Coronavirus e apprendimento

di Donato Salzarulo

1.- Venerdì 6 marzo ho letto su “Il Manifesto” un simpatico articolo di Laura Marchetti. Non la conosco. Quasi certamente sarà una professoressa di lettere. Comunque, a scuole chiuse, invitava i lettori (studenti, genitori, nonni, prof) a dedicarsi ad attività da fare «senza un fine se non il piacere»: leggere Pinocchio o Cime Tempestose o Germinale e Metello; giocare alle costruzioni, fare pupi di cartapesta con i vecchi giornali; prendere un cavalletto e dipingere mescolando colori, sentire la musica, giocare coi nonni mascherandosi da Ulisse che combatte Polifemo o da Barone rampante; guardare la luna, il cielo, gli animali; pensare a sé stessi, a quelli che sono i propri veri bisogni e i propri affetti; se si è più grandi, «fare all’amore, pensare all’amore, scrivere d’amore…inventando una nuova didattica e una nuova vita ai tempi del colera».

«La vita ai tempi del colera, come nel romanzo di Garcia Marquez, è strana, ambigua, carica di presagi di morte ma anche di desideri d’amore e di poesia. Accade perché è più lenta, perché deve modificare la percezione solita dello spazio e del tempo. Lo spazio cambia, sotto la minaccia del contagio: allontana le persone nel corpo, che si avvicinano però nel bisogno, nella consapevolezza di potersi salvare se si è una comunità di destino. E anche il tempo cambia: domani, fra una settimana, a maggio diventano categorie mitiche, probabilità e non certezze. C’è invece l’oggi, l’ora del presente che si deve caricare di senso perché dentro, improvvisamente, ha fatto irruzione la zoe, la nuda condizione biologica, e il tema, più o meno vero, più o meno enfatizzato, della sua sopravvivenza.»

Perché quest’invito non mi soddisfa? Perché mi lascia la sensazione di già visto, già sentito?…

Non ho nulla contro le attività proposte. Usare la pausa per pensare ai propri veri bisogni e ai propri affetti è suggerimento ottimo. Ma quali sono i propri veri bisogni e come cambiano gli affetti in una situazione d’emergenza come quella indotta dal Covid-19?

Oltre a quelli primari per cui la gente, a torto, s’affretta a svuotare i supermercati, a me sembra che i bisogni da soddisfare siano essenzialmente informativi e conoscitivi. Proprio per poter andare oltre la paura, ognuno di noi desidera capire le ragioni del doversi chiudere in casa, con la propria famiglia o coi nonni. In fondo, il mondo affettivo di un bambino o di uno studente è rappresentato anche dai compagni di classe e, si spera, dagli insegnanti, soprattutto se sono persone, come la prof Marchetti, lontana dalle “fesserie dell’anglopedagoghese” e non particolarmente ossessionata da griglie, mappe concettuali, quiz o prove Invalsi. Non credo che tutti i ragazzi siano felici di stare a casa. Sicuramente non lo sono le famiglie, costrette a riorganizzare, la loro vita; ma non lo sono neanche i nonni che non capisco perché dovrebbero giocare a Ulisse e Polifemo coi nipoti. Personaggi, guarda caso, che s’impara a conoscere sui banchi di scuola.

E se capovolgessimo il punto di vista? Se partissimo dal presupposto che scuole chiuse non significa anche chiusura del desiderio di conoscere, di apprendere, di formarsi e utilizzassimo proprio la situazione di emergenza per far capire ai nostri ragazzi l’importanza di studiare ciò che ci affligge?… Viene in mente quel capitolo del manuale di biologia relativo ai virus. Chi ricorda qualcosa?… In questi giorni leggiamo e sentiamo che siamo in guerra contro uno di questi agenti patogeni, un nemico nuovo, invisibile, particolarmente insidioso, che penetra nel nostro corpo attraverso la bocca, il naso e gli occhi. Per vederlo servono microscopi elettronici. Non possiamo vederlo, ma sui giornali è stampata la sua immagine ricavata digitalmente. Al centro c’è la particella virale, rotonda e grigiastra; sul bordo esterno dei picchi tra il viola e il rosso mattone, simili a una corona. Da qui il nome di coronavirus. Quest’immagine è diventata per molti giornali quasi un logo.

I coronavirus (CoV) sono un’ampia famiglia di virus respiratori che possono causare malattie da lievi a moderate, dal comune raffreddore a sindromi respiratorie come la MERS (sindrome respiratoria mediorientale, Middle East respiratory syndrome) e la SARS (sindrome respiratoria acuta grave, Severe acute respiratory syndrome). Sono chiamati così per le punte a forma di corona che sono presenti sulla loro superficie.

In fondo, è questo nemico invisibile che costringe tutti noi a rinchiuderci in casa, a modificare «la percezione solita del tempo e dello spazio» e a sospendere le nostre quotidiane attività, i nostri affetti, la nostra socialità…Il discorso è semplice: quel manuale, che sui banchi di scuola apriamo (o abbiamo aperto) svogliatamente, non sempre con la necessaria curiosità e impegno, affronta argomenti che riguardano la vita di tutti noi. Non è il caso di utilizzare quest’occasione per capire meglio il nostro nemico? Non è il caso di comprendere meglio come s’impianta nei nostri corpi? Cos’è questa storia del “salto di specie” (spillover) che avrebbe compiuto dal pipistrello al corpo umano?… Può darsi che capendo meglio queste cose, scopriamo che il nostro vero bisogno e il nostro più autentico desiderio sia di studiare, perché no?, biologia per diventare domani un virologo e dare un contributo a scoprire come combatterli meglio. Tanto questo fronte resterà aperto, dicono gli esperti, anche quando avremo neutralizzato il pericolo attuale costituito da Covid-19.

Di fronte a un contagio che cresce esponenzialmente, scoprire che la matematica non è quella materia noiosa con cui una qualche prof ci rovina l’esistenza, ma disciplina necessaria per fronteggiare problemi e fenomeni sociali (e non), a me pare fatto importante…

Mi si intenda bene: sto facendo soltanto degli esempi per dire che di fronte alla grande prova che stiamo vivendo, alla sfida che dobbiamo cercare di vincere possiamo far capire ai nostri studenti (e non solo) che la scuola sarà pure «uno spazio chiuso, claustrofilico, che imprigiona i corpi», come scrive la Marchetti, ma è soltanto dentro e fuori la scuola che si organizzano i saperi capaci di aiutarci a superare problemi drammatici come quelli che stiamo vivendo. Per quanto chiuso e claustrofilico è, comunque, spazio più aperto del piccolo gruppo famigliare…

Restituiti alle famiglie mononucleari, alla socialità virtuale dei media, ai piccoli gruppi chiusi in due stanze più servizi, francamente non so se riusciranno a liberare maggiormente le loro anime, come auspica la Marchetti un po’ liricamente. Per quanto mi riguarda, credo che si debba fare di questo “laboratorio sociale” in emergenza una grande occasione di apprendimento.

