di Donato Salzarulo
«I bimbi morti nelle foibe e i bimbi di Auschwitz sono uguali. Non esistono martiri di serie A e vittime di serie B.» (Comunicato Ansa, 10 febbraio 2019).
Questo il geniale pensiero dell’allora ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini. Pensiero che dopo tre anni non sarà sicuramente cambiato. Il mettere sullo stesso piano la tragedia delle foibe e lo sterminio di sei milioni di ebrei è un luogo comune del centrodestra.
Le foibe sarebbero “la nostra Shoah” e chi si permette dal mettere in guardia da un uso così spudoratamente politico di questa drammatica vicenda e chiede di impegnarsi in un’onesta ricostruzione storica, viene immediatamente tacciato di “negazionismo”. Non c’è, del resto, da meravigliarsi. Il Giorno del Ricordo cade il 10 febbraio. Due settimane dopo quello della Memoria. La vicinanza temporale e l’accostamento terminologico (Memoria-Ricordo) sembrano voler proprio indicare la somiglianza fra i due eventi storici. Nulla di più ingannevole.
A chi è costretto – penso ai giovani studenti e non solo a loro – a nutrirsi, in meno di venti giorni, di memorie e ricordi, propongo la lettura di un agile e prezioso libretto di Eric Gobetti, pubblicato due anni fa da Laterza. Titolo: «E allora le foibe?», refrain tipico – come si legge in quarta di copertina – «di chi sostiene il risorgente nazionalismo italico e vuole zittire l’avversario».
Non è che lo si debba leggere per forza nell’occasione commemorativa. Lo si può fare anche in altri momenti dell’anno. Ma è utile farlo. Si impara molto.
Dunque, nel marzo del 2004, il Parlamento italiano sceglie il 10 febbraio come Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata e delle vicende del confine orientale.
Perché proprio questa data? Perché corrisponde al giorno in cui viene firmato il Trattato di pace di Parigi che prevede l’attribuzione di Fiume e di ampie zone dell’Istria alla Jugoslavia. Ma come si arriva a questo giorno?
Eric Gobetti nel suo libretto ricostruisce le vicende storiche di questa ampia regione dell’Alto Adriatico che va da Gorizia a Trieste, fino a Fiume e Pola, divisa oggi fra Italia, Slovenia e Croazia. Lo fa in modo sintetico, con linguaggio chiaro e semplice, ma attento ad evidenziare le insidie di parole e scelte tutt’altro che scontate. Proprio la scelta del 10 febbraio, ad esempio, contiene il presupposto non condivisibile che questi territori siano italiani “da sempre” e che siano stati sottratti alla madrepatria in maniera ingiusta e punitiva.
Ecco, non è così. Dalla caduta dell’Impero romano fino alla fine della prima guerra mondiale, questa regione ha visto la presenza di tre mondi culturali e linguistici diversi: quello germanico, quello slavo e quello latino, che hanno convissuto per secoli.
«La svolta decisiva si verifica con il passaggio di questi territori all’Italia nel 1918. Per la prima volta uno Stato-Nazione (e di lì a poco anche fascista e totalitario) impone il suo controllo su quest’area. E lo fa con violenza, negando le differenze, imponendo un’unica appartenenza nazionale, obbligando l’intera popolazione a italianizzarsi. In definitiva queste regioni non sono italiane da sempre. Sono state invece italianizzate a forza dallo Stato italiano e fascista. Ma prima di allora erano state, per molti secoli, multiculturali, multilinguistiche, multinazionali» (pag. 12-13).
Non seguirò Gobetti nel racconto lucido che egli fa della politica assimilazionista dello Stato-nazione italiano trasformatasi in vera e propria oppressione e violenza aggressiva con l’andata al potere del regime fascista, né mi soffermerò sulla guerra d’invasione della Jugoslavia nell’aprile del 1941 da parte dell’esercito italiano, quando un’ampia fascia di territorio lungo la costa dalmata, che da Fiume a Lubiana arriva fino al Montenegro, al Kosovo e al confine con l’Albania, passa sotto l’amministrazione italiana. Dirò solo che a questo esercito e alle squadre collaborazioniste dei nazionalisti si oppone la Resistenza jugoslava.
Mi sembra utile una citazione per capire con che forza in campo si ha a che fare:
«Diversamente dalle forze conservatrici e nazionaliste, il movimento di liberazione propone la ricostituzione alla fine della guerra di uno Stato unitario, sulla base della parità dei diritti di tutti i popoli jugoslavi. È una scelta vincente, che trova ampio consenso in tutte le fasce sociali e in tutte le nazionalità, e che rende la Resistenza sempre più efficace: alla vigilia dell’Armistizio dell’8 settembre 1943 l’esercito partigiano conta già più di 200.000 combattenti.» (pag. 21).
