«Tre raccolte» di Adelelmo Ruggieri

        Letture in quarantena (6)

di Donato Salzarulo

L’ultimo libro di poesie di Adelelmo Ruggieri si intitola «Tre raccolte» (peQuod, 2020, pag. 139, Є 15). La prima, «La casa sulla discesa», comprende testi scritti dal 2012 al 2016; la seconda, «In otto righe», comprende testi che vanno dal 2016 al 2018 e l’ultima, «Silloge fantasma», raccoglie quelli che vanno dal 2018 al 2020.

Già la titolazione dice qualcosa sul modo di rapportarsi al reale dell’autore; perciò nella mia lettura procederò scorrendo i titoli ed evidenziando la struttura del libro. A mano a mano che m’inoltro nelle pagine, mi sposterò avanti e indietro, cogliendo collegamenti, nuclei di pensiero e/o costellazioni concettuali, modalità di formalizzazione dei contenuti, formulando eventuali miei commenti e giudizi, ecc.

A) Tre raccolte. Ruggieri dice ciò che fa. È un gesto che un po’ caratterizza la sua scrittura: «Me ne sto qui, scrivo / Scrivendo ricompongo / Due persone assorte / A un perimetro di stanza» (pag. 45). Dove, oltre all’atto costruttivo di ricomposizione e riconciliazione attribuito alla scrittura, vien da notare come, più che in pensieri e contemplazioni, le due persone appaiono immerse nel luogo, in un perimetro di stanza. Annotazione da intendere quasi certamente in senso generale. Sempre le persone sono assorte in un luogo, in un hic et nunc.

«Il labirinto non c’è
Quello che c’è sono le stanze
Dove si svolge la nostra vita
La tavola che sparecchiamo
I letti che rifacciamo
E anche il risvolto
Come vidi lo facevi tu» (pag. 44)

Bando, quindi, agli amanti del labirinto; la nostra vita quotidiana si svolge in alcune stanze e le azioni che facciamo sono abbastanza abituali. Certo, si apprende anche per imitazione e l’io poetante impara a fare il risvolto al letto. Il labirinto non c’è, ma non è detto che, trovandosi nel chiuso di una stanza, due persone sappiano le parole che potranno dirsi. Possono diventare parole-pareti o parole-finestre: «e di che pareti / E finestre vai a capire com’è fatta una stanza» (pag. 82). D’altra parte, come la voce poetante confessa ad AT, essa può trasformarsi in una nicchia:

«Hai ragione
Non si entra nella stanza
Non sono stato accorto
Era già piccolo di suo
È diventata una nicchia
Ma i giorni di sole
Sto bene in quello stretto
Navigo, torno ciò che non ero» (pag. 86)

La stanza non è soltanto l’ambiente con pareti e finestre di una casa. È anche la strofa di una canzone, un componimento in sé, gli otto versi appena letti e che abbiamo sotto gli occhi; insieme formano un’ottava, la stanza per eccellenza della poesia narrativa. L’io poetante si sente bene nella nicchia di questa stanza poetica. Naviga, torna ciò che non era. Cos’era? Un pensiero?… Un nulla?…

***

D’accordo il fare. Però il fare presuppone spesso un “dover fare”. Ruggieri non scrive per il solo piacere di scrivere, per ricomporre sulla carta o sullo schermo del computer due persone. Scrive perché deve farlo. Ne avverte l’urgenza. Tra il fare e il dover fare si può instaurare, allora, una singolare tensione:

«Si fa presto a dire, devi fare
Così, così devi fare, è questo
Che devi fare, poi un giorno arriva
Un orizzonte di senso e non hai fatto
Come andava fatto, e gli altri
Non hanno fatto come dicevano
Di voler fare, è tutto un dover fare
Che non si fa senso che si fa» (pag. 94)

Al centro di questi otto versi, costruiti un po’ come uno scioglilingua, sta quel sintagma, «orizzonte di senso», tratto direttamente dalla fenomenologia («Camminava / era notte / era freddo / non era spavento / No, era tutto / fenomeno / esistenza», pag. 29); un orizzonte che arriva, imprevisto e inaspettato, come una manna dal cielo, senza che si sia fatto come si doveva fare. Il che significa che articoli di leggi e doveri morali non assicurano orizzonti di senso. «È tutto un dover fare / che non si fa senso che si fa». Insomma, come si fa questo senso? Come possiamo assicurarci un orizzonte di senso?… Lasciamo le domande in sospeso. Il fatto importante è che Ruggieri un orizzonte di senso lo cerchi. E lo cerca con tale consapevolezza, scrupolo e metodicità da sentirsi in dovere d’imbastire un vero e proprio dialogo con la propria coscienza. Lo si può leggere a pag. 38 nel testo intitolato «Coscienza del metodo»:

«Sì, va bene, ti do ascolto
Tornerò a farmi metodico, schivo
Riservato, se è questo che tu vuoi da me
Mia coscienza, ci tornerò
Se è questo che devo fare, lo farò
Sette ore piegato sul tavolo
Una passata ad alzare la testa dal tavolo
Tre per le cose di ogni giorno
Una per infuriarmi, ogni giorno di più
Con le news sempre più truci del giorno
Una per camminare, e mentre cammini
Non pensi, una per prendere sonno
Sette per dormire, bastano anche sei
Una per cercarti, Dove sei?
Dove?
Due, o tre
Ma quante ne sono di ore, mia coscienza?» (pag. 38)

Non inganni il tono scherzoso e paradossale della domanda finale. In questa composizione si può leggere una forma indiretta di autoritratto del poeta che si vuole “metodico, schivo e riservato”, un autoritratto disegnato con le azioni quotidianamente svolte. Ruggieri è un ingegnere edile, attualmente in pensione (come apprendiamo dal testo «Pensionato d’agosto» a pag. 99); lavora otto ore al giorno, s’infuria contro le notizie “sempre più truci del giorno”, fa una camminata, dorme e passa due o tre ore a dialogare con la coscienza, che non sa dov’è. E se fosse qui, in questi versi? Nel modo di comporre e ricomporre questi testi?

B) La casa sulla discesa. Il titolo ne indica la posizione. Una casa “sulla discesa” è, comunque, anche in salita. Dipende dal verso in cui la si raggiunge. «Oggi che scendevo / dopo tanto tempo / con quello scendere mio / che un tempo mi apparve / la stessa cosa del salire» (pag.20). Un tempo. Oggi l’accento batte sulla discesa. Il sintagma si carica forse di valenze simboliche relativamente all’identità. (Cfr. sopra l’immersione delle persone nelle stanze e nei luoghi)  

Questa prima raccolta è, a sua volta, divisa in quattro sezioni:

B1) «Rive». Termine ad ampio spettro semantico. Esso non indica soltanto quella fascia di terra che delimita una distesa d’acqua. Giungere a riva può anche significare approdo, termine, fine temporanea di un viaggio. Di sicuro è lessico stracolmo di memoria poetica. Il primo che mi viene in mente è il Leopardi de «La ginestra» in alcuni versi famosi: «Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive». Ma anche più avanti: «Sovente in queste rive / che desolate, a bruno / veste il flutto indorato».