“Fare scuola fuori della scuola”, diceva una volta il mio prof di pedagogia, l’ultracentenario Francesco De Bartolomeis. La parola d’ordine aveva l’obiettivo di combattere la separazione tra scuola e società, di acquisire la consapevolezza che i contenuti scolastici corrispondono in realtà a problemi esistenziali e sociali. Prima dell’”anglopedagoghese”, c’è lo “scolastichese”, quel modo tutto particolare di confezionare i saperi, di ordinarli in manuali, di elaborarli e filtrarli in una certa forma per offrirli alle giovani menti. Nella vita di tutti i giorni e, a maggior ragione, nelle situazioni di emergenza, ci sono, invece, i problemi esistenziali e sociali da affrontare, questioni a volte drammatiche capaci di sconvolgere le nostre abitudini di vita, le nostre emozioni, le nostre percezioni. Se si capisce questo, lo “scolastichese” riceve un bel colpo.

2. – Non mi convince neanche quel partito preso contro la “didattica online” o “a distanza”. Senza farne un mito e senza dimenticare i lati oscuri del Web, di Google o dei social, penso che non ci sarebbe nulla di male se, non potendo incontrarsi, si utilizzassero le tecnologie esistenti per rendere “virtuali” le classi e mantenere così il contatto coi propri studenti. Ho letto di presidi e insegnanti che hanno scritto lettere per cercare di interpretare e dare un senso all’attuale momento. Hanno fatto benissimo. Mantenere un legame coi ragazzi, restare quanto più possibile vicini alle loro emozioni, ai loro sentimenti, ai loro pensieri, ai loro vissuti sulla situazione, alle loro elaborazioni più o meno spontanee di ciò che sta accadendo, a me sembra fondamentale. Certo, si può proporre loro di leggere «L’amore al tempo del colera» di Garcia Marquez, «La peste» di Camus o i capitoli 31 e 32 dei «Promessi Sposi»; si può continuare a proporre compiti come se nulla stesse accadendo e pensando soltanto ai famosi Programmi, ma si possono anche raccogliere le loro associazioni di pensiero a ruota libera, le loro riflessioni, si può cercare di mettere “ordine” nel caos di emozioni, di smarrimenti, di credulità/incredulità, di notizie più o meno false, più o meno fondate circolanti sui media: dalla TV ai social, dai giornali alle chat…Fossi il loro prof, proporrei di fare insieme ciò che sto facendo da solo in questi giorni: leggere articoli o stralci di articoli tratti dai giornali o dai blog, classificarli per argomenti, problemi punti di vista, e ordinarli in “categorie” provvisorie per rifletterci sopra. Siamo in una situazione eccezionale, probabilmente quando terminerà (presto si spera) non saremo più gli stessi, uscirne avendo imparato tutto ciò che possiamo imparare, mi sembra un ottimo programma di lavoro.didattico-educativo.

14 pensieri su “Coronavirus e apprendimento

  1. Secondo me molto dipende dalle inclinazioni personali. Ci saranno bambini e ragazzi che riscopriranno la lettura e faranno scorpacciate di libri, ce ne saranno altri che staranno sui social dalla mattina alla sera, ci sarà pure, e non è da sottovalutare, chi si lascerà prendere da una certa apatia. Riguardo alla scuola online, bene, è giusto mantenere i contatti e oggi i mezzi a disposizione sono tanti, è bene sforzarsi di organizzare qualche appuntamento online ricordandosi sempre che si tratta di un rimedio, non delle nuove magnifiche sorti e progressive. Conosco due ragazzine che da quando sono chiuse dedicano la mattina a fare i compiti che gli insegnanti assegnano loro tramite il registro elettronico. Bene, si sta in esercizio, si sa come impiegare il tempo, ma non pensiamo neanche per un minuto che questo sostituisca la scuola!

  2. Vorrei fare una veloce precisazione.
    Siccome il linguaggio veicola contenuti che non sono legati soltanto alla comunicazione ma sono anche contrassegnati emotivamente e quindi agiscono a livello inconscio, mi sembrava opportuno evitare di utilizzare l’espressione di “nemico invisibile” a proposito del Coronavirus, in quanto portatrice di ansie e angosce paranoidee che non aiutano ad avvicinarsi realisticamente al problema.
    Non si tratta perciò di un “nemico invisibile” bensì di qualche cosa che, in quanto invisibile (ovvero non ancora decrittato dalla scienza), può essere percepito in modo ansiogeno come nemico, andando così a sollecitare echi dei vissuti primordiali di panico a cui i nostri progenitori si trovarono esposti, inermi di fronte all’ignoto.
    E le tracce di queste ataviche esperienze ce le portiamo sempre appresso rendendoci di difficile accettazione tutto quello che ha a che vedere con ciò che non conosciamo, che non possiamo controllare e che, di conseguenza, sentiamo che ci è ostile, nemico.
    Con il Covid19 abbiamo delle manifestazioni che, in quanto non note nella loro eziogenesi, non ci permettono al momento di trovare le risposte vaccinali adeguate, ne percepiamo soltanto la sua virulenza a carico delle vie respiratorie e la sua contagiosità.
    Quello che possiamo fare noi cittadini, in quanto non specialisti della materia, è cercare di attivare la capacità ad apprendere attraverso il porsi delle domande, senza farci guidare da preconcetti o andare immediatamente alla ricerca di risposte ‘certe’ (o certificate dai ‘dati statistici’, a fronte dei quali si può creare una guerra su chi dice la verità e chi no, e che è quello a cui assistiamo quotidianamente con un certo sconcerto).
    Ed è mantenere viva questa capacità di apprendere ciò a cui viene chiamata l’Istituzione scolastica, la quale dovrebbe rimanere attiva anche in un momento critico come questo. Non si tratta quindi di una “vacanza da scuola” bensì di una esperienza del tutto nuova dalla quale si può imparare qualche cosa, sia interrogando se stessi, le proprie emozioni al riguardo e sia rispetto a ciò che accade nella realtà esterna dentro la quale noi tutti (studenti compresi) siamo e protagonisti e narratori.
    Per questa ragione è importante che gli insegnanti, a loro volta, non vadano “in vacanza” in mancanza del (sia pure) essenziale contatto diretto. Né si aggrappino al rispetto pedissequo dei programmi “proponendo compiti come se nulla stesse accadendo” (Salzarulo). Bensì, utilizzando gli strumenti telematici che possono essere di valido supporto, poter proporre non soltanto letture significative attinenti alla contingenza, “«L’amore al tempo del colera» di Garcia Marquez, «La peste» di Camus o i capitoli 31 e 32 dei «Promessi Sposi»” (Salzarulo) ma anche “raccogliere le loro associazioni di pensiero a ruota libera, le loro riflessioni, cercando di mettere “ordine” nel caos di emozioni, di smarrimenti, di credulità/incredulità, di notizie più o meno false, più o meno fondate circolanti sui media: dalla TV ai social, dai giornali alle chat…” (Salzarulo)

  3. Concordo quasi su tutto e comunque la riflessione di Salzarulo è stimolante. Non entro in merito al rapporto «Coronavirus e apprendimento» ma vorrei fare alcune note in margine su alcune affermazioni di filosofia dell’educazione che possono essere valide, o non valide, in qualunque situazione.

