Alcune riflessioni nate dalla lettura del libro di Ricardo Piglia “Critica e finzione”
di Angelo Australi
Se dovessi esprime un giudizio dalla quantità di romanzi pubblicati attualmente in Italia, la letteratura contemporanea sembrerebbe attraversare una stagione feconda, poi entri in libreria e le tue buone intenzioni scemano fin quasi a sparire, le curiosità per l’acquisto si riducono ad un senso di noia perché intuisci subito che qualcosa non funziona. Le novità si avvicendano ad una velocità sconcertante, per soddisfare aspettative in fondo scontate. Si ha quasi l’impressione che ci sia un’invasione di occasioni assolutamente da non perdere, di capolavori che non aspettano altro che di essere letti, mentre se chiedi al commesso un titolo uscito da due o tre anni, che magari ti è sfuggito e non trovi sugli scaffali organizzati in ordine alfabetico sui nomi degli autori, ti senti rispondere che non è più nel circuito della distribuzione e puoi trovarlo solo acquistando online. E’ un dato di fatto, se non pubblichi almeno un libro all’anno, meglio ancora uno ogni sei mesi, sei fuori dal cerchio magico della notorietà. Questo la dice lunga sullo strano modo in cui si è trasformata l’industria del romanzo: il prodotto si vende fresco di stagione, altrimenti resta lì qualche mese e poi sparisce di circolazione, diventa un oggetto da rintracciare curiosando nelle librerie online dell’usato. Un amico, in visita a Firenze con alcuni spagnoli che a Barcellona seguono i suoi corsi sulla letteratura italiana, quando gli ho suggerito di dedicare uno dei suoi incontri a Romano Bilenchi, chiedendo in varie librerie fiorentine non ha trovato disponibile neppure uno dei suoi libri. Spesso mi domando se oggi ci fosse un nuovo Joyce sconosciuto, chi mai avrebbe il coraggio di pubblicarlo?
Proprio perché si pubblica molto, allo stesso modo il libro invecchia in fretta. Quando sei in libreria, nonostante gli incitamenti sensazionalistici rilasciati da una cerchia di “autori affermati” sul risvolto di copertina, appena ti metti a curiosare leggendo qua e là una pagina, finisci per sentirti assoggettato ad un livellamento linguistico senza precedenti. Leggi uno di quei libri così pompati, poi un altro, un altro ancora, e tutti sembrano scritti con lo stesso metodo. A volte a casa, nei momenti di noia, mi sono divertito a trascrivere al computer una mezza paginetta da due o tre libri di successo; credeteci, il risultato è desolante, si può dire che sono sovrapponibili: sembrano fatti con lo stampino. Può bastare la trama a salvarli, quando ormai si ragiona solo di un prodotto? E’ anche vero che bazzicando in libreria uno spera sempre d’incappare in qualcosa di originale, e qualche volta capita pure, ma in generale prevarrebbe la voglia di leggere solo i classici, in fondo sono così tanti che non basta una vita ad entrarci in confidenza.
Questo appiattimento è colpa delle scuole di scrittura creativa che negli ultimi anni si sono moltiplicate come funghi? Forse sì, almeno quando non arrivano a farti scoprire le ragioni più intime, autentiche dalle quali cominciare a scrivere. Nessuna scuola creativa, nessun corso, può aiutarti a trovare dov’è la tua scrittura. Perché è lì, non c’è dubbio, che vive qualcosa di veramente autentico in cui può costruirsi un percorso verso la bellezza. Oggi la trama delle storie è così scontata perché sembra rincorrere la cronaca, quindi è gioco forza che venga a mancare l’interesse, che l’aspettativa di leggere un buon libro muoia velocemente. Leggi le pagine culturali dei quotidiani, segui i vari talk show televisivi, e trovi sempre le stesse facce, lo stesso tono nel linguaggio da barzelletta della commedia all’italiana, quello scontato oltre ogni limite, che poi si banalizza con le storie raccontate al cinema, come l’altra faccia della letteratura. Per certi aspetti sembra di abitare in una piccola comunità di privilegiati dove c’è un bar in cui tutti si sentono obbligati a parlare di tutto. D’accordo, il bar è frequentato ad ogni ora del giorno, ma è sempre un bar, quando te ne esci non resta impressa neanche una parola di quello che hai ascoltato. Spesso ti senti un’entità a cui è stato rubato qualcosa di essenziale per poter esprimere un giudizio critico su quelle stesse “facce note” che ogni giorno invadono la tua esistenza parlando di un diverso argomento, anche se ami la letteratura hai più di un dubbio che questa sia la strada che mantenga vivo il tuo bisogno di continuare a leggere. Mi viene in mente un’intervista fatta da Pierre Boncenne