Le Rive di Ruggieri accolgono cinque composizioni. La prima è nelle intenzioni dell’autore programmatica. È, infatti, stampata in corsivo ed è lunga otto righe. Nella pagina finale di «Note e ringraziamenti», il poeta scrive: «Il testo corsivo di pag. 11 trova la sua esistenza e ragione nella rilettura contigua di Trasumanar e organizzar di Pier Paolo Pasolini e di Al dio sconosciuto di John Steinbeck, come tradotto da Eugenio Montale». (pag. 139). Per la sua importanza ritengo, a questo punto, necessario leggerlo e rileggerlo:

Il vento portava dalle colline un sentore di boscaglia,
l’intero spazio era foltissimo di movimenti come un tremolare
sottile di tutte le foglie, di tutte le erbe; ma ora la pioggia spazzava
la marina, era nell’intimo di una condizione essenziale; coricato
sul fianco sentiva cadere la pioggia, ma le colline non distanti
e le sagome scure degli alberi erano affabili; alla stessa maniera,
e in ragione di quella intimità essenziale, gli giungeva familiare
il martellamento della mareggiata.»

Il tempo verbale di questi otto versi lunghi è l’imperfetto indicativo: “portava”, “era”, “spazzava”, “era”, “sentiva”, “erano”, “giungeva”. Le caratteristiche di questo tempo sono note: indica azioni o eventi risalenti al passato, ma ripetuti, abituali, continuativi, senza una precisa indicazione di inizio, fine e durata. Si ha l’impressione di avere di fronte un quadro. L’imperfetto, infatti, è anche un tempo funzionale alla descrizione di uno stato di cose, di un sentimento, di una condizione, ecc.

In questo quadro di Ruggieri non ci sono soltanto gli elementi fisici di un paesaggio, quello di Fermo in cui il poeta vive: le colline con la boscaglia, la marina di Porto San Giorgio, ecc. Ci sono anche il vento e la pioggia. Il primo, oltre che rendere tutto lo spazio “foltissimo di movimenti”, porta dalle colline una fragranza, un profumo, ma anche, e più in generale, una vaga percezione del bosco; la seconda “spazzava la marina”. Cioè sia il mare che la fascia di terra prospiciente. «Era nell’intimo di una condizione essenziale». Pioggia e marina vivono una relazione che è fatta di intimità ed essenzialità.

Il personaggio “coricato sul fianco” ascolta la pioggia cadente, ma non se ne preoccupa, perché le colline vicine e le “sagome scure degli alberi” gli appaiono gentili, cordiali, familiari, “affabili”. Allo stesso modo e, proprio a causa di quell’”intimità essenziale”, gli appare familiare il moto violento della burrasca che abbatte le onde marine sulla riva.

La relazione tra il personaggio coricato e il paesaggio è quindi caratterizzata da intimità, affabilità, familiarità. Egli è dentro quel quadro, ne fa parte e si trova in uno stato di intimità essenziale con le colline, col bosco, con la marina. Questo anche nei momenti di vento, pioggia e burrasca, quando sentimenti di timore e preoccupazioni sarebbero abbastanza giustificati.

“Burrasca” è parola-chiave di questa sezione. La ritroviamo nella seconda poesia e nella quarta: «Quest’inverno le burrasche» (pag. 12) e «Queste palme rovesciate da un vento di burrasca» (pag. 14). Ovviamente la tempesta fa i suoi sconquassi: sfascia solette, rovescia palme, ecc., ma dopo «le tamerici, da costrette / Come stavano nel conglomerato / Respirano libere» (pag. 12) oppure «viene un tepore buono fuori stagione» (pag. 14). Situazione che ricorda il Leopardi de «La quiete dopo la tempesta.»

Ruggieri, però, vorrebbe che si leggesse il testo in corsivo di pag. 11, tenendo presente la sua rilettura di Pasolini e di Steinbeck, tradotto da Montale. Grande lavoro. Al momento, a me basta notare come le parole di questa composizione si ritrovano disseminate in vari punti del libro. Ad esempio, la burrasca del fuori corrisponde forse un po’ alla “bufera nel profondo” dei quel “remotissimo noi” di pag. 45. Si tratta del noto correlativo oggettivo. Su questa  relazione esterno-interno o, se si preferisce, paesaggio (luogo) – vita interiore, è assai significativa la «Ricetta» di pag. 74:

«Prendi a caso
Due ore di un mattino di maggio
Non troppo caldo, purché sia chiaro
Infila un viale a due passi dal mare
Prendi te stesso come sei stato
Prendi quello di adesso così differente
Aggiungi rametti di tamerice, una riva, le onde
Mescola tutto senza girare, senza fiatare
Versa piano nel cuore» (pag. 74)

L’interiorizzazione del paesaggio è effettuata lentamente e “a caso”, ma gli elementi rimangono costanti: l’esterno (mare, rametti di tamerice, riva, onde) si fonde con l’interno (il te stesso di come sei stato con quello di adesso cosi differente).

«La pioggia di ieri / Ha dato trasparenza a ogni cosa» si legge a pag. 75 e, insieme al potere di trasparenza e pulizia della pioggia (“spazzava la marina”), c’è quello di acquietamento del buio:

«Delle volte mi piglia
Una rabbia di me
Scoramento di ore
Che non sanno passare
A questa tapparella
Che aprirla non serve
Tengo scuro, faccio finta
Sia buio, mi quieto» (pag. 81)

Come si legge, l’Io di queste poesie non si infuria soltanto per le notizie torve, minacciose del giorno. S’arrabbia anche contro se stesso, è soggetto a stati d’animo di avvilimento, di scoraggiamento e non c’è luce che possa venirgli dall’apertura di una tapparella. Preferisce l’oscuro, l’acquieta il buio. Per fortuna, non è sempre così. Capita delle volte. Così come può capitare un «Undici marzo», in cui un gran vento, così come fa la pioggia, pulisce tutto:

«Oggi c’è questo gran vento che ha pulito
Tutto, e chi se lo aspettava che pulisse
Tutto quanto, questo grande vento di oggi
Ma se guardo negli anni miei trascorsi
E son passati, so solo dirmi, Sono andati
Sul tempo che rimane faccio affidamento
E questo gran celeste di oggi mi è d’alimento» (pag. 109)

Ancora l’interno e l’esterno, il rapporto tra paesaggio esteriore e vita interiore, il vento che pulisce tutto e che dona agli occhi poetanti il “gran celeste” e l’Io coi suoi occhi poetanti che, guardando gli anni trascorsi (o pensando?…), sa solo dirsi “sono andati”, son passati. Così forse il passato (con le sue contraddizioni, con i suoi bisogni/desideri realizzati e non realizzati, con i suoi bilanci attivi e passivi…) si è pulito? E quanto e quale alimento può darci il “gran celeste” di oggi, se non lo indirizziamo verso il futuro delle possibilità e probabilità?…

***

Il paesaggio delle Rive può essere modificato non soltanto dalle burrasche, ma anche da malattie. Succede al palmeto dell’ultima poesia della sezione (pag. 15) distrutto totalmente dal punteruolo rosso. Qualche chilometro dopo, però, «È tutto differente, nessun danno meccanico / Ai capitelli, nessun venir meno delle foglie / Le protezioni adottate furono efficaci». I capitelli sono naturalmente quelli delle palme. Si formano grazie alle annuali potature. La poesia si conclude con un quadretto festivo: «A un barbecue per il festivo tra le palme / Due giovani donne parlano miti, una bambina / Salta, il padre la fotografa, una musica slava suona» (pag. 15)