    1) «attività da fare “senza un fine se non il piacere”». Il piacere come categoria pedagogica è stato studiato praticamente da tutti i pedagogisti, i didatti e i docenti e sperimentato nel vissuto da ogni persona. Nulla di ciò che si fa dovrebbe essere scisso dal piacere di farlo. Ma provare piacere nel fare qualcosa è a sua volta frutto di un processo educativo e di crescita perché il “piacere” ha tante connotazioni e anche tanti livelli di validità fisica, psichica, etica e intellettuale.
    Quindi l’educazione non può prescindere dal compito di educare al piacere. Che non siano piaceri distruttivi e antisociali, che non siano piaceri che abbassano la qualità della vita e così via.
    Sembra il gatto che si morde la coda, ma in effetti tutta la vita umana, e il piacere ne è una componente essenziale, è un processo di crescita graduale in cui ogni anello è il risultato di ciò che lo precede e la base per ciò che lo segue.
    Quindi il problema è: come fare perché i ragazzi provino piacere nel fare ciò che è giusto fare? Fino all’età prescolastica il fare del bambino è strettamente, se non unicamente, motivato dal piacere che ne trae. Ogni attività diventa, è, gioco.
    Poi pian piano subentrano i piani diversi del dovere: in casa, a scuola, nei rapporti con gli amici, nel lavoro e così via. Il fare qualcosa per dovere raramente coincide con il farlo per piacere. Quando coincide, si ha una situazione felice. Quando non coincide, si rischia di accumulare alienazione, frustrazione e disagio fino alle malattie psicosomatiche vere e proprie. Ma se l’educazione al piacere è stata proficua e ben condotta, anche quando il dovere non coincide con il piacere spontaneo, può coincidere con un piacere indotto dall’apertura e curiosità intellettuale, dal desiderio di fare bene il lavoro assegnato o di soddisfare o compiacere la persona che glielo ha chiesto, dal piacere di ottenerne una gratificazione ecc.
    Insomma, una persona matura e consapevole può trasformare in piacere anche ciò che non sceglie lui e che se potesse eviterebbe di fare.

    2) Pertanto il piacere va coltivato a casa e a scuola e in ogni situazione, ma va anche guidato e controllato. Intendo dire, innanzitutto, dal soggetto stesso nella misura della sua età e della sua maturità. Spingere sull’Es in mancanza di un Super-io equilibrato e forte può portare a comportamenti che danno piacere nell’immediato ma distruggono nel medio e lungo termine.

    3) La scuola, come oggi è organizzata, è compatibile con una corretta pedagogia e didattica del piacere? Credo di no. Sarebbe necessaria una “scuola attiva” che dell’attivismo pedagogico non riprendesse solo le maniere più superficiali, ma che sapesse rinnovarsi, approfondirsi e aggiornarsi con i tempi di oggi e con le tecnologie oggi disponibili.
    Mi sembra ottimo il richiamo a Francesco De Bartolomeis e all’affermazione «Fare scuola fuori della scuola», con «l’obiettivo di combattere la separazione tra scuola e società, di acquisire la consapevolezza che i contenuti scolastici corrispondono in realtà a problemi esistenziali e sociali». Ma lo stesso De Bartolomeis, come Lamberto Borghi e altri “padri” dell’attivismo didattico in Italia, cercano poi di conciliare la scuola attiva con una scuola strutturata per classi e orari, cioè con una scuola che Graziano Cavallini ha definito «fabbrica dei deficienti» e Althusser una «istituzione totale», come i manicomi e le carceri.

    4) È necessario ripensare la struttura organizzativa della scuola, anche per chi non voglia accettare la tesi estrema di Ivan Illich della “descolarizzazione” che restituisca tutti i compiti educativi ed istruttivi alla società nel suo complesso. Il modello scolastico di oggi, nonostante gli ammodernamenti, è ancora quello settecentesco della militarizzazione della educazione dei giovani e della separazione di questo compito, assegnato a una particolare e speciale istituzione, dai compiti delle altre istituzioni che pure riguardano gli stessi individui.
    La “scuola di Stato”, dalle riforme di Giuseppe II a quelle di Napoleone e a tutte le successive, ha rafforzato un modello centralizzato che presuppone che i ragazzi siano tutti uguali e abbiano tutti le stesse esigenze negli stessi giorni negli stessi orari con gli stessi programmi. Insomma, la scuola come caserma di prussiana memoria.
    Il sistema educativo greco e romano e fino agli stessi collegi dei gesuiti fra Cinquecento e Settecento (non più poi), per molti aspetti erano più liberi e moderni dell’attuale scuola.
    La scuola, negli ultimi 250 anni circa, è stata e continua ad essere uno degli strumenti principali di potere e di formazione delle nuove generazioni secondo i desideri dello “Stato etico”, cioè del potere dominante. Le manca libertà e spontaneità e le manca l’adattabilità all’ambiente e ai suoi utenti, ragazzi, genitori e docenti.
    Anche nei suoi momenti e movimenti di contestazione, mancando la consapevolezza di un modello alternativo valido, si è finito, e si finisce, per contestare aspetti non essenziali del sistema scolastico, per recuperare provvisoriamente spazi di libertà e spazi di difesa sindacale, senza però intaccare il sistema, anzi ribadendolo e chiedendone, paradossalmente, più forza. Nella centralizzazione non si vede un problema ma una soluzione. Nella esasperata dipendenza dallo Stato e dal potere politico non si vede un problema ma una soluzione. Nella uniformità nazionale che non tiene conto delle differenze ambientali non si vede un problema ma una soluzione. E si rivendica una scuola uguale per tutti. E così via. Insomma, si contestano i malfunzionamenti del sistema scolastico militarizzato e si desidera un sistema ugualmente militarizzato ma più funzionante e più sensibile alle esigenze degli studenti, come se ciò non fosse una palese contraddizione.
    In questo contesto, rivendicare una didattica del piacere, diventa di per se stesso un atto di contestazione sovversivo, che però rischia di impoverire e non arricchire la personalità degli studenti perché non è sorretto da un processo educativo ma piuttosto, anche se spesso in modo non pienamente consapevole, solo da un gesto di ribellismo non progettuale.
    Ci sono persino molti casi in cui la didattica del piacere si trasforma nella degradante, per studenti e insegnanti, didattica del compiacimento, che consiste, per andare d’amore e d’accordo, fare ciò che i ragazzi chiedono. Lezione? No, discussione a ruota libera. Compito in classe? Sì, ma su argomenti a scelta dallo studente. Interrogazioni? Sì, ma solo formali, su argomenti a scelta e con la sufficienza comunque garantita ecc. ecc. Questo non è uscire dalla caserma-scuola, ma restarci dentro rendendola inefficiente secondo scelte di comodo e di goliardia.

