Su «Ogni vigilia è disarmata» di Giorgio Mannacio

di Ennio Abate

Appunti e interrogativi

Con Giorgio Mannacio ho fatto – anche in compagnia di altri poeti e scrittori dell’area milanese e sempre in concorde discordia – alcuni tratti di strada insieme (Monte Analogo, Laboratorio Moltinpoesia alla Palazzina Liberty di Milano tra 2006 e 2012). E continuiamo a farne altri con Poliscritture, a cui egli non ha smesso di collaborare. Anche per ribadire la mia attenzione alla sua ricerca, pubblico subito le mie impressioni di lettura dell’ultima sua raccolta poetica, alla cui sobria presentazione al Teatro Arsenale sabato 14 dicembre 2019 (qui) ho partecipato con piacere. Qua e là – a completamento o a correzione della mia interpretazione e comunque per passione del confronto – ho integrato (vedi Note) alcune utili osservazioni che nel frattempo Giorgio, su mia sollecitazione, mi ha inviato per e mail. [E. A.]

1.

Giorgio apre la sua raccolta con Sipario e siamo subito di fronte al «deserto che arriva in questa/vigilia disarmata/ che veglia si può chiamare» (pag.11). Di quale deserto si parla? Quello «di sabbia».i Ma di questi tempi ce n’è anche uno «di notizie» (di assenza di buone notizie!) forse più sconosciuto e più disperante del primo. E in che tipo di vigilia-veglia «disarmata» – quindi di gente inerme, senza difese possibili (fantasmi di ebrei prima di Auschwitz, fantasmi di migranti sulle strade libiche…) – siamo occupati? Vegliamo i (nostri) morti, un mondo scomparso. E in attesa della morte. Che – «e a spegner la candela un soffio basta» (pag. 11) – incombe sempre. E ci staccherà dalla natura viva, che pur essa, anche quando neppure la percepiamo o la conosciamo, muta, presente, minacciosa – «Non fanno alcun rumore le derive dei continenti» (pag. 11) – s’impone.

2.

Negli Interni con parole, la prima sezione della raccolta, Giorgio deposita due «congetture»: – sull’anima, che sarebbe o «è nelle cose» (pag. 16); – «sulla polvere» (pag. 17), rivelatrice soltanto di solitudini («Se visse solo, l’uomo, in questa casa») o di disamori («e se la donna dapprima amata/ in queste stanze scontò la pena» (pag. 17). E poi immagini scorciate di un’infanzia con i suoi «panni dell’innocenza» (pag. 18) caparbia in una sua interrogazione fiduciosa: il «tenero pugno chiuso che picchiava/ sull’albero dei giardino» (pag. 19). Oppure – sempre dettaglio minuscolo – certi «appunti a matita nera» sulle pagine di un libro, traccia del nostro e altrui – inquieto? tenace? – «inseguimento/dietro il senso delle parole» (pag. 20). E, ancora, echi di rituali religiosi che hanno punteggiato le nostre compresse infanzie cattoliche: «il serpente che avete visto/ schiacciato dal tallone/ contro il tagliere d’una falcata Luna» (pag. 21).

3.

Cosa pensare, invece, di questo suo «viaggiatore stanco» ormai di «litorali di zucchero e cannella» da cartoline turistiche che s’inventa «nella sua città/angoli senza rumore», dove il vento «cade/ in minuti frammenti», che lui conta «uno per uno» al posto dei viaggi (pag. 22)? Una rinuncia? Una salvezza nell’interiorità?

4.

Pausa. Mi colpisce un tratto notevole che si ritrova in tutta la raccolta (e nelle precedentiii): la sinteticità estrema, severissima delle immagini. Un solo esempio: «Sono le trombe di un giudizio minimo/ i terrifici suoni: il tarlo, il topo e la civetta, insonni» (pag. 23).

5.

E poi questo tema metafisico e niente affatto kafkiano di un «processo» impossibile al «tempo». Perché «dove stanno i giudici/ che lo processeranno? » (pag. 28). (Affermazione che un po’ fa sorridere, se si pensa che a commentare così è un autore anagraficamente ex magistrato!). Tempo che, come lo spazio è imprendibile, anzi è dichiarato inesistente: «Lo spazio non esiste e non esiste il tempo» (pag. 59). E allora? O noi illusi, che ne tratteniamo solo immagini: «le torce che si consumano», «i granelli della clessidra», i «nodi di una corda» (pag. 28)! Oppure con «il verso delle parole», «obliquo e necessario», pretendiamo di rivelarne la «verità» (pag. 30). Ma se, nel tempo, tutti – parenti, amici, amanti o ignoti – fummo «estranei e prossimi/consolati, per un momento, da reciproci inganni» (pag. 30), che verità potremmo mai aspettarci? (A questa radicale domanda ne aggiungerei un’altra che mi tormenta: la poesia è o no tra questi «reciproci inganni»? Giorgio, mi pare, risponda negativamente riaffermando la sua fiducia nella capacità della «pronuncia infantile» della poesia, la quale, pur incastrata tra «errore» e «innocenza», sa che «esistere e resistere sia la stessa cosa» (pag. 29).