Dall’estate del 1941 le forze della Resistenza conducono incessanti operazioni di guerriglia con imboscate, sabotaggi, attacchi a caserme, infrastrutture, presidi, ecc.
La risposta dell’esercito italiano e dei suoi collaborazionisti è duplice: da un lato fare “terra bruciata”, riducendo al suolo case e villaggi, dall’altro allestire campi di concentramento per donne vecchi e bambini (i partigiani riconosciuti come tali o sospettati vengono immediatamente fucilati).
In questi campi finiscono circa 100.000 jugoslavi. Uno dei peggiori lager italiani si trova sull’isola di Arbe/Rab, a poche miglia marine da Fiume. Qui, dall’estate del 1942 al settembre del 1943, vengono internate 30.000 persone. Almeno 1500 muoiono per fame, inedia ed epidemie; in gran parte si tratta di donne e bambini.
All’8 settembre 1943, «la data più infausta e vergognosa d’Italia contemporanea» (pag. 31), si arriva in un contesto sempre più polarizzato con una Resistenza attiva da due anni e un esercito italiano costretto a ricorrere sempre più alla repressione. Con l’Armistizio si ritrova improvvisamente abbandonato a sé stesso e alla prevedibile vendetta nazista.
I tedeschi occupano rapidamente le città e le coste del confine orientale, mentre nelle regioni interne si crea un vuoto di potere che dura circa un mese. Le forze della Resistenza jugoslava sono ovviamente entusiaste per la caduta dell’Italia…
All’entusiasmo si sommano la rabbia per l’oppressione subita e il desiderio di vendetta. È in questo contesto di grande confusione e di violenza diffusa che si costituisce una sorta di repubblica partigiana attorno alla cittadina di Pisino. L’organo politico della Resistenza croata dichiara l’annessione dell’Istria; i partigiani locali ordinano la cattura dei rappresentanti del passato regime improvvisamente decaduto.
«Centinaia di persone vengono dunque arrestate per ordine dei comandi partigiani con l’accusa di collaborazione con il fascismo e con l’esercito occupante. nei giorni successivi vengono condotti processi sommari: dopo la fucilazione, i corpi vengono gettati nella foiba di Pisino, vicino al castello, sede del quartier generale partigiano. Le vittime sono circa 200.» (pag. 33)
Il rastrellamento dell’esercito tedesco contro la “repubblica di Pisino” si verifica dal 2 all’8 ottobre. I tedeschi colpiscono con estrema violenza la popolazione civile. In meno di una settimana vengono uccise almeno 2500 persone, tra cui anche molti italiani.
Subito dopo parte la campagna propagandistica delle autorità tedesche contro le uccisioni “barbare” compiute dai partigiani.
Le operazioni condotte dalla Resistenza contro i collaborazionisti e i conniventi col regime fascista adottano indubbiamente criteri ampi e confusi. Finiscono nel mirino federali, prefetti, carabinieri, ma anche postini e insegnanti. Personaggi in vista dei paesi e delle cittadine della penisola: commercianti, professionisti, proprietari terrieri, benestanti in genere.
«In ogni caso è evidente come la logica che anima i comandi partigiani dell’Istria sia politica e non nazionale. Nulla autorizza a ipotizzare che l’obiettivo delle violenze siano gli italiani in quanto tali. Il che è confermato dai documenti partigiani dell’epoca, peraltro spesso redatti in lingua italiana. D’altra parte negli stessi giorni in cui si intensificano gli arresti contro le persone ritenute responsabili del passato regime, decine di italiani dell’Istria vengono accolti nelle unità partigiane jugoslave. Al di là della comprensibile memoria traumatica delle vittime, queste violenze non sono condotte da bestie assetate di sangue e accecate dall’odio, come vengono spesso rappresentate. Tra le persone, pur numerose, che vengono processate sommariamente non figurano bambini e le donne sono in numero limitato, perché ben poche donne ricoprivano incarichi importanti nel regime fascista. La volontà degli aggressori è infatti quella di colpire solo determinate categorie di persone, ritenute, a torto o a ragione, responsabili dell’oppressione subita per più di due decenni.» (pag. 35-36)
Queste, in estrema sintesi, sono le “foibe istriane” del settembre 1943. Le successive sono quelle “giuliane” del 1945.
Ma in questo caso chiamarle “foibe” a Gobetti non sembra corretto. Delle 10.000 persone arrestate nel 1945, un migliaio vengono giustiziate e i loro corpi gettati nelle foibe. La maggior parte viene invece deportata in campi di raccolta situati nell’entroterra della Jugoslavia, in particolare in Slovenia. Molti muoiono per le terribili condizioni di vita all’interno.
Il termine “foibe” viene usato ormai comunemente per indicare le violenze commesse dalla Resistenza jugoslava. Esso «contribuisce a veicolare un immaginario efferato e terrorizzante, aggravato dall’immagine stereotipata delle vittime gettate ancora vive nelle voragini» (pag. 47).