    5) Questa scuola militarizzata può essere benissimo e proficuamente sostituita dalla scuola telematica. Il modello è già stato illustrato in diversi libri di fantascienza da oltre cinquant’anni. Il pacchetto di lezioni, esercizi, compiti scolastici, controlli, verifiche e valutazioni può avvenire con più libertà dello studente, che può scegliere il luogo e l’orario in cui connettersi con il docente robot dotato di intelligenza artificiale e assai più competente e colto dei docenti in carne e ossa. Ma resta comunque un modello non elaborato con la collaborazione della comunità di base di studenti, genitori e docenti di un determinato ambiente abitativo e di lavoro, ma imposto loro dall’alto.
    Gli strumenti telematici possono essere di grande utilità, ma anche questi vanno usati in modo attivo. Altrimenti lo studente vive comunque la scuola telematica come dovere mentre scorrazza in Internet liberamente per piacere e talvolta, divertendosi, impara anche tante cose che la scuola ignora.
    Il Web, come nuova e potente “agenzia” educativa, ha contribuito, a mio parere giustamente e utilmente, a diminuire il peso sociale e il prestigio della scuola-caserma e dei docenti che vi operano. Salvo, naturalmente, le eccezioni di chi riesce, anche nella scuola-caserma, nutrire la mente e il cuore di libertà, di piacere e di attiva curiosità.

    1. “è un processo di crescita graduale in cui ogni anello è il risultato di ciò che lo precede e la base per ciò che lo segue.” (Aguzzi)

      In tutto il bel ragionamento contro la scuola-prigione di Luciano trovo solo questo punto stonato. Perché ancora marchiato da un progressismo evoluzionistico IMPOSSIBILE, il quale non tiene conto dei mille fattori (esterni e interni: all’individuo, all’istituzione, alla società) che devono essere continuamente ricombinati ( e spesso in modi conflittuali).

      1. @ Ennio
        Sinceramente, non capisco perché la mia frase che citi sia «marchiato da un progressismo evoluzionistico IMPOSSIBILE, il quale non tiene conto dei mille fattori (esterni e interni: all’individuo, all’istituzione, alla società) che devono essere continuamente ricombinati (e spesso in modi conflittuali)».
        Con tutti i condizionamenti e i ricombinamenti e i conflitti ben presenti nei miei articoli e commenti, con tutti i passi avanti e indietro e di lato e il procedere a zig zag, il risultato complessivo degli eventi storici è proprio un «processo di crescita graduale in cui ogni anello è il risultato di ciò che lo precede e la base per ciò che lo segue».
        Naturalmente, secondo me:
        1) Il processo non è senza interruzioni e salti e senza rischi anche di regressi e salti indietro.
        2) Non si identifica con una progressione teleologica o con qualunque fine prefissato.
        3) Non si identifica con la filosofia metafisica e morale del “progresso”. Un processo di crescita non è necessariamente un progresso anche in senso politico o etico o metafisico. “Processo” e “progresso” possono essere due filosofie della storia coincidenti o molto diverse. Nel mio caso sono diverse.
        4) Necessariamente ciò che noi siamo oggi deriva dal passato. A questo passato aggiungiamo o togliamo qualcosa (ma in questo caso togliere è comunque un aggiungere, perché il tempo scorre) e così determiniamo in buona parte (mai al cento per cento) ciò che sarà il nostro immediato futuro.
        5) Vi è indubbiamente una forma di evoluzionismo anche nelle forme sociali, in senso diverso dall’evoluzionismo biologico ed etologico. Nel senso che le forme sociali mutano gradualmente per lunghi periodi, con salti in determinate circostanze che possono portare a rapidi mutamenti, ma sempre radicati nel passato. Il complesso dei mutamenti può essere ed è effettivamente controllato dagli uomini solo in parte; per il resto dipende da altri fattori o da fattori umani con effetti non progettati e non previsti (eterogenesi dei fini). Questa evoluzione, infine, non ha un carattere di per sé positivo, ma è positiva o negativa secondo i modi umani di interpretarla, di narrarla e di viverla. La filosofia della storia è in definitiva una ideologia della storia, perché non sappiamo se davvero la storia abbia una trama ricostruibile dalla filosofia.
        6) Non sappiamo se noi oggi abbiamo motivi di essere più contenti del nostro vivere rispetto ai nostri antenati di migliaia di anni fa. Forse no, forse sì. È questione di opinioni. Tuttavia si può parlare di “progresso”, non nel senso che ciò che viene dopo è migliore di ciò che viene prima, ma nel senso che ciò che viene dopo sviluppa le possibilità insite in ciò che viene prima, o le lascia morire se non gli sembra utile svilupparle. Si accresce la complessità e l’interdipendenza fra le variabili in campo. Quali siano le possibilità da sviluppare e quelle da lasciare morire è di per sé una scelta. Molte possibilità utili sono lasciate morire e altre inutili sono sviluppate. Ma è una scelta che solo in parte è determinata dall’uomo e dalle sue idee politiche. La complessità ha sue logiche e modalità di scelta che dipendono da molti elementi che sfuggono, al presente, all’uomo. Anche se l’uomo se ne potrà rendere conto, talvolta, a distanza di molti anni.
        7) Tanto per fare degli esempi:
        a) Molti ritengono che l’umanità abbia commesso un errore quando ha preferito Platone a Democrito. E forse è vero a distanza di secoli. Ma la scelta è avvenuta allora e nelle condizioni di allora la cultura greca e poi occidentale ha considerato più interessante Platone di Democrito. E per allora la scelta non era sbagliata, perché Platone fornisce una narrazione interpretativa della realtà più convincente di quella di Democrito, rispetto alla mentalità e alla cultura del tempo.
        b) Ci si stupisce che il mondo antico, pur conoscendo il mulino ad acqua, non l’abbia utilizzato come mezzo di produzione, come macchina industriale. Il che è avvenuto solo a partire dal Medioevo. Ma prima del Medioevo, come è ben noto, i problemi che poi vengono risolti col mulino ad acqua erano risolti in altri modi che, per allora, secondo l’organizzazione sociale e la cultura del mondo antico, apparivano preferibili.
        ***
        Il «progresso» o l’«evoluzione» è un processo tortuoso e conflittuale, certo, però come chiamare la differenza notevole che esiste fra la vita sociale di migliaia di anni fa e quella di oggi? E come chiamare i legami continui fra il prima e il dopo nel corso della storia? Il termine “processo” è usato in modo vario e con diverse definizioni, ma i “processi” hanno tutti in comune questi elementi: il cambiamento, il dinamismo (lento o veloce), la continuità e contiguità fra una azione e l’altra, attività interrelate e in sequenza, e cose simili.
        E «crescita graduale» non è un “progresso” in senso teleologico, ma un accumularsi di fattori, di risorse, di possibilità, di soluzioni che nascono dalla vita sociale e individuale delle popolazioni, a partire dallo stesso numero di individui che formano la popolazione.
        Io sono nato in una casa in cui non vi era nulla di elettrico, nemmeno la luce. Oggi vivo in una casa fornita di corrente elettrica, di elettrodomestici vari, di computer, di televisione, di telefono ecc. Come definire questo cambiamento se non crescita graduale di “oggetti” (risorse, mezzi, forme, idee ecc.) disponibili e che cambiano modalità e qualità del vivere e anche del pensare?

