Marx “ecologista”

Riordinadiario 1985/ “Samizdat Colognom” a cura di E. A. – aprile-maggio 1985

La lettura dell’articolo di Luca Chiarei (qui) e l’approfondito saggio di Alain Bihr (qui) mi hanno fatto ricordare di un “foglio volante” che avevo scritto e pubblicato nel 1985  in appoggio  speranzoso alla presentazione  a Cologno Monzese della prima Lista verde alle elezioni comunali.  Lasciando perdere i riferimenti locali e dichiarando  delusione e disprezzo per la corruzione tutta italiana del cosiddetto partito verde, stralcio questo brano dell'”intervista esclusiva a Karletto Marx”. Mi pare in sintonia (elementare)  con l’analisi di Bihr.   [E. A.]

K – Se mi avessi letto, capiresti che ai miei tempi, pur non essendo un ecologista (come li chiamate adesso), il seme per un feeling tra me e i verdi d’oggi nei mie scritti c’è, eccome.

I – E dove?

K –  Nei miei Manoscritti del ’44  e  nel Capitale. Poche frasi ma  chiare e ben pensate.

I – E cosa dicevi?

K –  Che per stabilire un nuovo rapporto tra l’uomo e la natura si dovrà arrivare a una «resurrezione della natura». Ho anche spiegato cosa vuol dire che «l’uomo vive della natura».

I – E cosa significa?

K –  Che «la natura è il suo corpo, rispetto al quale egli deve rimanere in continuo processo, per non morire».

I – Sì, ma non mi dirai che ti eri occupato anche di crisi ecologica…

K –  Beh, nel primo libro del Capitale parlai di agricoltura e  di grande industria e scrissi: «ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio ma anche nell’arte di rapinare il suolo».

I – Pochino credo,  a sentire gli ecologisti d’oggi.

K –  E già! Non ero mica un laureato di Harvard io. Vedi che mi sono scervellato l’intera vita sulla contraddizione capitale-lavoro. Roba niente da ridere, t’assicuro.

I – Sì, ma i verdi di questa tua “contraddizione” non ne vogliono  proprio sentir parlare. Vogliono solo occuparsi di piante, di animali. E quasi gridano “viva la crisi!” perché così si arriva più in fretta al post-industriale.

K – Vedi che il dito su alcune piaghe però l’hanno messo: le materie prime diminuiscono; alcune specie di animali le avete sterminate; certi generi di piante non le vedete più in giro. E poi  Seveso, Bhopal…

I – Ah, vedo che hanno convinto anche te! Hai perso il tuo ottimismo prometeico e ti sei dimenticato di com’eri tutto fiducioso in un progresso illimitato.

K –  Vacci piano, giovanotto! E smettetela di attribuirmi la paternità di certe vostre porcherie: i gulag, il terrorismo, la burocrazia e – adesso –  anche l’inquinamento e la distruzione dell’ambiente. Io vi ho sempre insegnato la doppiezza della scienza e dell’industria capitalistica. E ho sempre  detto che o gli «individui uniti» saranno in grado di cambiargli i connotati oppure queste potenze avranno un solo effetto: «sfruttano tanto gli uomini quanto la natura».

17 pensieri su “Marx “ecologista”

    1. E’ un “fatto” solo per chi non vuol vedere quante cose complesse entrano in gioco in un “fatto” (e le scienze del Novecento ci hanno aperto gli occhi contro le semplificazioni deterministiche del positivismo ottocentesco) e quanti fattori ancora più complessi entrano in gioco negli eventi storici.
      E poi attenzione all’uso acritico del concetto di ‘totalitarismo’. (Ad es. https://www.poliscritture.it/2020/07/20/su-pio-xii-e-i-cosiddetti-totalitarismi/).

      1. La paternità, come si sa, può essere volontaria o involontaria. Inoltre, che la paternità si concretizzi o no, che ci sia o no un “frutto”, o addirittura come sia quel frutto, dipende certo da molti e complessi fattori biologici, medici, psicologici ecc. E’ tuttavia indubitabile – ed è un fatto – che un determinato comportamento è oggettivamente finalizzato alla paternità, e che dunque può esserne a buon diritto tenuto responsabile, qualora la paternità, cioè il frutto, si realizzi.
        E a proposito di frutti, caro Ennio, non sta a me ricordarti che “ogni albero si riconosce dal suo frutto” (Lc 6,44). E una certa esperienza di frutti del marxismo ce la abbiamo.