a Italo Calvino, apparsa su “Lire” nell’aprile del 1981, che ho potuto leggere sul libro “Sono nato in America”, curato da Luca Baranelli per Mondadori, uscito nel 2010, e che raccoglie tutte le interviste fatte allo scrittore dal 1951 all’anno della sua morte, nel 1985. Alla domanda del giornalista francese: “…A un certo punto su Se una notte d’inverno un viaggiatore si legge: “Ecco che l’autore si crede obbligato a far ricorso a uno di quegli esercizi di virtuosismo che designano lo scrittore moderno”. Quest’ironia sui suoi stessi libri non è forse anche un modo per affermare che oggi il romanzesco è in trappola, che più nessuno può credere veramente nei romanzi?”, Italo Calvino risponde: “Vivo sempre nella speranza d’incontrare un romanziere che sia semplice, naif, e che dica qualcosa di veramente nuovo. Ma non ne incontro fra i contemporanei”.
Penso che come lettori dovremmo tornare a rifiutare o criticare in qualche modo gli standard di un gusto che ci viene imposto. Non per il piacere di criticare, oggi così tanto di moda, ma semplicemente perché possano diversificarsi gli approcci interpretativi nel rapporto tra lettore, prodotto, società. Senza tornare al tempo delle discussioni tra letteratura e politica, ci sarà pure il modo di superare questa illusoria sensazione di riconoscere, prima che nel libro, nell’autore stesso un prodotto?
Ricardo Piglia, nel suo libro di interviste Critica e finzione, pubblicato da Mimesis nel 2018,mette a fuoco chiaramente il punto d’impasse in cui siamo: “Quando si dice di tornare alla narrazione, di abbandonare la tradizione dell’avanguardia, di guardare con più cinismo al mercato e al successo, si sta in realtà parlando del lettore perduto. Nel dibattito attuale c’è una tensione nascosta tra modi di narrare. Da una parte, c’è una narrazione sociale molto forte che viene dallo Stato e dalla cultura di massa, dall’altra, una specie di esercito in ritirata rappresentato dalla narrazione letteraria di un drappello di avanguardisti che opera in modo persecutorio. La gente cerca il romanzo in altri luoghi, non perché stia scomparendo, ma perché – e questo Benjamin lo aveva già capito – il romanzo non occupa più lo spazio che aveva nel XIX secolo quando la gente leggeva i libri di Dickens come oggi guarda la televisione…E poco più avanti, in questa intervista fatta da Graciela Speranza nel 1992, aggiunge: “Il concetto di pubblico inesperto, che si è soliti usare, deriva da quello di cliente inesperto che non sa scegliere un libro in libreria, tanto che un insieme di <<specialisti>>, dal responsabile del marketing al pubblicitario fino al critico, sono preposti a orientare il suo gusto letterario”.
Lo scrittore allora non c’è più, o comunque viene dopo, a traino di una serie di altri elementi molto più legati all’aspetto economico che all’arte. E in questo inizio di XXI secolo, nel meccanismo editoriale sopra citato da Piglia, anche la tribù dei lettori è sezionabile per argomenti e per generi, non più per categorie sociali. Lo scrittore per conquistare il trono della notorietà deve apparire come prodotto con il suo prodotto, o comunque accettare il ruolo di un personaggio che con il suo prodotto sia in grado di commentare ogni avvenimento politico, ogni dramma, ogni fatto di cronaca, da una semplice suggestione alle forme di depressione più acute del presente alla percezione d’insicurezza permanente che colpisce la nostra vita reale. Tutto finisce per mescolarsi, adeguandosi al potenziale acquirente scelto con la logica del come trascorre il tempo libero. Spesso è un colloquiare che genera solo confusione, ma nessuno si scandalizza, se ne preoccupa. Esce un libro e per almeno un mese il nome di quel determinato autore appare in ogni palinsesto televisivo o sui social e sui quotidiani. Credo che qualcosa del genere sia sempre successo nella storia recente, quando si parla di eventi culturali, quello che non era mai accaduto prima è che da molti anni nessuno parla più di “vita letteraria”. Anche quando si tratta di un giallo, di un noir, la trama di un romanzo aspira a trasformarsi in documento per un determinato argomento di cui si è discusso e si discute insistentemente in altri luoghi deputati alla comunicazione. Per ovviare alla trama ereditata dal romanzo ottocentesco, c’è poi chi cerca delle vie d’uscita nella biografia romanzata di scrittori noti del passato, ma finisce per costruire solo un personaggio letterario che non aggiunge niente sul piano di quello che già ci è stato lasciato dall’autore stesso, con le sue opere.