        1. @ Aguzzi

          Caro Luciano, e se al posto dell’evoluzione o di una “crescita graduale” la storia procedesse in modi ben più caotici e oggi quasi indecifrabili?
          Tu in fondo, pur precisando i limiti evidenti della filosofia della storia ottocentesca (e positivistica) ed evitando ogni apologia fuori tempo del Progresso, in fondo mi sembri ancorato ad un “progressismo minore” o “ben temperato” (e comunque meno superbo di quello di Comte).

          , mi pare, resti ancorato, se scrivi: “Tuttavia si può parlare di “progresso”, non nel senso che ciò che viene dopo è migliore di ciò che viene prima, ma nel senso che ciò che viene dopo sviluppa le possibilità insite in ciò che viene prima, o le lascia morire se non gli sembra utile svilupparle. Si accresce la complessità e l’interdipendenza fra le variabili in campo”
          Questa l’impressione che ricevo leggendo:

          “Tuttavia si può parlare di “progresso”, non nel senso che ciò che viene dopo è migliore di ciò che viene prima, ma nel senso che ciò che viene dopo sviluppa le possibilità insite in ciò che viene prima, o le lascia morire se non gli sembra utile svilupparle. Si accresce la complessità e l’interdipendenza fra le variabili in campo”.

          E forse c’è anche in te una (inevitabile) oscillazione tra volontà di ribadire la possibilità di scelta (la politica, in sostanza) e il riconoscimento del fatto che ”il complesso dei mutamenti può essere ed è effettivamente controllato dagli uomini solo in parte; per il resto dipende da altri fattori o da fattori umani con effetti non progettati e non previsti (eterogenesi dei fini)”. (Con echi di Machiavelli, penso).

          Io dubito molto più di te sulla reale consistenza di quello che fu chiamato Progresso e riecheggia stancamente nel residuo progressismo d’oggi. Non me la sento neppure di approvare il tuo progressismo “mite” (“Il «progresso» o l’«evoluzione» è un processo tortuoso e conflittuale”). E mi chiedo, invece, se possiamo ancora usare il termine stesso( ‘progresso”) per la storia delle nostre società complesse.

          Ma allora, mi dirai, “come chiamare la differenza notevole che esiste fra la vita sociale di migliaia di anni fa e quella di oggi?”. Non col termine ‘progresso’.
          Per tantissime ragioni. Ma come minimo perché ci siamo accorti che esso è davvero limitato. Magari ai pur strabilianti sviluppi della tecnologia.
          E tu a questa soltanto sembri guardare quando scrivi: “Oggi vivo in una casa fornita di corrente elettrica, di elettrodomestici vari, di computer, di televisione, di telefono ecc. Come definire questo cambiamento se non crescita graduale di “oggetti” (risorse, mezzi, forme, idee ecc.) disponibili e che cambiano modalità e qualità del vivere e anche del pensare?. Accantonando, però, non solo le critiche di Pasolini e di Fortini, ma perdendo di vista anche il tuo amato Leopardi, soprattutto quello de La Ginestra.
          Noi siamo di fronte a diseguaglianze stratosfericamente ingigantite e a forme democratiche di convivenza del tutto di facciata; e se pochi un progresso davvero se lo godono, a moltissimi arrivano soltanto le briciole e la loro vita resta oscurata e bloccata da antiche e nuove sofferenze.
          Insomma, non mi fido. Non riesco ad usare una parola che rimanda ad una realtà troppo eterogenea; e che smentisce quel valore universalistico preteso da quelli che volentieri l’usano.
          Del resto questo valore universalistico del Progresso è stato ed è continuamente contestato. E con buone ragioni. Ho in mente Marx, che nel ‘popolo’, caro ai progressisti borghesi del suo tempo, mise in luce le differenze di classe incolmate. Ho in mente la parte migliore del femminismo quando ha svelato nel concetto universalistico di uomo la dimensione donna annullata o soffocata. Mi sono ricordato di Amartya Sen, l’ economista, filosofo e accademico indiano, Premio Nobel per l’economia nel 1998, che rivendicava un illumismo indiano come minimo degno concorrente di quello europeo. E di Edward Said e di vari autori dei subaltern studies.

          Quanto ai “legami continui fra il prima e il dopo nel corso della storia”, secondo me, si tratterebbe di capire quanta continuità resista davvero e quanta discontinuità s’imponga o prevalga fino a cancellare o mettere ai margini le continuità. E’ un problema apertissimo (Vedi una interessante – anche se contorta e concentrata sul piano soprattutto letterario – discussione tenutasi alcuni anni fa tra Ceserani e Donnarumma su Le parole e le cose a proposito di postmodernità, transmodernità etc.).

          Se riconoscessimo poi l’importanza della complessità (e sull’argomento in Facebook trovo spesso piccoli saggi o brevi interventi illuminanti di un ottimo studioso, Pierluigi Fagan), a me pare che i miei dubbi sul progressismo verrebbero corroborati , mentre l’ipotesi tua di una “crescita graduale” risulterebbe indebolita.
          E poi perché si è parlato di “rivoluzione informatica” e non di “evoluzione informatica”? Dov’è finito il mondo in cui ci siamo formati quando parlavamo di classe operaia? Possiamo parlare di “crescita graduale” per la deidustrializzazione a cui abbiamo assistito impotenti? Ma anche prima, secondo te, il passaggio dall’agricoltura all’industrializzazione può essere letto come esempio di “crescita graduale”? A me non pare.
          Certo , alcuni fili di continuità persistono sempre, ma – ripeto – quanto pesano rispetto alle discontinuità?
          Per concludere, non solo non abbiamo più le certezze di Hegel o di Marx, ma “non sappiamo se davvero la storia abbia una trama ricostruibile dalla filosofia”. E perciò tu stesso devi riconoscere che ”non sappiamo se noi oggi abbiamo motivi di essere più contenti del nostro vivere rispetto ai nostri antenati di migliaia di anni fa. Forse no, forse sì”. Sì, “è questione di opinioni”.