        Quanto al concetto di “totalitarismo”, si possono fare tutte le fini distinzioni che si vogliono, ma quando io parlo di un determinato tipo di totalitarismo, cioè di quello di ascendenza marxista (di nuovo la paternità), si capisce benissimo cosa intendo.
        Ulteriori considerazioni sul “totalitarismo imperfetto sovietico” me le terrò per me, capisco che sarebbe perfettamente inutile tirarle fuori.
        Rivendico però il diritto di usare il termine “totalitarismo” con la stessa liberalità, leggerezza e acriticità con cui voi, illuminati di sinistra, usate il termine “fascismo”. Se un maestro che schiaffeggia gli alunni non è un maestro violento, incapace di controllarsi, collerico, magari esasperato, forse inadeguato al ruolo, probabilmente cresciuto in un contesto arretrato indipendentemente dal fascismo, ma un maestro (o un genitore) fascista, se la categoria è il fascismo eterno, allora io posso ben parlare di totalitarismi marxisti, per dio. E del marxismo eternamente totalitario, perché altro non può essere.

  1. se la categoria è il fascismo eterno, allora io posso ben parlare di totalitarismi marxisti, per dio. E del marxismo eternamente totalitario, perché altro non può essere.“ (Grammann)

    No la categoria non è il “fascismo eterno” di Eco, su cui pur in Poliscritture abbiamo in passato discusso:

    https://www.poliscritture.it/2017/08/01/dalle-tentazioni-di-fiano-al-fascismo-eterno/?fbclid=IwAR3bFjNLus219wpvgnfchQi1LxQsGWsgNsdwOSqvU4OcVH1VFX88WMhlgpc

    https://www.poliscritture.it/2017/07/14/lantifascismo-e-una-cosa-seria/?fbclid=IwAR2k8de7a8d8dJZVW5h01Dh4HKyuMRPX3J4NGJjWvANRn2YVaLMXmGv_uxs

    Quanto pensavo e penso io in merito alla faccenda (non da “illuminato di sinistra)” l’ho scritto qui:

    https://www.poliscritture.it/2019/04/05/introduzione-a-neofascismi-di-claudio-vercelli/

    e qui (sono costretto a riportare da Poliscritture FB per chi non usa FB):

    APPUNTI POLITICI. ANCORA SUL “RITORNO DEL FASCISMO”.
    30 luglio 2017

    * Sul post di Giulio Toffoli “L’antifascismo è una cosa seria” (https://www.poliscritture.it/2017/07/14/lantifascismo-e-una-cosa-seria/), e uno scritto di Claudio Vercelli, “Né destra né sinistra, semmai peggio”, apparso su DOPPIO ZERO, stiamo continuando discutere. Ecco tre miei appunti. [E. A.]