È un termine sicuramente poco corretto perché «una buona parte delle violenze condotte sul confine orientale non ha nulla a che vedere con le foibe.» (pag. 47). Infatti, se centinaia di persone muoiono in un campo di concentramento non si può dire – con una parola che ha di per sé qualcosa di spaventoso – che sono state “infoibate”.
Le foibe sono delle voragini di varia ampiezza e profondità, tipiche delle regioni carsiche. Sono state usate come luoghi di occultamento e sepoltura frettolosa di cadaveri sia da fascisti e nazisti che dai partigiani. In ogni caso, «sono sempre usate come luogo di sepoltura, non come strumento di esecuzione», anche se in un contesto di violenza come quello esistente in quel periodo «non si può escludere alcun tipo di efferatezza» (pag. 48)
Partendo dal dato che nella primavera del 1944 i partigiani italiani integrati singolarmente o in unità nazionali nell’esercito jugoslavo siano tra i 20.000 e i 30.000, Gobetti respinge anche l’accusa di “pulizia etnica”:
«Ma come è possibile parlare di una pulizia etnica condotta dall’esercito partigiano jugoslavo contro gli italiani al confine orientale se, nello stesso tempo, si contano a decine di migliaia gli italiani in armi nello stesso esercito? In effetti non si tratta di pulizia etnica, né nel 1943 […] né alla fine della guerra, nella primavera del 1945. Le violenze commesse dai partigiani jugoslavi, infatti, non hanno una logica nazionale (né tanto meno “etnica”) ma politica. Ciò è ancora più evidente alla fine della seconda guerra mondiale, quando le truppe di Tito liberano l’intero paese e arrivano fino alle porte d’Italia.» (pag. 38-39)
Nel sesto e settimo capitolo del libro l’autore affronta il processo migratorio che le vicende della guerra e del dopoguerra producono; un processo che dura quasi quindici anni e che coinvolge circa 300.000 profughi, 250.000 dei quali di nazionalità italiana. Pur non essendo il prodotto di un’espulsione formale, sicuramente i nuovi governanti del maresciallo Tito mettono in atto una serie di pratiche oppressive volte a intimorire la popolazione. Le motivazioni per il trasferimento non sono, tuttavia, riconducibili soltanto alle scelte coercitive dei nuovi poteri. A parere di Gobetti, uno degli elementi di fondo «è una sorta di shock psicologico vissuto dalla popolazione italiana locale rispetto a quello che viene percepito come un rivolgimento radicale del proprio mondo. Con la fine della guerra si impone un potere sentito come estraneo e spaventoso. A comandare ora sono gli slavi, cioè quella parte di popolazione considerata inferiore, secondo un pregiudizio vecchio di secoli.» (pag. 64).
Non vi è dubbio che quella dei profughi istriano-dalmati rappresenti una tragedia umana che poteva essere evitata, se il fascismo italiano non avesse condotto una politica aggressiva, se l’esercito italiano non si fosse macchiato di crimini di guerra, se Mussolini non avesse ottusamente contribuito a scatenare la guerra…Ma la storia non si fa con i “se”.
«L’Italia fascista e monarchica ha perso la guerra, ma a pagare sono stati soprattutto gli abitanti del confine orientale, molti dei quali si sono visti costretti ad abbandonare per sempre la propria terra.» (pag. 66).
Nell’ottavo capitolo, l’autore fornisce le cifre (stimate per eccesso) della tragedia sia delle foibe che dell’esodo. È una contabilità dolorosa. Ma quando responsabili politici ai massimi livelli parlano di “nostra shoah”, di olocausto, di un milione di italiani vittime delle foibe, ecc. si è costretti a fare calcoli e confronti.
La cifra di massima su cui concordano tutti gli storici delle vittime dell’autunno del 1943 (“foibe istriane”) sono 400-500. Per quelle “giuliane” del 1945 gli studiosi concordano su un ordine di grandezza che va dalle 3.000 alle 4.000 vittime.
Queste cifre, se si vuole essere onesti, vanno valutate in un contesto di guerra. Durante il rastrellamento tedesco in Istria dal 2 all’8 ottobre 1943 furono uccise 2500 persone. Nella Risiera di San Sabba, a Trieste, in pochi mesi vengono uccisi 5.000 partigiani e simpatizzanti…Insomma, la guerra è orribile. Per questo occorrerebbe che gli esseri umani imparassero a non farla.