B2) «Da una toponomastica esistenziale» In questa sezione ci sono diciassette poesie, distribuite, per lo più, due per pagina. Il titolo è chiaro: si tratta di un insieme di luoghi coi loro nomi. Ma non c’è da aspettarsi uno studio scientifico dell’origine linguistica di questi nomi. Il poeta è interessato all’esistenza che si consuma in quei luoghi. Perciò la toponomastica è “esistenziale”. Le esistenze di cui si verseggia sono: quella dell’io poetante e della “madre cara” (pag. 19), della “luna del tre aprile” (pag.20), delle “colline / avvolte dalla nebbia”(pag.20), di una persona siglata come MG che vuole aiutare l’io poetante a prendere un pacchetto di sigarette al distributore automatico, (pag.21) dell’orsetto di Via Gennari (pag.21), della luna, dell’albero slanciato, delle luci alla finestra, dei motorini spericolati (pag. 22), dell’ombra di un Tu che ti avanza e della mia ombra che m’insegue (pag. 22), del figlio Simone sulla strada da imboccare, di un nome dimenticato (pag. 23), di un tale che ne ha passate così tante che «adesso / si chiede solo che tragitto fare / se quello accorciato di ieri l’altro / delle Mura, o la norma dei feriali /la circonvallazione» (pag.24), di un ricordo di nonno Gaetano (pag. 24), del viale dove stavamo da ragazzi (pag. 25), che si chiamava come lei (lei chi?…Il titolo della poesia ha un nome in sigla AL) (pag. 25), di ciò che c’era in via Trieste mezzo secolo fa (pag.26), delle passioni forti che ci vorrebbero (pag. 26), del Gran Sasso e dell’opuscolo millenarista (pag. 27)…Staccata dalle altre con lo spazio bianco di una pagina e, isolata per meglio sottolinearla, c’è «Un ricordo e due sogni».

Di questa sezione propongo in lettura le due seguenti poesie:

La Bretella
Ti stupisce tutto ormai
Madre cara, l’orto dopo l’argine
Sul fianco ripido della collina
I pali tutori a sostenere gli oleandri
Lavorati ad alberello, i camminatori
Come noi alla Bretella, ma il sole
Sta calando, è inverno, e a fare
La salita ci assale lo sconforto
Era tutto verde, era tutto campo
E quando rientreremo
Snervati dalla nostalgia, sul chi vive
Intanto che appoggerai il cappotto
Di velluto nero a coste fini
Mi chiederai se voglio
L’acqua calda con lo zucchero
Passa tutto, dirai abbagliandomi (pag. 19).
 
Orsetto di Via Gennari
È durata poco la tua apparizione
orsetto di gomma, allo spicchio di quartiere
dove sei decenni fa era il giardino
delle rose centenarie del villino padronale
Te ne stavi lì, caduto o gettato
non è dato sapere, non poco allampanato
dalle intemperie passate sotto il prato incolto
gli occhi malinconici al volto rovinato
trasfigurato, e oggi che ripasso
per vederti di nuovo, per capire di più
hanno ramazzato il prato, non ci sei più (pag. 21)
 

Madre e figlio snervati dalla nostalgia, l’acqua calda con lo zucchero che dovrebbe far passare tutto (chiaramente un abbaglio), l’orsetto con gli occhi malinconici – una sorta di oggetto transizionale –, dal volto rovinato e trasfigurato, che l’Io poetante vorrebbe ancora vedere per capire di più, indicano chiaramente nell’infanzia, la zona degli investimenti affettivi e simbolici. La mia è quasi una banalità. Chi di noi potrebbe mai negare l’importanza dell’infanzia?… In Ruggieri, però, il rapporto con la madre mi sembra particolarmente significativo e intenso. Lei è, per certi versi, una protagonista di questo libro. La ritroviamo come “anziana madre” nella poesia «Mignon» di pag. 105, poi in «Passanti» (pag. 111), in «Il disimpegno» (pag. 115), nel «Conciliabolo» (pag. 127) e, infine, nel testo «La pila».

Leggiamo «Il disimpegno»:

«Come non fossi qui da mesi e mesi
Fino a pensare di non avere mai vissuto
Altro dove da qui, e sarebbe facile
Prendermela con me stesso, o precipitare
Ancora di più, in me stesso
Incontrarti, ogni sera, madre cara
A questo angusto disimpegno, minuta
Ogni sera di più, ma contenta di questo mio
Essere qui mette un punto al mio dire
Perché troppo andrebbe aggiunto
In specie le foto ogni dove di chi non c’è più
Da decenni, vanno tolte, lo farò
O io che salgo le scale, ragazzetto felice
Come fosse questo disimpegno
Il solo varco ammissibile per me, per noi.» (pag. 115) 

B3) «La casa sulla discesa». In questa sezione sono raccolte complessivamente dieci composizione, distribuite una per pagina. Salvo l’ultima, intitolata «Quel remotissimo noi», lunga tre pagine.

La prima poesia si intitola «Due canzoni». È un bel quadretto che ha per protagonisti l’io poetante e il figlio fischiettanti. Usano lo stesso mezzo espressivo per fischiare due canzoni differenti. Ed è “un bel sentire”.

«Ogni tanto io di qua
mio figlio di là
ci mettiamo a fischiare
ognuno la sua canzone
e quelle volte in casa
che prendiamo a fischiare
è un bel sentire
due canzoni differenti
allo stesso modo fischiettare» (pag. 33)

B4) «Digitale». Sono raccolte cinque poesie senza titolo, indicate soltanto dal numero progressivo.

I

«Fu non so quando che persi
tutte le istantanee di quel tempo felice
Qualcuno mi disse
che poteva succedere a una digitale
Arriva una tal cosa, non si sa bene cosa
e si smagnetizza tutto» (pag. 49).

Allusione alla morte?… Nella seconda poesia della sezione, viene descritto il CRAC di un computer col suo “disco rigido annichilatosi” (Nota, l’uso del verbo annichilare). Il tale, al quale l’evento accade «Nel suo sconcerto fa domande al conoscitore in gamba / Pone questioni urgenti sulla contemporaneità, sul ricordo / Dice, Il mondo ci annienta / L’altro sta zitto, poi apre le braccia / Era meglio ieri? Poi rimuove il meccanismo annichilato / Unico sollievo quanto venne salvato / Nella pennetta» (pag. 50)

C) «In otto righe». Esprime una preferenza sulle proprie composizioni poetiche. In otto righe, quindi in ottave, si può dire l’essenziale. «La più che amo fra le strofe / È l’ottava, tutto deve stare / In pochi versi, fra il sesto / E l’ottavo esercitarsi a chiudere / Ma qui dove sono ora / Cento ne occorrono di righe / per dire di questa rada luminosa / Del verde scuro delle fronde» (pag. 88). Attenzione!… Nel titolo scrive “righe” non versi. Nel testo usa indifferentemente i due termini. Ciò non toglie che la parola “versi” appare probabilmente a Ruggieri come troppo pretenziosa. Da un lato, perciò, essenzialità, brevità; dall’altro umiltà, tono dimesso. Ma anche coscienza dell’inadeguatezza dell’ottava (sineddoche di poesia?) ad enunciare la ricchezza e complessità del reale (la “rada luminosa”, il “verde scuro delle fronde”).