          P.s,
          Riporto qui un improvvisato e veloce scambio con lo storico Brunello Mantelli avvenuto propri stamattina e – guarda caso – proprio su questo tema:

          Brunello Mantelli Ennio Abate 
          Il modo di produzione capitalistico è progressivo. Non dimentichiamocelo mai. Se si vuole restare marxiani.

          Ennio Abate 
          Progressivo sì, ma i “macinati” da questo progressismo , i “vinti” ( Verga), i “sommersi” (Primo Levi), gli “schiavi” senza nome che concimano “la fatica dei grandi geni” (Benjamin) continuano e continueranno a reclamare in “orribili favelle” (Dante) giustizia e a ricordarci che esso è, tuttavia, “barbarico”..

          Brunello Mantelli Ennio Abate 
          Bisogna infatti uscire dal “regno della necessità”. Poi tra Verga da un lato, Primo Levi e Benjamin dall’altro di comunanza ne vedo poca. Casomai con Zola.

          Ennio Abate Brunello Mantelli 
          Nessun collegamento tra loro… Sono solo testimoni che, partendo da visioni diverse e in epoche diverse, hanno dato voce – e sempre con accenti diversi – al “lato in ombra” del progresso. E del resto tu da storico inciampi ogni poco in queste “rovine”…

          Brunello Mantelli Ennio Abate 
          Da storico so anche come era il mondo “prima” dello sviluppo del modo di produzione capitalistico. Altro che rovine!!!

          Ennio Abate Brunello Mantelli 
          per “”rovine” intendo la parte di umanità schiacciata e rimasta anonima ( Brecht: “Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?” etc) sia prima che dopo lo “sviluppo del modo di produzione capitalistico”…( Tu tendi sempre a parlare di UN mondo… io lo vedo sempre “scisso” o in tensione… superiori e inferiori, aristocratici e schiavi etc)

          Brunello Mantelli Ennio Abate 
          solo lo sviluppo indotto dal modo di produzione capitalistico può farci uscire dal regno della necessità. Prima la disuguaglianza era materialmente inevitabile, fermo restando che il conflitto è ciò che fa muovere la storia. Il mondo “scisso” era inevitabilmente scisso, ma comunque è sempre il servo che “comanda” il padrone.

          Ennio Abate 
          ” solo lo sviluppo indotto dal modo di produzione capitalistico può farci uscire dal regno della necessità. ”

          Può darsi, ma per ora non è così. Ce lo ricordano milioni di disoccupati, morti di fame, profughi, etc.

          Brunello Mantelli Ennio Abate 
          Il più povero proletario di oggi è immensamente più ricco del più ricco signore precapitalistico. Attenzione a non cadere nel “socialismo reazionario” già acutamente individuato nel Manifesto del 1848 da KM e FE.

          Ennio Abate Brunello Mantelli 
          Non la ritengo una grande soddisfazione. La comparazione andrebbe fatta anche coi ricchi d’oggi. E, per quel che afferro, le diseguaglianze si sono ingigantite…

  4. La mia tesi principale è chiara: rispondere alla situazione di emergenza con l’apprendimento, facendo scuola fuori della scuola e conservando la relazione coi ragazzi… Mi pare che tutti gli interventi concordino con questa tesi. Poi, è chiaro che ognuno/a lo farà a suo modo, seguendo le proprie “inclinazioni personali”, il proprio livello di conoscenza, il proprio patrimonio culturale, ecc. Oggi ho letto su Doppio Zero, ad esempio, un ottimo intervento di Anna Stefi. È un’insegnante che scrive pensieri molto condivisibili, che rispondono ad esigenze abbastanza simili a quelle da me indicate.
    Sull’espressione “nemico invisibile” condivido le annotazioni di Simonitto. È vero che il pericolo misterioso e ignoto genera angoscia e paranoia. Ma non so come altro definire questo essere vivente e non vivente, corrispondente a 110-120 millimicron, – inciso: un millimicron corrisponde alla milionesima parte di un millimetro – “visibile” ai microbiologi solo a partire dalla scoperta del microscopio elettronico, cioè dal 1931. Io sono un materialista, ma non posso non ammettere che non tutto è visibile ai nostri occhi.
    Ritengo anche sostanzialmente condivisibili le “note in margine su alcune affermazioni di filosofia dell’educazione” scritte da Luciano Aguzzi.
    Grazie a tutti per i vostri commenti.

  5. …molto interessanti tutte le riflessioni che ho letto sull’argomento, chiusura scuole e cambio di gestione del proprio tempo da parte dei giovanissimi: come aiutarli a riorganizzarsi, come cercare di far avvicinare il piacere con il dovere della conoscenza, dello sviluppo di interessi, valori, come non far interrompere del tutto delle abitudini…vorrei sviluppare una riflessione sulle abitudini: possono rivestire una valenza negativa, quanto positiva, penso…Negativa se imposte come ordini perentori, a mo’ delle dittature, per irrigidire la personalità e magari convogliarla verso finalità oscure, che solitamente il potere esteriore impone…positiva se le abitudini aiutano a disciplinare la volontà che aspira a mete individuali e/o collettive liberamente scelte, così che piacere e dovere risultino in sintonia. Non è semplice, nè scontato…Sto forse ragionando in astratto, ma in realtà ho qualche preoccupazione concreta: da lunedì qui, dove ora mi trovo, nel Vaud ( so che in Italia da prima), il cantone svizzero più colpito dal contagio, chiuderanno le scuole e molti ragazzi, tra cui i miei nipoti, si troveranno molto più tempo libero…Vedremo, magari la scuola la riformano loro

  6. @ Ennio
    Mi hai mosso delle osservazioni (citando delle mie frasi) alle quali hai risposto tu stesso citando altre mie frasi. Forse la differenza sta nel grado di continuità e di discontinuità a cui siamo disposti a dare credito. Io do molto credito alla continuità, sia perché è la forma più comune del comportamento umano collettivo nello scorrere del tempo, sia perché molte discontinuità, così avvertite dai contemporanei, appaiono continuità viste a distanza di molti decenni o di secoli, o perché gli elementi della discontinuità non erano poi così forti o perché nel tempo sono stati riassorbiti dalle “abitudini” e riportati più vicini alla continuità.
    È il problema stesso del linguaggio: termini come “progresso” durano a lungo nel tempo pur mutando significato, sebbene nei nuovi significati resti attaccato sempre qualcosa dei vecchi. Machiavelli, se lo si legge interpretando il suo linguaggio alla luce dei significati odierni, diventerebbe in gran parte incomprensibile, e comunque diverso da ciò che è se interpretato correttamente dando al linguaggio il significato che aveva per lui e per il suo tempo. Per “economia” linguistica (l'”economia” di energie e di mezzi, altro trucco dell’evoluzione biologica come di quella culturale) evitiamo di abbandonare i termini a cui siamo abituati ed evitiamo anche, di volta in volta, di precisare in quale definizione li usiamo. Salvo la necessità in discussioni più formali e “scientifiche”. È stato calcolato, ad esempio, che il termine “utopia” ha oltre duecento accezioni. Il linguaggio comune e spesso anche quello di accademici di vaglia è pieno di equivoci prodotti dal linguaggio. Ma il ricorso a ciò che si sa dell’autore e al contesto aiutano a capire meglio, mentre il concentrarsi su singoli brani crea spesso malintesi.