    APPUNTO 1
    1.
    Ho riletto il testo di Eco sull’Ur-Fascismo e le mie riserve restano. Certo, se uno segue la polemica spicciola sui social può facilmente ricondurre certi clichè ad una o all’altra delle 14 caratteristiche che Eco attribuisce a questo weberiano e astorico tipo di Fascista. Verrebbe però subito da obiettare: ma allora parliamo tout court del Male o, nella nostra tradizione, del Diavolo! Perché il fascismo storico, i fascisti concreti vengono incasellati in un’idea archetipica come i cavalli platonici nella cavallinità. ( E questo criterio varrebbe anche per altre tipologie: il cristiano, il borghese, il comunista, l’ebreo, l’arabo, ecc.).
    2.
    Velocemente su alcuni dei punti.
    Scrive Eco: «1) La prima caratteristica di un Ur-Fascismo e’ il culto della tradizione». Toh, ma la tradizione viene coltivata (in vari modi) dalle Chiese, dai Partiti, dalle Famiglie, dagli Stati. Anch’essi rientrano allora nell’Ur-Fascismo?
    Oppure: «nelle librerie americane portano l’indicazione “New Age”, troverete persino Sant’Agostino, il quale, per quanto ne sappia, non era fascista. Ma il fatto stesso di mettere insieme Sant’Agostino e Stonehenge, questo e’ un sintomo di Ur-Fascismo». Ma allora tutto il postmodernismo sarebbe infetto da Ur-Fascismo?
    «Il rifiuto del mondo moderno era camuffato come condanna del modo di vita capitalistico». Ma allora tutto il romanticismo e il neoromanticismo andrebbero condannati in blocco?
    «Ci dovra’ essere una battaglia finale, a seguito della quale il movimento avra’ il controllo del mondo. Una simile soluzione finale implica una successiva era di pace, un’eta’ dell’Oro che contraddice il principio della guerra permanente».
    Ma allora che dire di tutti i vari discorsi della «presa del Palazzo d’inverno» o delle varie utopie del Comunismo. Liquidarle e stop?
    «L’elitismo e’ un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico».
    Come se di elitismo così non ce ne fosse a destra e a manca. E cosa fu il partito leninista, allora?
    «ma nell’ideologia Ur-Fascista l’eroismo e’ la norma».
    Sarà lì la norma, ma in tutte le esperienze socio-politiche e religiose gli eroi o i santi hanno trovato i loro altarini.
    «trasferisce la sua volonta’ di potenza su questioni sessuali …questa l’origine del machismo». Interrogare le femministe degli anni Settanta o le donne dell’ex-PCI. «l’eroe Ur-Fascista gioca con armi, che sono il suo Ersatz fallico: i suoi giochi di guerra sono dovuti a una invidia penis permanente».
    E allora che si dovrebbe dire di tutti gli eserciti e, in questo periodo, particolarrmente degli USA?
    «Il popolo e’ cosi’ solo una finzione teatrale».
    Invece le elezioni della democrazia rappresentativa sono la vera espressione popolare e non devono essere sfiorate da alcuna critica?
    «l’Ur-Fascismo deve opporsi ai “putridi” governi parlamentari».
    Allora la critica di Marx , di Lenin, degli anarchici alla “democrazia formale” è fascista?
    (Meno male che Eco – alludendo vagamente alle possibili commistioni di questo discorso, aggiunge: «ma elementi di Ur-Fascismo sono comuni a forme diverse di dittatura»; e quando parla della«neolingua» orwelliana concede che « dobbiamo essere pronti a identificare altre forme di neolingua, anche quando prendono la forma innocente di un popolare talkshow »).
    3.
    La prima parte del saggio di Claudio Vercelli evita in parte – gli prendo i termini – i « voli pindarici» e le « arrampicate nel cielo delle astrazioni» a cui si abbandona Eco. E torna coi piedi per terra ponendo il problema politica che abbiamo di fronte. E cioè quello di « una sinistra sbiaditamente liberale, già debitrice del tramonto dei modelli socialdemocratici, fortemente individualista, tentata dalla censura nei confronti di ciò che, non riuscendo a definire in termini diversi, derubrica a minaccia da perseguire attraverso il ricorso alla sanzione di natura giurisdizionale».
    A proposito di antifascismo, porta un esempio dell’impotenza di questa sinistra persino in tempi meno sospetti: « Nel 1972 la procura della Repubblica di Milano chiese, ed ottenne dalla Camera dei Deputati, l’autorizzazione per procedere contro Giorgio Almirante, segretario del Msi, ipotizzando il reato di ricostituzione del partito fascista. Di fatto, dopo il trasferimento dell’inchiesta a Roma, nulla ne derivò. La peggiore delle soluzioni, a conti fatti, poiché rafforzando in molti democratici l’impressione che effettivamente il partito neofascista costituisse, di per sé, il prosieguo non solo ideale ma anche organizzativo, del vecchio regime e dei suoi epigoni saloini, non dava però seguito alle premesse penalistiche, alimentando invece negli aderenti all’organizzazione missina la convinzione di essere per davvero gli aedi di una formazione politica antisistemica. Una sorta di legittimazione».