«Sono belle le ottave
Toccherebbe farne tante
Mille, duemila
Un’ottava al giorno
E via i mistificatori di torno
Ma quelle giuste
Che sbrogliano il filo
Stanno insabbiate e rare, e non c’è ago» (pag. 95).
 

Come si vede Ruggieri attribuisce all’ottava una funzione salutare di disvelamento, capace di allontanare gli imbroglioni e ingannatori. Ancora una volta, però, viene ribadito un loro limite: quelle giuste, capace di sbrogliare il filo imbrogliato della vita sono rare e nascoste sotto la sabbia. Non so se la mancanza di “ago” sia un limite. L’importante è che ci sia un Ego che le cerchi, le scopra e le costruisca. Forse non guasterebbe nella loro costruzione una metrica meno verso-liberista.

Per ***
«Un tempo ritenevo che otto righe
Bastassero per la cosa da dire
Era alta la mia fede in otto righe
Poi il tuo volto ebbe la meglio su di me
E la luce dei tuoi occhi, le tue rime
Infransero il disegno delle strofe
E ora sono qui, alla settima riga
E non so nulla dell’ottava in fuga» (pag. 97)

Questa seconda raccolta si divide in due sezioni.

C1) «Due anni e qualche mese». Si compone di 21 poesie distribuite in 15 pagine. Sei ne hanno due per pagina. I temi sono tanti. Mi soffermo su qualcuno per fornire degli assaggi.

Mentre, nella benedetta luce di giugno, i manovali ammucchiano il ferro, un Tu alla finestra, che evidentemente guarda, pensa «La vita che si mostra / La sua finitezza / La sua ricolma tenerezza» (pag. 61).

Le foglie d’edera che, cingendo un muro e cimentandolo, limitano il danno: «Avvolto dalle foglie il muro / Si è spostato di quel niente che bastava / Per cadere in piedi» (pag. 61)

La visione di una folaga sul lago di Luino; se ne stava lì, “per purissimo caso”. È una poesia non facilmente parafrasabile, una delle più difficili, direi. È dedicata a MDC, si intitola «Un emblema e due targhe» (pag. 62) e sembra originata da una commemorazione per Vittorio Sereni.

La quarta poesia è intitolata «Riva nel tempo»:

«Questa è una riva
A meridione la scontorna una collina
Protesa nel mare, a formare da qui
Un arco aggraziato di spiaggia di sassi
 
Ci venivano a piedi per Sant’Anna, madre di Maria
Quelli con l’ombrellone da casa, i fuori forma a vita
Radunati alle coste di San Lorenzo
Gialle di stoppie, e ancora sono qui, brusio di ombre
 
A lamentarsi di così tanta loro esagerata fiducia
Nelle cose e negli uomini – Appena giunti
Anziché tuffarci tra le onde, scartavamo i cartocci
Cominciavamo a mangiare» (pag. 63)

Nella prima strofa la mia attenzione è attratta dal verbo “scontorna”. Si tratta di un termine tecnico, tratto dal linguaggio tipografico o fotografico. Significa eliminare da un’immagine tutto ciò che non interessa per riprodurre soltanto il particolare al quale si è interessati. In questi quattro versi questo lavoro da photo shop lo fa a sud una collina che si sporge sul mare. Da questo punto in poi si forma una riva, un arco armonioso di spiaggia sassosa.

Ho voluto soffermarmi su questi quattro versi per sottolineare quanto lo sguardo, il vedere sia importante nelle poesie di Ruggieri. Ovviamente non è soltanto un percepire con gli occhi. È un immaginare e un sapere. Perché, infatti, il poeta tira in ballo questa riva? Per lasciarsi andare alla “nervosa nostalgia” (cfr. sopra la poesia con la madre cara) e passare dal presente all’imperfetto. Così ricorda che sulla spiaggia sassosa il giorno di Sant’Anna, “madre di Maria” (un’altra madre) “i fuori forma a vita” vi arrivavano a piedi con l’ombrellone portato da casa. La voce poetante verseggia in terza persona e il suo ricordo è così vivo che nella mente gli appaiono ancora quei “fuori forma a vita” diventati ormai un “brusio di ombre”, intenti «A lamentarsi di così tanta esagerata fiducia / Nelle cose e negli uomini.» Morale: non occorre attribuire alle cose e agli uomini una fiducia esagerata. È indispensabile una vena di scetticismo…Ma non è questo il punto. È che improvvisamente c’è uno stacco e la voce poetante dalla terza persona passa negli ultimi versi alla prima plurale. Così scopriamo che fra quei “fuori forma a vita” c’è anche lei perché, appena arrivati sulla spiaggia «Anziché tuffarci tra le onde, scartavamo i cartocci /Cominciavamo a mangiare». Si tratta, dunque, di un vero e proprio sdoppiamento. Non il primo, in verità. Spesso in queste poesie emerge il tema della scissione e dello sdoppiamento psichico:

«Le parole che diciamo
Stanno insieme a noi che siamo
Ma delle volte torna il timore di esistere
Come un acufene insiste, ti scuoti
Guardi l’ora, la opponi a quel fischio
Che stride
È notte, fa freddo
Devi prenderne atto
È solo un passaggio momentaneo
Devi staccarti da te. (pag. 64). 

In questa sezione c’è una poesia che mi sembra dreni abbastanza il nostro “spirito del tempo”. Si intitola «Stazione»:

«Questo darsi provvisorio delle cose
questo prendere o lasciare, di domani
nessuna certezza, ma non al modo di ieri
solo oggi, nessun riposo domenicale
niente prefestivo
 
All’inizio, sottilmente
venne detta de-regolazione, una parola nuova
ci vuole per un concetto nuovo
il pensiero, l’essenza, l’oggetto che resta fermo
ma qui niente saldezza, nessuna armonia
figurarsi
 
Nel buio alle banchine
solo i sacconi celesti, gli annunci sonori
a garantire chiarezza, immediatezza
le biciclette, le macchinette
self serviti pure da solo, sei nessuno
zero, non scocciare. (pag. 65) 

Il nostro tempo non esalta il “carpe diem” del “Trionfo di Bacco ed Arianna” di Lorenzo de’ Medici (o forse non esalta soltanto questo). Elimina il riposo domenicale e il prefestivo – pause che potrebbero renderci lieti – , predica e impone “de-regolazione” (o deregolamentazione) per abolire qualsiasi “saldezza” o “armonia” ed eliminare in fondo «il pensiero, l’essenza, l’oggetto che resta fermo». Ruggieri salda poesia e filosofia, filosofia e sociologia della vita quotidiana. Il risultato finale è che tutto questo self-servirsi da soli ci azzera. Il mondo ci annienta.