    «E poi perché si è parlato di “rivoluzione informatica” e non di “evoluzione informatica”?». È questione di velocità: la rivoluzione è una evoluzione veloce, che brucia le tappa, che compie dei salti. Tuttavia fra il prima e il dopo c’è sempre un rapporto di continuità per moltissimi aspetti, e di discontinuità per altri. Non potrebbe essere diversamente, perché se lo fosse, non si tratterebbe di rivoluzione ma di una catastrofe. Infatti, una discontinuità più spinta si ha con la morte, o con la riduzione a una condizione durissima di schiavitù o con l’obbligo forzato a cambiare le radici stesse della vita (territorio, lingua, ecc.). Eppure anche nella catastrofe, salvo la morte, si continua a vivere appoggiandosi il più possibile al passato e rinnovandolo solo nella misura del necessario, dell’utile e del possibile.
    Una definizione classica del concetto di “rivoluzione” applicabile ad ogni campo è questa: 1) Cambiamento veloce. 2) Cambiamento radicale. 3) Cambiamento, rispetto al settore a cui applichiamo il termine, in opposizione e quindi a rovesciamento di una precedente situazione.
    Se la «rivoluzione informatica» fosse avvenuta più lentamente, nell’arco di un secolo, per esempio, non avremmo parlato di rivoluzione ma di graduale evoluzione o trasformazione o cambiamento, che è poi la stessa cosa.
    La crescita di un albero è misurabile dagli anelli del suo tronco. Ogni anello segue il precedente e precede il seguente. Il rapporto fra continuità e discontinuità non sta nel rapporto inalterabile fra il prima e il dopo (è ovvio che ogni evento collocato nel tempo viene dopo altri precedenti e prima di altri seguenti), ma nello spessore degli anelli. Fuori metafora, sta nella qualità e intensità degli eventi collocati in un arco di tempo relativamente breve. Ci sono tempi ed eventi a bassa intensità e altri a fortissima intensità.
    La complessità, la globalizzazione, l’accumulazione e l’enorme quantità di investimenti oggi hanno affrettato lo scorrere del tempo e durante il tempo di una sola generazione possono avvenire delle autentiche rivoluzioni, come quella informatica o tecnologica in genere, ma anche quella dei costumi, che sono cambiati di più negli ultimi cinquant’anni che nei due secoli precedenti, e così via. Ma questi cambiamenti, ormai, spesso non li avvertiamo nemmeno come rivoluzioni, perché non sono rivoluzioni in senso politico e frutto di un progetto e di un movimento di lotta.
    Tuttavia cambiano la vita degli individui, in modo irreversibile, salvo qualche catastrofe prossima ventura.
    La critica alla tecnologia e al “progresso” degli autori che richiami, Leopardi compreso, non è una critica al carattere evolutivo, in senso strettamente tecnico, della scienza e della tecnologia, ma alla pretesa che ciò comporti anche un “progresso” in senso umano (etica, psicologia, felicità, pace ecc.). Una critica alla scienza e alla tecnologia ben più radicale è quella di Jaspers, Heidegger, Severino e altri: la tecnologia non è più uno strumento dell’uomo, ma è l’uomo che è diventato un funzionario della tecnologia che opera con una sua propria logica che l’uomo non riesce né a controllare né a contestare.
    L’illusione della politica – e dell’uomo politico – è che tutto è politica, cioè materia gestibile dalla volontà umana, mentre solo la “politica” è politica, solo le cose inerenti alla gestione della polis attraverso il diritto positivo sono materia politica. E anche queste con un certo scarto, perché le basi biologiche e quelle culturali (antropologiche e psicologiche), frutto di una lenta e millenaria vicenda storica, sono mutabili solo molto lentamente, con tempi che sfuggono alla politica.

  7. 1) Rispondo prima alla osservazione fatta da Ennio ad Aguzzi.
    “In tutto il bel ragionamento contro la scuola-prigione di Luciano trovo solo questo punto stonato. Perché ancora marchiato da un progressismo evoluzionistico IMPOSSIBILE”.

    Non voglio parlare facendo le veci di Aguzzi (che nel suo commento successivo ha già esplicitato il suo pensiero) ma per esprimere il mio punto di vista. Capisco che ci possano essere (e ci sono stati) vari modi di intendere il senso dello sviluppo ‘progressivo’, come se si trattasse di un processo continuo (vedi anche Leopardi “le magnifiche sorti e progressive”) mentre il processo evolutivo non è mai lineare ma procede a spirale, per incrementi e dispersioni seguendo una dinamica di ‘sistole/diastole’, se vogliamo usare una metafora fisiologica. O, in situazioni più critiche, anche per salti che impongono una rivisitazione di tutto l’assetto precedente. Un processo che “in teoria” dovrebbe risultare armonico, mentre invece può essere contrassegnato da eccessive espansioni, salti di lato e anche catastrofi. Uno degli effetti è che, da tutto questo andamento, qualcosa si può apprendere al fine di utilizzarlo per la successiva esperienza. Robinson Crusoe, pur nella sua catastrofe, ha potuto utilizzare quell’ingegno che aveva già introiettato prima, trasformandolo e adattandolo alla nuova situazione critica in atto.

    2) Aguzzi scrive “Nulla di ciò che si fa dovrebbe essere scisso dal piacere di farlo. Ma provare piacere nel fare qualcosa è a sua volta frutto di un processo educativo e di crescita perché il “piacere” ha tante connotazioni e anche tanti livelli di validità fisica, psichica, etica e intellettuale.
    Quindi l’educazione non può prescindere dal compito di educare al piacere. Che non siano piaceri distruttivi e antisociali, che non siano piaceri che abbassano la qualità della vita e così via.”

