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Gabriella Montaldi Seelhorst, La formazione. Lasciare un segno

In «Lasciare un segno nella vita. Danilo Montaldi e il Novecento»
a cura di Goffredo Fofi e Mariuccia Salvati (6)

di Ennio Abate

Ho letto con rispetto e curiosità questo saggio   di Gabriella Montaldi Seelrhost, la vedova di Danilo Montaldi; e, al posto di una breve recensione, mi è venuta fuori una riflessione  lunga e impegnativa. La propongo con la massima disponibilità a confrontarmi (in particolare con  quanti conobbero ben più di me Montaldi) e, se necessario,  a correggerne il taglio forse troppo critico che ha preso. 

Il saggio si concentra sul  periodo di formazione e si conclude con la seconda metà degli anni Cinquanta, quando la  ricerca da autodidatta di Montaldi ottiene il riconoscimento di intellettuali  di valore come Fortini, Vittorini, Pizzorno e le sue prime “storie di vita”  compaiono su importanti riviste italiane.
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Enrico Pugliese, La ripresa della ricerca sociale in Italia nel dopoguerra

In «Lasciare un segno nella vita. Danilo Montaldi e il Novecento»
a cura di Goffredo Fofi e Mariuccia Salvati (5)

di Ennio Abate

Enrico Pugliese ripercorre puntigliosamente la storia contorta e agli inizi stentata degli studi sociologici in Italia nei cosiddetti “trenta gloriosi” che videro una certa «ascesa della classe operaia» (pag. 107); e in vari punti si ricollega al saggio di Mariuccia Salvati, che  in questo stesso volume ha analizzato il resoconto di Montaldi sul 1° Congresso nazionale di Scienze sociali (Milano, 1958).
La ripresa degli studi sociologici si ha nel dopoguerra.  E gli ostacoli maggiori vengono dalla condanna dell’autorevolissimo allora  Benedetto Croce (pag. 123), che definì la sociologia «inferma scienza arbitraria [e] sconclusionata» declassandola ad “americanata”. Ma anche dai  crocio-marxisti: in genere gli intellettuali del PCI. Anch’essi la squalificarono come «scienza padronale» e «strumento di controllo sociale», appellandosi da scolastici alle critiche alla sociologia positivista presenti nei «Quaderni dal carcere» di un Gramsci isolato e pertanto all’oscuro  dei nuovi fermenti della ricerca sociologica a  livello internazionale.
Questo clima plumbeo e conservatore della cultura italiana si prolungò fino almeno alla metà degli anni ’60. E Pugliese fa bene a riportare le accuse  di estremismo e di «scarsa saldezza teorica» lanciate da intellettuali del PCI contro i «Quaderni Rossi» (pag. 125), le dure critiche che accolsero la pubblicazione dell’inchiesta di Gianni Alasia e Danilo Montaldi confluita nel libro «Milano, Corea» (1959) e i tentativi di censura nella stessa Einaudi contro il libro di Goffredo Fofi, «L’immigrazione meridionale a Torino» (1964).
Pochi  sfuggirono al conservatorismo di quei decenni. Pugliese  cita per il Sud il lavoro poetico e letterario di Rocco Scotellaro (pag. 115) che, in rapporto con la ricerca sociale condotta da Manlio Rossi Doria a Portici, nella sua opera incompiuta, «Contadini del Sud», stava tessendo (in sintonia con Montaldi) «dettagliate biografie di personaggi rappresentativi  della società meridionale».  E per il Nord,  oltre alle inchieste sugli immigrati di Alasia e Montaldi e di Goffredo Fofi appena ricordate, l’inizio a Torino da parte di Raniero Panzieri e dei redattori di «Quaderni Rossi» di un discorso sull’«uso socialista dell’inchiesta» in diretto rapporto con le nuove realtà del lavoro operaio. Con le parole di Giovanni Mottura le sue caratteristiche vengono così sintetizzate: – ridimensionamento (non sottovalutazione) delle tecniche (interviste, colloqui); – distinzione (ma non contrapposizione) tra  «il momento della stasi» nella condizione operaia e quello della lotta;  – necessità di un’analisi ininterrotta per cogliere  il continuo mutare delle forme e dei fenomeni specifici dello sviluppo capitalistico; – funzione politica attiva (militante) di chi svolge l’inchiesta e formula le domande  (pag. 128).