Il solo tema è la giustizia sociale
Per fortuna questa luce di oggi
Questo chiaro che invade lo spazio
Puro spazio, regione senza tempo
Cinque figli e tre nipoti, grida in tv
Il marittimo senza lavoro
Il solo tema è la giustizia sociale
Ha ragione, le sue parole somigliano
A questa luce di aprile che non è di nessuno (pag. 73).
 

C2) «Sono belle le ottave». In questa sezione troviamo numerate 38 ottave e una pagina conclusiva in prosa intitolata «Pensionato d’agosto». Ecco il capoverso finale:

«Certe mattine, figurarsi, mi sento come Ligabue, la strada non conta, dove decide ti porta lei, ma in breve rientro, risalgo, riscendo, sudo, distillo una strofa, mi abbevero ai versi; mi rimane, a quel che sembra, direbbe l’empirista, lo spassionato esercizio della ragione, mi rimane, aggiungo io, l’inazione, mi rimane l’arresto e lo stallo, l’inezia e l’inerzia, il blocco, l’impasse; non cambio, non fluttuo, non oscillo, sto fermo, sudo, m’asciugo, sono un pensionato, ci sono arrivato.» (pag. 99).

La prima ottava, quasi una poetica, invece, recita:

«Abbiamo solo le parole
Nessun destino e le parole
Le raccoglie un angelo
Che non esiste che nel verbo
«Esistere», le porta in alto
Le scende in basso, giù, giù
Per diventare onde a questa riva
Trasparente, orizzonte» (pag. 79)

D) Infine «Silloge fantasma», l’accoppiamento di due sostantivi, il primo sdrucciolo, il secondo piano; il primo di registro colto, elevato, il secondo abbastanza presente nel linguaggio comune, quotidiano. Certo, “fantasma” può avere anche funzione di attributo come “arto fantasma”, “città fantasma”, “vascello fantasma”, ecc.…Cos’è, allora, una “silloge fantasma”? Una raccolta allucinata, abbandonata, nascosta, apparsa alla mente dell’autore come una visione, una fantasia, un’immaginazione?…

Qualunque sia il significato del titolo, un fatto è certo: esso dice qualcosa sul gusto dell’autore per l’originalità, per la singolarità, per l’accoppiamento sorprendente e anche bizzarro tra l’alto e il basso del reale.

«Siediti a un gradino della via
Ascolta nel celeste di giugno
Il crepitio lieve della brezza
Guarda con gli occhi della lingua
Trova le parole a quel celeste
A quel tocco lieve, le cose non parlano
Sei tu a nominarle, nel tuo sguardo.» (pag. 119)

Il compito del poeta appare chiaro: lui sa che la vita è un viaggio e che ognuno/a di noi è sempre in cammino. Ogni tanto occorre fermarsi, concedersi una pausa, sedendosi sul gradino di una strada. Ascoltare il leggero brusio del venticello nel “celeste di giugno”. L’aggettivo sostantivato non dice soltanto il colore del cielo in un mese cerniera tra la primavera e l’estate. Dice anche la direzione del nostro sguardo, uno sguardo che per farsi poesia si realizza con “gli occhi della lingua”. Ottima metafora. Il poeta deve trovare le parole per quel “celeste” e per quel “tocco lieve” del vento perché “le cose non parlano”. È lui a “nominarle”, nel suo sguardo.

L’intento poetico di questo testo mi sembra decisamente anti-simbolista. La Natura, insomma, non è per Ruggieri il tempio baudelairiano ove delle «colonne viventi / lasciano talvolta uscire confuse parole». Certo, la brezza produce un rumore leggero che il poeta chiama “crepitio”. La pioggia cade e pure lei fa un certo rumore; la burrasca, la frana, il mare, le onde, il vulcano, il terremoto…Il compito del poeta rimane sempre quello: trovare le parole, nominare le cose, i fatti, gli eventi. Nominarle col suo sguardo. Tutto chiaro. Eppure è proprio a partire da questo momento che sorgono i problemi. Perché lo sguardo, checché se ne possa pensare, non ha un “grado zero”. Vi sono emozioni, attese, aspettative, desideri, sentimenti, pensieri che lo nutrono. Anche l’accesso agli “occhi della lingua” è tutt’altro che naturale e spontaneo. Poi ci sono delle condizioni di visibilità. E c’è il fuoricampo…

Non hanno nome questa riva di gennaio
Queste palme rovesciate da un vento di burrasca
Mi chiamo, ci sono
 
C’è una casa minuta, si sporge sul mare
C’è un tepore buono fuori stagione
Tolgo il berretto di lana, c’è un treno che sfreccia
 
Ci sono altre strofe, ma è tardi, devo andare
Le lascio qui dove sono» (pag.14)

Questa poesia, dedicata ad AB, afferma l’insufficienza del nominare. Sia perché, a differenza dell’Io poetante che si chiama e c’è (il vento di burrasca non l’ha portato via!), le cose possono anche non avere un nome – e, comunque, puoi chiamarle e non ti rispondono -, sia perché sono tante e a nominarle tutte quelle strofe-cose occorre moltissimo tempo. Siccome è tardi e deve andare, l’Io allora lascia le strofe-cose “qui dove sono”. Cioè dove non sono. Non sono, infatti, nella poesia. Sono nello sguardo che le lascia fuoricampo. Se il lettore vuole, provi ad immaginarle, a sentirne la presenza. Altrimenti, si limiti per il momento a godere “il tepore buono fuori stagione” di quest’Io non travolto dal vento di burrasca che ha rovesciato le palme. Lui è temporaneamente approdato su questa “riva di gennaio”, si è tolto il berretto di lana, ha dato un’occhiata a quella “casa minuta” che si sporge sul mare (un po’ come quella del suo Io), ha dato un’altra occhiata al “treno che sfreccia” su cui lui non c’è e chissà se vorrebbe esserci.

Le poesie raccolte in «Silloge fantasma» sono complessivamente 51, distribuite in cinque gruppi senza titoli, intervallati da una pagina bianca. Nel primo gruppo ve ne sono 12, nel secondo 11, nel terzo 12, nel quarto 13 e 3, infine, nel quinto. Eccone due in assaggio. La prima è una poesia tratta dal terzo gruppo e s’intitola «Poggio»

C’è un senso intimo e primo
E l’ultimo a venire
In questo verde
Al poggio di San Marco
In questi operai in sosta
Presso un argine curvo rovente di rovi
E in questo mio arrancare di ora
A questa salita di paese
Ama questa terra, mi ripeto
Quel verde di prima così ardente
Ama il presente» (pag. 124)

Il senso che Ruggieri cercava e dal quale sono partito in questi miei appunti di lettura il poeta lo trova in questo verde al poggio di San Marco (luogo-paesaggio più o meno naturale), in questi operai (il lavoro umano), in quest’avanzare a fatica sulla strada in salita che porta al paese. Non lo trova solo in questo. Ma qui si tratta di sineddoche, di parte per il tutto. L’imperativo finale è chiaro: «Ama questa terra, mi ripeto /Quel verde di prima così ardente /Ama il presente». Se per la terra non ho dubbi, l’amore per il presente mi suscita perplessità. L’obiezione è la stessa che la voce poetante rivolge a sé stessa a pag. 113: «tutto accade nel presente / Ma il presente appena detto / È già passato». Più che il presente forse si può amare il passato e/o il futuro. In fondo molte poesie di questo libro sono ricordi o rievocazioni di eventi, situazioni e gesti del passato. L’Io stesso, diverse volte, altro non fa che prendere il sé stesso di un tempo passato per confrontarlo con quello di adesso, così differente. «Il reale ci stringe, ci sferza / Stretto nella sferza inizi a scordare / La tua parte di tutto / La luce che vedesti una sera / Ai quattro gradini della piazza in festa / O risalire il colle, è già notte / L’altro da sé che dice di sé, somma di sé / E se.» (pag. 129). Il problema è formulato con estrema chiarezza in questi versi. Non possiamo dimenticare la nostra parte di tutto, la luce di verità che abbiamo visto una sera. Anche nel presente abbiamo il dovere di realizzare quella parte, quella luce.