    Infine, rispondendo implicitamente alla domanda che serpeggia in questo post, e cioè se l’antifascismo sia una burletta anacronistica o una cosa seria, indica – mi pare – , al posto dell’afasia e della paralisi dell’azione politica, la via “seria”, quella appunto di una lotta politica e culturale:« l’articolo 21 della Carta fondamentale, difficilmente si presta alla punizione di generici richiami ai trascorsi fascisti, dovendo primariamente tutelare, come garanzie universale, il diritto all’opinione e alle sue manifestazioni, entro i limiti di un dibattito che non può mettere in discussione l’ordinamento democratico ma deve comunque riuscire a contrastare gli atteggiamenti più radicali soprattutto attraverso gli strumenti della politica e della cultura».
    4.
    E però Vercelli, malgrado l’occhio storicamente vigile, con la sua « fascisticità» si rifà in pieno all’ Eco dell’Ur-Fascismo, perché, partendo da una posizione che insiste (giustamente secondo me; e soprattutto secondo le tesi di Claudio Pavone) sulla *continuità* tra fascismo e repubblica italiana (« rimane il fatto che in Italia il fascismo non torna per il semplice motivo che non se ne è mai andato»), parla di un « deposito mentale, ossia sub-culturale, che rimanda, come un link funzionante in automatico, al fascismo perenne, persistente, eterno e paludato che dir si voglia».
    Per lui questo «calco antropologico del fascismo, la sua funzione pseudo-modernizzante nell’età della nazionalizzazione delle masse, con il loro pieno ingresso nella sfera pubblica in posizione subalterna, non si è mai esaurito. In quanto di impronta si tratta, destinata quindi a sopravvivere alle manifestazioni temporanee del soggetto che l’ha impressa». (Si potrebbe intendere un “calco storico” – la manzoniana «orma» stampata da Napoleone? – e non proprio un archetipo alla Jung, ma certamente siamo là:« se usiamo il rimando all’antropologia allora ci riferiamo ad un sistema di simbolismi e di segni fortemente radicati»).
    5.
    C’è da aggiungere che Vercelli precisa: «Questo insieme di elementi, sia sempre detto e quindi ripetuto a scanso di equivoci, non corrisponde ad essenze immutabili bensì ad un vero e proprio apparato pulsionale, che poi si fa anche regime politico, qualora se ne diano le condizioni reali». E questo permette di stare di più sul piano storico e di accostare il suo discorso a quello di Giannuli (https://www.poliscritture.it/…/lantifascismo-e-una…/…). Proprio perché indica l’ assenza di politica come causa dell’imporsi del calco antropologico: «il fascismo perenne non è mai un “di più” di politica, costituendone semmai la sua estinzione, sostituita da simulacri identitari e da un vuoto ripetersi di formule ossessivamente manipolatorie. Il discorso fascista è allora suggello della crisi radicale dell’universalismo egualitario, sostituito dal bisogno di uniformità come anche da un narcisismo tanto debole quanto diffuso. Le due cose, infatti, non sono per nulla in contrasto». Come indica il difetto dell’attuale antifascismo “non serio” nel «pericoloso baratto, quello che sostituisce alle battaglie per i diritti sociali l’enfasi esclusivista sui diritti civili, intendendo questi ultimi come la garanzia del pluralismo quand’essi, in assenza di reali possibilità di accesso alle risorse materiali ed espressive per una parte sempre più rilevante della popolazione, potranno essere fruiti esclusivamente come diritti alla differenza individuale o di gruppo».
    6.
    Pienamente condivisibile mi pare il suo lavorio critico per smontare «la tecnica dei chiasmi, o dei riversamenti parossistici nell’opposto: gli “autentici” fascisti sarebbero gli antifascisti (tra i diversi esempi possibili, un Diego Fusaro d’annata su: «il fascismo dell’odierno antifascismo»)» e indicare la debolezza logica della « strategia di irridere», che, mirata a « stigmatizzare e deformare l’immagine dell’avversario […]concentra su quest’ultimo l’attenzione collettiva, distogliendola dal vuoto pneumatico del proprio dire». O l’indicazione del Web come «nuovo contenitore di questo campo di aggressività». Come pure la conclusione: «Oggi il problema non è il ritorno del fascismo vecchio stile, e del suo corredo razzista, ma l’affermarsi di una vera e propria egemonia sub-culturale che rimanda al radicalismo delle destre estreme» che martella su questi temi:««identità», «straniero», «invasione e minaccia», «popolo e morale» (soprattutto nel senso di una ipotetica rottura dell’ordine naturale e della funzione della politica come strumento per ripristinarlo), «élite e popolo» (ovvero della lotta dal basso contro l’alto), quindi «prossimità e distanza» così come «autenticità e artificiosità» (alla ricerca delle radici perdute del legame sociale) ma anche «Europa e antieuropeismo».
    7.
    Mi par di capire che per Vercelli lo scontro principale sia tra liberalismo e destra radicale: «La sfida lanciata da tempo dalla destra radicale sta nel suo passaggio dalla conservazione al movimento, per ripristinare «l’ordine naturale perduto», presentandosi come soggetto che intende guidare il mutamento e, nel medesimo tempo, contrapporsi ad un liberalismo che si limita a registrare i cambiamenti, dipingendoli e spacciandoli per neutrali, poiché di essi ne beneficia, a discapito della «comunità di popolo». E che egli rimproveri la sinistra di essere poco liberale: «inconsistenza del “liberalismo” del quale si ritiene depositaria».
    Ma qui mi fermo in attesa della seconda parte del saggio.