    Ora, mentre l’educazione al dovere viene aiutata dalla dinamiche: a) dovere-disubbidienza-colpa-punizione; b) dovere-obbedienza-valorizzazione-premio; dinamiche che presuppongono comunque una relazione con l’esterno che impone il dovere (anche se poi questo esterno verrà introiettato), il piacere è regolamentato da dinamiche puramente interne/soggettive che tenderebbero per loro natura intrinseca a non guardare in faccia nessuno. Proprio per questo è importante l’educazione al piacere in quanto dovrebbe includere anche l’altro e non solo lo spazio della propria individualità. Altrimenti cadiamo nelle derive, appunto, dei “piaceri distruttivi e antisociali” (Aguzzi) ma anche, non meno pericolosi, dei piaceri narcisistici che utilizzano gli altri come serbatoio di nutrimento al proprio piacere. Detto in altri termini, l’educazione al piacere deve avere sempre un risvolto relazionale sia esso costituito dalla formula “dare piacere a qualcuno” (che può essere anche esente da restituzione, così come quando si fa un regalo), oppure “rendere partecipe qualcuno del proprio piacere” che è un sistema più complesso. In questa seconda modalità
    non si trasmette soltanto il piacere attraverso ciò che si dà bensì si insegna un metodo orientato all’apprenderlo. Né più né meno di ciò che fanno quegli insegnanti che non si limitano soltanto ad attivare negli studenti il piacere di conoscere ma mostrano, attraverso la loro persona, la passione, il piacere nel fare questo.

    E, proprio parlando di scuola, riprendo sia la notazione di Salzarulo (sulla quale concordo): “La mia tesi principale è chiara: rispondere alla situazione di emergenza con l’apprendimento, facendo scuola fuori della scuola e conservando la relazione coi ragazzi…” e sia le osservazioni di Aguzzi sulle quali invece avrei delle perplessità.
    Aguzzi tratta della scuola telematica, preconizzata come possibile via di uscita da una “scuola militarizzata” (Aguzzi) o da una didattica del compiacimento “che consiste, per andare d’amore e d’accordo, fare ciò che i ragazzi chiedono. Lezione? No, discussione a ruota libera. Compito in classe? Sì, ma su argomenti a scelta dallo studente. Interrogazioni? Sì, ma solo formali, su argomenti a scelta e con la sufficienza comunque garantita”, al fine di permettere invece allo studente di “scegliere il luogo e l’orario in cui connettersi con il docente robot dotato di intelligenza artificiale e assai più competente e colto dei docenti in carne e ossa” e dove, almeno in via progettuale “il pacchetto di lezioni, esercizi, compiti scolastici, controlli, verifiche e valutazioni può avvenire con più libertà dello studente”.

    Questa opzione viene da lontano ma, nella situazione emergenziale odierna, sta avendo una sua audience.
    Anche le mie perplessità rispetto a questa opzione vengono da lontano, nel senso che considero lo studente, almeno fino alle scuole superiori, ancora poco in grado di sapersi gestire una sua autonomia (tant’è che molti studenti nell’approcciarsi al percorso universitario entrano in crisi proprio per il problema legato all’autogestione). La presenza di un insegnante, in carne e ossa e con il quale ha iniziato un percorso fiduciario, sarà ciò che gli permetterà in un secondo tempo di rapportarsi a lui anche in assenza di ‘fisicità’. Per poter fare le nostre introiezioni, che poi ci accompagneranno nella vita, poco importa avere un “docente robot”, magari più competente: i legami affettivi non si fondano sulla quantità bensì sulla qualità della relazione.
    C’è da aggiungere un aspetto ulteriore cui assistiamo oggi e che ha a che vedere con quella che io chiamo “progressiva decurtazione sensoriale” con una sovra valutazione del sistema visivo: non a caso la società di oggi viene definita la società dell’immagine, dello spettacolo.
    I nostri cinque sensi, che funzionano in direzione esterocettiva, ci permettono di relazionarci con l’ambiente esterno e di individuare le coordinate utili per poterci muovere in sicurezza: per questa ragione i sensi dovrebbero funzionare all’unisono per fornirci una mappatura più sicura rispetto a ciò cui andiamo incontro. Qualcosa che alla vista potrebbe sembrare affidabile, all’odorato o al tatto, o al palato potrebbe non esserlo. Allora è necessario una specie di ‘sesto senso’, propriocettivo, che ci segnala le incongruenze senza dover per forza farne esperienza nella realtà concreta.
    Per questa ragione, se la realtà virtuale è di validissimo aiuto in tutte le situazioni operative, lo è meno in quelle relazionali in quanto più complesse. Molti giovani (e meno giovani) che sono caduti nelle trappole delle chat online ne sanno qualche cosa. Una voce può risultarci suadente, ma la percezione visiva e del comportamento può destarci qualche perplessità.
    Certo, in una situazione di emergenza anche le strategie virtuali sono accettabili ma vanno comunque vagliate nel loro impatto e nei loro possibili effetti a largo raggio.

    1. @ Simonitto
      Tolto l’equivoco di lettura, siamo praticamente d’accordo.
      L’equivoco sta nella frase: «Aguzzi tratta della scuola telematica, preconizzata come possibile via di uscita da una “scuola militarizzata” (Aguzzi)».
      Non è così, e se per caso mi sono spiegato male chiarisco: io ho scritto: « Questa scuola militarizzata può essere benissimo e proficuamente sostituita dalla scuola telematica. Il modello è già stato illustrato in diversi libri di fantascienza da oltre cinquant’anni».
      Ma lo dico in senso critico, e mi pareva chiaro. Cioè, dico, che la scuola militarizzata può essere sostituita da quella telematica senza perdere il suo carattere di scuola militarizzata. Infatti aggiungevo poche righe dopo: «Ma resta comunque un modello non elaborato con la collaborazione della comunità di base di studenti, genitori e docenti di un determinato ambiente abitativo e di lavoro, ma imposto loro dall’alto».
      In sostanza anche una scuola apparentemente attiva può non esserlo realmente, se non c’è una autentica partecipazione attiva degli studenti e della comunità scolastica e se l’organizzazione non è predisposta per questo.
      L’attivismo, se rinchiuso nella sola didattica, diventa falso attivismo. L’attivismo educativo deve coincidere con un attivismo di vita, di pratica di vita, di esperienze, e deve coordinarsi con la vita che i ragazzi conducono fuori della scuola.
      Intendiamoci, l’attivismo pedagogico di Dewey, Piaget e tanti altri ha dei meriti indubitabili, ma anche dei limiti. Ora è tempo di superare quei limiti, altrimenti il modello di scuola attiva (che poi, a dire il vero, in Italia non ha mai attecchito a livello generale se non nelle cose più semplici e superficiali) non esce dai confini della scuola militarizzata.
      Concordo con te anche nella necessità della «presenza di un insegnante, in carne e ossa e con il quale ha iniziato un percorso fiduciario». E anche questo mi pareva di averlo detto.
      Io, poi, quando insegnavo filosofia al liceo, non usavo nemmeno i video che tanti docenti usano, con interviste, con lezioni di studiosi, con diagrammi ecc. Un po’ lo facevo per la storia, ma non per la filosofia, che a mio parere vive soprattutto nella parola e nel dialogo. Ma la parola non deve essere lezione inerte, ma stimolo attivo, e fra i mezzi più potenti per renderla attiva vi sono l’esempio e il dialogo.

      1. Grazie delle precisazioni su cui concordo.
        Un abbraccio fraterno e buona fortuna in questo momento critico

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