Queste esperienze innovative Pugliese le vede proseguire fino agli inizi degli anni Settanta  e confluire nella rivista «Inchiesta»  a cui collaborano giovani ricercatori provenienti dall’ambito sia accademico che sindacale (pag. 126).
Non ci troviamo, però, di fronte ad un loro sviluppo irresistibile e senza contrasti. Nella stessa area dei pionieri degli studi sociologici in Italia l’incerta dialettica tra una sociologia “dall’interno” (inchiesta, con-ricerca), avviata da Panzieri e da Montaldi,   e  una sociologia accademica  finisce in un netta contrapposizione.
I fautori di una sociologia come  “scienza fredda” – i Guiducci , i Pizzorno – puntano  allo «“sdoganamento” della sociologia nella cultura» e a conquistare per essa «la  rispettabilità accademica». Mentre  Montaldi – Panzieri morì presto nel 1964 – ribadisce che il ricercatore  «è innanzitutto un militante» (pag. 131)  e denuncia il «limite di natura politica» , la piega  “riformistica”, che andava prendendo una «sociologia ormai istituzionalizzata» e intenta all’«invenzione di un proletariato sociometrico» (pag. 130).
Questo contrasto segnala, secondo me, una pesantissima e tuttora irrisolta crisi, che viene elusa. Quando in questo suo saggio Enrico Pugliese si rammarica per  per la scarsa attenzione data alla nuova trasformazione in  corso, che per lui  rappresenterebbe una «novità di portata paragonabile a quella dei tempi dei lavori di Montaldi e dell’inchiesta operaia dei “Quaderni Rossi» (pagg. 109-110) e dimostrerebbe l’attualità dei contributi di Montaldi e la necessità di ripensare  quelle sue esperienze, trascura due cose. La prima. Che, come ho già detto (qui), dopo gli anni ’70 (meglio: la sconfitta degli anni ’70) di riprese della pratica dell’inchiesta o della con-ricerca se ne sono viste o se ne vedono poche. La seconda. Che come minimo l’istiuzionalizzazione o accademizzazione della sociologia ha impoverito e marginalizzato le esperienze militanti.  E, perciò, a me pare debole e contraddittorio lo stesso auspicio di Pugliese. Come si fa, infatti, a considerare «ovvio che Montaldi non abbia mai ricercato  né accettato una collocazione accademica» (pag. 132) senza chiedersi il perché di quella sua scelta; e aggiungere, invece, poco dopo che «c’è da chiedersi se per condurre con-ricerca oggi sia indispensabile aderire alle opzioni ideologiche e politiche di Montaldi, alla creazione del gruppo “interno- esterno”, all’intento di realizzare un progetto politico come il suo»?
Ancora oggi quel conflitto tra sociologi accademici e “sociologi”  militanti mi pare indicare un bivio che ha sospinto ricercatori e studiosi in direzioni molto diverse, se non del tutto contrapposte. Ridimensionarlo in modi concilianti, come mi pare faccia Pugliese –  ora  lusingato dal fatto che Pasolini  sottolineò «soprattutto la qualità letteraria» di Montaldi (seguito in questo a ruota da Piergiorgio Bellocchio), ora  affermando che il narratore Montaldi «può essere un grande sociologo e mostrarlo anche attraverso la narrazione» – mi pare una scelta riduttiva.
E del comunista Montaldi che diciamo, che ne facciamo?

Mentre leggo questi nuovi saggi su Danilo Montaldi si rafforza un’obiezione sicuramente antipatica contro un non detto da parte di chi ancora s’occupa di queste esperienze; e che potrei formulare provocatoriamente così: Danilo Montaldi l’avrebbe davvero meritata una bella laurea honoris causa in sociologia (magari dei “marginali”). O nel nuovo settore della storia orale. O – perché no – in letteratura. Ma era un militante, pensava ancora al “comunismo  delle origini” («livornismo»). E però i tempi sono troppo cambiati. Certo, è attuale il sociologo, è attuale il narratore, ma risparmiateci il comunista,  l’ideologo insomma! Lodiamolo, sì, ma prendiamo  – poco, poco, eh! –  le distanze. Forse tornerò su questa mia “impressione”. Nel frattempo  aggiungo qui sotto, in appendice, alcune citazioni. Anch’io ogni tanto faccio il «pescatore di perle». E chi le leggerà  deciderà per conto suo dove vado (o vorrei andare) a parare…