    APPUNTO 2
    AD HOC. A PROPOSITO DI TRUMP, MACRON, ECC.
    QUANDO I PENSATORI PENSAVANO.

    “Ci si vuole liberare del passato: a ragione, poiché è assolutamente impossibile vivere alla sua ombra, e perché il terrore non avrebbe mai fine se ci si volesse rivalere delle colpe e violenze subite con nuove colpe e nuove violenze; a torto, perché il passato a cui ci si vorrebbe sottrarre è ancora vivamente presente. Il nazionalsocialismo sopravvive, e fino ad oggi non sappiamo se solo come fantasma di un orrore che si ostina a non morire della sua propria morte, o se sia, invece, la morte dello stesso nazionalsocialismo a non essere ancora sopraggiunta; se la disponibilità all’indicibile continui ad allignare negli uomini come nelle circostanze che li attanagliano. Non vorrei affrontare la questione relativa alle organizzazioni neonaziste. Considero il perdurare del nazionalsocialismo *nella* democrazia potenzialmente più pericoloso del perdurare di tendenze fasciste *contro* la democrazia. Le infiltrazioni sono un dato di fatto; ambigui individui riescono a celebrare il loro *come back* in posizione di potere in quanto favoriti dalle circostanze”.
    (T.H. Adorno, Che cosa significa elaborazione del passato, in “Contro l’antisemitismo”, pag. 21, manifesto libri, Roma 1994)
    APPUNTO 3
    Ha scritto Vercelli nel suo pezzo: «rimane il fatto che in Italia il fascismo non torna per il semplice motivo che non se ne è mai andato».
    In che senso?
    Mi pare di trovare una risposta e una sintonia ( ma non ci giuro) con quanto scriveva Adorno nel testo di cui ho già riportato un passo circa « il perdurare del nazionalsocialismo *nella* democrazia». Lo dice chiaramente in questo altro passo: «Che il fascismo continui a esistere; che la tanto citata elaborazione del passato fino ad ora non sia riuscita degenerando nella sua caricatura, in vuoto e freddo oblio, dipende dal fatto che esistono ancora i presupposti sociali oggettivi che hanno prodotto il fascismo [notare: « presupposti sociali oggettivi» e non solo « deposito mentale, ossia sub-culturale» o «calco antropologico», come in Vercelli]. Nella sua essenza, non lo si può ricondurre a una predisposizione soggettiva [come fa in modo esclusivo Umberto Eco]. L’ordinamento economico e, sul suo modello, anche l’organizzazione economica in senso lato, spinge la maggioranza, oggi come in passato, alla dipendenza da condizioni sulle quali non ha voce in capitolo, e ad uno stato di minorità. Se vogliono vivere non resta loro altro che adeguarsi alle condizioni date, piegarsi; devono cancellare proprio quella soggettività autonoma alla quale si appella l’idea di democrazia, possono preservarsi solo rinunciando a se stessi. Smascherare il contesto di accecamento esige da loro proprio quel doloroso sforzo di conoscenza che viene impedito dalle strutture della vita, non ultima la totalizzante industria culturale. […] Poiché la realtà non soddisfa quella autonomia, in ultima analisi quella possibile felicità che il concetto di democrazia in realtà prospetta, essi assumono un atteggiamento di indifferenza nei confronti di queste istanze, se non addirittura, intimamente, di odio». (T.H. Adorno, Che cosa significa elaborazione del passato, in “Contro l’antisemitismo”, pag. 31, manifesto libri, Roma 1994).
    E più avanti insiste: «Il pericolo è oggettivo, non è primariamente nelle persone» e sottolinea anche i limiti di una «pedagogia illuminata» ( anche ad es. dei tanti post su FB di cui abbiamo parlato). Scrive, infatti,:«Che [essa pedagogia] sia impostata sociologicamente o psicologicamente, in pratica raggiunge per lo più solo quelli che sono aperti a questo discorso e proprio perciò difficilmente inclini al fascismo»( p. 32). E anche se non ritiene inutile «rinsaldare anche questo gruppo» o formare «qualcosa che assomigli a dei quadri il cui agire in vari settori potrebbe quindi toccare l’insieme», sa che questa azione non può bastare. E che anzi certi «tentativi di rischiaramento pubblico» su questi temi finisce per suscitare «un’ostinata resistenza e un effetto contrario a quello desiderato» (p. 33). Perché afferma: «A me sembra cheil conscio non può mai veicolare tanta sventura come l’inconscio, il semiconscio e il preconscio. Probabilmente dipenderà dal modo in cui si richiama alla memoria il passato; dipende se ci si ferma al semplice rimprovero o se si affronta l’orrore con la forza di capire persino l’inconcepibile» (p.33). E richiama l’esigenza di una «educazione degli educatori» e prospetta persino «qualcosa come un’analisi di massa». O quantomeno l’influsso di «una seria psicanalisi» che inducesse a « non vibrare fendenti verso l’esterno, ma [a] riflettere su se stessi e sul proprio rapporto con coloro contro cui solitamente infuria la coscienza incallita» (p. 33). Adorno è del tutto consapevole che la propaganda è «manipolazione razionale dell’irrazionale» e che è un potere in mano agli avversari, per cui «coloro che vi si oppongono non dovrebbero imitarne i modi in cui avrebbero inevitabilmente la paggio» (p.34). Per lui l’antisemitismo, il razzismo sono difficili da confutare «proprio perché l’economia psichica di un’infinità di persone ne aveva bisogno e, in misura ridotta, probabilmente ne ha bisogno ancora oggi». E sottolinea che «tutto ciò che si fa propagandistico, rimane ambiguo». Porta l’esempio di una donna che aveva assistito a una rappresentazione teatrale del «Diario» di Anna Frank e che alla fine, sconvolta, aveva detto: «ma *almeno* la ragazza avrebbero potuto lasciarla viva». E così commenta: « Certo, non c’è male come primo passo per una presa di coscienza. Ma il caso individuale, che dovrebbe rischiarare esemplarmente l’orrore del tutto, nello stesso tempo, in virtù della sua stessa individualità, è diventato un alibi del tutto, di cui quella donna si è dimenticata» (p.34). Quindi, per Adorno, malgrado la «conoscenza di alcuni indistruttibili trucchi propagandistici che si conciliano proprio con quelle predisposizioni psicologiche della cui presenza, negli uomini, dobbiamo tener conto», che potrebbero funzionare come una sorta di vaccino, «il rischiaramento soggettivo, anche se affrontato con tutt’altro vigore e con tutt’altra intensità rispetto al passato, non basterà. Se si vuole oggettivamente contrapporre qualcosa al pericolo oggettivo, non basta la sola idea, neanche quella di libertà e umanità che, come abbiamo avuto modo di imparare, nella sua forma astratta non significa poi granché per gli uomini» (p.35). E si limita a raccomandare che ricordare i rischi di un «risveglio, aperto o mascherato, del fascismo» ( guerra, sofferenza, privazioni) «colpirà la gente molto di più dei rimandi agli ideali o addirittura alla sofferenza degli altri, di cui, come aveva già intuito Larochefaucauld, ci si dimentica relativamente presto» (p.35).