La letteratura segue a rimorchio, non è più in grado di anticipare le tensioni della società reale, non è più in grado di portare ad emergere una sua peculiarità. Nella maggior parte dei casi questo lo percepisci appena ti metti a leggere un romanzo contemporaneo: dietro a ogni storia senti una traccia di motivazione insincera che non c’entra affatto con la finzione tipicamente letteraria, nasce da uno strano punto in cui ci sei solo come scrittore, costruito grazie al lavoro di un equipe incaricata di confezionare quel determinato prodotto che funziona nei primi mesi in cui esce in libreria. Non sono poi neanche tanto convinto che il libro sia frutto di un’idea dell’autore e non piuttosto il suggerimento dell’editore o dell’agente letterario, questo perché in molti casi c’è uno scostamento abissale tra l’ultimo suo romanzo e gli argomenti trattati nei precedenti, come se si partisse da un concetto studiato a tavolino piuttosto che da un bisogno sincero. Se non è l’autore a porsi il problema dal punto di vista delle letteratura, chi dovrebbe farlo, forse quella mezza paginetta di recensione che appare nei quotidiani? Ho i miei dubbi. La sua presenza a “Che tempo che fa”? Ho i miei dubbi anche su questo. Lo scrittore dovrebbe essere il primo critico di se stesso, per amore proprio del mestiere che ha scelto di fare per guadagnarsi la pagnotta. Guardarsi indietro, fare i conti con quanto è stato già scritto, perché no, magari entrandoci in conflitto, avere il coraggio di criticarlo. Questo è lavita letteraria. E soprattutto capire che non è per niente scontato che a farlo di mestiere si possa scrivere qualcosa di autentico, di originale, quando la società è così chiusa a compartimenti stagni, in una dimensione specialistica.
Non mi scandalizzo se non siamo in molti a pensarla così, mi preoccupa e trovo deludente invece il tono in cui sono scritti la maggior parte dei romanzi, grazie al quale ogni trama diventa prevedibile, scontata. Per un lettore appena un po’ smaliziato è come prendere un bel pugno in faccia, subire un KO, come in un incontro di pugilato.
Cazzotti a parte, in faccia e sullo stomaco, di quelli che tolgono il respiro, ogni tanto capita d’incontrare un autore che sembra uscire dal coro per esplorare strade o territori poco frequentati, e che tiene sullo stesso piano della storia il tono, il lessico e lo stile, partendo da un giudizio critico per quello che altri hanno scritto prima di lui, con la motivazione di andare oltre tenendo su dei livelli ben distinti la società e la finzione letteraria che aspira a cercare una sua verità. Nel suo saggio pubblicato in calce al libro di interviste di Ricardo Piglia, “Critica e finzione”, pubblicato da Mimesis nel 2018, il curatore Massimo Rizzante scrive: “Mi chiedo se una delle ragioni per cui il romanzo contemporaneo abbia così drasticamente ridotto le sue ambizioni non sia dovuta alla mancanza di pensiero critico da parte degli scrittori. Sembrerebbe un paradosso, ma non lo è: oggi il problema non è quello del talento creativo. Di “creatività” ce n’è fin troppa. Quel che manca è la riflessione estetica dentro e fuori l’opera. Senza di essa la creazione artistica si riduce a ben poca cosa: un buon prodotto, una buona story da far circolare, dove la circolazione vince sulla produzione. Se gli scrittori si mettono dalla parte della circolazione del prodotto, come possono poi pretendere che la loro produzione artistica assuma un valore incalcolabile, cioè quel valore che, al di là di ogni giudizio, per definizione non si può calcolare secondo i criteri della circolazione economica: tempo, quantità, rapidità, costi?