Per quanto riguarda l’esodo, come si è già detto, sarebbero circa 300.00, espatriati nell’arco di 15 anni (1941-1956). «Fra queste persone gli studiosi distinguono circa 190.000 italiani “autoctoni” e altri 60.000 italiani immigrati durante il Ventennio, molti dei quali dunque residenti nell’area da pochi anni. A questi vanno aggiunti almeno 50.000 croati, sloveni e appartenenti ad altre minoranze.» (pag. 83)
L’ultimo capitolo del libro è dedicato alla cosiddetta “congiura del silenzio” sulla vicenda delle foibe e dell’esodo, una congiura che sembra non esserci stata, anche se le forze politiche prevalenti nel dopoguerra italiano (DC e PCI), per varie ragioni, legate anche al contesto internazionale, non avevano grande interesse a sollevare la questione. Non è l’unica vicenda della seconda guerra mondiale rimasta in ombra. Ad ogni modo, Gobetti ne ripercorre le tappe del “discorso pubblico”, mettendo in guardia dal rischio di trasformare il Giorno del Ricordo in una “commemorazione fascista”. È, invece, importante usare questa giornata «per ricordare i drammi prodotti dal nazionalismo, dal fascismo, dalla violenza ideologica, dalla guerra e dalla sconfitta militare di un paese mandato al macello in maniera criminale non solo da Mussolini ma da tutta un’élite politica, militare ed economica che non ha mai pagato per le sue colpe.» (pag. 106)
Sarebbe, allora, opportuno che gli eredi odierni di questa élite ricordassero le responsabilità dei loro padri e imparassero a commemorare nel Giorno del Ricordo, come giustamente scrive Gobetti, «tutte le vittime di quest’epoca drammatica: dai croati e sloveni forzatamente italianizzati ai partigiani torturati e fucilati, dai civili internati nei campi fascisti agli innocenti uccisi nelle foibe, fino alle centinaia di migliaia di persone costrette a lasciare la propria terra d’origine al termine di una guerra d’aggressione assurda e spietata.» (pag. 107)
DA POLISCRITTURE 3 SU FB
Anna Ferrero
Sulla vicenda dell’esodo dall’Istria di gran parte della popolazione “italiana”, meglio sulla scelta di una parte di essa di lasciare quelle terre, mi era stata utile la lettura di Materada di Fulvio Tomizza. Un romanzo del 1960 sulle vicissitudini di una comunità, che ben rappresenta lo shock psicologico per il rivolgimento culturale che sta per avvenire.
Non si trovava molto di più sulla questione, prima dell’istituzione della giornata del ricordo…con tutto il revisionismo poi seguito…
L’avevo percepito come una ricostruzione onesta, sicuramente più dei commenti, ancora da Istituto Luce di memoria ventennale, che accompagnavano le immagini filmate dell’esodo…sicuramente angoscianti…che già da anni passavano anche in tv in certe trasmissioni di storia, ad ore tarde.
L’ho letto in anni molto precedenti alla contrapposizione memoria/ricordo, e son sempre rimasta ancorata a quel libro per un giudizio critico, molto critico rispetto al racconto che è poi avanzato fino a questi anni di smemoria storica.
Giusto ricontestualizzare i fatti, tutti fatti…
Che s’addà fà pe sturià e foibe, guaglìù [ragazzi]!
SEGNALAZIONE
Giorno del Ricordo, lo storico Eric Gobetti costretto ad annullare un incontro con gli studenti
Accade nella Verona “nera” raccontata da Paolo Berizzi nel suo ultimo libro. Dopo le proteste di CasaPound, il Comune guidato da Fratelli d’Italia impone che la conferenza storica con le scuole diventi un dibattito, con tanto di contraddittorio con assessore alla Cultura e giornalista dichiaratamente di destra. Gobetti annulla l’incontro. E manda un chiaro messaggio agli studenti sul ruolo della ricerca storica.
Daniele Nalbone 10 Febbraio 2022
(DA https://www.micromega.net/giorno-del-ricordo-eric-gobetti/)
“Giusto ricontestualizzare i fatti tutti i fatti”(Anna Ferrero) per la documentare la Storia…e Eric Gobetti, con date dati e fatti non contestabili, l’abbia detto bene, in chiarezza e oggettività…La guerra dei potenti poi confonde, crea violente reazioni a catena e restano in campo le vittime
Personalmente non amo fare paragoni su miserie umane in quanto a qualità e quantità . È l’uomo che esce sconfitto. L’uomo, si dice, come mondo umano, umanità.” E noi pensiamo a chi cade, a chi è perduto, a chi piange e ha fame, a chi ha freddo, a chi è ammalato, e a chi è perseguitato, a chi viene ucciso. Pensiamo all’offesa che gli è fatta, e la dignità di lui. Anche a tutto quello che in lui è offeso, e che era in lui, in lui, per renderlo felice. Questo è l’uomo”. Da questa citazione, estratta da Uomini e no, di Elio Vittorini può derivarci la convinzione che lo scrittore seppe intendere profondamente la condizione umana e sociale offese, il mondo offeso, come aveva iniziato a scrivere nel 1937 in Conversazione in Sicilia in cui qualitativamente poetico il suo discorso si incentra sul “genere umano perduto” che crede nell’offesa, nella guerra. Ragioni e torti sono ancora i mali attuali , gli offesi di sempre, i traumi della storia. Pertanto sia la memoria che il ricordo sono rappresentazioni dello stesso mondo offeso con la stessa valenza morale aldilà della fredda speculazione storica e se vogliamo di contrapposizione politica.