 

Appendice

1.
«Sergio Bologna avrebbe poi affermato, nella primavera del 1975, nel necrologio scritto in occasione della morte di Montaldi sulla rivista Primo Maggio che: “non c’è vigliaccata peggiore che dargli del sociologo, di attribuirgli uno sforzo di identificazione o di traduzione delle sue «storie dirette. […]. Un vasto processo di ricomposizione organizzativa del corpo rivoluzionario tende a rompere il vincolo nel quale, dal 1945, in Europa, il proletariato può vivere, dibattere, crescere, invecchiare, ringiovanire senza però poter mai uscire dalla condizione nella quale si trova ristretto. La condizione perché venga infranto tale giro vizioso […] è di spezzare l’accordo che lega i partiti tradizionali del movimento operaio alle forze della guerra e dell’imperialismo.»

(Da «L’autonomia di classe…innanzitutto!» (16 Maggio 2016) https://www.carmillaonline.com/2016/05/16/lautonomia-classe-innanzitutto/di Sandro Moiso )

2.
«Perché la tentazione che secondo me ha avuto questa generazione di operaisti è quella di diventare semplicemente dei sociologi, e non a caso sono stati prodotti alcuni dei principali sociologi italiani: Massimo Paci, Vittorio Rieser, Giovanni Mottura, abbiamo riempito di illustri baroni e meno baroni l’università italiana, dei sociologi veramente di altissimo livello. Altri però più che sociologi volevano diventare qualcos’altro»

(da Sergio Bologna, «Operaismo e composizione di classe», https://www.infoaut.org/notes/operaismo-e-composizione-di-classe)

 

Stralci dal saggio di Enrico Pugliese

1.

2.

Mariuccia Salvati, Montaldi e la sociologia

in «Lasciare un segno nella vita. Danilo Montaldi e il Novecento»
a cura di Goffredo Fofi e Mariuccia Salvati (3)

Suntino e stralcio a cura di Ennio Abate

Sì,  siamo in un tempo che ha bisogno di «uno sguardo nuovo». Si ha l’ esigenza di una nuova riflessione su questo tempo e su Montaldi (pag. 79). La cui immagine sempre più assomiglia all’arendtiano  “pescatore di perle”  di  Benjamin. Perché al filosofo tedesco Montaldi  si rifà nel lungo saggio «Sociologia di un congresso» al centro di questo saggio di Mariuccia Salvati e perché anche lui amava le  citazioni (pag. 93).  Montaldi  era ben inserito nel campo  della ricerca sociologica che si andava consolidando anche in Italia. E lo dimostra questo suo resoconto del 1° Congresso nazionale di Scienze sociali che si tenne a Milano nel 1958.  Non scendo nei particolari  – nomi (Abbagnano, Ardigò, Bobbio, Treves, Pizzorno, Ferrarotti, Lombardi) o temi, come quello dei  rapporti città/ campagna (pag. 98). Come fa invece benissimo  la Salvati. Indico soltanto alcuni punti che mi hanno colpito o che conoscevo  in maniera vaga: –  l’ interesse di Montaldi  per la sociologia religiosa (pag. 96); e, più esattamente, per il personalismo francese e la sociologia religiosa cattolica (pagg. 103-104) ; –  l’amicizia duratura ma non senza screzi tra Montaldi  e Pizzorno (pag. 100); – il ritardo della ricerca sociologica al Sud (pag. 102): «colpisce che […] Montaldi, per parlare di Mezzogiorno  non possa che citare la letteratura», perché pare che «i sociologi italiani al Sud arriveranno dopo: dopo Banfield, dopo Putnam»; – la distinzione abbastanza netta che Mariuccia Salvati fa  tra un Montaldi sociologo e un Montaldi «narratore- sociologo», quello delle «Autobiografie della leggera»  (pag. 105).