Quel che manca terribilmente da molti decenni è quel che potremmo chiamare “vita letteraria”. Ogni autore confeziona con l’aiuto di qualche editor il suo prodotto letterario e cerca di farsi pubblicare. C’est tout”….
Come dargli torto! Qui, oltre a quello sullo stato di salute della letteratura, si torna al tema della marginalità di un’esperienza autentica, che deve essere libera nel piacere di esprimersi. Consiglio di leggere questa raccolta di interviste di Ricardo Piglia, perché è uno di quei rari casi in cui oggi hai l’occasione di confrontarti con quel punto di sincerità con il quale l’autore, raccontando delle storie vestito nei panni del critico, fa lo sforzo di sentirsi libero di non porsi altro problema se non quello di trovare un proprio originale percorso nel piacere di scrivere.
In questa raccolta di diciotto interviste che lo stesso Ricardo Piglia ha organizzato per la pubblicazione nel 1986 e poi, arricchendola, nel 2001, viene tracciata una mappa della letteratura argentina, messa in uno stringente rapporto storico con quella statunitense ed europea. In una relazione con i suoi romanzi, ci spiega come è possibile invertire l’ordine di un concetto millenario per cui la critica è materia utile ad organizzare e spiegare la finzione. Oggi è bene che non sia più così, sembra dirci, perché il romanziere, il narratore, deve sentirsi stimolato a riconoscere l’importanza della critica, visto che ormai non esiste più uno spazio letterario puro da cui partire. In questa inversione dei concetti tra “critica e finzione” è il ruolo dello scrittore che acquista importanza. Piglia lo spiega chiaramente in questo brano, sempre tratto dall’intervista di Graciela Speranza: “Qualunque marxista sa che non si deve confondere la produzione con la circolazione. Sono due forme incompatibili e nella loro differenza risiede tutto il paradosso del valore. La società crede che questa differenza non esista e guarda in modo superficiale le cose che sforna il mercato. Nella letteratura la distorsione è ancora più evidente. Sono due mondi contrapposti e la distanza aumenta sempre di più. Mi sembra che si debba aver chiara la differenza e non confondere ciò che avviene in uno spazio con ciò che avviene nell’altro, perché altrimenti si corre il rischio di <<credere>> a quel che la società dice sulla letteratura e i suoi <<valori>>.
In sostanza, senza tornare a parlare di avanguardia, che non mi sembra il caso, in una società che appunto ha ucciso la letteratura, di fronte ad un prodotto scritto bene, è arrivato il momento di sentirsi svincolati e preferirne uno brutto che al suo interno ha qualche pagina di scrittura autentica. Non sarà un capolavoro, ma ti farà sentire libero di affermare che si può ancora “scrivere”.
Angelo Australi
Qualcosa su Ricardo Piglia scrittore
Riccardo Piglia è uno dei massimi scrittori argentini della seconda metà del ‘900. E’ nato ad Adrogué nel 1941 e morto a Buenos Aires nel 2017. Narratore, critico, saggista, grande lettore di libri, questo scrittore si inserisce nella tradizione letteraria del suo paese che va da Macedonio Fernàndez a Roberto Arlt, a Borges, ma anche con la letteratura latino americana di Juan Rulfo, Manuel Puig, Joao Guimaraes Rosa, quella nordamericana di Faulkner ed Hemingway, e di maestri europei come Kafka e Joyce.
La sua scrittura è un incrocio tra fiction, saggio, digressioni biografiche. Attraverso il suo alter ego, Emilio Renzi, docente argentino di letteratura inglese, i suoi romanzi si sviluppano come un’indagine poliziesco letteraria e sentimentale, nella quale affronta in una lucida riflessione il rapporto tra letteratura e storia. Ha lavorato per un decennio in una casa editrice diBuenos Aires, dirigendo negli anni ‘Sessanta, una collana di romanzi polizieschi, la Serie Negra, dove vennero pubblicati alcuni classici americani: Dashiell Hammett, Raymond Chandler, David Goodis e Horace McCoy. Ha insegnato presso l’Università di Buenos Aires, l’Università di California e l’Università di Princeton.
Questi i suoi libri pubblicati in Italia: “Respirazione artificiale”, Edizioni SUR, 2012, “Soldi bruciati”, Feltrinelli 2008, “L’ultimo lettore”, Feltrinelli 2007, “Bersaglio notturno” Feltrinelli 2010, “La città assente” SUR 2014, “Solo per Ida Brown”, Feltrinelli 2017.