“Pertanto sia la memoria che il ricordo sono rappresentazioni dello stesso mondo offeso con la stessa valenza morale aldilà della fredda speculazione storica e se vogliamo di contrapposizione politica.” ( Nigro)
Mi spiace ma sono in disaccordo. Dove sta la “stessa valenza morale” tra nazisti e fascisti che invasero con le armi quelle terre e i partigiani e civili slavi che li combatterono? Cosa c’è in questo “aldilà della fredda speculazione storica” ? L’uomo? Ma gli uomini allora ( e oggi) sono divisi e contrapposti. E la “condizione umana” andrebbe specificata nelle sue differenze e contrapposizioni ( di classe, di genere, culturali, religiose).
P.s.
Al Vittorini del 1937 contrapporrei (il solito) Fortini del 1988:
“Più tardi (p.35), quando incontrò a San Vittore vari detenuti per terrorismo o partecipazione a banda armata, fu forse uno dei pochi ad avere il coraggio di criticare da un punto di vista coerentemente marxista l’“illusione” di molti di loro – pentiti o dissociati – che ormai si appellavano soltanto alla “coscienza umana” o all’«essere umano che dovrebbe abitare in ciascuno» (38).
Era un’affermazione per lui inaccettabile: «Che cosa sia poi quell’uomo, quell’essere umano di cui parlate, quando a quello sia tolta la dimensione dell’azione comune per la solidarietà, la giustizia, la libertà e l’eguaglianza, io non riesco davvero a immaginarmelo. Che cosa è un uomo ridotto alla mera dimensione della interiorità morale?». E aggiungeva : «deve trattarsi di una canaglia. O di una vittima. E che cosa vogliono infatti da noi i custodi della eticità di stato, se non fare di noi delle canaglie o delle vittime?» . O politica o morale allora? No: «tra il momento politico e quello morale c’è una incessante tensione e implicazione reciproca» (38).”
( da https://www.poliscritture.it/2014/11/07/le-disobbedienze-dimenticate-di-franco-fortini/)
SEGNALAZIONE
Il buon ricordo
di Claudio Vercelli
https://moked.it/blog/2022/02/13/il-buon-ricordo/
Stralcio:
viene da dire che non esiste una «memoria condivisa». Si tratta di un ossimoro. La memoria, infatti, ha un valore fondamentale per chi di essa ne è latore, preservando aspetti insopprimibili della sua storia. Ciò avviene comunque, quando si tratti di una persona piuttosto che di un gruppo. Proprio per questo suo carattere peculiare, rivolto alla soggettività e alla conoscenza diretta, non è proponibile come una sorta di modello universale di riferimento. Semmai, guardando al passato, può essere la storia, al medesimo tempo come disciplina e sapere, a sforzarsi di cercare, sia pure tra molte mediazioni, un filo logico tra esperienze diverse. Così come la coesistenza di diverse memorie è – invece – il vero obiettivo che una società che si voglia pluralista dovrebbe per davvero darsi. Coesistenza non implica relativismo ed equivalenza etica dei racconti del passato, tanto meno nelle loro ricadute civili, bensì riconoscimento che possono determinarsi compresenze tra sguardi differenti rispetto a ciò che fu. Altro paio di maniche è invece il definire una gerarchia di significati morali, in base ai quali valutare l’importanza degli sguardi, ossia il modo in cui eventi comuni sono stati diversamente vissuti dai tanti protagonisti, in posizione distinte, nel mentre accadevano, e quindi interiorizzati come deposito indelebile della propria coscienza. In un tale contesto di riflessioni, quindi, men che meno si può parlare di «pacificazione» come se in Europa, e ancora di più in Italia, sussistesse un problema aperto, cioè quello di sommare e unire memorie non solo diverse ma opposte, nel tentativo di fonderle in un non meglio precisato calderone, grazie al quale i cittadini dovrebbero e potrebbero meglio intendersi tra di loro. Dietro a questo genere di costruzioni ideologiche (di ciò si tratta, non di altro), semmai avanza il fantasma delle parificazioni, quello per cui, equivalendosi i crimini da un punto di vista morale, ed essendo la storia recente costellata di molti eventi criminali, allora ognuno avrebbe qualcosa da farsi perdonare. Il reciproco inverso di questo cliché è che se tutti sono colpevoli di qualcosa, allora nessuno lo è fino in fondo. Una sorta di (auto)assoluzione collettiva che serve a ripescare, attraverso la finestra di servizio, ciò che è invece stato buttato fuori dalla porta principale. Le sgradevoli contese sul Giorno del Ricordo ci riconducono obbligatoriamente a questo orizzonte di pensieri. Per l’appunto, il problema non è solo cosa si ricorda ma il come lo si va facendo. Poiché memoria e ricordo possono essere fattori di costruzione di un tessuto di comunicazione civile così come, se altrimenti utilizzati, inneschi scatenanti della divisione, della polarizzazione, della radicalizzazione. In altre parole, della frantumazione del tessuto collettivo. Non è di certo un buon ricordo quello che si riduca al gioco delle competizioni con altre tragedie. Ma la questione, va da sé, non riguarda mai chi rammenta il passato in prima persona, chiamando semmai in causa colui o coloro che se ne fanno vessilliferi per un qualche disegno di parte. È in quest’ultimo passaggio, infatti, che si rinfocolano e alimentano le vere divisioni. Che fingono, invece, di proporsi come «pacificazioni», riabilitando ciò che la storia ha già condannato.