La seconda poesia, sempre tratta dal terzo gruppo, si intitola «Per ***»

«Voglio una poesia facile per te
E la voglio facile anche per me
Ma non c’è questa poesia per te e per me
Ma ora guardati allo specchio, pensa
Al colore dei tuoi occhi nei miei
Sono i nostri occhi la mia poesia per te
Quel tuo esitare sull’uscio, dovrei dirti
Rimani, ma è dovuta passare
Molta parte di una vita per capire
Quel momento, quegli occhi nei miei
Per capire me.» (pag. 125)
 

La poesia è questo scambio, questa comunione degli occhi. Certo è un momento, una rivelazione. Ho l’impressione che il poeta oscilli: da un lato appare troppo all’interno di un’idea di poesia che si dà come “purissimo caso” (cfr. la folaga di pag. 62) o come «qualcosa di minuto, invisibile a molti» (cfr. «Ricordo, Da una roccia» di pag. 71); dall’altro non si lascia sfuggire le occasioni offerte dalla vita che si mostra, con la sua finitezza e la “sua ricolma tenerezza”. Ecco così il quadretto, quasi l’idillio: «C’era un girasole / Tra gli sterpi / C’era una rosa / A limitare una vigna / C’erano cose / Che non hanno surrogato / La voce / La presenza» (pag. 80). Indubbiamente. Ma allora?

Non so se Ruggieri sia un Ligabue della poesia. Un fuori forma alla continua ricerca della forma, un appassionato della saldezza, dell’armonia, della pulizia delle parole da battere con insistenza sulla tastiera che ai raggi di dicembre mostra uno strato di polvere accumulata dal tempo. So che la sua è un’attività necessitata, quella che le regala, se non un destino, una riva e un orizzonte di senso. Il tempo è per lui una dimensione esistenziale, una vicenda dell’anima che cerca con nervosa nostalgia di fronteggiare i mutamenti dei luoghi, dei paesaggi interiori ed esteriori, delle stanze, delle case in cui il sé si rifugia o da cui rifugge. È una dimensione individuale, ma anche collettiva, intrisa dallo spirito liquido e volatile della post-modernità liberista e de-regolatoria. Alla provvisorietà e precarietà del pensiero sociale Ruggieri oppone la luce di aprile che non è di nessuno, di cui, però tutti abbiamo bisogno per vivere, così come abbiamo bisogno di giustizia sociale (ed io aggiungerei eguaglianza e libertà).

La sua ottava non è quella di Boccaccio, dell’Ariosto o di alcune poesie pascoliane. È, per lo più, in versi liberi e quasi mai si congeda dal lettore con una bella rima baciata. Qualche volta serve a barricarsi al mondo, a segregarsi, a separarsi; altre volte a scoprire che non c’è bellezza che possa medicarlo o salvarlo ed altre volte ad inventarsene uno che non c’è. Intanto, il tempo decorre lentamente e non si placa l’ansia dell’ordine, del mettere a posto tutto:

«Mettere a posto tutte le cose
Tutte, tenere tutto in ordine
Tutto, togliere via le foto
Che non ti riguardano più
Gettale! Così ogni altra carta
Non un grammo di polvere
Ma intanto che rassetti, ascolta
In un giardino non distante cantano le tortore» (pag. 89)

Indubbiamente i versi sono otto. Ma la metrica ci dice che abbiamo a che fare con due decasillabi iniziali, con due novenari successivi (il quarto è tronco); il quinto è ancora un decasillabo, il sesto è un settenario sdrucciolo, il settimo è un novenario. L’ultimo è un lungo verso sdrucciolo che assorbe nel canto delle tortore le anafore e le allitterazioni della dentale T (mettere, tutte/tutte, tutto/tutto, gettale/rassetti, posTO, foTO, intanTO, ecc.) e, grazie alla cesura (In un giardino non distante// cantano le tortore), la metrica semi armonica degli altri versi. Quella di Ruggieri mi sembra, quindi, un’ottava abbastanza singolare e realizzata sempre con molta libertà.

Più che un modo per darsi realmente ordine e armonia, il sintomo di quest’esigenza.

«Questo spasmo battente
Che se fosse solo spasmo passa
E invece è fitta che insiste
Sforzo, sforzati che ti passa
Mira che ci prendi, ma non oggi
Oggi coltiva, tendi a, punta
Alla vita come è, il fine
Che incalza, la fine che assilla» (pag. 93)

La poesia per Ruggieri è questa fitta insistente, questo sforzo assillante, questa necessità di coltivarla, di tendere alla vita come è, mentre il fine incalza e la fine assilla. Una ricerca inquieta e appassionata di consistenza.

Farsi bastare la propria vita com’è stata
Cosciente d’aver fatto ciò che andava fatto
Senza risparmiarsi, senza una sola astuzia (pag. 84)

Non sarebbe male se fosse possibile. Se non fosse, che qualche pagina più avanti, un verso ci avverte che c’è «Quel che manca / Sempre» (pag. 95). La poesia onesta, quella di Saba, quella che Ruggieri forse ama, è costretta a fare i conti anche con queste incolmabili mancanze.

21 Marzo 2021

12 pensieri su “«Tre raccolte» di Adelelmo Ruggieri

  1. Caro Donato,
    questo mio messaggio è per ringraziarti del tuo commento al mio libro, così tanto accurato e cordiale.
    E già a scrivere questi due aggettivi in fila si apre “un orizzonte di senso”.
    Ti sono molto grato
    Adelelmo