    1. Mi scuserai ma non ho letto.
      Questo io lo chiamo partire per la tangente. Segno che sul punto in discussione si sono finiti gli argomenti.

  2. Aggiunta:
    I miei riferimenti a un uso generico del termine “fascismo” erano precisi e recenti, e l’uso generico è molto diffuso, indipendentemente da quello che ne pensi tu.

  3. Non c’è bisogno di scusarsi. Puoi benissimo non leggere. Ma di argomenti nei link indicati ce ne sono. E’ indubbio ed ammesso da tutti gli studiosi o dai lettori più attenti che ci sia un uso generico del termine ‘fascismo’ ma, proprio per questo, io ed altri abbiamo sempre fatto un sforzo per non appiattirci su questi cliché. E lo stesso vale per il termine ‘totalitarismo’.

    1. E per il termine “gulag”? (solo per tornare al punto)
      (Ma sul totalitarismo sovietico imperfetto hai ragione. Lo diceva anche la badante filosovietica di mia madre: non è vero che non si poteva parlare, in famiglia si poteva parlare eccome. Sempre meglio della Cambogia dove non si poteva parlare neanche in famiglia. Regime marxista (maoista) di un tizio che aveva studiato a Parigi, mica sulla luna).

  4. Il punto da cui partire è la violenza nella storia. Tu te la vuoi prendere solo con i responsabili (marxisti un corno!) dei gulag e stabilire una “discendenza” diretta da Marx a costoro? Fa’ pure. Io vado per un’altra strada. Buona notte

    P.s.
    DA POLISCRITTURE FB

    Ennio Abate
    19 MAGGIO 2016

    SEGNALAZIONE

    Wolfgan Sofsky, Saggio sulla violenza, Einaudi, Torino 1998

    Stralcio:
    L’esaltazione degli ideali include sempre il disprezzo per la vita. Il sogno della sopravvivenza si trasforma in incubo per quelli che falliscono, per quelli che vengono travolti dal corteo trionfale, per i superflui, per le vittime della cultura imperiale. Essendo sin dal principio condannato al fallimento, il progetto dell’immortalità fa emergere sempre nuovi progetti. L’illusione nutre l’illusione. Il miraggio del superamento della morte è un miraggio mortale. Il dare senso a ciò che non ha senso alla fine lascia solo insensatezza. Non c’è pensiero che abbia mai sedato un dolore, né idea che sia stata mai capace di scacciare la paura della morte. La violenza non è che la conseguenza di una cultura eretta sulla trascendenza dell’esistenza. Il mostruoso sogno di dominare la morte partorisce solo mostri.
    (pagg.187-188)

    *Mie note di lettura ( maggio 1999)
    – Un libro pesante da digerire. Una vera negazione del piacere della lettura
    – Critiche del suo recensore su L’Indice, Mario Corona (novembre 1998): condivisibili, a volte ovvie, ma non convincenti proprio perché – facendosi scudo del “lievito democratico” di Locke e dell’Illuminismo e di categorie familiari nella cultura statunintense ma non arrivate ancora in Europa – liquidano lo stile (la paratassi della narrazione che produce “un effetto di monotonia”: “sembra di leggere un iper-Hemingway), insinuano il sospetto di un’“oscura fascinazione” dell’autore per la materia che tratta o uno spirito di “autoflagellazione”, denunciano troppo sbrigativamente la visione metafisica, deterministica, astorica, tardo-freudiana e ignara delle “specificazioni di gender” di Sofsky.
    – I miei ascoltatori: che visione hanno del potere e della violenza? Credono di vivere fuori o ai margini della violenza, che essa non è centrale nella vita sociale e nella loro vita, che almeno “da noi” siamo in “democrazia” e la violenza è circoscritta, ridotta al minimo necessario ( se non abolita).
    – Limite Sofsky: per lui il potere, qualsiasi potere “dovrebbe limitare la violenza, e invece la eleva fino ad un livello estremo” (10). La cultura, e quindi la politica, è solo una maschera. Il bersaglio della critica e l’ordine in sé
    – Però questa riduzione all’elementare (o al primordiale?), che è anche di Freud, permette davvero molti smascheramenti…
    – Il pessimismo di Sofsky sull’uso moderno (monopolistico e estremizzato, perché tecnologizzato) della violenza appare più che giustificato e confermato dalla cronaca. E dagli sviluppi storici…

  5. “(marxisti un corno!)” (E.A.)
    Allora fascisti? Semplicemente cattivi? CHE COSA?

