorenzo de’ Medici e Cesare Borgia, per Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini, fino ai giorni nostri. È riuscito cioè a ottenere che l’azienda-Italia – perché ormai di azienda e non più di regime democratico si parla, al massimo di stato-azienda – non avesse un socio di maggioranza, bensì due marchi perfettamente comproprietari – 50% e 50% – dell’impresa da rilanciare: uno cinese e un altro saudita. «Una tale soluzione permetterà a coloro che furono i cittadini italiani di allentare un po’ il giogo dell’oppressione», pare che abbia sussurrato il presidente prima di uscire di scena, non senza scatenare l’indignazione dei nuovi uomini forti del paese, tanto che questi è stato praticamente costretto a rientrare nuovamente in scena per smentire tali presunte indiscrezioni, bollandole come «fantasie di giornalisti dalla tastiera in subbuglio». Dopodiché si è davvero ritirato a vita privata, scegliendo di attendere il resto dei suoi giorni nell’isolotto di Castel dell’Ovo come Romolo Augustolo. La nuova amministrazione gli ha garantito un esiguo ma dignitoso vitalizio.

Questa nuova condizione è acclamata da buona parte della stampa come una grande opportunità per l’Italia, che finalmente – si dice – imparerà a funzionare come una azienda – e non solo dell’azienda riprodurrà l’efficienza, ma anche le modalità orizzontali e partecipative con le quali le aziende di successo sono tipicamente gestite; basta insomma con la cittadinanza passiva, con il vecchio paradigma statale che prevedeva che il cittadino si attivasse unicamente il giorno delle elezioni, ché un’azienda è come una famiglia, come un corpo che per funzionare ha bisogno del concorso di tutte le membra! –; è accostata talvolta persino alla gloriosa Roma repubblicana, dato che l’attuale premierato risalirebbe alla collegialità del suo doppio consolato. Da parte sua, la prima dichiarazione del semi-premier cinese – un nome impronunciabile che gran parte degli italiani non ha ancora memorizzato, ma dovranno spicciarsi! – è stata: «Noi metteremo i nostri valori, ma non dimenticheremo i vostri valori». L’omologo saudita – appena un po’ più semplice da memorizzare – ha tempestivamente aggiunto: «Noi conosciamo i vostri valori, ma metteremo anche i nostri valori». Due frasi sibilline sulle quali si è aperto subito un dibattito, anche se un po’ in sordina, poiché non è bene far dispiacere i padroni di casa – padrone, lo si sa, è colui che ci mette i liquidi! –: cosa significano in concreto queste due dichiarazioni? Sono in sostanziale concordia o sono piuttosto discordi l’una rispetto all’altra? Sono tentativi di rassicurare che tante cose resteranno come prima anche se alcune cambieranno? Sono, al contrario, tentativi di allertare sul fatto che tante cambieranno, anche se qualcosina resterà come prima? L’una va in quest’ultimo verso e l’altra nel penultimo, oppure anche viceversa? E poi quanto i due alludono a valori morali, culturali, persino religiosi, e quanto alludono piuttosto a valori puramente monetari?

Nessuno sa dirlo con certezza. Fatto sta che relativamente presto tra le due cordate sono cominciate a sorgere una serie di controversie intorno alle quali giungere a una sintesi sembra a dir poco arduo. I sauditi rivendicano, ad esempio, la necessità non solo del riposo settimanale del venerdì, ma anche il rispetto delle cinque preghiere della tradizione islamica: alba, mezzogiorno, metà pomeriggio, tramonto, notte. Il riposo settimanale inoltre deve essere autentico: «Non la domenica farlocca dei cattolici!», esclamano. Tutti gli esercizi commerciali, compresi i grandi centri suburbani, devono essere rigorosamente chiusi. I cinesi sono invece profondamente contrari a tutto ciò, considerando tali usanze incompatibili con un’economia moderna, vere e proprie zavorre per un sistema produttivo competitivo e tanto meno opportune in un paese come l’Italia che si trova a navigare non propriamente in ottime acque.

Tutta una composita fazione di ex cittadini – neo-consumatori e neo-dipendenti dell’azienda Italia – si è però schierata con l’opzione saudita: da soggetti provenienti da una cultura di sinistra, i quali riconoscono una continuità con gli antichi diritti dei lavoratori, a soggetti di area cattolica o legati ad altri culti, i quali individuano in questi intervalli occasioni di rigenerazione spirituale. Si va da chi sostiene che i sauditi vanno sostenuti su questo punto perché hanno compreso che non ci può essere capitalismo se non dal volto umano, a chi addirittura vede nella proposta saudita un embrione di sabotaggio della logica capitalista e in quanto tale va cavalcata.

Vi è però tutta un’altra fazione, parimenti composita, che sostiene la fermezza cinese e anzi è molto indignata, prima di tutto per il contegno degli ex concittadini dell’altra fazione, più che con i sauditi. Si osserva come i sauditi non facciano che assecondare i vecchi vizi italici, proprio ora che finalmente abbiamo l’occasione di toglierceli grazie all’esempio cinese; che i tempi della preghiera sarebbero scuse per abbandonarsi alla propria congenita fannulloneria, visto che sono fortemente sostenute – tra l’altro – proprio da coloro che tradizionalmente considerano la religione l’oppio dei popoli; che si può pregare anche lavorando e lavorando ci si può persino riposare; che al limite si potrebbero anche concedere alcune pause – però non cinque ché sono troppe! –, ma solo per chi professa una religione, e chi venisse sorpreso a fare altro, ovvero a non pregare, sarebbe passibile di licenziamento.