Gentile Australi Angelo,
la maggior parte dei temi di cui Lei ci informa furono affrontati nelle linee essenziali dai formalisti russi degli anni “20 del secolo scorso e con le dovute distinzioni a un secolo di distanza permangono quasi intatte le riflessioni sul libro: quantità, qualità, diffusione ecc.
I formalisti russi in primis e poi gli strutturalisti, specie quelli del Circolo di Praga del ” 29, con a capo Roman Jakobson, affrontarono con la conoscenza propria “alta e profonda” delle varie filologie slave, europee fino a quelle mediorientali se davvero la letteratura era destinata a scomparire.
Poi ci furono gli apporti degli studiosi francesi e poi ancora del News criticism americano… e ne uscì fuori un quadro ancora più desolante e più refrattario alle cure di ogni specie… pochi compresero che la letteratura era cosa distinta dalla Poesia, e se quella era destinata alla morte, la seconda assolutamente NO!
La letteratura ha ucciso la società, e non il contrario come Lei afferma, dal momento che ne ha sviscerato quasi tutti i mali a causa della sua stessa natura d’essere prosastica e perciò falsa, superficiale priva del tutto del fascino della “destinazione”, che è invece prerogativa della Poesia… dopo Joyce si può dire Celine e B orges e qualche altro…
da noi nessun poeta di grande respiro universale, e i due Nobel (Montale e ancor peggio Quasimodo) fanno pena… sono questi duee altri come loro: figli e nipotini che hanno ucciso Campana
Fo ha rimesso in gioco la Poesia da giocoliere qual’era riempiendola di musica pittura teatro e altro…
ma scusate la mia sinteticità e approssimazione…
A. S.
In attesa che Australi risponda, se vorrà, a Sagredo, pubblico una nota del mio diario del 2009. Era un commento critico – un mio rimuginamento riga dopo riga (che lascio in maiuscolo)- a uno scritto di Lucio Mayoor Tosi. Vi erano espresse tesi vicine a queste di Sagredo (e circolanti anche sul blog “L’Ombra delle Parole”). Non so più dire dove copiai il testo di Mayoor. [E. A.]
RIORDINADIARIO
16 set 2009
Mayoor, Troppa prosa nei versi.
Sono un lettore prudente di poesia.PRUDENTE? SIN TROPPO ESIGENTE MI PARE DA QUANTO POI SCRIVE… Tanto prudente che mi capita spesso di accantonare un intero libro di poesia solo per il fatto che, aprendolo a caso, ne ho letto una o magari anche solo pochi versi, senza provare emozioni rilevanti o senza condividere lo stile. EMOZIONI E STILE: ECCO INDICATI I DUE CRITERI BASE (UNICI?) DELLE SUE SCELTE; PSICHE E FORMA, INSOMMA; FACCIO NOTARE CHE NON È PRESENTE NESSUN ACCENNO ALLA CORRISPONDENZA FRA EMOZIONE E REALTÀ, FRA STILE E CONTENUTO Oppure perché tanto spesso mi rendo conto di avere tra le mani un accumulo di inezie che, per quantità, manifestano la speranza di aver raggiunto un dignitoso traguardo. LA FACILITÀ CON CUI VENGONO CLASSIFICATE LE ‘INEZIE’ ( DI SOLITO ALTRUI O DI SCONOSCIUTI) MI HA SEMPRE STUPITO. COME MI STUPISCE UN RADICATO PREGIUDIZIO (CHE SENTO ÉLITARIO) CONTRO LA ‘QUANTITÀ’; E POI DI SOLITO LA ‘QUANTITÀ’ HA A CHE FARE CON LA PROSA E QUI RITORNA IL “PREGIUDIZIO ANTIPROSA” TANTO FORTE DA ESSERE ENTRATO NEL TITOLO DI QUESTO PEZZO
Non faccio nomi VA BENE, POSSONO PORTARE FUORI ARGOMENTO, DEVIARE UNA DISCUSSIONE, MA A PATTO CHE DOVRÀ ESSERCI UN’OCCASIONE IN CUI I NOMI VERRANNO FATTI E ESAMINATI CON SERIETÀ…, non è questo che mi interessa dire, né mi interessa manifestare più di tanto il mio solitario bisogno di assoluto QUI UNA RISPETTABILE DELIMITAZIONE DEL DISCORSO ALLA PROPRIA SOGGETTIVA ESPERIENZA perché so che ciascun poeta ne ha di suo QUI INVECE UNA (PER ME) INDEBITA GENERALIZZAZIONE: CI SONO POETI CHE L’ASSOLUTO NON LO CERCANO O LO TENGONO A BADA. Voglio invece dar voce ad una denuncia.