6.

E però – salto alla sezione Pensieri in fuga – la poesia sta pur essa nella «furia calma che ci avvolge» (pag. 36). Sarà, dunque, – insisto – in grado di «esistere e resistere» contro una violenza tanto ben mascherata? Le sarà sufficiente contrastarla nominandola per metafore che rimandano a concetti inafferrabili ( “mistero”, “ignoto”, “ineffabile”, “sacro”, “autentico”, “originario”)? Possiamo davvero – inquieti o tranquilli – affidarci alla sua polisemia? iii È della poesia la polisemia e che ciascun la sua interpretazione dia?

7.

Sull’intera popolazione mondiale, quanti sono oggi o potrebbero essere (e a che pro?) i «piccoli turisti», che «si rincorrono/ senza inciampare mai/ tra ruderi museali o clandestini» e danno «un obolo alla Storia» (pag. 37)? Anche se in Giorgio si coglie un’allusione amara e una delusione nei confronti dell’Occidente, quando scrive: «dove finì la prima guerra giusta» (ed io penso a quella del Golfo iniziata nel 1990, ma non ne sono certoiv) e c’è un sincero invito a riconoscere che «il demonio veste i nostri panni» (pag. 46), la storia (in minuscolo) – molto ne dibattemmo (qui) – resta secondo me vista troppo da lontano. Certo, nei passaggi epocali, nei grandi trapassi. Ma come se non valesse la pena di appassionarsi quando gli esiti delle vicende sono in forse, in movimento. Forse soltanto quando sono fissati in un risultato statico riferibile in allegoria: «False colombe ed altri uccelli ignari/ hanno spolpato i morti fino all’osso» (pag. 61).

8 .

La storia, ammetto, è però di nuovo tornata ammasso di rovine. Dove «incastonati stanno insieme, adesso,/ teschi di vinti e teschi di vincitori» (pag. 37). Nessun «miracolo» più, nessuna rivoluzione. Giorgio e la sua poesia accettano l’impossibilità che «il sangue si tramuti in vino/ nell’implacata economia palese/ dell’universo» (pag. 38). E anche la mia viglia è disarmata! Che ho da contrapporgli? Il solito Fortini, abbandonato per altri studi dai suoi stessi ex allievi e sempre più sbiadito nella memoria pubblica e pure lui in via di imbalsamazione accademica? L’ angelo (fin troppo citato, fin troppo abusato nei discorsi di noi sconfitti) di cui parlò Benjamin? Ricordare – coi piedi piattamente conficcati nel Novecento – il recente e europeizzato obbrobrio dell’equiparazione tra comunismo e nazismo? O la verità a cinquant’anni ancora sepolta della strage di Piazza fontana (qui)?

9.

E però mi pare giusto capire perché non c’è dramma, non c’è conflitto in questa raccolta di Giorgio. Tutto è compiuto. Come da destino, parrebbe. Tutto – e se lo diceva «Democrito che il mondo a caso pone»! – scorre, è in movimento: «siamo l’accampamento che cammina» ( pag. 59). Il movimento degli umani (indefiniti, quanto lontani da noi che qui parliamo!) è presente in New York, Italia (pag. 58) e Nomadi (pag. 59). Giorgio scrive quasi una profezia nel nome di questi ignoti: «Arriveremo dove/una tempesta vuole» (pag. 59)? Ma quale il dove? E per quale scopo? La tempesta che egli evoca è poi fenomeno di natura e non di storia. E troppo somiglia alla bufera montaliana. Sia l’io poetico che il noi politico accettano – saggiamente? – di scorrere con il Tutto, mentre la vita, il mondo, sono e resteranno «una fiaba perplessa/ tra finzione e realtà» (pag. 41)? Chi tale movimento o moto perpetuo riconosce si distingue da chi staziona nell’Immobile e nell’ Immutabile, ma il fine o la forma (Fortini: il comunismo è «la formalizzazione della vita») sono aboliti? Riconoscerlo sarebbe segno di saggezza? Che si aveva? Che si è persa con la modernità? O tra le pieghe degenerate del postmoderno o dell’ipermoderno? E che da vecchi (occidentali) dovremmo riafferrare per la coda (come vogliono fare i conservatori in Gran Bretagna)? Con quali costi? E a vantaggio di chi?