Va chiarito comunque che i sauditi hanno tirato fuori le loro proposte dopo che il nuovo board of trustees ha deliberato all’unanimità l’aumento generalizzato dell’orario di lavoro settimanale, la diminuzione altrettanto generalizzata dei salari, nonché una riforma delle pensioni che, dicono, supera l’ipergarantismo di vecchie leggi come la Fornero. Il tetto di età non ha infatti più a che fare con la soglia oltre la quale si può andare in pensione, bensì con la soglia oltre la quale non è più possibile percepire la pensione. Se l’età si allunga, si dice, non basta andare in pensione più tardi: è necessario stabilire una soglia oltre la quale non si può continuare a percepire una pensione senza fare nulla! Sei ancora vivo? Beh, la tua pensione ti è stata erogata per anni. Non si potrà dire che l’azienda non ha fatto il suo!

Un altro oggetto di controversia è il cosiddetto decreto morigeratezza che ancora una volta i sauditi vorrebbero introdurre, mentre i cinesi sono contrari. Esso prevede ad esempio una limitazione molto drastica della vendita di alcuni prodotti alcolici, e in qualche caso il divieto. Prevede inoltre che in determinati luoghi e in determinati orari siano vietati abiti troppo discinti – pantaloncini corti, minigonne, abiti che lascino troppo scoperte le spalle e in generale troppo attillati e quindi tali da lanciare stimoli troppo apertamente sessuali. Infine richiede una stretta ai social e ai programmi radio-televisivi – comprese le pubblicità – sempre sul piano delle immagini e dei messaggi che possano stimolare sessualmente, ma anche indurre ad altri comportamenti eccessivi. Anche in questa occasione obiezioni dei cinesi sono di carattere puramente economico: tutto ciò deprimerebbe un’economia già disastrata, facendo cadere a picco i consumi.

Tra gli ex cittadini italiani si sono formate nuovamente due fazioni informali, solo in parte sovrapponibili a quelle di cui sopra. In questo caso le argomentazioni morali – o come dice provocatoriamente l’altra fazione, immorali – sono apparse di gran lunga preponderanti rispetto a quelle di carattere economico. Per alcuni i sauditi proporrebbero un vero e proprio ritorno al Medioevo (sic), mettendo a rischio i diritti acquisiti, maturati in anni di battaglie. Contro il possibile decreto non sono mancati gesti dimostrativi – forse gli unici che vadano in questo senso di fronte a una generale accettazione della direzione impressa dai nuovi padroni – con individui che si sono denudati pubblicamente in segno di protesta brandendo cartelli che inneggiano alla libertà ma si guardano sempre e comunque bene da attacchi diretti contro la cordata saudita.

L’altra fazione saluta invece con una certa soddisfazione le prospettive che aprirebbe un eventuale decreto morigeratezza, giacché finalmente si porrebbe un freno alla decadenza dei costumi, alle oscenità alle quali si è esposti a tutte le ore, senza risparmiare peraltro i minori, che al contrario rappresentano le prime vittime.

Un sotto-dibattito si è aperto nell’alveo di quella che una volta sarebbe stata definita la sinistra. Un uomo anzianissimo, non più autonomo sul piano fisico, eppure dal cervello ancora lucido, ha brandito un antico libro di un certo Marcuse, nel quale, dice, si sostiene che la repressione sessuale è una conseguenza dei canoni pretesi dalla società borghese, che bisogna dare vita a un “nuovo ordine libidico”.

Peccato che nessuno, o quasi, comprenda ormai il suo modo di parlare, per cui certe parole che adopera vengono scambiate per deformazioni prodotte dalla demenza senile. Del resto vi è chi smentisce categoricamente discorsi del genere, sostenendo al contrario che il decreto morigeratezza conferma piuttosto l’ispirazione, forse inconsapevolmente anticapitalista, di certi tratti delle politiche aziendali saudite, dal momento che andrebbe a colpire al cuore la questione dei bisogni indotti. Anche alcune frange più legate all’ambientalismo tendono a convergere su queste posizioni, benché la nozione di “bisogni indotti” non sia così chiara a tutti.

E i campi dell’istruzione e della ricerca? Non c’è forse settore più in cui regni più scompiglio! Molte materie verranno completamente abolite. Azzerate quasi totalmente le materie umanistiche, la storia dell’arte è però quella più odiata da questo consiglio di amministrazione. Per i sauditi l’arte, tanto più quella che si studia tradizionalmente in Italia, è inconcepibile per vari motivi, ma soprattutto perché è piena di opere fondate sulla riproduzione della realtà e tutto ciò è per loro harām! I cinesi, dal canto loro, ritengono che l’arte sia una questione fondamentalmente solidale all’economia, molto prossima alle fluttuazioni dei titoli borsistici e, in quanto tale, tutt’al più si può studiare management dell’arte. Infine questa volta gli ex cittadini non si sono divisi in fazioni, ma sono sostanzialmente d’accordo sul fatto che la storia dell’arte non si studi a scuola perché l’arte è una cosa immediata, che ognuno è in grado di capire, come dimostrano i successi delle domeniche gratis ai musei. I cinesi approvano, aggiungendo che è venuto realmente il momento di rivedere i programmi in maniera tale da far sì che la scuola fornisca competenze utili a quello che richiede l’azienda. Peccato che in uno stato-azienda una tale affermazione rasenti la tautologia.

Quanto a me, in quanto professore sospeso sine die, sono in fila all’ufficio di ricollocamento, che naturalmente non è una tiepida variazione del vecchio collocamento, bensì un istituto in cui incontri dei navigator i quali, prima ancora di ricollocarti, devono rieducarti. Possiederanno dunque anche competenze di carattere psicologico questi navigator? Come fanno a possederle se sono stati reclutati così, in fretta e furia? È il mio turno; tra un attimo… Forse, lo scopro…

* Il racconto è tratto da “MORFEOLOGIE Racconti”, Iod Edizioni 2019

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