Denuncio l’abuso di prosa che leggo tra i versi.QUI LA “STAFFILATA” (E TORNIAMO AL TITOLO): ATTENZIONE, CON INTELLIGENZA PARLA DI ‘ABUSO’; LASCIA INTENDERE CHE UN ‘USO’ DI PROSA TRA I VERSI SIA ACCETTABILE; E PIÙ AVANTI, INFATTI, CHIARISCE BENE LA SUA POSIZIONE: NON È DI QUELLI CHE SOSTENGONO CHE «LA PROSA NON C’ENTRA CON LA POESIA»
Abuso e maltrattamento del lettore che, in buona fede, si lascia ingannare dalla brevità dei versi QUI TORNA IMPLICITAMENTE UN IDEALE DI POESIA: LA “VERA” POESIA È FATTA DI BREVI ( FULMINANTI MAGARI, NO?) VERSI senza rendersi conto che, invece di poesie, sta leggendo delle prose ridotte dove ci si contenta di mettere in buon ordine gli accenti nell’attesa del verso imprevisto…QUI SOSPETTO UNA CERTA IDEALIZZAZIONE DELL’’IMPREVISTO’; SULLO SFONDO ANCORA LA “VERA POESIA” FATTA D’ILLUMINATIONS NON PREVISTE, APPUNTO, IMPREVEDIBILI, DI ORIGINE INCONSCIA (O PER ALCUNI DIVINA) che spesso stenta ad arrivare e quando lo fa, invece che provocare l’inizio coraggioso di una poesia, finisce di solito col chiuderla.
Perché la prosa non c’entra con la poesia?
Può sembrare una domanda scontata ma a parer mio non è così. Ricordo che Busi, un romanziere che stimo e che è noto per le sue dichiarazioni stravaganti, qualche anno fa dichiarò che la poesia è un sotto-prodotto della prosa. Allora questa dichiarazione mi fece sorridere ma oggi mi sento di condividerla, non per principio ma perché oggettivamente è un fatto riscontrabile.
Tralasciando noti ma sporadici esperimenti, la prosa è quasi sempre racconto BEH, NON SEMPRE. LA PROSA SCIENTIFICA O SAGGISTICA SONO ARGOMENTATIVE. Si avvale cioè di un linguaggio comune e comprensibile AGGIUNGIAMO PER PRUDENZA: IN GENERE. LA VERIFICA DELLA COMPRENSIONE DI QUANTO SI LEGGE È UNO DEI CAMPI MENO INDAGATI E PIÙ SCIVOLOSI appena caratterizzato dalla soggettività stilistica del narratore DA APPROFONDIRE, SE SI PENSIAMO ALLA SOGGETTIVITÀ CHE S’INSINUA NELLA STESSA RICERCA SCIENTIFICA. Tra l’albero e un’auto che passa non ci sono sorprese, i semafori non sono cannibali a meno che non ci si spenda una mezza pagina per dirlo. Il racconto di solito è avvinghiato al senso, alla visione e alla comprensione degli avvenimenti.
Secondo me in poesia la creatività dovrebbe essere insita in ciascuna parola, in ogni verso. Non dovrebbe esserci spazio per la scontatezza conseguenziale degli accadimenti, almeno non nella forma offerta dal linguaggio narrativo. IN QUESTE ULTIME QUATTRO RIGHE VIENE FATTA FUORI LA TESI PRECEDENTE (PIU’ EQUILIBRATA); E FINISCE PER SOSTENERE ANCHE LUI CHE «LA PROSA NON C’ENTRA CON LA POESIA»; PRIMA ATTRIBUENDO ESCLUSIVAMENTE AL RACCONTO (PROSA) QUASI ESCLUSIVAMENTE LA FUNZIONE REFERENZIALE (SENSO, VISIONE, COMPRENSIONE O RAPPRESENTAZIONE DI AVVENIMENTI); POI ATTRIBUENDO LA “CREATIVITÀ” (AHI!) ESCLUSIVAMENTE ALLA POESIA, ANZI PRETENDENDO CHE LA SEGNALI «IN CIASCUNA PAROLA, IN OGNI VERSO»; E INFINE SCACCIANDO DALLA POESIA QUELLA CHE CHIAMA « SCONTATEZZA CONSEGUENZIALE DEGLI ACCADIMENTI»: CRITERI CHE A ME PAIONO PRATICATI, MA SOLO DA UNA SCHIERA DI POETI (SIMBOLISTI, ERMETICI) E NON DA ALTRE SCHIERE (ANCH’IO NON FACCIO NOMI, PER NON DEVIARE LA DISCUSSIONE).