  2. Caro Adelelmo, potrei limitarmi a dire: «prego, non c’è di che». Devo, invece, confessarti che questa mia esperienza di lettura continua a seminare inquietudini e problemi tra i miei neuroni. Come sai, mentre lo leggiamo, un libro ci legge. E il tuo ha letto abbastanza in me. Forse più che un commento “accurato e cordiale”, avrei dovuto raccontare questa retro-azione prodotta dalle mie “fantasie di avvicinamento” (Zanzotto); ma non mi andava di parlare di me, se mi ero posto l’obiettivo di presentare, con qualche commento e qualche indicazione di piste di lettura, degli assaggi delle tue poesie. Ti confesso soltanto che, mentre leggevo il tuo libro, ho letto contemporaneamente e in successione: «Il senso della vita. Una introduzione filosofica» di Terry Eagleton, «Il limite dello sguardo. Oltre i confini delle immagini» di Michele Guerra e «I chiusi inchiostri. Scritti su Franco Fortini» di Pier Vincenzo Mengaldo. A prendere in mano quest’ultimo libro sono stato spinto da questi tuoi due versi: «Abbiamo solo le parole / Nessun destino e le parole». Come nessun destino?… Allora mi sono ricordato della recensione molto acuta ed intelligente, scritta qualche settimana fa da Elena Grammann su Poliscritture; in particolare mi sono ricordato della voce AUTOBIOGRAFIA, tratta da un libro di Fortini. Te la riporto qui: «L’espressione romanzesca conferisce alle esistenze e alle serie di eventi un ordinamento retrospettivo, quindi una finalità; la catastrofe o il mutamento dei personaggi, quali che siano, appaiono come la realizzazione delle premesse, come il «dopo» di un «prima». Le nostre singole esistenze reali possono invece sembrare prive di finalità nel loro svolgimento temporale finché non interviene la coscienza a far storia del vissuto e a dotarlo di intenzionalità. In questo senso l’autobiografia, cioè il romanzo di se stessi, si propone di tramutare una cronaca in una storia e una esistenza in un destino. Ne segue che le sue forme sono strettamente subordinate alle nozioni che di destino e di storia hanno avuto determinate epoche e culture. Diremo allora che […] le autobiografie in senso stretto saranno le scritture nelle quali compare la volontà di decifrare attraverso gli eventi e la loro interpretazione un disegno cioè l’itinerario di una vocazione, predestinazione o adempimento».
    È la coscienza, quella coscienza con cui tu giustamente dialoghi, che interviene a “far storia del vissuto e a dotarlo di intenzionalità” (acquisizione fenomenologica e individuazione dell’orizzonte di senso). A che punto di crisi siamo, come individui, se neppure quando scriviamo poesie, riusciamo a trasformare la “cronaca in una storia e una esistenza in un destino”?… Ideologicamente epoca-società dell’individualismo, mi sembra nei fatti una società che distrugge gli individui, che non assicura loro più nessun “destino”: “self serviti pure da solo, sei nessuno, zero, non scocciare…”.
    Per il momento è tutto. Grazie a te, Adelelmo, e al libro che hai scritto.

  3. Sembra una poesia ispirata all’oraziano ‘carpe diem’; anche se la realtà goduta, la vita vissuta, è più nello sguardo rivolto al passato; perché nel presente è disarmonia, cancellazione dell’io, del noi. Ci si può salvare ancora, forse, nelle pieghe nascoste della natura, finché durerà; negli ammiccamenti fra gli umani, nella volontà del bene e del vero.
    Scorrono via questi versi, come una prosa confidenziale, come un messaggio in bottiglia, per chi ha la fortuna di pescarla dal mare.
    Chi sa ancora guardare alla bellezza si salverà.

  4. Caro Casati, la ringrazio per l’intervento. Non credo che la poesia di Ruggieri sia «ispirata all’oraziano ‘carpe diem’». L’epicureismo non è all’interno del suo “orizzonte di senso”. Il suo amore – oscillante e contraddittorio – per il presente è consonante con visioni della fenomenologia e/o dell’esistenzialismo: è amore per la vita che si mostra così com’è, nell’incanto di esistere per nulla (citazione leopardiana): «Camminava / era notte / era freddo / non era spavento / No, era tutto / fenomeno / esistenza», pag. 29; «Tu alla finestra / La vita che si mostra / La sua finitezza / La sua ricolma tenerezza» (pag. 61) «L’anziano che siede sereno / Nell’incanto per nulla di esistere / Nel presente della vita che vive» pag. 85…Potrei continuare a lungo con le citazioni.
    Anche per quanto riguarda la bellezza, che Ruggieri ammira con stupore e intelligenza, a suo parere, non ci salverà: «Il tempo rovina le pagine / Tarlate cadono a pezzi / Non c’è bellezza / che medica il mondo» (pag. 87). Pessimismo?… Forse. Più semplicemente consapevolezza di quanto il mondo assediato dalle merci ci annienti e il reale ci sferzi.
    I riferimenti filosofici di Ruggieri mi sembrano altri: sicuramente Wittgenstein per il rapporto tra “parole” (lingua) e “cose” (mondo) e una certa fenomenologia (Husserl forse) per quanto riguarda il discorso della coscienza e dell’intenzionalità. Il che non toglie una sua attenzione più generale alla filosofia («Uomo e idea di uomo / Nell’argomento del terzo uomo», pag. 109) e a discorsi in voga un po’ di anni fa come quelli sulla “reificazione” («E di me stesso, soprattutto – mi notifico / mi reifico», pag. 90), «L’altro da sé che dice di sé, somma di sé / e se», pag. 129), ecc.
    Anche i suoi poeti di riferimento sono vari: si va da Petrarca («Di pensiero in pensiero, di riga / In riga», pag. 66) alla “luna” leopardiana, oltre al “nulla”, al modello della “quiete dopo la tempesta”, ecc. La preferenza per l’ottava lo spinge in direzione della poesia narrativa (l’ottava, infatti, ne è la strofe per eccellenza) e stanza è una parola-chiave di tutto il libro. Il che non può non far venire in mente “La camera da letto” di Attilio Bertolucci, poi c’è l’idea-proposito della “poesia onesta” di Saba, il correlativo oggettivo, “la bufera”, “le occasioni” e la concezione epifanica della poesia di Montale (il Montale post-1975, quello della conferenza sulla poesia in occasione del premio Nobel); c’è “la folaga” di Sereni e ci sono, citati, Pasolini, Borges e Carver…Insomma, la poesia di Ruggieri si individualizza e singolarizza, trova un suo timbro e una sua voce originale grazie a un tenace e intelligente lavoro di letture e assimilazione di succhi autoriali vari…Tra l’altro, questo è il suo quarto libro. Tanto, non per polemizzare. Giusto per precisare. Ancora grazie-

  5. Gent. Salzarulo, non ho avuto la possibilità come lei di approfondire la poesia di Adelelmo Ruggieri, pertanto mi sono basato sulle impressioni ricevute dai pochi testi che ho potuto leggere. In quanto alla sua perentoria confutazione dei miei pareri le ricordo, modestamente, che la poesia è un discorso aperto e ognuno lo recepisce secondo una certa libertà interpretativa e una personale sensibilità. Sicuramente lei dispone di più elementi di me che la avvicinano al vero, visto il lungo saggio che ha scritto, tuttavia al posto suo avrei anche evidenziato quello di corretto che ho saputo esprimere in un’ottica di sincero apprezzamento per questo poeta. Con amicizia e stima.

  6. Confesso di essere dispiaciuto per questa piccola controversia, a cui aggiungo una breve postilla augurando a Donato e a Franco Casati una buona giornata – una fra le cose migliori, se non la migliore, che ci è data. Ciao, Adelelmo

  7. Caro Casati, non avevo nessuna intenzione di polemizzare, né di confutare perentoriamente i suoi pareri. Se ho dato questa impressione, me ne scuso. Con amicizia e stima, ricambiata…
    Ringrazio Adelelmo per l’augurio di buona giornata e gliene auguro tante anche a lui. Abbracci

  8. Caro Salzarulo, la vita, purtroppo, è fatta anche di malintesi; lei non ha bisogno di scusarsi. Ho apprezzato molto il suo saggio, cosa che io non avrei saputo fare, lavativo come sono. L’importante è che si affermi la Musa, della quale (e su questo mi pare siamo concordi) il nostro amico Adelelmo è un umile servitore.