Intervengo soltanto per dire che in questo periodo ho difficoltà di collegamento. Ringrazio, comunque, tutti per i loro interventi ed Ennio per le importanti segnalazioni. Sui problemi sollevati – quello della memoria, in particolare, – sicuramente avremo modo di ritornare (intendo, come sottoscritto e come Poliscritture ). Ancora grazie.
Grazie Donato. Nel frattempo la discussione sulla “Giornata del ricordo” continua ed io faccio quest’altra segnalazione dalla pagina FB di…
Brunello Mantelli
Ancora sul “Giorno del ricordo” (a mente un po’ fredda)
Osservare dall’esterno la diatriba tra teorici (in genere beceri) dell’odio xenofobo antiitaliano “slavocomunista” e fautori (alcuni rozzi, altri più raffinati) di una lettura funzionalista ispirata al motto: “chi semina vento, raccoglie tempesta” fa cadere le braccia.
Nessuno che riesca a guardare oltre il ristretto spazio istriano e dalmata, forse troppo impegnati gli uni e gli altri a darsi legnate più o meno metaforiche.
Possibile che a nessuno dei duellanti venga in mente che il caso su cui si accapigliano non rappresenta altro che una parte (anche piuttosto piccola) del gigantesco processo di spostamento (in genere violento) di popolazioni avvenuto in Europa dalla fine della Grande Guerra in poi (cacciata dei greci dall’Asia Minore, scambio coatto di popolazione tra Turchia e Grecia nei Balcani sudorientali ecc.) e poi ingigantitosi spaventosamente con la Seconda guerra mondiale ed i suoi esiti (espulsione dei germanofoni dall’Europa centrorientale; espulsione dei polacchi dalla Galizia-Ucraina occidentale, ecc. ecc.)?
Se si inquadrasse ciò che accadde al nostro confine orientale con tutto ciò che ho sintetizzato, non sarebbe tutto più chiaro? E meno isterica la discussione?
Non ho inventato io nulla: è ciò che scrive Raoul Pupo nella splendida prefazione aggiunta all’edizione del suo volume su “Trieste” ripubblicato dal CdS. La si legga. E la si smetta coi toni da osteria.
a infoibare hanno cominciato gli italiani
Infatti il buon Mattarella, che ricorda ancora con nostalgia quando da ministro della difesa comandava il nostro bombardamento di Belgrado, con 2000 abitanti morti, cita le ‘orride foibe’ e dimentica totalmente i campi di concentramento italiani con dentro gli sloveni, che nulla avevano da invidiare a quelli tedeschi con gli ebrei; la campagna etnica brutale condotta sempre in Slovenia e dintorni dai fascisti anche sul campo dell’annientamento linguistico.
Il Quadro di spostamento di popolazioni in Europa…è in realtà un cubo: c’è in più la dimensione di chi e come, dove la Jugoslavia era un esempio virtuoso; ci hanno pensato USA e banche olandesi, sempre in nome di progresso e democrazia, a rompere questo equilibrio: quando un essere umano muore tutte le delicate e splendide funzioni che il suo corpo svolgeva spariscono riducendo il tutto a pochi elementi chimici immersi in molta acqua; e così hanno ucciso la Jugoslavia lasciandone atomi repellenti. Io nn chiamerei questo un quadro di spostamento….