Il prezzo da pagare sta nel linguaggio insolito, nella poesia giudicata come difficile RIBADISCE QUA IL SUO IDEALE DI POESIA. Difficile perché imprevedibile e sorprendente?
Sembra che sono in pochi RIBADISCE ANCORA LA SUA PROPENSIONE ELITARIA ad avere voglia di fare scelte impopolari, si fa affidamento su un’acuta osservazione, sull’intimità di un sentimento, sul momento veritiero di una confidenza. Ma l’arte della scrittura, l’arte di scolpire con le parole – ben inteso che ogni parola è antica in sè, ancor prima, nel suo insorgere, prima che nel significato offerto dai suoi accostamenti – è cosa rara ma, quando è, di solito sancisce la presenza del buon poeta. IDEM
In poesia il senso, il significato, è sentito, visto, prima che essere compreso. QUI DA’ PER ACQUISITO UNA SCISSIONE ANTINTELLETTUALISTICA TRA SENTIRE E COMPRENDERE (TRA SENTIMENTO E RAGIONE), CHE – RIPETO – È SOLTANTO UN IDEALE DI UNA CERTA POESIA (DI CERTI POETI); MENTRE SAREBBERO TUTTE DA VERIFICARE LE RAGIONI (STORICHE, ETC) DI UNA TALE PRATICA DELLA POESIA SPECIE IN CERTI PERIODI E DA PARTE DI QUALI POETI…
Troppa prosa nei versi è come mettere acqua nel vino. Non dovrebbe essere cosa per palati esigenti.ANCORA MISS ÉLITE ALL’OPERA!
Non ho nostalgie per l’ermetismo, nè per lo sperimentalismo fine a se stesso di certe poesie anni ’80, tipo rinascenze del futurismo EPPURE FURONO QUEI POETI A PRIVILEGIARE LA POETICA CHE QUI LUI CALDEGGIA-, sono consapevole che ogni scrittura, senza fatica alcuna, risenta delle influenze culturali di ogni modernità, ma dunque quale sarebbe oggi la modernità? C’è oggi qualcuno, oltre ai giornalisti sportivi, che si prenda la briga di inventare nuovi vocaboli? A me sembra tutto un fluire nella baraonda data dalla paura di non aver significato, la paura di non aver da dire… paura che un poeta fiducioso, secondo me, non dovrebbe avere minimamente. MA PUÒ UN POETA RIDURSI A «INVENTARE NUOVI VOCABOLI»? A CACCIA DI NEOLOGISMI (INSOLITI? SQUISITI? SORPRENDENTI?) TUTTA QUA LA RICERCA DEI POETI?
Dunque qualche pausa durante la scrittura, qualche silenzio in più potrebbe essere utile se non altro per aspettare l’imprevisto. DAVVERO IL COMPITO DEI POETI È QUELLO DI FAR PAUSE E AZZITTIRSI IN ATTESA DELL’IMPREVISTO? IN TEMPI BUI COME QUESTI? E poi governarlo che poi, per me in fondo, è solo questa l’arte. Il resto è dono e mistero DONO DI CHI? MISTERO? (FORSE, MA PIÙ SEMPLICEMENTE IO PARLEREI DI ‘NON CONOSCIUTO’, LASCIANDO APERTA LA STRADA ALLA POSSIBILE CONOSCENZA. IL ‘MISTERO’ TROPPO SPESSO È UNA PORTA CHIUSA IN FACCIA AI “PROFANI” DAI SUOI SACERDOTI CHE FANNO MOSTRA DI SAPERNE DI PIU’ (MA POSSONO ANCHE INGANNARE (O INGANNARSI), a meno che non si voglia guardare tutto scientificamente TUTTO? IO DIREI TUTTO QUELLO CHE È POSSIBILE, SENZA DARE UN CREDITO ASSOLUTO AL PENSIERO SCIENTIFICO, MA ANCHE SENZA DEMONIZZARLO O FARE L’APOLOGIA DELL’IGNORANZA, che poi oggi più che un tempo, dovrebbe essere cosa possibile.