    Te lo dico io che cosa: quelli che vogliono rifondare tutto da capo a fondo, sulla base di una bella teoria pensata da una gran testa. E alla fine in cosa incocciano? Nella loro stessa finitudine, stupidità e illimitata malvagità.

  6. Gentile Elena Grammann, come sai, non amo le polemiche e meno che meno le risse. Giusto per precisare: quel maestro e quel genitore non erano cresciuti “in un contesto arretrato indipendentemente dal fascismo” Erano fanciulli quando ci fu la marcia su Roma e vissero adolescenza e gioventù durante il ventennio. Siccome sappiamo quanto il fascismo ci tenesse ad educare le giovani menti, sarebbe davvero superficiale dedurne che quell’educazione non li abbia, per così dire, “segnati”. Così come è da superficiali pensare che, dopo la vittoria degli alleati e la Liberazione, il giorno dopo o la settimana dopo sia nata in questo Paese la democrazia. La tesi sulla “continuità” fra Stato fascista e Repubblica democratica è dimostrata ampiamente da vari storici.
    Quanto all’uso generico del termine “fascista”, non posso farci niente se ha come sinonimi dispotico, prepotente, autoritario, dittatoriale, squadrista, violento, ecc…Chi usa il termine nel suo significato generico non commette nessuna scorrettezza e non aderisce per forza alla teoria di Eco del “fascismo eterno”.
    Annotazioni di ciò che penso sulla questione si trovano su questo sito nella mia recensione del libro di Theodor W. Adorno: “Aspetti del nuovo radicalismo di destra”.
    Per me il discorso è chiuso qua. Grazie

    1. Prego. Mia madre è nata il giorno della marcia su Roma. Era maestra. Ma non menava né gli alunni né i figli. Mio padre aveva la stessa età, era operaio. Non menava i figli. Qua non usava. Contesto un po’ meno arretrato.

  7. Tornando allo spunto originario, non vedo la necessità di scomodare nè Marx nè l’ecologismo nè un improbabile ecosocialismo, bastano tre semplici considerazioni:
    – il pianeta brucia, se non si fa qualcosa di molto radicale entro i prossimi cinque anni consegniamo i nostri figli e nipoti a un avvenire catastrofico
    – l’origine e anche la forza che più si oppone è il profitto: la sua ricerca esasperata è diventata un’idrovora che assorbe tutto, si allarga sempre di più, e sopravvive solo inghiottendo su scala sempre più vasta
    – anche se possiamo vedere molte teste di questa idra, dalle banche a BlackRock a ExxonMobil e simili, il meccanismo coinvolge tutti, perchè ogni tre mesi BlackRock deve dare le sue cedole a un miliardo di piccoli risparmiatori
    Questi sono fatti semplici e terribili: probabilmente non possiamo farci nulla, ma non nascondiamoci dietro le ideologie

  8. A proposito, cose simili le dice anche il NYTimes..non su tutto: inizia oggi una rubrica intitolata ‘cartoline da un mondo in fiamme’ con la cronaca del riscaldamento di oggi-non del futuro- nei vari paesi del mondo
    https://www.nytimes.com/interactive/2021/12/13/opinion/climate-change-effects-countries.html?campaign_id=39&emc=edit_ty_20211213&instance_id=47679&nl=opinion-today&regi_id=71606268&segment_id=76845&te=1&user_id=6f47cbb3b494b01b84378e49288ddbfa
    ps: non ci servono ismi, ma isti…magari anche istmi

  9. Toh che si sente dire su LPLC alla fine di un discorso che mi pare ecologisticamente un po’ troppo ottimistico e sul piano storico un po’ disinvolto e spiccio nell’uso del termine ‘comunismo’….

    AL VOLO

    “Questa tesi – il comunismo deve diventare ecologista – resterebbe però incompleta se non fosse accompagnata dal suo corollario: l’ecologia politica non sarà veramente rivoluzionaria se non a condizione di diventare comunista. Questa proposta contro-intuitiva mobilita il vocabolario apparentemente desueto del marxismo. Giustificare questa scelta implica di sapere che cosa dobbiamo davvero ereditare dal comunismo.”