SEGNALAZIONE
1 maggio 1945 – 1 maggio 2019
di Sergio Bologna
https://sinistrainrete.info/storia/14916-sergio-bologna-alle-radici-di-una-storiografia-militante.html
Stralcio:
I maschi della mia famiglia, tranne mio padre, erano tutti sotto le armi. Mio nonno era prigioniero in Africa, ad Asmara, ma non se la passava male, mi raccontò qualche anno dopo. Ci era andato volontario nel ’36 con le truppe italiane. S’era arruolato per ottenere l’amnistia, aveva una condanna per diserzione. Allora abbandonare una nave commerciale era considerato diserzione, come fosse una nave militare. Lui, elettricista di bordo, toccato un porto degli Stati Uniti, se l’era svignata per inseguire il sogno americano. Aveva sbagliato data, era il 1929. A Trieste s’era lasciato alle spalle una moglie e quattro figli: mia madre, la prima, una donna sensibile, bella, sportiva, s’era ammalata di tubercolosi a 15 anni e avrebbe passato la vita tra sanatori e ospedali. Poi tre figli maschi, uno alto, ben piantato, calciatore semiprofessionista, arruolato nei granatieri, era prigioniero in Germania, “internato militare”, per la precisione, preso dai tedeschi l’8 settembre ad Atene e ficcato in un vagone piombato. Un altro più giovane, Giorgio, dolce e tenero ragazzo, era caduto a 21 anni a El Ghennadi in Tunisia, pochi giorni prima della resa delle truppe italiane, nel maggio del ‘42. L’ultimo, di cui non ricordo il nome, era morto di meningite a 4 anni.
Non so qual è stato il tributo di sangue che i partigiani di Tito hanno versato per conquistare Trieste prima che ci mettessero su le mani gli Alleati. Ma qualche fonte parla di migliaia di caduti sul Carso. Me li ricordo ancora, gli elmi nei boschi. Erano elmi tedeschi, molti foderati di pelle, li raccoglievo e me li ficcavo in testa, subito redarguito da mio padre, potevano averci i pidocchi. I partigiani portavano bustine, copricapi di stoffa, erano un po’ scalcagnati.
Le SS, invece, com’erano tirate a lucido, P38 alla cintola, stivali senza una goccia di fango! Ma in quei giorni le ho viste tentare azioni disperate per salvare al pelle. Trieste non era più Italia, era Adriatisches Küstenland, di fatto incorporata nel Reich. Avevamo un Gauleiter, noi, il prefetto italiano contava ben poco. E anche un forno crematorio, sistemato in un’antica pilatura di riso. Il nostro è un cognome ebreo, Bologna, ma non eravamo ebrei, la famiglia di mio padre era genovese. Una famiglia numerosa, otto tra fratelli e sorelle. In quel forno crematorio ci finirono ebrei ma soprattutto antifascisti sloveni, croati, serbi, macedoni e italiani. Fu una vera guerra civile quella combattuta dall’esercito di liberazione yugoslavo. Una guerra spietata, feroce, con orrori commessi da ambo le parti, ma cominciata dai fascisti e proseguita dai nazisti e dai loro alleati ucraini, ungheresi, croati (gli ustascia), sloveni (i domobranci). Anche lo squadrismo fascista aveva avuto il suo battesimo a Trieste con l’incendio del Narodni Dom, la casa del popolo della comunità slovena, luglio 1920.
Maggio 1945, la resa dei conti. L’Italia del Nord era in parte liberata il 26 aprile, a Trieste l’insurrezione comincia il 29 aprile, senza i comunisti, la maggioranza s’era arruolata con Tito e non sempre se l’era vista bene. Il comandante militare dell’insurrezione – cui parteciparono anche repubblichini che avevano cambiato casacca all’ultima ora – era un colonnello dell’esercito regio. Perse tre figli maschi sulle barricate, nello stesso giorno. Questo era il quadro, quando, nella notte del 30 aprile, le truppe partigiane sfondano le ultime resistenze tedesche ed entrano in città, avanzando su due direttrici, una che portava al Tribunale, sede del comando tedesco, ed una che portava al Castello di San Giusto, sede di una guarnigione ben difesa. La nostra casa stava ai margini estremi del quartiere di San Giacomo, il quartiere degli operai dei cantieri, il quartiere “rosso” per eccellenza. Per prendere il Castello i partigiani dovevano passarci davanti. A due passi dalla nostra abitazione – si sarebbe saputo dopo – c’era la sede clandestina del “Primorski Dnevnik”. Ma la mia non era una famiglia “rossa”, era mezza nera e mezza tricolore. Mio padre era fascista, perché lo fosse diventato fa parte di quegli enigmi che spiegano il disorientamento di un popolo, lui che era stato massone, chissà perché, lui dal quale ho imparato il rispetto e l’amore per il lavoro, il rispetto per la donna – assistette mia madre tutta la vita con un’abnegazione certe volte disumana, sostituendola per anni nei lavori domestici – lui che non ha mai alzato le mani su di me, che non mi ha mai impedito di fare qualunque cosa, lui che ha lavorato tutta la vita nei cantieri navali come tecnico progettista