Caro Ennio, ti voglio bene.
Quello che scriveva ero io 10 anni fa? Sì, qualcosa mi torna – come tornano le tue obiezioni, tese a far ragionare – ma salverei solo questo:
“si fa affidamento su un’acuta osservazione, sull’intimità di un sentimento, sul momento veritiero di una confidenza. Ma l’arte della scrittura, l’arte di scolpire con le parole” e aggiungerei: non è spolvero di parole attorno a una forma stabilita. Oggi quella forma non è data in partenza; scriviamo come ciechi, che via via riconoscono quello che nemmeno vagamente si erano immaginati.
Non è che io abbia poca immaginazione, è che me ne servo poco. Penso che mi mandi fuori strada. Mi attrae poco la metafisica. Trovo quel che mi serve durante il percorso, mentre scrivo. L’atto di scrivere, certo non comparabile al dipingere, mi diverte in sé.
Prosa e poesia: non mi preoccupa la diversità di genere, mi preoccupa la poesia quanto torna come per appuntamento, al posto giusto; necessaria, ma quanto un orpello. Fatta su misura per un senso univoco della realtà, quando invece non passa giorno che ti devi inventare per vivere; fare amicizia e conoscenza con te stesso. Scrivendo, il mondo interviene, ma non solo per le macroscopiche ingiustizie, la vita grama. No, vivere non è solo questo. E il senso è nelle parole che ci vengono incontro, più che in quelle che tornano.
Bah, come al solito sarò uscito dal tema. A discutere con quelli come me, Ennio ci va a nozze. Un abbraccio a tutti di Poliscritture e non.
Caro Antonio Sagredo,
Be’, non affermo che il romanzo sia destinato a scomparire, o almeno, non mi sono posto il problema in questi termini in ciò che ho scritto. Falsità e bugie a parte dei romanzieri, in realtà volevo accennare al fatto che sono stufo di leggere libri dove ci sono sempre dei problemi risolti, che non è questa la cosa più importante che tiene insieme un romanzo, e non può essere il solo compito dello scrittore, o meglio, del narratore. Anzi, forse non dovrebbe proprio esserlo questo, un suo problema.
Quando mai compito dello scrittore è stato abbattere dei muri? Raccontare storie, semmai, per mettere in condizione il lettore di individuare i propri confini e demolirli in un contesto di vita reale. Pensare un po’ meno alla scrittura come professione e maggiormente come ad un bisogno, per dare senso alla propria esperienza. Ecco quello che sento mancare in gran parte della letteratura contemporanea: la voglia di provare a mettersi sullo stesso piano degli scrittori importanti che ci sono stati in precedenza, di ripartire da lì, a rischio di sbatterci la testa, senza preoccuparsi di aver paura di affrontare il problema di un fallimento totale, e da questo punto di vista oggi è il contrario, perché prima di tutto il referente è il lettore, colui che vuole sentirsi a suo agio in ciò che già conosce, ne ha dimestichezza emotiva.
È il mercato editoriale che detta le condizioni, fagocitando tutto e lasciando un deserto a chi vuole parlare di letteratura. È il mercato editoriale che stabilisce quali siano i parametri di un “prodotto narrativo” per cui il romanzo possa continuare ad esistere. Non è un caso che oggi l’editoria individua una concorrenza alla narrativa nelle serie televisive e in un linguaggio, quasi sempre becero, che si sviluppa sui social. Non è un caso che nello sviluppare delle storie, oggi si abbia spesso un approccio giornalistico.
Sul chi ha ucciso la società lasciamo perdere, a mio modo di vedere si potrebbe stilare una lista lunga come il Nilo.
In quanto alla poesia, perché dovrei seguirla in una discussione tra questo o quella? Una cosa certa è che non so se l’immenso discredito di cui soffrono oggi le parole, sia colmabile con essa.
Per quanto riguarda Dario Fo, niente da dire, ha perfettamente ragione.