    (Da COSMO, PRODUZIONE, ANARCHIA di Paul Guillibert
    https://www.leparoleelecose.it/?p=43091)

  10. AL VOLO/SAITO E MARX

    Il piano fondazionale teorico di un Marx a favore della decrescita mi pare invece ancor più problematico, e in definitiva non proponibile su queste basi. Marx viene tripartito: un giovane Marx del Manifesto proponente il materialismo storico come determinismo, in cui il concetto di forze produttive è associato al determinismo tecnologico e condannato dunque al produttivismo (p. 125). Una seconda fase della maturità che culmina con la pubblicazione della prima edizione tedesca del primo libro del capitale, nel 1867, nel quale la teoria del metabolismo di Liibig gioca un ruolo fondamentale nella presa di coscienza della sostenibilità ecologica (p. 130). Dopo di che, secondo Saito, è possibile scorgere una rottura epistemologica di althusseriana memoria (p. 164), questa volta però posposta al 1868, anno in cui Marx rifiuterebbe il materialismo storico della gioventù e maturerebbe definitivamente la critica della crescita. La fondatezza di questo ragionamento si basa sugli scambi epistolari con la rivoluzionaria russa Vera Zasulič, che interrogava Marx allo scopo di mettere ordine rispetto al dibattito fra i rivoluzionari russi dell’epoca chiedendogli su che basi andasse fondato il socialismo in un paese ancora sostanzialmente segnato dai rapporti feudali. Saito sostiene che in quello scambio di lettere, in particolar modo nella prima di quattro bozze della lettera di risposta di Marx, si renda palese il suo ripensamento del comunismo in chiave decrescitista. L’idea che l’antica comunità agricola russa del Mir possa rappresentare un germe della futura società sarebbe poi rafforzato da una sua ripresa per l’edizione russa del Manifesto, nonché da alcuni passaggi nella critica al programma di Gotha. L’amico Engels, con cui Marx ha condiviso opere, vita e politica, pare non aver tenuto conto di questa maturazione teorico intellettuale o non essersene stato al corrente, cosa che ha influito nell’edizione postuma del Capitale.

    Leggere questa fondazione dell’interpretazione di un Marx decrescitista, mi ha riportato alla mente quanto scritto da Timpanaro nel suo libro Sul Materialismo. Timpanaro sostiene che l’operazione per adeguare Marx all’ultima moda accademica sia quella di separare Marx da Engels ed eventualmente scindere Marx stesso, fra uno giovane e uno maturo, dopodiché scaricare tutte le accuse di positivismo, meccanicismo, determinismo, idealismo, umanismo o anti-umanismo sull’altro e salvare il Marx giovane o maturo come il vero Marx, o comunque quello che conta o interessa. Diciamo che è complesso non cogliere somiglianze in questa operazione – che può ovviamente essere fatta in perfetta buona fede.
    Una delle inconsistenze storiche di questa interpretazione è la difficoltà di credere che l’amico Engels non potesse sapere di questa svolta determinante del pensiero di Marx, considerando la costanza con la quale i due si confrontarono per i quindici anni successivi al 1868 e fino alla morte di Marx nel 1883 e che nel 1870 Engels, dopo aver venduto la fabbrica ereditata dal padre, si trasferisce a Londra a poche centinaia di metri da Marx proprio per intensificare il lavoro politico nell’Internazionale.

    Inoltre, il presupposto per cui il materialismo storico sarebbe puro determinismo, perché la tendenza allo sviluppo delle forze produttive è equivalente allo sviluppo tecnologico, mi pare una dichiarazione di resa incondizionata a quelle argomentazioni che dalla decrescita attaccano il marxismo. Leggendo lo stesso Manifesto, nonché passaggi dell’Ideologia tedesca, ma anche di Salario prezzo profitto e del Capitale, mi pare che la tendenza allo sviluppo delle forze produttive sia una faccenda molto più complessa, dialettica e sicuramente non circoscritta unicamente alla tecnologia. Un argomento ampiamente discusso anche nelle pagine della Monthly Review a cui Saito in precedenza esprimeva un maggior grado di vicinanza.

    Il punto è che se il tentativo di Saito è quello di mostrare come Marx è tuttora un pensatore centrale, anche nell’epoca dell’Antropocene, non credo che questo libro non credo renda un buon servizio allo scopo. È infatti possibile accettare tutta la pars destruens su Marx di Saito, senza poi accettare quella costruens basata su frammenti e lettere. In questo modo Saito sottrae Marx al suo tempo storico e al suo contesto, per renderlo appetibile ai soggetti della trasformazione da lui individuati, ma gioca le opere maggiori dell’autore contro quelle minori e il risultato di tale processo non può che essere quello di una sostanziale squalifica con diritto d’appello su questioni minori.
    […]
    Nonostante tutto questo, bisogna fare un plauso al libro di Kohei Saito, che è riuscito a portare al grande pubblico e soprattutto alle generazioni più giovani una critica al capitalismo come causa della crisi ecologica, a partire da Marx e dall’idea di comunismo come risposta. Finalmente un libro che esce dagli oramai sempre più ristretti spazi degli addetti ai lavori. Qualcuno potrebbe sostenere che la confusione generata fa più male che bene; io credo invece che l’astuzia della ragione stia già operando, tanto che in seguito alla pubblicazione del libro di Saito le vendite del Capitale di Marx in Giappone hanno registrato un forte incremento.

    (DA https://www.leparoleelecose.it/?p=46483)

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