senza chiedere aumenti di stipendio perché non gli pareva dignitoso. Quest’uomo buono e mite, dal carattere introverso, tenace e ostinato come i liguri sanno essere, di un’onestà maniacale, che da ragazzo aveva patito letteralmente la fame, era irrimediabilmente fascista. Perchè? Nel maggio del 45 in quelle circostanze, in quella città, in quel quartiere, poteva finire in una foiba. Se l’avessero ammazzato, come avremmo fatto a vivere, mia madre ed io? Lei che faceva fatica a fare le scale di casa. Eravamo assuefatti al terrore, il bombardamento del 10 giugno 44 aveva fatto una strage nel nostro quartiere, 463 morti, 4.000 case distrutte o danneggiate. Quindici giorni dopo avrei fatto da privatista l’esame di ammissione alla terza elementare. E’ difficile descrivere il terrore dei bombardamenti, la sensazione di essere una formica che può venire schiacciata per caso, la galleria Sandrinelli, rifugio sicuro ma lontano, stipata di gente con masserizie, valigie, fagotti. Il 1 maggio 45 ascoltavamo la radio dire che la guerra era finita ma sotto le nostre finestre si combatteva ancora, di notte le pallottole traccianti, duelli di cecchini sui tetti, erano uno spettacolo quasi eccitante per un ragazzino di otto anni. Assistemmo alle ultime sparatorie dal balcone di casa nostra al quarto piano. I tedeschi, asseragliati nel Castello, si arresero soltanto all’arrivo delle truppe alleate, di neozelandesi. Accettarono la mediazione del vescovo, tirarono per le lunghe la trattativa, i partigiani, che avevano in pugno la città, che l’avevano liberata, rimasero con un pugno di mosche in mano. Restarono ancora per 40 giorni, inscenando cortei e manifestazioni di annessione alle nuova repubblica yugoslava, ma la diplomazia internazionale convinse Tito a ritirarsi, dovette accontentarsi dell’Istria e della Dalmazia. I caduti dell’assalto a Trieste erano morti invano. Per fortuna mio padre non era stato un fascista in vista, con cariche, responsabilità, lo era stato come tanti poveri diavoli. Ricevette minacce di morte, ma non da chissà quale giustizia partigiana, da un ragazzo, un vicino di casa, avrà avuto 17 anni, figlio di una famiglia slovena dello stabile accanto. Fu mia madre a sistemare la cosa con una telefonata. Chi afferma che le foibe nulla hanno a che fare con la guerra nazifascista ma sono state il risultato di puro odio etnico, non sa quello che dice. Per quanto accesa nazionalista fosse stata mia madre, la condizione economica in cui era cresciuta l’aveva portata a condividere l’esistenza del proletariato sloveno, in sanatorio aveva acquistato familiarità con quell’ambiente. Mio padre non fu toccato ma venne epurato dal cantiere e rimase per 14 mesi fuori, prima di essere reintegrato, dopo un processo sommario in cui il suo accusatore ritrattò le sue dichiarazioni iniziali. Di che cosa era incolpato? Di aver accusato i suoi colleghi di ‘disfattismo’ nel corso di un’animata discussione dopo la battaglia di Punta Stilo. Risulta dai verbali, conservati all’Archivio di Stato di Trieste.
dal VENERDI’ di Repubblica, 18 marzo 2005, “Noi, partigiani al confine slavo al tempo delle foibe” dal nostro inviato Attilio Giordano
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“Altro tipo d’uomo è Silvano Bacicchi, partigiano garibaldino, funzionario del Pci per una vita, senatore dal ’72 all’83. Siede e mette carte e documenti sul tavolo dell’Anpi di Monfalcone. Non s’infiamma, ma è seccato: ‘Questo modo di rivedere la storia mi lascia perplesso’ dice. È turbato per la fiction televisiva sulle foibe. ‘E non certo perché voglia negare quegli eccidi, ma per questa semplificazione, approssimazione. L’Istria in tv sembrava persino una regione montuosa, aveva perso il mare’. Poi precisa: ‘I numeri non sono giustificazione di niente. Ma gli storici seri sanno che i morti delle foibe e dei campi di prigionia furono 5-6 mila, non 20 o 50 mila. E, soprattutto, che non fu un eccidio etnico. Nelle foibe, in prigionia, fucilati, finirono non gli italiani, ma coloro che venivano considerati reazionari. Concetto definito dai servizi jugoslavi, molto soggettivo. Morirono uomini del Cln, persone innocenti. Fu un orrore di cui è giusto parlare. Ma di cui, almeno qui, parliamo da sempre. COME PARLIAMO DEL FATTO CHE LE FOIBE COME LUOGO DI MORTE LE AVEVANO INVENTATE I FASCISTI E I PRIMI A FINIRCI FURONO PARTIGIANI (maiuscolo mio). Ed anche – perché la storia non si può raccontare a pezzi – che sloveni e croati erano perseguitati, definiti razza inferiore, che i loro bambini erano uccisi, le case incendiate'”.
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https://www.repubblica.it/venerdi/articoli/2016/02/10/news/noi_partigiani_al_confine_slavo_al_tempo_delle_foibe-133098905/