10.

E questa donna «di picche» (pag. 42) che promette l’arrivo della «buona carta»? Solo al giocatore audace? E queste donne – anch’esse «nel tempo» o forse fuoriuscite dalla storia delle schiere femministe del «Tremate, tremate, le streghe son tornate» – che così sacralmente presiedono alla nascita e alla morte dei «viventi» (pag. 44), lasciandosi alle spalle l’età di mezzo dei furori erotici? E la «Torre» – altra metafora enigmatica (per me) – da cui «difformi e ingannatori/ risuonano gli idiomi» (pag. 44)? Sarà ancora o non è più simbolo di antiche nobiltà, di forza e di costanza?

11.

Giorgio, dove siamo? Siamo, mi pare, nel tempo mitico dov’è sempre possibile incontrare divinità: «Se mi apparisse lungo il litorale/con un sorriso/ la seguirei ovunque volesse andare» (pag. 67)? O in quello altrettanto mitico del «giudizio universale»? O ad una svolta-non svolta, come quella dell’anno Mille («uno dei tanti»)? Siamo noi – così a me è subito sembrato – l’immagine allegorica – suggestiva e tragica – dell’«istrice imbalsamata/ che mai ferì qualcuno da lontano/ e fu da qualche eroe colpita a morte» (pag. 45)?v È nel regno della Poesia che l’istrice può posarsi? Com’è terribile pensare alla crudeltà del naturale vivere («Un attimo ed il verme è già vorace/ del tenero germoglio», pag. 60) cui la storia tante volte s’è adeguata.

12.

Ho notato che manca la folla tra le immagini di questa raccolta. E nei paesaggi evocati, non c’è mai una metropoli.vi Ci sono i cimiteri («Il cimitero di Praga», pag. 47). C’è soprattutto l’io e spesso un alter ego (o altro io) sublimato ma destinato a tragica fine: il più «ardito nuotatore» che si muove così vigorosamente e con coraggio nella vita ma – ecco anche lui è disarmato! – muore per «una febbre da nulla» (pag. 48).

13.

Infine uno spruzzo vitale di sensualità d’infanzia: « e lui pressato come una sardina/ a una ragazza morbida, sospesa/ tra l’innocenza e la malizia in fiore»(65). Che, a riprova ulteriore del carattere conciso di questa poesia, è per me un romanzo racchiuso in un verso. E questo vale anche per un componimento come Verso Giosafat ( pag. 66). E altrettanto per l’ultima sezione Cinque atti unici (pagg. 69-75)




Note

i G. Mannacio: «Il deserto del primo testo esprime la mia idea che le migrazioni sono umane e che i continenti si confonderanno inevitabilmente, Uno può rifiutare tale prospettiva ed altri (quorum ego) sapere che è giusto che sia così. Questa è anche la chiusa di Bertucce a Gibilterra (pag. 40). Oggi Ceuta è al di là dal mare ma domani saremo in essa inglobati».

ii Nel novembre 2007, a proposito di un’altra raccolta di Giorgio, Visita agli antenati , avevo scritto: «il nucleo della poesia di Mannacio è una riflessione filosofica tenace e ansiosa sullo scorrere del tempo e l’angoscia che questo procura. Tende all’essenziale. ]E l’essenziale viene ottenuto per sottrazione, riducendo all’elementare le esistenze, la natura circostante, mettendo tra parentesi il gran caos della storia, gli agonismi della vita».

iii G. Mannacio: «Ho cercato – da sempre – di perseguire una ricerca di identità e di usare un linguaggio variamente allusivo che dia luogo a interpretazioni diverse a seconda dell’orecchio del lettore. E’ un discorso di “ polisemia “ del linguaggio, da te correttamente evidenziata».

iv G. Mannacio: «A pag. 46 è contenuta l’ affermazione di un caso di guerra giusta che si ha – a mio giudizio – allorquando il male diventa assoluto. Non è la Guerra del Golfo ma la guerra contro il pericolo del nazismo. I tuoi dubbi sull’identificazione dell’evento erano giustificati)».

v G. Mannacio: «Il sottotitolo [«…e tra qualche settimana/ piscerem nel lago Tana.». Da una canzone dei legionari italiani in Africa, 1936»] e l’africanità dell’istrice uccisa senza perché mi sembravano (sottolineo : MI SEMBRAVANO ) una chiara condanna della guerra fascista per le colonie».

vi G. Mannacio: «Tutte le mie omissioni da te giustamente rilevate – compresa quella sulla metropoli – sono per così dire volute. Un pensiero precede o segue i testi (quasi tutti ) e vanno dunque lette come una deliberata presa di posizione».

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