  9. SEGNALAZIONE
    LA CITTÀ LONTANA. POESIE 1993-2009
    di Adelelmo Ruggieri
    http://www.leparoleelecose.it/?p=41141

    [E’ uscito ieri per Marcos y Marcos, nella collana Le Ali diretta da Fabio Pusterla, un libro che ho curato e di cui vado molto fiero. Il volume, intitolato La città lontana. Poesie 1993-2009, ripubblica e mette insieme le prime tre raccolte di Adelelmo Ruggieri: La città lontana (2003), Vieni presto domani (2006), Semprevivi (2009), tutte originariamente edite da Pequod. Il libro è accompagnato da una bandella firmata da Fabio Pusterla, da una mia introduzione e da una nota di lettura finale di Andrea Bajani. Presento alcune poesie di Adelelmo Ruggieri seguite dalla mia introduzione, che potrà dare qualche indicazione a chi non conoscesse ancora la sua opera (Massimo Gezzi)]

  10. Provo a rispondere ad alcune domande.
    1, Donato trascrive una poesia che fa così: “Hai ragione / Non si entra nella stanza / Non sono stato accorto / Era già piccolo di suo / È diventata una nicchia / Ma i giorni di sole / Sto bene in quello stretto / Navigo, torno ciò che non ero”. Poi scrive: “La stanza non è soltanto l’ambiente con pareti e finestre di una casa. È anche la strofa di una canzone, un componimento in sé, gli otto versi appena letti e che abbiamo sotto gli occhi; insieme formano un’ottava, la stanza per eccellenza della poesia narrativa. L’io poetante si sente bene nella nicchia di questa stanza poetica. Naviga, torna ciò che non era. Cos’era? Un pensiero?… Un nulla?…” – La questione è questa : accadde che aggiunsi alla stanza d’ingresso di casa un divisorio, e così la porta d’ingresso dava su quel disimpegno, era meglio così, ma la stanza di là si fece strettissima; l’amica AT mi fece notare quanto fosse stretta, e io non potei che darle ragione, ma nei giorni di sole accadeva che ci stavo bene in quel pertugio stretto, e in quei giorni non “tornavo come ero”, come è in uso dire, ma “tornavo come non ero”. Erano queste le parole che esplicavano in me quel fatto: Tornavo come non ero. E dunque la domanda non è, in una qualche maniera: “Cos’era”, ma: “Cosa non era?”, e allora la risposta diventa: Non era un pensiero. Non era un nulla.
    2, Scrive Donato: «D’accordo il fare. Però il fare presuppone spesso un “dover fare”. Ruggieri non scrive per il solo piacere di scrivere, per ricomporre sulla carta o sullo schermo del computer due persone. Scrive perché deve farlo. Ne avverte l’urgenza. Tra il fare e il dover fare si può instaurare, allora, una singolare tensione: «Si fa presto a dire, devi fare / Così, così devi fare, è questo / Che devi fare, poi un giorno arriva / Un orizzonte di senso e non hai fatto / Come andava fatto, e gli altri / Non hanno fatto come dicevano / Di voler fare, è tutto un dover fare / Che non si fa senso che si fa». Al centro di questi otto versi, costruiti un po’ come uno scioglilingua, sta quel sintagma, «orizzonte di senso», tratto direttamente dalla fenomenologia («Camminava / era notte / era freddo / non era spavento / No, era tutto / fenomeno / esistenza», pag. 29); un orizzonte che arriva, imprevisto e inaspettato, come una manna dal cielo, senza che si sia fatto come si doveva fare […] «È tutto un dover fare / che non si fa senso che si fa». Insomma, come si fa questo senso? Come possiamo assicurarci un orizzonte di senso?…» – Credo che “per assicurarci un orizzonte di senso” dobbiamo stare dentro a quanto queste due parole assieme ci indicano, un agire entro lo spazio della sensatezza.
    3, Donato trascrive questa poesia : «Fu non so quando che persi / tutte le istantanee di quel tempo felice / Qualcuno mi disse / che poteva succedere a una digitale / Arriva una tal cosa, non si sa bene cosa / e si smagnetizza tutto» e si chiede se alludo alla morte. No, almeno in prima battuta; ciò che accadde fu che persi tutte le foto che stavano nella macchinetta digitale, e non ero stato accorto a salvarle sul pc o su una pennetta, almeno quelle di maggiore interesse per me, e fu molto doloroso. Sia che le persi sia che non le avevo salvate.
    4, Donato si chiede che significa “Silloge fantasma”. Una “Silloge fantasma”, scrive, “è una raccolta allucinata, abbandonata, nascosta, apparsa alla mente dell’autore come una visione, una fantasia, un’immaginazione?” Sì, è un poco così, almeno un poco è proprio così : abbandonata e nascosta, come e quasi in assenza di corpo; fantasma, appunto. Può essere? È sensato? Sì, può essere, o, quanto meno, non è irragionevole.
    Un caro saluto
    Adelelmo

  11. Caro Adelelmo,
    ti ringrazio per questi tuoi chiarimenti. Non ho dubbi: i tuoi versi nascono da precise circostanze. Raccontarle aiuta a leggerli meglio, ma non mi sembra che “falsifichino” le mie ipotesi di lettura. Tanto per restare al primo punto: al di là della poesia riportata, “stanza” è una parola-chiave della raccolta (ad un primo sfoglio veloce: pag. 44, 45, 66, 82, 86, 122). Che tu possa sentirti bene, oltre che in una stanza (con le pareti), nella stanza di un’ottava, non mi sembra congettura arbitraria. La tua seconda raccolta si intitola «In otto righe» e la seconda sezione dichiara che «Sono belle le ottave»….L’omologia è arrischiata? Può darsi. Ma io non credo che il linguaggio e la retorica siano degli strumenti utilizzabili come un aratro o un computer. Cioè non mi sembrano “oggetti” (disciplinari) esterni al nostro corpo-mente. Su questo punto sarebbe interessante comprendere non il perché di questa scelta dell’ottava (un po’ lo dici nei versi), ma il come ha avuto origine e come ne giudichi la modalità d’impiego rispetto alla tradizione.
    Sul punto due, mi pare che tu voglia depotenziare il significato del sintagma “orizzonte di senso”; sul punto tre il dolore per la scomparsa delle foto non esclude che possa alludere (inconsciamente) ad altre più drammatiche scomparse e sul punto quattro siamo d’accordo.
    Ti ringrazio ancora e ti saluto caramente
    Donato

  12. Ciao Donato, sono d’accordo con te. Per quanto al punto 1. volevo solo soffermarmi su quel “tornavo come non ero” che non poco a scriverlo e rileggerlo mi sorprese e sorprende. Per quanto al punto 2. è come se sentissi senso-sensato-sensatezza insieme e insieme “orizzonte” e “limite”. Per quanto al punto 3. è come scrivi appena sopra. Ciao. Grazie.Adelelmo

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