Stralcio:

Maria Grazia Meriggi, Danilo Montaldi: militante politico, ricercatore originale

in «Lasciare un segno nella vita. Danilo Montaldi e il Novecento»
a cura di Goffredo Fofi e Mariuccia Salvati (2)

 

di Ennio Abate

Concordo con due importanti sottolineature di questo saggio di Maria Grazia Meriggi:
1. Montaldi irriducibile alle analisi del neomarxismo anni Sessanta/Settanta (pag. 175). La sua visione più plurale della classe (qui echi della lezione di Stefano Merli) e la concretezza del legame con Cremona e i “gruppi locali” di «Unità proletaria» (1957-1966) e Karl Marx (1967- 1975) lo tennero a distanza critica dal “settarismo/patriottismo” dei gruppi “fondatori” del “nuovo” partito rivoluzionario. Gli conservarono, cioè, sguardo plurale e capacità di ricerca sul plurale della classe («più che “classe operaia”»). Fino al progetto della sua ultima ricerca «in un rapporto soprattutto personale, non con un gruppo politico ad esclusione di altri, ma con alcuni militanti di alcune organizzazioni», troncata dalla morte ( pag. 181).
2. «Livornismo» (Cortesi) di Montaldi e, perciò, leninismo “pulito” o “elementare” più che bordighismo tendente all’ortodossia e alla logica ferrea ma astratta (pag. 175). O – ben detto – «rigore del comunista di sinistra» e originale creatività del suo lavoro di ricercatore ( pag. 183). Per cui la sua innegabile tensione minoritaria (dovuta alla sua formazione giovanile a contatto coi “vecchi compagni”) è capace di espansioni feconde.
Da qui: – la differenza rispetto a Pasolini (pag. 177) del suo “ascolto” (sempre di carattere politico e mai “estetizzante”) dei “marginali”; – la sua tenacia duttile a non separare «centralità dell’individuo» e «liberazione collettiva», “io” e “noi”, centro e periferia, Marx e Simone Weil, le «figure bronzee di operai con le braccia incrociate» e gli immigrati dell’hinterland milanese di «Milano, Corea». (E fu per queste sue doti di militante “diverso” – (“comunista speciale” come Fortini?) – che ci conoscemmo, anzi che ci venne a cercare lui a Cologno Monzese nel ’69-’70) .
Mi restano alcune perplessità che spero di poter approfondire in dialogo con Maria Grazia.
Capisco il valore che lei dà all’influenza del Montaldi fondatore della storia orale sui giovani storici che lo conobbero e che hanno poi cercato di innovare il loro campo di studi «in direzione della storia sociale e soprattutto della storia del conflitto sociale» (182), ma questa “continuità settoriale” (direi, senza polemica, “accademizzata”) del discorso montaldiano non basta. E specie dopo la sconfitta di quell’«altro mondialismo» (pag. 184) che nel 2006, quando io rilessi Montaldi e feci l’«elogio di un compagno periferico», ancora sembrava respirasse. Anche se già allora insistevo sulle difficoltà : « Sono tanti i nodi, tanti gli scarti fra esperienza proletaria montaldiana o operaia e esperienza precaria dell’oggi che a volte pare che ci si debba limitare a porre onestamente solo il compito di tradurre nell’oggi quel senso alto e nobile che Danilo Montaldi ebbe della condizione proletaria.» (https://www.poliscritture.it/…/montaldi-riletto-nel-2006/).
Mi spiace, dunque, dover farmi “temere” per il mio ( non so quanto) «sempre acuto giudizio» chiedendo perché mai, dopo la morte di Danilo, i tanti da lui convocati a collaborare a quel progetto troncato dalla sua morte lo lasciarono cadere?
Nei tanti decenni successivi a me vengono in mente solo alcuni tentativi di riprendere il metodo della conricerca montaldiano: quello – sempre attorno al 2001- 2006 – della rivista «Posse» (http://www.manifestolibri.it/shopnew/category.php…); quelli di Sergio Bologna ora consolidatisi – pare – attorno alla rivista «Nuova Officina Primo maggio» (https://www.officinaprimomaggio.eu/).
Poca roba nel deserto che continua a incombere.

 

APPENDICE/STRALCIO

(DAL SAGGIO DI MARIA GRAZIA MERIGGI)